LA GIUSTIZIA RIPARATIVA. PROSPETTIVE

Partecipano: Valdeci Antônio Ferreira, Direttore Generale di FBAC (Fraternidade Brasileira de Assistência aos Condenados), Brasile; Francesco Occhetta, Giornalista e Scrittore; Carmen Velasco, Giurista, Spagna. Introduce Marta Cartabia, Vice Presidente della Corte Costituzionale Italiana.

La giustizia riparativa. Prospettive

MARTA CARTABIA:
Buongiorno, benvenuti a questo incontro sulla giustizia riparativa. Un pubblico numeroso, nonostante il tema possa apparire un tema per specialisti, per giuristi, per persone iniziate al mondo del diritto. Un pubblico numeroso che dice di quanto l’esperienza della giustizia e dell’ingiustizia sia in realtà qualcosa che fa parte del tessuto del nostro vivere quotidiano, al di là delle aule dei tribunali, delle toghe, di ciò che fa parte normalmente dell’immaginario degli strumenti del giurista. “Vogliamo giustizia, che sia fatta giustizia, è stata fatta giustizia, promettiamo giustizia…”, quante volte nelle cronache mediatiche ricorrono espressioni di questo genere a fronte di episodi delittuosi, banali incidenti o altri eventi che suscitano indignazione o la percezione di aver subìto un’ingiustizia? Espressioni ricorrenti, ma cosa significa fare giustizia o ottenere giustizia per una persona che abbia sofferto una grave perdita umana, materiale o affettiva? La giustizia amministrata nei tribunali, così come la conosciamo oggi nelle democrazie liberali contemporanee, è frutto di un grandissimo cammino di civiltà, che ci ha consegnato alcuni principi cardine, fondamentali, su cui ritorneremo tra un attimo, di cui non vorremmo in alcun modo essere privati. Non è sempre stato così. Le civiltà antiche, in cui peraltro affonda anche la nostra cultura occidentale, testimoniano in vari miti o narrazioni, un passaggio epocale che segna uno spartiacque da un’idea primitiva di giustizia, preda della pulsione vendicativa del cuore umano, a forme più razionalizzate del giudicare, attraverso l’instaurazione di un soggetto terzo imparziale, chiamato a dirimere le controversie a seguito di processi ben scanditi secondo passaggi, regole, garanzie. Prendiamo una fra tutte tra queste possibili immagini che segnano il cambiamento di epoca dalla civiltà antica alla civiltà moderna: la terza tragedia dell’Orestea di Eschilo segna culturalmente la fine delle antiche Erinni, lugubre dee ctonie della vendetta e la nascita delle più miti Eumenidi, grazie all’intervento non della dea Ragione, Atena, che con l’instaurazione del tribunale dell’Areopago di Atene interviene a spezzare la catena di sangue e di persecuzione delle Erinni che affligge la famiglia di Agamennone. Un tribunale che finisce per assolvere, con il voto decisivo di Atena, Oreste, per altro colpevole nientemeno che del matricidio. Allora la primitiva concezione della giustizia, basata sull’idea di vendicare il torto subìto, appartiene a un’epoca superata sin da questo spartiacque che ci è consegnato dalla cultura classica. Oggi siamo ben oltre quel cambiamento. I testi delle nostre costituzioni contemporanee, a partire da quella italiana, ricchissima di princìpi in questa materia e di numerosi documenti internazionali, prevedono una serie di princìpi che corredano l’amministrazione della giustizia di garanzie, specie in ambito penale. Garantiscono a tutti l’accesso a un giudice per la risoluzione delle controversie, lo sostengono anche economicamente, garantiscono l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici, la presunzione di non colpevolezza degli imputati (in dubio pro reo), regole processuali per l’assunzione delle prove, per l’argomentazione giuridica nel rispetto del contraddittorio (audiatur et altera pars), principio di legalità, proporzionalità delle pene e soprattutto finalità rieducativa della pena e molto altro ancora. I nostri padri, come afferma il titolo del Meeting, ci hanno consegnato un tesoro ricchissimo in materia di amministrazione della giustizia, eppure anche in questo ambito, anche nel campo della giustizia, quand’anche l’agire umano fosse impeccabile, qualcosa resta incompiuto. Lo scorso anno da queste stesse sale risuonavano potenti le esperienze di Maria Grazia Grena e Agnese Moro che testimoniavano una sovrabbondanza umana nata sul terreno di uno dei conflitti più laceranti sul piano giuridico, sociale, politico e umano della storia d’Italia. La loro straordinaria vicenda, la loro straordinaria amicizia, testimoniata da quell’abbraccio che si vide sul palco, rinasceva da un’intuizione di Adolfo Ceretti, Claudia Mazzuccato e Guido Bertagna, che c’è stato consegnato nelle splendide pagine de “Il libro dell’incontro”. “Tutto è nato – per usare le parole di quei protagonisti – dalla constatazione che non bastava soddisfare l’esigenza di giustizia, il fatto che i responsabili potessero pagare le proprie colpe con lunghi anni di carcere, né per le vittime bastava, o per i loro parenti, trovare conforto e soddisfazione nell’espiazione di quella pena”. Diceva Agnese Moro: “Occorreva spezzare la catena del male che siamo abituati a chiamare giustizia”. È da qui, da quel senso di insoddisfazione, di mancanza di compiutezza, che nascevano forme nuove. Attenzione, integrative, certo, non sostitutive, di quella che siamo abituati a vedere come la giustizia tradizionale. Perché quell’esigenza di un punto di novità? Andiamo un passo oltre, andiamo ancora più a fondo in ideale continuità con l’intervento e con l’incontro dello scorso anno. Il punto concettualmente più problematico della giustizia tradizionale, come osserva Paul Ricoeur: “È che anche le operazioni più civilizzate della giustizia, e in particolare nella sfera penale, mantengono ancora il segno visibile di quella violenza originale che è la vendetta”. Riprendendo la nostra immagine del mito delle Erinni e delle Eumenidi possiamo vedere che in quella tragedia alla fine le Eumenidi non soppiantano del tutto le Erinni. Le superano, certo, ma alla fine, dopo un lungo dialogo di persuasione, Atena riserva loro un posto in città, non le esilia, non le espunge. C’è una trasformazione, in queste antiche divinità spaventose. Atena, la dea della ragione, nata dal cervello di Zeus, le persuade a riorientare la loro forza verso una forma di benedizione per la città, quelle energie malevole normalmente dedicate alla vendetta diventano energie positive attraverso la loro inclusione. Ma ciò ci ammonisce che anche nelle civiltà contemporanee l’espressione della giustizia è pur sempre legata a un’espressione di forza. È una forza necessaria, siamo chiari, per fini alti, per esigenze costituzionalmente rilevanti e imprescindibili nella convivenza sociale; garantire sicurezza e ordine è un compito imprescindibile dello Stato, prevenire il crimine lo è altrettanto, così come lo è sanzionare le responsabilità di chi si è reso colpevole. “Eppure questa legge, così come la conosciamo, prende qualcosa in prestito alla violenza che intende combattere”, osserva François Ost. È da questo paradosso – si vuole combattere la violenza, ma non si riesce a fare a meno di un uso della forza – che nasce imperiosa l’esigenza di una nuova riflessione. Sul terreno che ci è stato consegnato dobbiamo spingere oltre la riflessione sulla giustizia, dobbiamo sperimentare nuove forme che integrino, che compiano di più quell’esigenza di giustizia che è sempre inesauribile. Anche noi, uomini e donne di diritto, dobbiamo fare nostro quello che ci dice il titolo del Meeting, quello che abbiamo ereditato dobbiamo riguadagnarcelo per possederlo veramente. Questa riappropriazione non è frutto solo di una riflessione, l’abbiamo già visto lo scorso anno, è frutto di nuove esperienze. Quest’anno continuiamo idealmente questa carrellata, questa visione, questa scoperta di nuove forme sperimentali di giustizia che integra e completa la giustizia tradizionale attraverso il contributo di nuovi protagonisti. Abbiamo con noi innanzitutto Carmen Velasco, vi prego di accoglierla con un applauso, una giurista spagnola, un notaio che pratica questa professione dal 2002 nella città di Bilbao, nei Paesi Baschi e, che a seguito, ce lo racconterà, di alcuni eventi storici che hanno interessato la Spagna nell’epoca della crisi finanziaria ed economica, si è specializzata nella risoluzione dei conflitti, soprattutto attraverso la mediazione e altri metodi alternativi di risoluzione delle controversie in questioni commerciali, famigliari e anche penali. Non solo pratica la mediazione, ma è diventata maestra di nuovi mediatori, dedica molte delle sue energie a formare persone che lavorino in questo ambito e, anche questo è degno di nota, lavora in stretta collaborazione con i tribunali di Madrid e dei Paesi Baschi. Con noi poi proseguirà la riflessione Padre Francesco Occhetta, che già ha occupato importanti spazi in questo Meeting, gesuita, fa parte della redazione della rivista Civiltà Cattolica e ha una formazione ricchissima, come denotano i suoi tanti contributi che spaziano in ambiti diversissimi. Laureato in giurisprudenza nell’Università Statale di Milano, ha conseguito altresì la licenza in Teologia Morale a Madrid e il dottorato presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Specializzato in diritti umani all’Università di Padova, ha completato la sua formazione niente meno che a Santiago del Cile. È giornalista pubblicista e professionista e ha scritto numerosi volumi, anche in ambiti strettamente vicini ai temi di cui io mi occupo, di diritto costituzionale, ma qui voglio ricordare, per brevità, l’ultimo, a mia conoscenza, dei suoi volumi, intitolato non a caso: “La giustizia capovolta”. Terzo intervento è di Valdeci Antônio Ferreira, stranoto al Meeting. Ci ha fatto conoscere, lo scorso anno, la straordinaria esperienza delle APAC. Adesso, qui dire che cosa è Valdeci Ferreira è molto difficile. Permettetemi però di sottolineare che anche lui è missionario e laico comboniano, giurista e teologo e anche lui, oltre a dirigere e essere l’anima di questa esperienza straordinaria di cui ci parlerà, delle APAC, anche lui, come Carmen, ha un rapporto di collaborazione con le istituzioni brasiliane e in particolare con lo Stato del Minas Gerais e anche lui si occupa della formazione di personale che possa proseguire questa esperienza straordinaria di cui abbiamo avuto conoscenza lo scorso anno con la mostra e di cui sentiremo ancora parlare nel suo intervento. Ma io ho già occupato troppo spazio. La parola innanzitutto a Carmen Velasco, che ci racconta di lei.

CARMEN VELASCO:
Vorrei ringraziare innanzitutto il Meeting, tutte le persone che lo rendono possibile, specialmente voglio ringraziare Marta per avermi invitato a partecipare a questo incontro e sono molto contenta di essere qui. Mi dedico da qualche anno alla risoluzione dei conflitti attraverso la mediazione. La mediazione, come ha detto già Marta, come ha anticipato, ha a che vedere con un modo nuovo di affrontare i conflitti e porta a risultati diversi. I casi di cui parlerò oggi hanno a che vedere con la vita ordinaria delle persone. Mi riferisco a casi per esempio di persone che hanno smesso di pagare le rate del mutuo e a casi di famiglie, di coppie, che sono in crisi, che hanno deciso di pensare alla separazione.
In Spagna ci sono stati tanti casi di famiglie o di persone che hanno avuto delle difficoltà e hanno smesso di pagare le rate del mutuo concesso dalle banche per comprare casa e ci sono stati dei casi in cui le banche hanno proposto delle soluzioni (per esempio di differimento dei pagamenti o nuovi rifinanziamenti), però ci sono stati casi che non sono stati risolti. In questi casi, che sono stati moltissimi fino al punto da diventare un problema sociale, il Comune di Madrid, la città di Madrid, si è reso conto che era necessario trovare forme alternative e ci ha invitato a lavorare come mediatori per poter incontrare i rappresentanti delle banche e trovare nuove soluzioni. L’urgenza di questa situazione sociale e il fatto che fossimo stati invitati dal Comune di Madrid, sono state circostanze che hanno fatto in modo che le banche abbiano voluto partecipare a questo processo. Per lavorare in questo contesto chiaramente sono stata formata per affrontare la gestione del problema dal punto di vista tecnico attraverso degli incontri individuali con queste persone, con le famiglie e poi con degli incontri con i rappresentanti delle banche. Durante gli incontri con i debitori dovevo cercare le informazioni che mi potessero permettere di avere dei dati, che poi potevano essere utili per valutare il caso in maniera obiettiva (per esempio, l’importo del prestito, del mutuo, quanti anni erano passati da quando era stato fatto il mutuo, che tipo di spese avevano queste persone tutti i giorni, quante persone erano a carico dei familiari e chi era l’intestatario del mutuo). Tutte queste informazioni mi servivano perché dovevo affrontare la conversazione con queste persone e dovevo chiaramente costruire la buona fede della persona che aveva pagato fino a quel momento e potevo, dovevo dare dei dati che potessero sostenere appunto questa buona fede nei confronti dei rappresentanti delle banche. Dovevo costruire un contesto in cui l’ente bancario, l’istituto bancario, potesse rinegoziare il mutuo, per esempio utilizzando persone esterne alla struttura come per esempio i mediatori. Con queste linee guida ho cominciato a lavorare, diciamo a coppie (ho lavorato sempre con un compagno, con un mio collega) e ho cominciato a parlare con le persone che erano in questa situazione difficile. Quando ho cominciato a parlare con loro, mi sono resa conto che mi si è aperto un mondo grandissimo. Era un mondo totalmente diverso rispetto al mondo che mi ero immaginata, un mondo complesso e mi sono resa conto che avrebbe richiesto da parte mia un grandissimo impegno, un lavoro molto intenso. In tutti questi casi ho incontrato, ho trovato delle persone che hanno dovuto affrontare delle situazioni impreviste, oppure che avevano fatto degli errori ma in molti casi non avevano la responsabilità, non conoscevano bene le norme che regolavano, per esempio, l’accensione del mutuo, non si erano ben resi conto del rapporto che avevano instaurato con la banca. E si trovavano in situazioni che non riuscivano più ad affrontare. Mi sono trovata in storie piene di sfumature diverse. Sto parlando di persone che avevano comprato, per esempio, un’abitazione e non avevano previsto in maniera adeguata quanto doveva durare il mutuo o magari avevano perso il lavoro; oppure mi sono trovata ad affrontare discorsi con delle coppie che volevano separarsi, in alcuni casi i genitori avevano dato un avallo ai figli per potersi comprare una casa e poi magari era subentrato un problema con il lavoro, qualcuno aveva perso il lavoro, oppure c’erano gli immigrati che erano stati impiegati nel settore edile che avevano perso il lavoro e non riuscivano quindi più a pagare le rate del mutuo. E chiaramente la situazione era insostenibile per loro e quindi non avendo più il lavoro non riuscivano più a pagare le rate del mutuo. Tutte queste persone venivano a me con un’idea chiaramente brutta della loro situazione e da parte, per esempio, delle banche qualche volta mi sentivo dire: “Queste persone non sono responsabili, non vogliono impegnarsi”. Invece, quando abbiamo cominciato a lavorare tutti insieme, si è visto subito che le domande tecniche non bastavano per poter affrontare questa situazione. Io mi sono resa conto che per me era una vera e propria sfida. La situazione che avevo di fronte a me era una sfida. Non potevo solo farmi domande di tipo tecnico. Era una situazione che mi colpiva direttamente, non potevo rivolgermi alla persona che era di fronte a me soltanto pensando ai dati economici e alla valutazione oggettiva, perché mi rendevo conto che così mi sentivo triste anche come professionista, mi sembrava di sminuire sia me che la persona che avevo di fronte. E poi pensavo: “Se io continuo a lavorare solo con i dati tecnici, non do nessun contributo in più, perché qualunque tecnico poteva fare la stessa analisi della situazione, obiettivamente come l’avevo fatta io”. Quindi era una situazione scomoda per me e questo mi ha portato ad avere un impulso e uno stimolo diverso con le persone e mi sono resa conto e ho percepito la conversazione con ciascuna di queste persone come qualcosa che poteva dare qualcosa anche a me. E allora ho cambiato modo di lavorare, ho cominciato a chiedere a queste persone cosa era successo, ho cominciato a chiedere informazioni sulla loro storia personale, cosa avevano imparato, cosa potevano fare in questo momento, secondo loro. Quindi mi sono rapportata con loro in maniera molto più personale, quindi non fredda. E questo ha cambiato tutto. Ho scoperto una felicità, ho scoperto una pienezza enorme, perché potevo incontrarmi con ognuna di queste persone e non ero più vincolata al fatto di essere un mediatore tecnico freddo. E quindi mano a mano che passavo del tempo con queste persone e che loro mi raccontavano le loro storie, mi rendevo conto che io avevo davanti a me una persona diversa e davanti a me avevo una storia e quindi sapevo tutto quello che era successo nella loro vita, sapevo che ogni persona aveva dietro di sé una famiglia e, come professionista, queste cose non avrei mai potuto comprenderle. Era una sensazione veramente potente. Queste persone, durante questi dialoghi che hanno avuto con me, quando loro stesse si ascoltavano parlare con me, sono riuscite a recuperare un po’ di fiducia in se stesse perché loro stesse hanno scoperto che esistevano, che erano persone e a me ha riempito di felicità non tanto scoprire che c’era un modo di risolvere la situazione alternativo alla causa legale – chiaramente dovevamo cercare nuove formule – quello che mi ha reso felice è che finalmente ho visto che queste persone si percepivano come persone di valore, che potevano essere, potevano esistere. Questa è una cosa che mi ha impressionato, perché quando uscivo, quando finivano questi incontri, io capivo che soltanto dialogando con me queste persone, in un certo senso, si sentivano più fiduciose. Anche se non avevamo risolto niente, queste persone si sentivano più fiduciose perché sapevano che una qualche soluzione si sarebbe trovata e poi, sono riuscita ad andare presso i rappresentanti delle banche con le storie di queste persone, sono riuscita a parlare con loro di queste persone per cercare delle soluzioni alternative. Per esempio abbiamo cercato nuove forme di lavoro per queste persone che avevano perso il lavoro e abbiamo fatto in modo che potessero essere aiutate senza per questo sminuirsi come persone; per esempio ci siamo rivolti ad alcune associazioni che potevano aiutare i debitori dal punto di vista, per esempio, alimentare, ricevevano un aiuto alimentare e non per questo si sentivano sminuiti. Dal mio collega, appunto, con il quale io lavoravo, tutti questi aspetti sono stati visti come qualcosa di nuovo e il mio collega mi diceva: “Non ho visto mai lavorare un mediatore in questo modo”. E allora io mi sono resa conto del fatto che stavo facendo molto di più di quello che pensavo di fare all’inizio. Un altro dato rilevante importante è che quando io mi incontravo con i rappresentanti della banca, la mia posizione per parlare, appunto, con questa entità, con questo ente bancario era totalmente nuova. Per esempio, abbiamo trovato soluzioni nuove per poter ripianare i debiti, per esempio con delle rate graduali che fossero adeguate alle entrate di ogni famiglia; con degli impegni di pagamento che però non fossero proprio obbligatori. Ci sono state tantissime possibilità alternative per poter trovare una soluzione. In questo caso queste persone sono riuscite a rimanere a casa propria senza essere sfrattate, magari pagando degli affitti molto bassi. Abbiamo avuto veramente tantissime situazioni, fino a che siamo riusciti a ridurre al minimo il problema del mancato pagamento delle rate dei mutui ed è stato il primo caso in cui un Municipio, un Comune, si sia riuscito a mettere d’accordo con Istituti di credito. L’altro esempio che vi volevo fare, è quello relativo al mio lavoro con le coppie che erano in fase di separazione. Per esempio: una collega mi ha chiamato e mi ha detto che aveva ricevuto una telefonata da parte di una coppia e si era resa conto che non riusciva ad aiutarli dal punto di vista della consulenza giuridica, legale. Non riusciva a togliere il dolore da questa coppia e quindi mi ha chiesto di intervenire come mediatrice. Quando ho incontrato queste persone, prima di entrare nella sala, mi sono resa conto del fatto che davanti avevo una situazione che non si poteva gestire solo con delle raccomandazioni o dei consigli. Quindi, sono entrata nella sala senza sapere altro, solo con il mio essere. Ho iniziato a spiegare alla coppia che tipo di lavoro avrei fatto con loro, che io non avrei semplicemente detto loro che cosa dovevano fare, ma che sarei stata con loro perché volevo sapere, volevo che mi raccontassero quello che stava succedendo, le cose che erano importanti per loro, come stavano vivendo la situazione e ho fatto capire loro che ero loro vicina per comprendere quello che stava succedendo e quindi ho favorito la comunicazione tra i due componenti della coppia. Piano piano mi hanno raccontato che lui aveva una malattia degenerativa e che c’erano sempre state delle difficoltà tra i due componenti della coppia, ma adesso, con la malattia, diventava tutto praticamente impossibile, tutto difficilissimo. Non avevano la forza di sopportarsi un giorno di più. Però, parlando con loro, mi sono resa conto che riuscivo a mantenermi molto calma, mi sono comportata in maniera molto naturale, sono rimasta vicino a loro e seguivo la conversazione, facevo domande molto semplici che non creavo io: erano loro che mi raccontavano che vivevano in camere separate, che non si parlavano più. Era un peso grandissimo vivere insieme durante il giorno, e non era proprio quello che volevano. E attraverso le mie domande – io chiedevo loro: “Come vorreste che fosse la vostra giornata?” – ho cercato di far emergere il loro desiderio di sentirsi un’altra volta amati e di far sì che la vita non finisse così. Formulavano queste espressioni, queste frasi in maniera molto lenta, avevano quasi paura di mettersi a nudo di fronte a me, però si sono cominciati ad ascoltare a vicenda, grazie alla mia presenza. Soprattutto lei mi raccontava del fatto che si innervosiva facilmente con il marito e urlava contro di lui, però appena iniziava ad urlare si rendeva conto che stava sbagliando. Allora le ho chiesto: “Cosa potresti fare tu in questa situazione? Cosa potresti fare tu, sia per te stessa che per lui?” E lei mi rispondeva: “Non voglio urlare, non voglio gridare, ma non so come fare ad evitarlo”. “E quando già ho gridato, quando ho già urlato, cosa succede?” – mi diceva – “Mi sento male”, e non sapeva come recuperare una situazione di felicità. E parlavano entrambi del perdono e mi ha impressionato tanto perché quando sono entrata nella stanza la prima volta capivo soltanto che erano incapaci di parlare; invece poi, man mano che passavano gli incontri, passavano le sedute, si sono resi conto entrambi che erano persone, che riuscivano a formulare concetti come l’esigenza di perdonare, che potevano perdonare e alla fine questa coppia – un caso eccezionale – ha deciso di non separarsi più. La cosa che mi ha colpito tanto è che dopo un po’ di tempo lei ha telefonato alla mia collega avvocato e ha chiesto di poter parlare con me un’altra volta, perché voleva recuperare le parole che erano state pronunciate quel giorno, perché lei le voleva annotare per potersele ricordare e pronunciarle quando fosse stato necessario. Uscendo dalla stanza, io ero cambiata ed erano cambiati anche loro e la mia collega mi ha chiesto: “Cosa è successo nella stanza?”. È stata per me una novità molto potente, ancora la sto valutando perché devo comprenderla fino alla fine. Poi ho avuto un caso – è l’ultimo che voglio condividere con voi – in cui c’era una coppia che si stava separando. Avevano dei figli ed erano molto preoccupati che i figli, molto probabilmente, non accettassero la separazione. Quando hanno iniziato a parlare con me ho visto che si trascinavano questa storia di mancanza di incontro: lei, per esempio, non si ricordava nemmeno quello che hanno fatto insieme come coppia, non si ricordavano come hanno educato i figli, erano proprio bloccati. La cosa che mi ha sorpreso è che queste persone si presentano con i loro limiti e quello che raccontano e il modo che hanno di narrarsi è un modo unico e chiaramente io, come mediatrice, quando inizio a lavorare con queste persone, mi rendo conto che cambia la situazione il fatto che si lavori tutti e tre insieme. Chiaramente si sono messe a nudo e queste persone avevano bisogno di qualcuno che stesse con loro per aiutarli a parlare. Durante queste sedute, che a volte duravano anche cinque ore e veramente sono sedute usuranti dal punto di vista psicologico, per me sparisce sia il tempo che lo spazio. È come se io mi facessi trascinare da loro e chiedo a loro dove vorrebbero stare in quel momento, cosa vorrebbero, cosa bisognerebbe fare per recuperare il loro rapporto e mi rendo conto che anche queste persone hanno il desiderio di felicità e quando questo desiderio emerge è appassionante, veramente, poter stare con loro in quella stanza. Chiaramente non so cosa passano veramente fino in fondo queste persone, però sono sicura che questo cammino, questo percorso nuovo è un percorso molto importante, perché attraverso la legge io aiuto queste persone a cercare cosa c’è ancora di buono nel rapporto di coppia, cosa c’è che ancora sta in piedi e quindi usano, cominciano ad usare la ragione in un altro modo, vedono le cose in maniera più realistica, quindi capiscono cosa c’è che non va, quali sono le conseguenze di questa crisi, che conseguenze ha sui figli. Io però non do consigli, sono loro che piano piano vedono emergere tutti gli aspetti. E io faccio in modo che loro stessi, con la loro creatività, trovino delle soluzioni, grazie al fatto che cominciano a parlarsi. Li aiuto a prendersi le loro responsabilità e a fare un passo alla volta. Qualche volta chiaramente le coppie hanno le loro idee e ci sono dei casi in cui la mia mediazione non basta, però io ho gli occhi pieni di speranza con il lavoro che faccio ed è la speranza che vi voglio comunicare. Chiaramente non sempre si riesce a risolvere le situazioni, ogni circostanza è a sé stante, però nessuna delle circostanze che io ho vissuto è stata sufficiente ad annichilire totalmente la persona. La potenza, il potere della persona e la passione che io vivo ogni volta che sto con queste persone è qualcosa che voglio continuare a vedere, perché l’incontro con l’altro quando si parla anche di questioni giuridiche permette di fare con questa mediazione un lavoro molto discreto e si possono aprire veramente novità incredibili nella vita quotidiana di persone che pensano di essere sole fino a quel momento. Questa scoperta porta un arricchimento molto grande per il sistema giuridico, perché io come giurista mi chiedo: “Fino a dove posso arrivare? Fino a dove mi posso spingere dal punto di vista tecnico?”. Ci sono ambiti in cui non posso entrare, invece con questo modo di lavorare, con la mediazione, tutti gli operatori giuridici riescono a comunicare: possiamo dialogare con gli avvocati, con le istituzioni pubbliche, con il governo, con gli istituti bancari per esempio, e secondo me questo può essere un complemento della giustizia tradizionale, come diceva Marta, che ci può consentire di arrivare fino al profondo di tutto quello che sta succedendo. Possiamo accompagnare le persone per aiutarle a costruire, per esempio, una nuova forma di relazione che coinvolga tutti gli attori interessati. Grazie.

MARTA CARTABIA:
Grazie Carmen per aver voluto condividere la tua esperienza, questo lato della tua professionalità che non ti ha fatto abbandonare la tua professione di notaio, ma ti ha fatto scoprire una nuova dimensione possibile. Vorrei sottolineare qualche aspetto, tra i tanti che mi hanno colpito. Il primo: chi di noi non si è riconosciuto nelle situazioni di cui ci ha parlato? Difficoltà economiche, stipendi che vengono meno, il lavoro che viene perduto, la preoccupazione, che in questi anni ha afflitto tante famiglie, di non sapere che cosa accadrà il giorno dopo della propria stessa casa. Tensioni famigliari: i conflitti di cui ci ha parlato Carmen sono situazioni molto logorate, ma quell’impazienza, quella perdita di capacità di accoglienza, in quali famiglie, nell’epoca contemporanea, non si vivono? Dunque il tipo di giustizia riparativa di cui ci ha parlato Carmen non è solo per i grandi conflitti storici, ma per una quotidianità di cui è intessuto anche il nostro ordinario vivere quotidiano. E il risultato, laddove funziona – perché con grande realismo Carmen ha detto: “In tanti casi non si arriva a una ricomposizione del conflitto” – laddove nasce qualcosa, laddove scaturisce qualcosa, è un risultato in cui tutti escono vincitori, non c’è una parte vincitrice e una soccombente, direbbero gli americani è un “Win Win Approach”, in cui tutti vincono qualche cosa. E qual è il fattore scatenante che lei ha sottolineato? Non è il consiglio giusto. Quante volte ha detto “non sono lì a dare consigli, ma uno sguardo”, il suo, che ha saputo vedere il valore della persona. Immaginate con quanta vergogna, quanta vergogna, una persona che non è più in grado di pagare il mutuo, la rata mensile del mutuo, si accosta a chi dovrebbe risolvere quella controversia. Quanto può costare in termini umani dire: “Non ce la faccio, non ho più un lavoro, non sono in grado di mantenere la casa per i miei figli”. O quanta vergogna ci può essere in una persona che dice: “Vedo mio marito malato, ma non sono capace di non urlargli addosso”. Non è dunque un consiglio, ma uno sguardo che ha saputo perforare quell’immagine, quel senso di vergogna, quella miseria umana che le si presentava davanti, vedendo il valore della persona, che allora si rimette in moto da sola e riscopre da sola nuove possibilità da percorrere. La tradizione giuridica dei nostri padri ci parla di dignità umana. In tutti i testi del secondo dopoguerra, la radice è questa idea della dignità umana. Ma dove affonda, Padre Occhetta, questo senso della dignità umana nella concezione culturale, antropologica, biblica, di cui noi siamo stati dotati attraverso una tradizione millenaria?

FRANCESCO OCCHETTA:
Volevo anzitutto dire grazie per questo invito agli organizzatori del Meeting, al Presidente Emilia, al Professor Vittadini e soprattutto dire un grazie grande a Marta Cartabia, Vicepresidente della nostra Corte Costituzionale, per l’audacia di affrontare questo argomento, e la capacità di vedere lontano, oltre la cronaca, perché questo modello tocca la profondità della nostra vita. Guardate, tutti noi, sul tema della giustizia, ci dividiamo tra giustizialisti e permissivisti, fino a quando il tema della giustizia non tocca la nostra carne. Allora lì cambiamo la prospettica. Ho accettato di venire qui da voi per commentare brevissimamente questo modello che, secondo me, è anche profetico, ma ha bisogno di una comunità come la vostra per portarlo avanti a livello culturale. Due sono i motivi: il primo deriva dal fatto che per anni sono andato nelle carceri, non solo quelle milanesi, soprattutto S. Vittore, ogni domenica; sono andato anche nel reparto penale, ma anche in Colombia e in Cile dove, vi assicuro, le condizioni dei carcerati sono molto peggiori rispetto a quelle che abbiamo qui, nonostante vivano anche i nostri detenuti in situazioni molto difficili e dure. E il secondo motivo è perché io ho incontrato molte vittime di reati che mi hanno detto: “Questo è l’unico modello possibile. Dopo aver sofferto tanto, noi non abbiamo la possibilità di esprimere il nostro dolore, metterlo in uno spazio pubblico perché neanche la monetizzazione che ci fa lo Stato, e ce ne fa tanta, può dare legittimazione al nostro dolore”. Allora questo modello cosa dice? Pone al centro, innanzitutto, il grande dimenticato dell’ordinamento, che sono le vittime e il loro dolore. Loro possono venire strumentalizzate politicamente ma non riescono ad essere ascoltate. Perché? Perché la nostra società considera le carceri delle discariche sociali, come diceva Baumann. Vi do qualche numero, così componiamo un quadro nel quale poi possiamo muoverci. Noi in Italia abbiamo 195 istituti penitenziari, alla fine del 2017 erano presenti 56.766 detenuti. Lo scorso anno, in questo periodo, erano 54.000. La capienza massima delle nostre carceri è invece di 50.000, per cui abbiamo un esubero di 6.000. Di questo totale, di 56.000, 19.000 sono immigrati. Ma qual è il punto per noi? Che quasi il 69% di chi è rinchiuso nelle nostre carceri è recidivo. Cosa significa? Che delle 1.000 persone che entrano ed escono dalle carceri italiane ogni giorno (perché abbiamo un movimento di questo genere), 690 ritornano a rifare quello che hanno fatto. Allora io dico: “Questo è un modello che non funziona, e noi abbiamo responsabilità di dire qualche cosa”. Poi c’è un altro dato che mi colpisce: se soltanto la recidiva calasse dell’1%, lo Stato risparmierebbe tanti milioni di euro. Dovrebbe questo convincere anche i più forti e più duri sostenitori del carcerocentrismo del nostro ordinamento. Tant’è che le misure alternative, per chi è riuscito a ottenerle, stanno funzionando. Sono circa 23.000 le persone in misure alternative, la recidiva è quasi del 18%. E c’è un modello di giustizia che, parallelamente alle carceri, sta funzionando. L’ultima cosa che vi voglio dire è che 9.000 persone in Italia, di queste 54.000, sono in carcere ancora in attesa di giudizio. E i tempi dei processi sono esagerati nel nostro Paese, perché bloccano il lavoro, umiliano la dignità. E quando Radio Radicale mi ha invitato, mi ha fatto ascoltare la telefonata di una persona che è stata dentro due anni e mezzo e poi è stata liberata perché non esisteva il fatto. Noi abbiamo anche situazioni di questo genere. Allora entriamo nello specifico: che cosa vuol dire per noi giustizia riparativa? La giustizia è un po’ come l’ente di Aristotele, si dice in molti modi e dipende da chi, dipende dalle epoche, come ha già detto la Professoressa. Allora, nel nostro codice, quello rigoroso, quello che regola se io faccio qualche cosa che è perseguibile a livello penale, quel modello si chiama giustizia retributiva, al quale la legge garantisce due fondamentali principi: la certezza della pena e la sua proporzionalità alla gravità del danno. Questo modello però risponde a domande oggettive; la persona di fatto, con la sua storia, non vi entra, perché risponde ad altre domande: chi? Quale legge è stata infranta? Chi l’ha infranta? Quale punizione dare? Poi c’è un modello di giustizia rieducativa, in cui chi commette reati deve essere rieducato psicologicamente per dimostrare il cambiamento della propria personalità e dei propri comportamenti. Infine, si sta affacciando come modello integrativo a questi modelli, il modello della giustizia riparativa, che è anzitutto un prodotto culturale che integra i modelli classici di giustizia e pone al centro, come vi dicevo, il dolore della vittima. La pena viene stabilita rispondendo a tre domande: chi è colui che soffre? Qual è la sua sofferenza? Chi ha bisogno di essere guarito? Allora capite come è qui la relazione, e che la dignità è al centro dell’interesse di questo modello. Il percorso della giustizia riparativa si articola su cinque passaggi specifici che sono: il primo, il riconoscimento del reo, della propria responsabilità davanti alla vittima e alla società. Vi dirò poi come è necessario far riconoscere al reo la propria responsabilità, ma questo è il primo atto, altrimenti i rei si continuano a giustificare del male fatto; il secondo è l’incontro con la vittima: il reo deve incontrare la vittima, e io al S. Vittore l’ho capito da come è potente questo incontro, perché chi doveva espiare la pena, ed andava avanti a espiarla, mi diceva: “Io ora la espierò molto più umanamente”. Non è più come prima dopo aver incontrato le vittime. Poi c’è un terzo passaggio: l’intervento della società attraverso la responsabilità diretta e la figura del mediatore. L’Europa è dal ’99 che ci raccomanda di introdurre questo modello. In Italia timidamente lo stiamo facendo, c’è un progetto di legge depositato, si prevede la figura dei mediatori, ma qual è il problema? Che non c’è ancora cultura di mediazione e non ci sono scuole che preparano mediatori capaci di portare avanti questo modello, perché deve essere di sistema, non deve essere solo una brava comunità come CL che prepara i suoi, ma deve essere di sistema. E poi l’elaborazione della vittima, della propria esperienza di dolore, deve raccontarsi, deve dire che cosa è successo, deve chiedere: “Perché mi hai fatto questo? Rispondimi!”. E a volte, come molte vittime affermano, dice: “Quei mostri si sono rivelati tutt’altro. Per me il perdono non significa dimenticare il passato, ma ricominciare in modo diverso”. E poi l’ultimo punto: l’individuazione della riparazione che può essere la ricomposizione dell’oggetto che si frattura o altro. Ad esempio, io esco dalla chiesa, sono in bicicletta, arrivano quattro ragazzi, me la prendono, me la distruggono. Allora facciamo verità: io devo capire da loro se me lo fanno perché mi volevano fare del male, perché avevano bisogno di soldi, per poter vendere la bicicletta, perché non stavano bene. Io ho bisogno di capire, perché se io capisco la motivazione di chi mi ha fatto del male, capisco anche e giustifico il mio dolore, se non la capisco e il mio dolore lo tengo nel mio cuore, il mio dolore mi blocca nell’esistenza e mi fa avere paura di tutto. Perché? Perché io non incontro il volto dell’altro che mi dice chi sono io e che cosa è stato lui in quel momento. E allora è necessario chiedere la ricomposizione, che può essere una quantità di denaro, o per molte vittime anche una verità fatta vicendevolmente. E chiaramente non c’è solo la ricomposizione che si monetizza ma anche quella che è causata da una frattura di una relazione. Questo modello in Europa c’è, c’è anche in America, noi dovremmo aiutare la politica a farlo diventare di sistema. In America hanno un protocollo istituzionale quale modello alternativo al processo su questo modello; nel Regno Unito la mediazione diretta è tra vittima e reo e c’è un programma face-to-face che l’ordinamento chiede; in Germania c’è il settore minorile e tutte le misure alternative alla detenzione che funzionano con questo modello; la Francia ha dei mediatori sociali che provengono però da associazioni private; in Olanda questo modello è previsto all’interno della polizia, addirittura per reati di violenza sessuale; la Spagna invece l’abbiamo sentita. Il modello è straordinario, perché? Perché ha radici nella Bibbia, è un modello biblico, è esattamente quello che Dio chiedeva al Suo popolo quando lo tradiva e tutti i libri del Nuovo Testamento si aprono con questa forma di giustizia, in cui Dio dice al popolo: “Perché mi hai tradito?” e il popolo che cosa deve fare? Verità. Questo è il punto. Noi siamo chiamati a rileggere l’accaduto nell’esperienza, facendo verità. E poi bisogna capire la profondità di questa verità. È l’ultima cosa che vi dico perché per me è fondamentale. La Bibbia che cosa ci dice? Questo modello non è per signorine, per pretini o suorine che dicono: “Bisogna essere buonisti”. No, questo è un modello durissimo, è il modello che prevede la Genesi, che spesso è imperniata di storie tra fratelli che si uccidono o si dividono; pensate a Caino e Abele, pensate a Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, pensate a Giacobbe e Labano, pensate a Giuseppe e ai suoi fratelli, pensate alla dinamica di Giuseppe e i suoi fratelli, che quando i fratelli si sono presentati davanti a lui che era vice-imperatore di Egitto lui non gli ha detto: “Ah, carissimi fratelli…!”. Lui cosa ha fatto? Gli ha fatto fare verità, li ha fatti ritornare indietro. Andate a rileggere quelle pagine, sono meravigliose. Allora è proprio grazie al realismo di Israele che il modello è servito per regolare anche i rapporti tra Stati, tribù, nazioni che si impegnano a trattarsi prima come fratelli che come nemici, per ristabilire l’alleanza e il reciproco riconoscimento, perché noi siamo figli di un dono. Un mio confratello quando confessava una persona che affermava: “Padre, lei mi può perdonare, io però non mi perdono”, gli diceva: “Se ti perdona l’Onnipotente, tu chi sei per non perdonarti?”. Se noi siamo figli di un dono, perché non lo accogliamo? Guardate, tutto dipende da qui, tutto dipende da qui. Allora, l’etica biblica ci dice che questo modello ha quattro grandi principi: il primo è non giudicare ma rieducare il colpevole. Caino, l’assassino, non viene abbandonato a se stesso, non viene distrutto da Dio, non viene escluso dalla premura di Jahvè, il Suo giudizio si manifesta nella duplice valenza della zedaqah, che è giustizia e salvezza insieme; la zedaqah di Jahvè, che assume sempre per primo l’iniziativa, non annienta il colpevole, non si vendica del colpevole, ma che cosa gli chiede? Gli chiede un cammino di verità. Lo espelle dal Paradiso perché possa rientrare e costruire la città. La pedagogia biblica condanna il male ma protegge il colpevole attraverso due verbi: espiare e curare. Espiare e curare. Per ricevere il dono di Dio, Dio chiede che l’uomo si renda conto del male che fa, questo è il punto. Ma come può l’uomo rendersi conto del male che fa? Solo a livello spirituale, non religioso, ma spirituale, noi possiamo avere nella nostra coscienza la capacità di discernere ciò che facciamo di bene, ciò che facciamo di male; quello è un punto originario e originante. Vi spiegherò alla fine cosa è successo in un carcere in India, che da diecimila detenuti che avevano quasi il 90% di detenzione, facendoli meditare, la recidiva è scesa al 7%. Secondo principio biblico: la responsabilità della società. Le prime pagine del libro della Genesi esigono che la vittima ritrovi ciò che è stato tolto e che le sia restituito in integrum. Dinanzi a questo tipo di responsabilità oggettiva, che non è la responsabilità soggettiva dei nostri codici e del nostro ordinamento, la Bibbia prevede due possibilità: o il colpevole assume la propria responsabilità risarcendo del danno la vittima o i suoi familiari, oppure l’intera comunità si deve fare carico di risarcire la vittima, perché la responsabilità è oggettiva. Perché? Terzo punto: perché noi, come società, abbiamo la responsabilità di coltivare la terra macchiata dal sangue; la terra è il corpo dell’uomo, è ciò che Dio ci dà, ma quando viene macchiata, lì non può più crescere niente. O lì noi bonifichiamo, o lì nessuno mangia più. Capite cosa c’è in gioco? La bonifica della terra macchiata dal sangue dei fratelli che si distruggono. E il quarto punto: nel male commesso c’è già la nostra condanna, perché la coscienza formata te lo pone davanti. Il problema è avere cammini in cui la coscienza ti può ridire quello che tu hai fatto e tu ti possa vedere e riascoltare nella verità della tua vita davanti a Dio, che comunque su di noi con le Sue mani e il Suo amore ha uno sguardo molto più misericordioso di quello che noi abbiamo certamente sull’altro e anche su di noi stessi. Noi dobbiamo essere solo attenti di non far morire anche “il prossimo” nella nostra società. L’Ottocento ha fatto morire Dio, ma se noi facciamo morire “il prossimo”, non vediamo più chi soffre e non vedendo più chi soffre noi cerchiamo soddisfazione nel lontano. Ma questo non funziona. L’ultima cosa: la pena trasforma la colpa in responsabilità e da lì c’è un nuovo inizio; l’intervento di Dio giudica gli uomini nella colpa, ma non li fissa nella colpa, ci dà una speranza in più. L’ultima cosa che voglio dire allora è che in India – non vi parlo del Brasile perché chiaramente abbiamo il protagonista, però voglio dirvi questo non per parlarvi brevissimamente di un’esperienza, ma perché quell’esperienza dice qualcosa a noi – nel ’95, una dottoressa di un carcere di Tiar, a New Delhi, aveva diecimila persone detenute, era disperata, per un tasso di recidiva e una violenza terribili. Allora che cosa ha fatto? Tre cose: anzitutto girava il carcere e si faceva vedere come persona; quando la persona fa vedere il suo volto, allora diventa diverso, tutto diverso. Secondo: aveva messo un grande box dove i detenuti potevano scrivere e lei rispondeva e rispondeva a tutti e, terza cosa, aveva individuato delle sale, luoghi di silenzio, dove lei faceva fare ai suoi collaboratori e a tutte le persone detenute che volevano, la meditazione Vipassana. La persona anzitutto viveva una settimana di silenzio e il silenzio è disvelativo della nostra vita, della nostra natura, ti mette davanti a chi sei e queste persone che cosa facevano? Semplicemente vedevano che cosa avevano fatto, di bene e di male e quando una persona arriva a questa profondità e se noi riuscissimo a portare noi per primi e la nostra società a questa profondità, cambieremmo da così a così. Da così a così. Allora io vi chiedo: se per l’India vale la meditazione Vipassana, in Italia qual è l’esperienza che ci porterebbe ad entrare nella nostra coscienza? Alcuni dicono lo sport, addirittura, la resilienza, il sacrificio o la meditazione; io ne avevo parlato alla Magistratura – c’è un ramo della Magistratura molto aperto sotto questo profilo – il problema è che oggi noi rischiamo di vivere un diritto che è troppo positivizzato. I miei compagni di classe, di studi fino agli anni Ottanta, in Statale, tutti sognavamo questo modello che ci poteva cambiare la vita nella giustizia. Ma dove sono andati a finire? Si sono positivizzati. Lo dico non come critica, ma perché mi dispiace; noi stiamo positivizzando il diritto, ma il diritto è la possibilità di fare re-incontrare le persone. È questo il diritto: non aumentare i conflitti, non esasperare la tensione sociale. Chiudo dicendo questo: a Nisida, genitori che hanno avuto i figli uccisi vanno a trovare i ragazzi che li hanno uccisi, perché dicono: “Sono il prodotto di un sistema – che in quel contesto culturale si chiama camorra – che li ha fatto agire contro di noi e si sono sanati loro e si sono sanate le persone che hanno incontrato. La Vicepresidente di “Libera” a cui è stato ammazzato il papà quasi sotto gli occhi, dopo anni di dolore, dice: “E’ l’unico modello che abbiamo, dobbiamo portarlo avanti insieme, anche tra diversità, perché noi siamo anche diversi”. In questo piccolo libretto che ho scritto, il Professor Flick mi ha consegnato una postfazione che mi ha colpito in una cosa, lui dice: “Io sono stato Ministro della Giustizia, sono stato Presidente della Corte Costituzionale, ma ho capito dopo l’importanza di questo modello e sono qui non a chiedere perdono, ma a dire: portiamolo avanti insieme”. Un mio confratello qualche anno fa, morto giovane, un austriaco, ha scritto un grandissimo manuale sulla giustizia riparativa, anticipando i tempi, è stato un profeta, Visnet, negli anni Ottanta. Questo manuale lo dedica a un ragazzo che aveva 19 anni, che si chiamava Hans, che quando torna dal carcere minorile dopo tre anni di detenzione, il suo villaggio di origine gli nega come furfante e galeotto ogni riconciliazione. Hans si impicca per disperazione dopo sei settimane. Nella sua lettera di addio scrive: “Perché gli uomini non perdonano mai?”. Questo non sia per noi. Grazie.

MARTA CARTABIA:
Gli spunti di questo intervento sono numerosissimi e spaziano dalla cultura biblica a esperienze indiane, a “Libera”, ai maestri del nostro diritto costituzionale e penale. Non poteva che essere così, del resto, lo stesso libro di Padre Occhetta ha tutta questa ricchezza. Permettetemi di sottolineare due aspetti: non siamo di fronte a un’alternativa tra giustizialisti e permissivisti, sono state le prime parole di Padre Occhetta, quindi non si tratta qui di capire se siamo dalla parte di coloro che hanno una sensibilità più severa, più punitiva nei confronti del crimine o di coloro che invece, di animo più gentile, sono aperti ad una bontà naturale. Si tratta di una nuova concezione della giustizia che ha attraversato tutte le parole e gli esempi di Padre Occhetta. Mi pare di poter riassumere in questi termini il succo della sua riflessione: quando Padre Occhetta parla di giustizia, parla di giustizia come relazione con l’altro e di ingiustizia come di rottura di una relazione con l’altro ed è da questa idea (e sarebbe bello verificare nella Bibbia, che così frequentemente a ogni salmo, a ogni passo ripete la parola “il mio diritto, la mia giustizia”, se questa è l’idea che ricorre e che unifica il ripetersi di questa terminologia nel testo biblico), da questa concezione di giustizia come relazione, di ingiustizia come rottura di questa relazione, che nascono tante conseguenze, tanti esperimenti che non necessariamente possono essere esportati così come sono da un mondo all’altro, ma che generano una creatività di risposte inesauribile. Una creatività che ci ha già sconvolto l’anno scorso quando siamo venuti a conoscere l’esperienza delle APAC. “Dall’amore nessuno fugge”. Chi di noi si può dimenticare di questa frase scritta e di quell’immagine sul muro di un carcere col filo spinato, che racconta di un carcere senza chiavi, anzi, in cui le chiavi sono affidate agli stessi detenuti? Valdeci ci aiuterà a scoprire qual è il segreto che ha permesso il nascere e il fiorire di un’esperienza così straordinaria e mi permetterei di chiedergli anche qual è il segreto che ha permesso a un’esperienza così impensabile di essere accettata e accolta anche sul piano istituzionale, non solo un’avanguardia per visionari audaci, ma gli stessi giudici di alcuni stati del Brasile e altrove nel mondo hanno guardato quel modello come qualcosa di interessante che possa essere accolto, se non replicato dalle istituzioni. Ma prima di dargli la parola, Valdeci ci ha chiesto di poter proiettare un video che chiediamo alla regia di proiettare immediatamente.

Video

VALDECI ANTÔNIO FERREIRA:
Buongiorno. Saluto con molto affetto la Dottoressa Marta, Padre Occhetta e Carmen che stanno condividendo questo momento con me. Vorrei esprimere la mia profonda allegria e gratitudine soprattutto anche alla regia e al coordinamento del Meeting, alla Fondazione AVSI che hanno fatto tanto per il consolidamento delle APAC già esistenti e hanno aiutato anche a espandere il sistema APAC nel mondo. Sono arrivato dal Brasile l’altro ieri e devo confessare che ho lasciato un Paese in agonia profonda. Il Brasile in questo momento sta vivendo una crisi senza precedenti, una crisi economica che vede tredici milioni di disoccupati di cui l’80% sono giovani dai 18 ai 24 anni. Stiamo vivendo anche una profonda crisi politica, una profonda crisi di leadership e soprattutto viviamo una crisi di valori. In mezzo a tutto questo il Brasile sta vivendo una crisi del sistema penitenziario, una crisi che va avanti da tempo, da secoli e in questo momento vede settecentomila detenuti vivere in condizioni disumane, carceri dove la recidiva arriva fino all’ottantacinque per cento, carceri piene di violenza, controllate dalle fazioni criminali; carceri che peggiorano le persone perché sono vere e proprie università del crimine. Ma io sono convinto che questa realtà del sistema penitenziario brasiliano in misura minore o maggiore sia presente anche in altri Paesi, soprattutto nei Paesi dell’America Latina, in Africa e in Asia. Nel mezzo di questa crisi nasce l’esperienza di successo che si chiama APAC (Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati). Associazione, ente senza fini di lucro, il cui scopo è di recuperare i detenuti, proteggere la società, aiutare le vittime e promuovere una giustizia riparativa. Per raggiungere questi obiettivi noi offriamo una terapia nostra che si chiama “Metodo APAC”, che si fonda su dodici elementi di base, tra i quali la partecipazione della comunità, un recuperando che aiuta un altro recuperando, il lavoro, l’educazione, l’istruzione, l’assistenza sanitaria, l’assistenza legale, la famiglia, la valorizzazione della vita umana, il volontariato. Quando questi dodici elementi fondamentali funzionano e si applicano in modo armonico, portano a risultati positivi. E’ una metodologia che è fondata sull’amore, sulla fiducia e sulla disciplina. Grazie all’applicazione di questa metodologia è possibile ridurre la recidiva a tassi inferiori al quindici per cento, riduciamo anche drasticamente il costo, non c’è violenza, non ci sono rivolte, non ci sono ribellioni, non c’è droga e non esistono fazioni criminali. Potrei dire che le APAC sono una vera e propria rivoluzione del sistema penitenziario per tutto il mondo e sono sicuro che questo secolo sarà segnato dall’esperienza delle APAC. Anche se in modo molto semplice, quasi timido potremmo dire, oggi gestiamo quarantotto APAC in Brasile, che ospitano oltre trecentomila recuperandi e abbiamo oltre ottanta APAC in diverse fasi di implantazione. Siamo presenti e applichiamo anche in modo parziale la metodologia in ventitré Paesi del mondo. Sicuramente potreste chiedermi: se l’APAC è nata nel 1972, creata dal caro Mario Ottoboni, avvocato e giornalista, perché dopo quarantacinque anni l’esperienza è ancora così timida? Potrei rispondervi che questo è frutto di due ragioni: la prima è il fatto che il metodo APAC non sia riconosciuto, perché purtroppo, soprattutto nel nostro Paese, esperienze di successo e positive difficilmente ricevono il sostegno e l’appoggio dei media; inoltre non abbiamo alcun dubbio del fatto che stiamo andando contro corrente, perché se esiste un settore che cresce costantemente in Brasile, è il settore dei detenuti. Se cerchiamo appoggio, sostegno, se abbiamo amici, collaboratori, sicuramente abbiamo ancora più nemici che tifano costantemente contro di noi, affinché la nostra esperienza sia un fallimento. Voglio affermare una cosa: anche con buoni risultati, l’APAC però non è la risoluzione per il crimine e la violenza. Le APAC non sono il metodo, il modello fatto e finito, le APAC non vogliono sostituire le carceri tradizionali, ma sono sicuramente un’alternativa fattibile che, in questo momento, stiamo offrendo in Brasile e negli altri Paesi. L’APAC, pur essendo 100% brasiliana, non è proprietà del Brasile. L’APAC, come tutte le opere di Dio, è nata e cresce ai piedi della croce e come tutte le opere di Dio è al servizio di tutta l’umanità. Io sono coinvolto in questo progetto di recupero di detenuti da 24 anni, non ho fatto altro nella mia vita se non eliminare il fango delle carceri, in modo da recuperare le vite che si trovano in queste paludi che sono le nostre carceri. Signore e signori, è difficile che possiate davvero immaginare le enormi difficoltà, gli enormi ostacoli che affrontiamo ogni giorno per non perdere la speranza. Dottoressa Marta, ricordo i primi anni in cui ero umilmente perquisito dai poliziotti, ricordo la stanchezza dei viaggi, le notti in cui a malapena dormivo, gli enormi, tantissimi dubbi che mi perseguitavano; ricordo gli oltre 17 processi giudiziari portati avanti dal Pubblico Ministero, processi in cui sono stato accusato di qualsiasi cosa. Hanno fatto di tutto affinché anch’io diventassi un detenuto, ma grazie a Iddio mai mi è mancato l’appoggio, mai mi sono mancati gli amici che mi hanno aiutato in queste ore difficili. Per mesi e mesi sono stato minacciato di morte; ho rischiato tutto: la famiglia, i beni materiali, la vicinanza, ho rinunciato a tutto per dedicarmi pienamente a quest’opera che, sono certo, è un’oasi in mezzo ad un deserto di sofferenza. Investo tutta la mia vita per questa causa e consacro la mia libertà affinché coloro che scontano una pena possano diventare nuovamente liberi, perché sono convinto fermamente che Dio mi abbia chiamato per questa causa. Pur avendo moltissimi motivi per fuggire, ho imparato, con i recuperandi delle APAC, che nessuno fugge dall’amore; io non possono fuggire dall’amore, perché Dio è amore. Mi chiedevi quali sono i segreti, mi domandavate quale fosse il segreto. Il segreto sta nelle piccole cose semplici. Anche se il metodo è basato su 12 elementi fondamentali, io sono convinto che Dio si nasconda nelle pieghe della storia e allo stesso modo si nasconda e si riveli nel corso dell’applicazione di questi 12 elementi fondamentali, uno dei quali è chiamare ciascun detenuto per nome, perché sappiamo che il riscatto della persona umana inizia dal riscatto del suo nome, dal riscatto della sua storia, dal riscatto della sua dignità. Uno dei segreti è la famiglia, uno dei segreti è la valorizzazione della persona, trattare chi arriva come un soggetto di diritto e di doveri, offrendogli uno spazio umano, con giardini, con tavoli della mensa affinché possa nuovamente sentirsi una persona, affinché possa nuovamente essere trattato come immagine, somiglianza di un Dio che non è morto come molti pensano, è ben vivo e agisce nella nostra storia. Il segreto è nell’aiutare chi arriva a rendersi conto del reato che ha commesso. Normalmente i detenuti non si rendono conto, non hanno la consapevolezza del male che hanno commesso, anche perché chi normalmente commette e fa del male non è conscio del male che fa, nello stesso modo chi fa il bene non sa il bene che fa, non abbiamo la dimensione, la consapevolezza di quante persone possiamo raggiungere con i nostri peccati, con i nostri reati; allo stesso modo non abbiamo idea, consapevolezza, di quante persone possiamo raggiungere con i piccoli gesti di bontà che offriamo alle persone che incrociamo nel nostro cammino. Quando il recuperando si rende conto del male che ha fatto, della sofferenza che ha causato, della sofferenza che ha provocato alle famiglie delle vittime, agli amici delle vittime e alla società in generale, allora lo aiutiamo a fare un secondo passo, Padre Occhetta, lo aiutiamo a separarsi dal reato, perché una cosa è la persona e l’altra è il reato che questa persona ha commesso. Spesso quando i detenuti si guardano allo specchio, si vedono come un mostro e si considerano quasi spazzatura, come una persona che non serve a nulla, non è utile per la famiglia, per la società, perché la loro persona è confusa con il reato che hanno commesso. Quando li aiutiamo a fare questo secondo passo, li aiutiamo poi a farne un terzo, ovvero a rendersi conto che la persona è più grande del reato che ha commesso, che ogni persona è più grande della colpa, che ogni uomo è più grande del suo errore o del suo reato, perché se il peccato che abbiamo commesso è grande, la grazia di Dio è ancora più grande e il perdono di Dio è ancor più grande. In quel momento la persona inizia a liberarsi, ma la liberazione finale avverrà quando riuscirà a fare un quarto passo, quello di iniziare il processo difficile della purificazione. Quando il detenuto cambia il comportamento, oltre a cambiare il comportamento cambia anche la mentalità. Allora è pronto per fare un’esperienza, l’esperienza del profeta Ezechiele che toglie quel cuore di pietra e al suo posto mette un cuore di carne: la conversione, il cambiamento della vita. Da quel momento vuole riparare al danno commesso. Molti sono gli esempi che potrei portarvi, ma non c’è il tempo. Abbiamo anche un libro scritto dal dott. Mario Ottoboni: “Sii la soluzione e non la vittima”. Abbiamo decine e decine di esempi in cui uomini e donne che sono precipitati nel crimine, nella violenza, sono stati in grado, grazie alla Grazia divina, di fare quest’ultimo passo verso la riconciliazione con le loro vittime. Ma voglio raccontarvi un piccolo esempio, l’esempio di Marcos Paulo che aveva commesso un reato di omicidio, aveva ucciso un uomo per rapinarlo. Aveva 22 anni e gli avevano dato una condanna a 25. Aveva lasciato una donna vedova e due bambini orfani e all’interno dell’APAC, con molto sforzo, lo abbiamo aiutato, lo abbiamo aiutato a fare questi passi verso la riconciliazione. Quando è arrivato al terzo passo è entrato in un’angoscia profonda perché non sapeva come fare per riparare al dolore che aveva causato e quindi ha fatto due passi che io voglio pensare siano stati ispirati da Dio. Il primo: ogni mese raccoglieva il denaro che otteneva dalla vendita dei prodotti artigianali che creava, e mandava una cesta, un paniere di prodotti di prima necessità, alla famiglia. Per due anni lo ha fatto ogni mese per aiutare la vedova e aiutare i bambini orfani e soltanto dopo due anni in cui compiva questo gesto anonimamente, la vedova si è resa conto della provenienza dell’aiuto e ha deciso quindi di venire a visitare l’APAC, ha deciso di incontrare colui che aveva commesso il reato. Io sono grato a Dio perché ero presente in quell’incontro, l’incontro del perdono, perché so che il perdono è l’essenza dell’amore di Dio. Ma anche così lui continuava ad essere angosciato, perché già in un certo modo aveva riparato al danno commesso, ma c’era una vittima, qualcuno era morto, aveva sparso sangue, finché un giorno una signora ha chiesto di parlare con i recuperandi dell’APAC. Aveva un parente molto vicino, un nipote che era in emodialisi tre volte alla settimana, e cercava un donatore di rene. Otto si offrirono e vennero condotti all’ospedale, per fare gli esami, i test. Uno di questi era Marcos Paulo. Vi può sembrare incredibile? Tra quegli otto soltanto Marcos Paulo era compatibile. Aveva tolto una vita, ma per la grazia di Dio ne aveva restituita un’altra. Io sono grato a Dio per tutto questo. Dopo questa esperienza, Marcos Paulo ha chiesto di essere battezzato, poi ha fatto la Prima Comunione, la Cresima e io sono il suo padrino di Battesimo. Grazie.

MARTA CARTABIA:
Grazie Valdeci. Le storie e la ricchezza di esperienze che abbiamo ascoltato oggi non richiedono ulteriori commenti. Permettetemi però di sottolineare, di fugare qualche possibile equivoco: non è magia, nulla accade istantaneamente o con esiti sicuri e certi come con una pozione magica, non è nemmeno quello che abbiamo ascoltato un format, un meccanismo da replicare che ci dà esiti sicuri, non è neppure soltanto un richiamo morale al perdono, alla misericordia. Quante volte il nostro cuore si sente così incapace di perdono, di misericordia, persino di dimenticare il dolore dei fatti, di superare quello che ci ha profondamente ferito. Ciò che abbiamo ascoltato oggi mostra una strada possibile, un cammino percorribile che permetta di sperimentare, pur nel male, nel dolore, nei torti subiti, una vera convenienza umana che eviti a chi è coinvolto di rimanere pietrificato in un ruolo, di colpevole o di vittima, ma comunque pietrificato in un ruolo da cui non riesce più a uscire. È una strada percorribile, ma è una strada tutta da scoprire da parte di chi la deve percorrere. Mi sono imbattuta questa estate in una frase che vorrei consegnare a tutti voi perché trovo illuminante rispetto alla nostra condizione umana, parla di altre esperienze fondamentali del vivere, ma mi pare replicabile in modo puntuale anche nella strada della ricerca del diritto e della giustizia. È una frase di von Balthasar, che così dice: “Come il nuotatore deve sempre nuotare per non andare a fondo, nonostante che si sia reso sempre più magistrale nella sua arte natatoria, così anche l’amante deve vivere ogni giorno in modo nuovo e originale nell’amore e interrogare l’amore e così deve alla fine anche il conoscente porsi ogni giorno una nuova la domanda sull’essenza della verità, senza essere per questo uno scettico sterile e distruttivo”. Una ricerca continua, una energia indomita, un cammino inesauribile in ogni aspetto dell’esperienza umana e così nel mondo della giustizia. Non si tratta dunque di ascoltare queste novità di vita, questi fiori nati nel deserto, queste oasi nate nel deserto, per abbandonare la giustizia tradizionale. Sentiremo oggi pomeriggio, guidati dall’amico Paolo Tosoni, esperienze altrettanto affascinanti di Magistrati dell’ordinamento giudiziario italiano, toghe, ma si tratta di far tesoro di quell’esigenza di giustizia e di interrogarla continuamente, noi, nuotatori, amanti, conoscenti desiderosi di andare sempre più a fondo nella ricerca di quell’inesauribile bisogno di giustizia che mai si può placare. Ringraziamo sentitamente il Meeting perché in ogni circostanza, ogni anno, ci permette di avere uno spazio da cui possiamo uscire così arricchiti. Chi desidera sostenerlo tenga presente che è possibile farlo anche attraverso una donazione: per fare tutto questo occorre anche il supporto materiale. Ci sono delle postazioni denominate “Dona Ora”, in cui ciascuno di noi, come segno di gratitudine per quanto abbiamo ascoltato, può dare il suo contributo. Grazie a tutti intanto per quello che ci avete raccontato.

Data

24 Agosto 2017

Ora

11:15

Edizione

2017
Categoria
Incontri