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LA “GENIALITÀ PEDAGOGICA” DI DON GIUSSANI
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Carmine Di Martino, Professore ordinario di Filosofia morale, Università degli Studi di Milano; Timothy P. O’Malley, Director of Education at the McGrath Institute for Church Life and Academic Director of the Notre Dame Center for Liturgy, University of Notre Dame; Monica Scholz-Zappa, Docente di Scienze Linguistiche e Culturali all’Università Albert-Ludwig di Friburgo in Brisgovia. Modera Alberto Savorana, Responsabile attività editoriali di Comunione e Liberazione.
Nel discorso del 15 ottobre del 2022, nel giorno del centenario della sua nascita, Papa Francesco ha sottolineato la «genialità pedagogica e teologica» di Luigi Giussani. Singolare è il modo in cui essa si è espressa. Se l’irrefrenabile passione di comunicazione e di testimonianza conduce il giovane Giussani ad abbandonare la via accademica per gettarsi a capofitto nell’avventura educativa, non per questo egli rinuncia alla elaborazione coerente del suo pensiero. La novità di metodo e di contenuti della sua proposta, che sorprende e investe il mondo scolastico milanese e italiano a partire dalla metà degli anni Cinquanta, ha infatti precisamente a che fare con l’originalità del suo pensiero, che trova il terreno della sua ulteriore fioritura proprio nell’esperienza del nascente movimento di Comunione e Liberazione – ora diffuso in più di novanta Paesi nel mondo – e nel dialogo ininterrotto con generazioni di giovani (e poi di adulti) di ogni estrazione. I termini di tale proposta si rivelano ancora di più oggi nel loro carattere essenziale e profetico.
Con il sostegno di isybank e Tracce.
LA “GENIALITÀ PEDAGOGICA” DI DON GIUSSANI
LA “GENIALITÀ PEDAGOGICA” DI DON GIUSSANI
22 Agosto 2023 Ora 12:00
Auditorium isybank D3
Carmine Di Martino, Professore ordinario di Filosofia morale, Università degli Studi di Milano; Timothy P. O’Malley, Director of Education at the McGrath Institute for Church Life and Academic Director of the Notre Dame Center for Liturgy, University of Notre Dame; Monica Scholz-Zappa, Docente di Scienze Linguistiche e Culturali all’Università Albert-Ludwig di Friburgo in Brisgovia. Modera Alberto Savorana, Responsabile attività editoriali di Comunione e Liberazione.
Savorana. “Me lo ricordo come se fosse oggi. liceo classico Berchet, ore 9 del mattino, primo giorno di scuola. Ottobre 1954. Mi ricordo il sentimento che avevo mentre salivo i pochi gradini d’entrata al liceo. Era l’ingenuità di un entusiasmo, di una baldanza che mi aveva fatto lasciare la pur amata strada dell’insegnamento della teologia nel seminario di Venegono. Per poter aiutare i giovani, a riscoprire i termini di una fede reale”. Giussani, sono sue parole, si rivedeva quando raccontava il suo inizio nella scuola e si rivedeva in quel preciso istante “con il cuore”, disse, “tutto gonfio al pensiero che Cristo è tutto per la vita dell’uomo. Questo quei giovani ignari o dimentichi dovevano sentirsi dire. Questi”, diceva, “erano i pensieri, i sentimenti che si gonfiavano l’un l’altro in quel momento. Ricordo perfettamente la prima volta che sono entrato nella scuola in cui incominciò il movimento. Tutti erano divisi, erano come estranei, e, ciò nonostante, li amavo. Amare vuol dire avere passione per il destino della gente”.
Benvenuti a questo incontro sulla genialità pedagogica di Don Giussani che ha la sua origine in quei primi passi su quei primi gradini del Liceo Berchet quasi settant’anni fa. In collegamento dagli Stati Uniti perché l’anno accademico è iniziato e quindi non ha potuto raggiungerci ma è presente insieme a noi attraverso il web, saluto Timothy O’Malley. Lo chiamerò Tim perché in America tutti lo conoscono con questo diminutivo. Classe 1982 è professore alla Notre Dame University nello Stato dell’Indiana, dove è direttore dell’Istruzione e del Centro per la Liturgia. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla teologia sacramentale all’estetica teologica, dalla catechesi alla filosofia dell’educazione.
Mentre accanto a me su questo palco del Meeting di Rimini saluto Monica Scholz-Zappa che è docente di Scienze linguistiche e culturali all’Università Albert Ludwig di Friburgo in Briscovia e i cui interessi sono focalizzati su temi legati all’intersemiotica e all’antropologia culturale, così come sugli aspetti relativi alla filosofia del linguaggio e all’antropologia filosofica.
E da ultimo, Carmine Di Martino, che tanti qui conoscono come Dima, che è professore ordinario di Filosofia morale all’Università degli Studi di Milano e del suo lavoro di ricerca e di studio si è occupato della filosofia di Usserle, dell’ontologia di Heidegger, della filosofia francese contemporanea, del pragmatismo e dell’antropologia filosofica.
E allora abbiamo chiesto di introdurci o di approfondire, per chi già ne conosce qualche aspetto, alla genialità pedagogica ed educativa di don Giussani. Ma torniamo per un istante a Giussani che sale quei primi gradini del liceo Berchet. Oso dire che tanti di noi, oggi qui e nel mondo, sono debitori, dipendono in qualche modo da quei primi gradini che quel giovane sacerdote salì nel 1954.
Animato dall’affetto per quei ragazzi sconosciuti e che pure amava, dalla prima ora di scuola alla prima ora di lezione di religione, dichiarò subito le sue intenzioni. “Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che io vi do, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò. Le cose che io vi dirò sono un’esperienza che è l’esito di un lungo passato, 2.000 anni”. Ecco, il rispetto di questo metodo ha caratterizzato fin dall’inizio l’impegno educativo di don Giussani. Tanto che il 15 ottobre 2023, in una piazza a San Pietro piena per il centenario della sua nascita, Papa Francesco ne ha indicato un elemento inconfondibile. “Don Giussani” disse “aveva una capacità unica di far scattare la ricerca sincera del senso della vita. Dove? Nel cuore dei giovani, di risvegliare il loro desiderio della verità”. Nel primissimo testo che don Giussani pubblicò, allora sconosciuto, ai più, nel 1955-56 scriveva: “soprattutto un fenomeno attende e sottende l’arco vibrante della vita umana. È l’anima comune di ogni interesse umano, è la molla di ogni problema, è il fenomeno del desiderio che incarna quell’attrattiva profonda con cui Dio ci chiama a sé”, e in un’altra occasione disse che forse proprio questa insistenza era ciò che lo rendeva simpatico alla gente che incontrava. Per questo, nella prefazione al senso religioso, nella nuova edizione che reca la firma di Jorghe Mario Bergoglio scrive: “Per un uomo che abbia dimenticato o censurato l’ardente anelito del suo cuore, il fatto di parlargli di Dio risulta un discorso astratto, esoterico, o una spinta, una devozione senza nessuna incidenza sulla vita. Perciò non si può iniziare un discorso su Dio se prima non vengono soffiate via le ceneri che soffocano la brace ardente delle domande fondamentali, che sono nascoste ma che esistono”. In questo senso, in quel 15 ottobre, e questo è stata l’origine del titolo di questo incontro, il Papa ha riconosciuto che don Giussani è stato un padre maestro, servitore di tutte le inquietudini e le situazioni umane che andava incontrando. “La Chiesa”, disse, “riconosce la sua genialità pedagogica e teologica”. E per questo abbiamo voluto mettere a tema proprio questo aspetto centrale del pensiero, della vita, della proposta di don Giussani, che è tra l’altro uno dei temi decisivi della società di oggi, quello educativo. Una sfida che riguarda tutti, ma quanti ne sono consapevoli? Quanti di noi ricordano che nel 2019 Papa Francesco lanciò la grande proposta di un patto educativo per l’educazione, riconoscendo che è qualcosa che ci riguarda tutti, tutte le istituzioni pubbliche e private. Paradossalmente la pandemia sembra aver ovattato, nascosto quello che poi è riesploso come il problema della nostra società. Come educare? Per questo abbiamo chiesto a tre persone che a diverso titolo, in forma diversa, si sono imbattute nella proposta educativa di don Giussani di raccontarci, di dirci sinteticamente in che cosa consiste per loro quella che il Papa definisce una genialità.
Cominciamo da Timothy O’Malley, che a Chicago dove ci eravamo incontrati nel 2019 per un incontro sulla vita di Don Giussani, raccontò l’impatto che aveva avuto su di lui la lettura del libro più noto di Giussani, Il senso religioso, in cui aveva scorto l’originalità di un metodo che poteva essere utile per la drammatica situazione dell’educazione cattolica nel suo Paese. Ascoltiamolo.
O’Malley. Mi dispiace molto di non poter essere con voi a Rimini. Avrei veramente voluto venire dagli Stati Uniti ed essere presente a questo incontro con voi, ma è la prima settimana di lezioni all’università e la mia assenza è dovuta quindi al desiderio e la necessità di essere con i miei studenti nel primo giorno del corso di teologia sul matrimonio e la famiglia. Ho questi 260 giovani che mi aspettano e voglio proprio cominciare con loro.
Negli ultimi cinque anni gli studenti universitari mi hanno lanciato un segnale che merita di essere preso in considerazione. Soffrono di un’ansia debilitante: hanno l’ansia che ogni esame che sostengono sarà determinante per il loro futuro. Provano ansia verso quello stesso futuro, preoccupati di non trovare un amore o un’amicizia che li sostenga per tutta la vita. Questa ansia pervade tutte le loro interazioni sociali, l’impegno nello sport, nelle attività extra curricurali e anche nello studio stesso.
Parte dell’emergenza educativa che viviamo è rappresentata negli Stati Uniti proprio da quest’ansia, da questo sentimento di angoscia che colpisce gli alunni a scuola già dall’età di 6 o 7 anni. Ma che cosa sta succedendo e che cosa possiamo fare? Da quando ho letto per la prima volta Il rischio educativo di don Giussani, così come Il senso religioso, questi testi sono stati fondamentali per me per formarmi un’opinione sulle crisi educative che si sono susseguite.
E adesso vorrei soffermarmi su tre aspetti del pensiero di Giussani che illuminano e forse offrono un modo efficace per rispondere a questa crisi. In primo luogo, La situazione educativa offusca la nostra capacità di porci le domande trascendenti. In secondo luogo, la crisi educativa in atto è una sorta di crisi intellettuale; i giovani sono privi di punti di riferimento intellettuali, non hanno una tradizione coerente e quindi esistenzialmente significativa per dare un senso alla propria esistenza. In terzo luogo, questa crisi educativa sembra cancellare la loro possibilità di libertà umana, di agire; quindi, di creare culture in cui si vive la libertà.
Ma cominciamo in primo luogo dalla situazione educativa che offusca la nostra capacità di porci domande trascendenti. Nel senso religioso Giussani descrive la capacità religiosa della persona in questo modo e cito il suo testo: “Il fattore religioso rappresenta la natura del nostro io in quanto si esprime in certe domande. Qual è il significato ultimo dell’esistenza? Oppure perché c’è il dolore, la morte? Perché in fondo vale la pena vivere? O, da un altro punto di vista, di che cosa e per che cosa è fatta la realtà?” Ecco, il senso religioso si pone dentro la realtà del nostro io a livello di queste domande, coincide con quel radicale impegno del nostro io con la vita, che si documenta in queste domande. Nei capitoli successivi, nel Il senso religioso, Giussani individua vari modi in cui possiamo svuotare queste domande oppure ridurle a un’ideologia che ci allontana dall’avventura di confrontarci con la realtà.
Quando spiego questo scritto ai miei studenti spesso li sfido a pensare ai vari modi in cui possono svuotare queste domande oppure possono operare una riduzione ideologica. A differenza del contesto in cui viveva don Giussani nell’Italia degli anni ‘80, i miei studenti non sono preda di ateismo filosofico, né aderiscono a un’ideologia comunista, ma soffrono di qualcosa di altrettanto paralizzante, ovvero l’incapacità di riflettere sul significato di ciò che hanno davanti. Spesso si tratta di quello che Papa Benedetto XVI ha definito l’ateismo pratico. Vivono la loro vita come se le domande sul significato ultimo non li riguardassero.
Sì, vogliono un lavoro. Sì, vogliono innamorarsi. Sì, vogliono una famiglia felice. Ma raramente riflettono sulle domande più profonde che vi stanno dietro. Che tipo di lavoro mi permetterebbe davvero di vivere una vita di prosperità umana? Che cos’è l’amore? Come faccio a sapere se l’ho trovato? Che cosa significa avere una famiglia? E come questo può essere parte integrante della nostra vocazione? Ovviamente sono in grado di porsi queste domande, in realtà sospetto che questo loro vivere male, questa loro ansia, sia spesso dovuto al fatto che non si sono posti la domanda che gli viene dal cuore.
Semplicemente non sembrano avere il tempo di farlo, perché sono stati iniziati a una cultura frenetica, incentrata sul lavoro. Per essere veramente felici sembrano doversi concentrare su un orizzonte temporale di almeno vent’anni. Gli studenti poi ai margini, che sono poveri o hanno situazioni difficili a casa, hanno ancora meno spazio per impegnarsi in un atto di meraviglia contemplativa sul dono della realtà che hanno davanti.
Una soluzione educativa a questo dilemma, quindi, è il rallentare, incoraggiarli a rallentare. La domanda quindi è, invece che contribuire a questa cultura frenetica e non riflessiva, possiamo creare sistemi educativi in cui il nostro impegno sia basato sulla contemplazione e alla meraviglia?
In secondo luogo, la crisi di ansia attuale e a cui stiamo assistendo è causata da questa mancanza di riferimenti intellettuali e l’incapacità di comprendere la narrazione di cui siamo a parte. Il saggio Dopo la virtù di McIntyre è un invito a riconoscere la qualità integrale della storia nelle nostre vite. Noi siamo nati in narrazioni della famiglia, della nazione, della nostra pratica religiosa, ma se tutte le narrazioni però diventano sospette, se non c’è una tradizione con cui dare un senso alla nostra esperienza, allora diventiamo come dei senzatetto intellettuali, senza punti di riferimento, non abbiamo una storia e questo lo vedo nei miei studenti quando leggiamo testi del passato.
L’idea di fondo, almeno per la maggior parte dei miei studenti, è che i testi del passato; quindi, intendo che hanno più di 5 anni per loro, questo significa per loro testi antichi, siano sospetti perché non offrono proposte che valga la pena considerarle, perché sono troppo antichi per rifarsi al presente. Gli studenti, quindi, non hanno una tradizione per valutare la loro esperienza al di là di quanto hanno appreso in modo frammentario a scuola, in famiglia e nel mondo digitale che invece è proprio il mondo in cui si sentono a casa.
Inoltre, gli studenti che sono stati cresciuti in una tradizione spesso il cattolicesimo non sono spesso in grado di capire il significato e che questo ha rispetto alle loro vite nel loro Hic et Nunc e quindi si accontentano del fatto che la Chiesa abbia insegnato una particolare verità e quindi pensano che quell’insegnamento sia sufficiente a proteggerli dai pericoli della modernità. Ancora una volta trovo in Giussani una certa freschezza che risponde a questa crisi impegnandosi con la cultura, invece che farla diventare un’impresa settaria contra mundum.
Ne Il rischio educativo scrive: “La tradizione funziona per il giovane come una specie di ipotesi esplicativa della realtà. Non ci può essere una scoperta, cioè un passo nuovo, un contatto con la realtà generato dalla persona, se non per una determinata idea di significato possibile”. L’ipotesi di lavoro, in fondo, rappresenta quella certezza nella positività della propria intrapresa, senza cui nulla si muove, nulla si conquista. Così non può avvenire quel mirabile e rompere di scoperte, quel mirabile seguito di passi e quella catena di contatti che definiscono lo sviluppo, l’educazione di un essere.
Se riduciamo l’educazione alla lettura di libri antichi o alla gestione di problemi attuali, commettiamo un errore. Sì, il presente parte integrante della nostra condizione di essere umani. Noi non viviamo né nel passato né nel futuro, ma nel qui ed ora. È per questo che uno studente dovrebbe chiedersi, perché è importante legge Agostino o Bonaventura o Simone Weil? Che cosa hanno questi autori da dirmi adesso?
Il compito dell’educatore è proporre proprio questo tema con la totalità del suo essere. Queste figure ci parlano perché ci propongono qualcosa. Ci chiedono di esprimere un giudizio sui significati ultimi. La crisi che stiamo vivendo, che stanno vivendo i grandi libri o le materie umanistiche negli Stati Uniti, è dovuta al fatto di aver dimenticato l’importanza educativa della tradizione. Leggere Platone non è un antidoto a questo oblio, ma è necessario leggere Platone come un’ipotesi di lavoro, una proposta da considerare nel qui ed ora, nel Hic et Nunc. Per questo ci vogliono educatori che non si accontentino di trasmettere dati isolati, ma che siano filosofi interessati al significato ultimo di ciò che significa essere umani questi educatori devono ricevere una formazione adeguata e non solo capire la storia di un certo pensatore ma devono essere persone coerenti quindi che vivono e mettono in pratica loro stessi questa ipotesi di lavoro.
Per concludere, i miei studenti spesso sentono di non essere liberi di agire, di cambiare la situazione in cui vivono. Nel corso sul matrimonio parliamo spesso delle cosiddette frequentazioni occasionali, quelli incontri sessuali privi di senso, più che altro legati al desiderio di avere una relazione qui ed ora, ma che escludono qualsiasi impegno a lungo termine. Per la maggior parte di loro non ama questo tipo di frequentazioni, non le vogliono, ma non sanno cosa fare. Si sentono impotenti, anche nel seguire una carriera che in realtà non hanno alcun interesse a perseguire. Si sentono impotenti nel cercare di fuggire dalla violenza domestica o dalla sofferenza che subiscono a casa. Si sentono bloccati, non si sentono liberi.
Come ci ricorda Giussani ne Il senso religioso, “la libertà per l’essere umano è la possibilità, la capacità, la responsabilità di realizzarsi, cioè di raggiungere e affrontare il proprio destino. È l’aspirazione totale al destino”. La vera avventura della vita. è capire che non siamo bloccati, che abbiamo una ricca vita interiore in cui possiamo immaginare un tipo di mondo diverso caratterizzato dal dialogo e dell’amicizia e non dalla violenza e dalla colpa.
Papa Francesco nella sua Esortazione apostolica rivolta ai giovani parla di questo destino come vocazione. Ciò che facciamo ha un significato, ciò che facciamo ha un significato trascendente, una risposta di gratitudine al mistero dell’esistenza stessa. Di fatto questo è il tipo di cultura che siamo invitati a creare come educatori non basta chiedere ai nostri studenti di ripetere semplicemente quanto proponiamo loro; non basta nemmeno chiedere cosa significa per loro un’ipotesi ultima dobbiamo invece non solo invitarli ma vivere con loro la grande avventura dell’esistenza, della vita stessa. In qualità di educatore, sono molto attento al modo in cui gli studenti vengono da me con le loro idee su come vivere quanto è stato proposto loro in classe. Loro vogliono non solo qualcuno che pensi insieme a loro, ma che diventi un vero e proprio compagno di lavoro nell’affrontare la realtà. Vogliono una comunità e nell’ansia che pervade moltissimi dei nostri giovani non c’è forse una solitudine paralizzante?
Il compito educativo è quello di creare scuole, famiglie e altri apostolati dove possiamo imparare di nuovo che non siamo soli, non siamo gli unici a cercare di vivere il nostro destino. Insieme possiamo farlo, dobbiamo farlo e lo facciamo. Grazie.
Savorana. Grazie Tim per il tuo contributo. Don Giussani è stato veramente per migliaia di persone e misteriosamente continua ad esserlo ancora oggi questo compagno di cammino affidabile verso la realizzazione di sé. E forse questo è uno dei tratti della sua genialità. Monica, però aiutaci a entrare in questa parola che il Papa, tra le tante, ha scelto per qualificare la proposta di Don Giussani come quella di un genio pedagogico.
Scholz-Zappa. Buongiorno e grazie dell’invito. Vi confesso di un certo tremito che mi pervade perché, o fremito perché, mi trovo, ci troviamo non solo di fronte a un tema, ma ci troviamo di fronte all’opera di una vita, al sacrificio di una vita. E quindi è toccante il riconoscimento di Papa Francesco. E infatti, in questa affermazione, la Chiesa riconosce la genialità pedagogica e teologica di Giussani, questa parola, genialità, ha catturato subito la mia attenzione. Ed è da questa parola che vorrei partire come una perspettiva attraverso la quale inoltrarmi più nella genesi di alcuni contenuti che descrivono la pedagogia di Giussani.
La parola genialità suscita immagini come originalità, energia, unicità, straordinarietà. Ed è vero che Giussani è stata una persona extra ordinaria. È come se tutte queste immagini non riuscissero a restituire quel presentimento di un oltre che noi percepiamo quando usiamo la parola genialità in Giussani. E infatti, come dice il proseguo della frase di Papa Francesco: “si tratta di una genialità dispiegata a partire da un carisma che gli è stato dato dallo Spirito Santo per l’utilità comune”.
La domanda è dunque, che legame c’è tra carisma e genialità? Come si dispiega un carisma? Un carisma è un dono che Dio elargisce liberamente secondo i suoi benevoli piani. Ma questo dono è anche la chiamata viva a un rapporto, ad un compito che si incarna in una forma e in un contenuto. Cioè, è una dinamica di chiamata e di risposta. Una risposta non data solo all’inizio, ma durante tutta la vita. Non vi è nulla di meccanico in questo dispiegamento o di scontato come lo svolgersi di alcune premesse. Carisma e genialità sono in Giussani strettamente intrecciati. Il carisma stesso, per usare un termine di Giussani, è un avvenimento che solo una genialità può cogliere e plasmare.
Per questo vorrei allargare l’orizzonte del significato di quella che per me è la genialità in Giussani. Per cercare di evidenziare questo dispiegarsi come dialogo profondo, come virtù di un’amicizia concretamente ed essenzialmente inesauribile.
Parlare di genialità in Giussani di parlare prima di tutto di una disposizione, di un atteggiamento dirà Giussani nel 1998 a Roma all’incontro di movimenti con Giovanni Paolo II, fatto di un serrato dialogo quel dialogo vivo che era percepibile nel suo sguardo, quando fissava una persona cercando di capire non solo quale fosse il destino di quella persona, ma cercando contemporaneamente di capire cosa Dio attraverso quella persona in quel momento stesse dicendo a lui.
Una delle immagini più evocative che hanno cercato di descrivere questa genialità in Giussani ci è stata offerta dall’allora don Angelo Scola quando ha parlato di pensiero sorgivo. Ecco, rimanendo in questa metafora vorrei richiamare alla memoria una frase tratta da Il senso religioso, che non solo esprime la visione dell’uomo di Giussani, ma ci rivela la coscienza che Giussani stesso aveva di sé, della sua genialità, del sorgere del suo pensiero e della sua azione, la sua autocoscienza.
Ve lo cito: “è la percezione di me come un fiotto che nasce da una sorgente. C’è qualcosa d’altro che è più di me e da cui vengo fatto. Se un fiotto di sorgente potesse pensare, percepirebbe al fondo del suo fresco fiorire una origine che non sa che cos’è, è altro da sé”. Così, a dispetto di tutte le immagini, il paradosso di tale genialità in Giussani si chiama obbedienza. Nel senso di op-audire, ascoltare e rispondere alla voce di un altro attraverso le parole della realtà, attraverso la chiamata oggettiva della realtà della Chiesa.
Genialità come disponibilità, vigilanza, attenzione, essere tesi, come povertà di spirito. Quante volte Giussani ha ripetuto: “genera chi è generato”. Lui stesso l’ha vissuto in prima persona. Mi premeva questo affondo per introdurci al fatto che questo tipo di genialità ha veicolato nella forma e nel contenuto quei doni che via via sono emersi e che sono diventati, attraverso la sua riflessione critica e sistematica, anche la genialità di un pensiero e di una proposta di vita. Nell’azione – concetti come antropologia, educazione, pedagogia, didattica, proposte anche sociopolitiche in vista di un’educazione – convergono.
Ma ora, nel contesto delle parole del Papa, vorrei evidenziare questi aspetti più singolarmente nel loro dipanarsi nello spazio e nel tempo, proprio nell’emergere dall’interno di questo rapporto. Esemplificare questa genialità. Un primo riverbero che quella genialità ha suscitato riguarda lo sguardo alla struttura dell’umana, alla struttura dell’uomo, chiamiamola antropologia. Fin da piccolo, Giussani viveva un’accentuata curiosità, un’intraprendenza, un’attenta osservazione della realtà che lo circondava. Ma in particolare, dai ricordi che lui stesso ci ha lasciato, uno dei punti più vividi che lo hanno plasmato è stato il suo essere introdotto proprio alla coscienza di un rapporto, il rapporto tra il dettaglio quotidiano e il suo significato, tra il particolare e la totalità.
Quando la madre gli ricordava di pregare per chi è in difficoltà, quando la madre collegava la bellezza delle stelle con la grandezza di Dio, creava una sintesi portentosa, un legame, una religio, tra l’io e la totalità, tra l’io e Dio. Una sintesi che Giussani ha potuto incrementare in seminario grazie ai suoi maestri che lo hanno indirizzato ad approfondire proprio il legame tra la ragione umana e la grazia della fede, tra la domanda dell’uomo che è l’uomo e la risposta di Dio che è Dio.
Una sintesi che ha trovato il suo compimento nel bel giorno, in cui Giussani si è reso conto che quel legame era diventato nella storia una realtà presente. Il verbo si è reso carne una cosa dell’altro mondo in questo mondo. Proprio questa visione dell’uomo come creatura compiuta in Cristo, profondamente intrecciata con la sua vita personale, era anche il bagaglio con cui Giussani è salito su quel treno, che da Milano lo avrebbe portato a Rimini e da cui, quell’inesauribile dialogo in atto, avrebbe preso ancora una volta forma e contenuto.
Immaginiamo di salire anche noi su questo treno, fissiamo lo scompartimento come un fotogramma, fissiamo il luogo e il tempo in cui questa chiamata, questo compito prende una forma particolare. Ci sono dei ragazzi nello scompartimento, c’è chi si vergogna di parlare di questi temi, si schermisce, c’è chi vuole fare il fenomeno e quindi in un certo senso irride la vicenda cristiana, Giussani non solo per la tonaca che lo ha chiamato in causa, ma perché si direbbe oggi, era sul pezzo, osservava, ascoltava, non fa cadere la questione. Prende sul serio quella circostanza e si accorge che il problema non è a livello etico, bensì a livello di conoscenza. Egli parla infatti di ignoranza, li trova paurosamente ignoranti.
Avrebbe potuto usare un’altra definizione, dare tutt’altro giudizio e invece intuisce che il problema dell’affezione o disaffezione a sé e al proprio destino è soprattutto una questione di conoscenza. Qui e così scatta infatti quella che possiamo chiamare l’intuizione e l’intenzione educativa di Giussani.
E in questo senso, tale intenzione si è approfondita soprattutto all’interno dell’ambiente più sensibile e fecondo rispetto a questa intuizione, l’ambiente giovanile, quindi nella scuola, nelle parrocchie.
Ma sempre più si è trattato di una questione che riguardava e che riguarda tutti. Riguarda in prima linea certamente l’insegnante davanti ai suoi alunni o il genitore davanti ai propri figli. Ma la questione educativa riguarda il medico davanti al paziente, l’amico di fronte all’amico, riguarda lo sguardo davanti alla malattia e alla morte, riguarda me ora che sono di fronte a voi, riguarda la mia autocoscienza.
Affrontare la questione educativa a livello della conoscenza voleva quindi dire sia rimettere al centro la struttura umana intesa come legame, come senso religioso, ma soprattutto accompagnare i giovani alla coscienza di quel legame, alla coscienza del suo compimento, cioè alla loro autocoscienza. A Giussani è chiaro che affermare una religiosità di per sé non è sufficiente se non si arriva fino alla coscienza e alle ragioni di essa, alla coscienza di quella dinamica che costituisce l’uomo.
Come dire: avere coscienza del bel giorno fa parte del bel giorno. In questo senso, educazione è sinonimo di metanoia, una parola che sappiamo significa compiere un movimento, un percorso, osare il superamento di una visione naturalistica dell’io, ridandogli la dignità che gli compete di essere legame. Infatti, è meta nus, cioè pensare oltre, pensare sopra, cambiamento di mentalità. Recuperare dunque prima di tutto la coscienza di questa struttura umana come legame, cioè un’antropologia, e favorire una metanoia, una coscienza di sé, è oggi un compito più che necessario.
Ma come? Siamo nel 1953 e parlando con alcuni responsabili della pastorale diocesana, Giussani a un certo punto dice: “è molto giusta tutta questa enfasi e questo richiamo pieno di energia, ma occorre trovare un metodo per dirlo altrimenti non lo si capisce”. A noi occorre un metodo. Questo è il livello della questione.
Paradossalmente, questo potrebbe essere percepito ancora come una strategia in vista di un certo scopo e così potrebbe anche maldestramente venire applicato e quindi condannato ad esaurirsi. Invece la questione del metodo come la pone Giussani, non solo perdura, ma è una questione che esistenzialmente ci prende. È interessante ancora oggi, non decade, tanto che un Papa la rimette al centro e ci raduna oggi qui. Ma perché? Cosa ci prende di questo metodo?
È che questo è il metodo stesso del cristianesimo, è il cristianesimo, cioè quello di essere non solo via strada tra l’uomo e Dio, tra l’uomo e il destino, ma nello scandalo dell’incarnazione, quello di essere contemporaneamente verità e vita. È una strada, un metodo che è vita, è una vita che è metodo: è questa contemporaneità che ci affascina. Non c’è un prima e un dopo, non è l’applicazione di un principio, ma è già lì. È tutto tremendamente lì, nell’attimo che vivo. La via, la verità, la vita. Una contemporaneità della quale Giussani ha cercato di chiarire non solo la natura degli agenti in gioco, il senso religioso e l’avvenimento, ma anche la loro interazione.
Cito la risposta a un’intervista, perché mette a fuoco l’ulteriore contemporaneità degli agenti: “Pedagogicamente”, dice Giussani, “è soltanto di fronte alla risposta adeguata che la domanda viene percepita nei suoi fattori, nella sua verità. Quindi, prima la risposta, per poi soffermarmi nello spiegare la domanda. Tuttavia, ciò non è matematico, perché la domanda può essere confusamente presentita come insoddisfazione di quello che si ha. È un aspetto negativo che può essere premessa, ma nel gioco vivo, una volta stabilita l’insoddisfazione, è l’offerta di una risposta che fa percepire la domanda inerente all’insoddisfazione”.
È questa contemporaneità, di nuovo, di risposta e di domanda, e di domanda, come possiamo andare a rileggere l’intervento di Giussani a Roma appunto nel 1998, è questa interazione cui Giussani ha dato il nome di esperienza. Concetto decisivo, dibattuto, dibattuto anche oggi proprio per una possibile sua riduzione, cioè la riduzione del termine esperienza, lo sappiamo approvare, tante volte Giussani si è soffermato su questo.
Gli equivoci sono tanti ed è per questo che nel 1963, cioè dieci anni dopo quell’intuizione, dopo dieci anni di pratica, Giussani scrive le famose tre paginette indirizzate al futuro Papa Paolo VI anche per tranquillizzarlo proprio rispetto a possibili devianze e fissa i canoni il canone di questa esperienza che possiamo trovare al termine de Il rischio educativo, fatto appunto da incontro, grazia e coscienza della corrispondenza, di cui Dima in questi tre punti entrerà poi nel dettaglio.
Quello che mi premo sottolineare del termine coscienza della corrispondenza è che la corrispondenza, Giussani insiste nel sottolineare che è tra significati. Per compiere una metanoia non si tratta prima di tutto di una corrispondenza tout court, diciamo istintiva, meccanica, ma della coscienza della corrispondenza. Cosa significa?
Il rendersi conto in una certa situazione dell’emergenza di qualcosa di vero e di riconoscerlo. Una corrispondenza, perciò, di nuovo non con la realtà tout court, ma come un attraversamento della realtà di cui l’esperienza elementare è lo strumento in quanto originario, cioè ci obbliga a entrare nell’apparenza della realtà.
Se un giovane potrà, nella sua vita, arrivare a pronunciare queste parole, io sono tu che mi fai, con tutta la sua convinzione, con tutta la sua affezione, sarà spettacolo a se stesso e agli altri. Come ha vissuto Giussani stesso questa corrispondenza, questo dialogo? Come ha vissuto la sua genialità? Come sorpresa? Come senso di sproporzione? Come domanda? Come letizia? Come certezza? Quando un giornalista gli ha chiesto: “ma lei come si definisce?” Giussani ha risposto: – ritorniamo all’inizio – “Sono un gran poveraccio. Capisco che Dio mi ha fatto tanti favori nella vita, mi ha fatto vedere, sentire ed incontrare una vivezza di fede e di vita di Chiesa che è veramente grande. E alla luce di tutto questo mi avvedo di essere stato incoerente e generoso, ma non riesco a non essere entusiasta di ciò che Dio mi ha fatto pensare, sentire e incontrare”. Grazie.
Savorana. Anche Monica, come avete ascoltato, ha sottolineato questa dinamica educativa in Giussani che è un accompagnare i giovani alla scoperta del significato, che è fatto di un cammino lungo e diuturno e di tappe: Di Martino, ha lavorato in questi anni nell’approfondimento della riflessione sul pensiero di don Giussani e a lui dobbiamo la realizzazione di un progetto che la Fraternità di Comunione e Liberazione ha avviato in occasione del centenario della nascita di don Giussani dei tre volumi rispettivamente sul pensiero teologico, filosofico e pedagogico-sociale di don Giussani, l’ultimo dei quali, appunto, l’introduzione alla realtà totale è stato stampato proprio in occasione del Meeting.
E allora chiederei a te di introduci, evidentemente, nello spazio breve di un intervento che ci concede l’incontro di oggi alle parole chiave di questo percorso che, ripeto, è stato riconosciuto come geniale, non per il passato, ma per l’oggi, quindi per l’utilità comune del nostro cammino.
Di Martino. Grazie nell’invito della possibilità. Vorrei provare anch’io ad accennare a quelli che mi paiono i motivi della genialità pedagogica, in riferimento sia all’educazione alla fede, sia all’educazione in generale. Faccio un percorso in quattro nervose tappe e sperando di essere chiaro nella comunicazione.
Sono note già a moltissimi di voi le ragioni per cui Giussani abbandona la teologia, per l’insegnamento della religione nella scuola superiore statale. Grazie a numerosi dialoghi, io dico in brevissimo, si accorge di una sostanziale lontananza dei giovani dalla fede in un’Italia che però appariva massicciamente cattolica. La sua diagnosi era che alla radice di quell’allontanamento vi fosse una carenza di proposta e di metodo, con una insufficienza educativa, cioè, vi fosse un’insufficienza educativa che si connetteva a una debolezza di annuncio cristiano.
Prima tappa, primo titolo: Giussani pone il problema del metodo cristiano. Ciò che Giussani denuncia è un modo di proporre il cristianesimo che non rispetta i dati originali dell’annuncio. Quali sono? Con le sue parole: “un divino che si è fatto uomo, un uomo che mangiava, beveva, dormiva, che si poteva incontrare per la strada”. Le sue parole cambiavano dentro ma venivano dal di fuori, cioè, prosegue, “l’annuncio cristiano è un fatto integralmente umano secondo tutti i fattori della realtà umana, che sono interiori ed esteriori, soggettivi e oggettivi”.
Per Giussani, occorreva mantenersi fedeli a questa integralità, che è permanente, è strutturale all’annuncio, ed era proprio questa integralità, a suo avviso, a mancare. Alla radice della pedagogia giussaniana alla fede vi è cioè la vivida intuizione del fatto cristiano come realtà presente qui e ora, o in altri termini, che sono sempre suoi, la concezione del cristianesimo come avvenimento.
Un avvenimento accaduto 2000 anni fa, Dio si è fatto carne nel ventre di una ragazza di nome Maria, che permane nella storia proprio come avvenimento che accade e ci sorprende oggi. La nostra presenza qui lo documenta, “ci sorprende là dove viviamo e ha il volto della compagnia che da Cristo è nata ed è arrivata fino a noi, la Chiesa, suo corpo, modalità della sua presenza oggi, fatta di persone in carne e ossa guidata dal Vescovo di Roma. Si incontra pertanto il fatto cristiano oggi imbattendosi in persone che quell’incontro hanno già compiuto e la cui vita da esso in qualche modo è già stata perturbata, resa più umana, offrendosi pur dentro tutti i limiti carica di attrattiva e di promessa a chi ne viene in contatto”.
È questa riproposizione chiara e decisa del nucleo essenziale del cristianesimo che diventa in Giussani metodo di evocazione e di educazione alla fede. Genialità pedagogica, arte dei passi. Perché? Se si rimane fedeli ai connotati originali dell’annuncio, direi sbrigativamente, cambia tutto. Ciò che è accaduto 2000 anni fa, il cammino umano degli apostoli con Gesù, l’incontro con lui, lo stupore per la sua presenza, il seguirlo, l’assistere ai miracoli, il crescere della certezza in lui, la loro domanda su chi egli veramente sia, nonostante sapessero tutto quello che si poteva sapere su di lui. Ecco, tutto questo non è solo un’esperienza del passato ma è un’esperienza possibile nel presente.
La stessa esperienza, gli stessi passi, ora, allora, la stessa pedagogia a partire dall’avvenimento di un incontro, è esattamente come all’origine. Perché se Dio, il mistero, si è fatto carne, presenza integralmente umana, una presenza integralmente umana implica il metodo dell’incontro. Se invece i dati originali dell’annuncio non sono rispettati, tutto diventa metaforico o interioristico, l’incontro, lo stupore, il seguire, eccetera, che perdono la loro integralità, vengono cioè ridotti a qualcosa di metaforico o di meramente interiore. e la pedagogia alla fede non può svilupparsi adeguatamente. Si riduce facilmente, per esempio, in senso dottrinalistico o moralistico, oppure si riduce ai modelli socio-pedagogici e psicologici in voga.
Secondo passaggio e titolo: Giussani ha di mira una rivoluzione educativa. Ora, se il cristianesimo è un fatto, un avvenimento, esso è sollecitatore di tutti i dinamismi umani. Li impegna, li fa emergere, li rende visibili. Una pedagogia della fede non può essere estranea o parallela a una pedagogia dell’umano. Per Giussani, l’educazione cristiana porta al massimo i fattori costitutivi di un’educazione umana e insieme li chiarisce.
Cito: “La prima caratteristica dell’educazione dovrebbe essere quella di educere, cioè di dare libertà, di dare aria a quegli elementi che la natura, come in un seme, mette dentro l’essere che viene al mondo per realizzare la propria personalità. Educare e tirar fuori gli elementi. Ma allora, la prima cosa che importa in un’educazione, la prima preoccupazione che bisogna avere, sempre lui che parla, è proprio il rispetto, l’attenzione, la fedeltà a quegli elementi originali che la natura chiude nel seme umano, altrimenti si creano mostruosità, parzialità, oppure si creano sviluppi provvisori cui segue irrimediabilmente la morte”.
Per esempio, l’educazione alla fede non può essere parallela. Le dimensioni evidenziate per un’educazione alla fede, autorità, sequela, verifica, comunità, non possono non appartenere a un’educazione all’umano, se adeguatamente intesa. Perciò ho parlato di una rivoluzione pedagogica che Giussani vuole attuare rispetto al panorama in cui si trova ad agire.
Citazione da un testo del 1960: “ma quello che a noi preme è di cambiare l’educazione come tale altrimenti faremo sempre uno sforzo di 100 per avere 0,01% mentre con una educazione che cerchi di impostarsi rispetto ai fattori originari il dato originale dell’essere della persona i risultati sarebbero invece con molta più facilità Il 7, l’8, il 9 per cento”.
Terza tappa e titolo. Il rischio educativo. Giussani riflette a più riprese su una educazione che cerchi di impostarsi rispettando i fattori originari. Molte di queste riflessioni sono raccolte ne Il rischio educativo, che è la sua opera pedagogica più nota.
Rapidissimamente perché molti li conoscono già e poi leggendo Il rischio educativo potranno avere più in dettaglio: “Educare nel senso generale significa per Giussani introdurre un individuo alla realtà totale, ossia promuovere tanto lo sviluppo integrale di tutte le sue strutture, quanto l’affermazione di tutte le possibilità di connessione attiva di quelle strutture o la realtà”.
In vista di questo scopo, Giussani delinea quattro fattori essenziali. Il primo. Per educare occorre proporre adeguatamente il passato. sarebbe bello soffermarsi ma ho il monitor qui con i minuti che scorrono e quindi vado rapidamente. È un primo fattore che implica evidentemente innanzitutto la responsabilità dei genitori. Occorre che non si ritirino dal loro compito, non temano di trasmettere l’eredità, di proporre ai figli i significati e i valori che orientano la loro vita. Qui c’è un’osservazione molto singolare e bella di Giussani che dice che “il qualunquismo in famiglia produce uno scetticismo molto difficile da sradicare perché insinua il sospetto della inesistenza del senso e questo blocca la capacità di ricerca del giovane”. Secondo fattore, il primo trova il suo momento esistenzialmente mobilitante nella figura dell’autorità. “Il passato può essere proposto ai giovani solo se presentato dentro un vissuto presente che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore” – è Giussani che scrive – “Vale a dire, dentro un vissuto presente che dia le ragioni di sé, auctoritas, ciò che fa crescere”.
L’autorità nel pensiero di Giussani e nella prassi educativa di Giussani si staglia come la presenza in cui la ricchezza della tradizione si condensa esemplarmente. Comunicandosi in modo vivo, cosciente di sé delle proprie ragioni, nell’autorità si mostra la verità di un’eredità, di una proposta, di un annuncio, vale a dire la sua capacità di accordo con le esigenze ed evidenze umane originali e insieme di illuminazione del presente esistenziale.
Si diventa se stessi seguendo le autorità che si presentano lungo il nostro cammino umano. Ed è una legge che appartiene alla struttura universale dell’esperienza, una metodologia propria della dinamica naturale, dice Giussani. E vale per la vita intera, come sappiamo se viviamo riflettendo su quello che viviamo.
Terzo fattore, qui forse c’è una nota di sconcerto, “La vera educazione”, cito, “deve essere una educazione alla critica”. In Giussani è costante l’insistenza sulla necessità della critica, crino, vagliare, che consiste nel paragone tra la proposta che si riceve e quel complesso di esigenze di evidenza che caratterizzano originalmente l’umano per rendersi ragione di ciò che ci è stato offerto, per coglierne consapevolmente la verità. “Il ragazzo – scrive – riceve un’ipotesi dal passato, attraverso un vissuto presente in cui si imbatte, che gli propone quel passato e gliene dà le ragioni. Ma, egli deve prendere questo passato, queste ragioni, mettersele davanti agli occhi, paragonarle con il proprio cuore e dire, è vero? Non è vero? Dubito. E così, con l’aiuto di una compagnia, può dire sì oppure no. Così facendo prende la sua fisionomia di uomo”.
È significativa la denuncia di Giussani al riguardo: “Abbiamo avuto troppa paura di questa critica, veramente. Oppure, chi non ne ha avuto paura l’ha applicata senza sapere che cosa fosse non l’ha applicata bene. La critica è stata ridotta a negatività, mentre essa è, anzitutto, l’espressione della genialità umana che è in noi, una genialità tutta protesa a scoprire l’essere, a scoprire i valori”. Fine di Giussani.
Si evidenzia qui la differenza abissale tra educazione e omologazione, educazione e indottrinamento. Qui, nella sollecitazione alla critica, perciò, alla prima ora di ogni corso Giussani diceva le parole che Alberto, introducendo, ha richiamato: non sono qui perché eccetera.
Ora la critica si inserisce in un orizzonte più ampio che impegna tutta la persona e che si chiama per Giussani verifica. Giussani è perentorio. Cito: “Non basta proporre con chiarezza un significato delle cose. ne basta un’intensità di reale autorità in chi lo propone. Occorre suscitare nell’adolescente personale impegno con la propria origine, occorre che l’offerta tradizionale sia verificata e ciò può essere fatto solo dall’iniziativa del ragazzo e da nessun altro per lui. Questo è il vero problema dell’educazione, provocare l’impegno di energia e di azione necessario a verificare l’ipotesi. Senza verifica, la tradizione non può diventare convinzione, né essere respinta consapevolmente qualora ritenuta infondata”
Anche nell’educazione religiosa, Giussani ravvisava, oltre che in quella generale, la presenza di un certo razionalismo o intellettualismo pedagogico che considera tutto già fatto e risolto con la dimostrazione razionale, con la proposizione di formule esatte. Ma questa è solo la premessa, il primo passo. Cosa vuol dire verificare? Impegnarsi ad affrontare il reale, cioè tutta la problematica a cui lo sviluppo della vita espone in base alla proposta di significato, ricevuta, vista persuasivamente attraverso la presenza autorevole, per scoprire se e fino a che punto essa si dimostra chiave di volta per tutti gli incontri e profondamente riferita a tutto ciò che si vive, e quindi luce risolutiva per le esperienze.
C’è una condizione della verifica, ne cito una, sono tre, perché manca poco. È una densità di compagnia umana: “La critica e la verifica sarebbero velleitarie, pregiudicate in partenza, senza il sostegno di un luogo, di una comunità. Senza una densità di compagnia, non solo il ragazzo, ma l’adulto è troppo facilmente alla mercè di una reattività che oltre a essere endogena è stimolata ad arte dal contesto. Non vi è niente di più ostacolante per una effettiva personalizzazione della proposta di una impostazione educativa individualistica, intimistica o aridamente razionalistica, come in tanti casi anche quella religiosa”.
Oggi possiamo dire che questo individualismo si è piuttosto radicalizzato. Ultimo dei quattro fattori è Il rischio educativo, perché la verifica implica la libertà dello sperimentatore. E quanto più un educatore ama lo sviluppo autonomo della personalità dell’educando, tanto più amerà la sua libertà fin nel rischio, senza rifugiarsi in protettivismi dominati dalla paura o libertarismi disinvolti fino ad assomigliare a un disinteresse.
Ultimo delle quattro tappe. Educare: la questione capitale per lo sviluppo umano. Pochissimi hanno avvertito come Giussani l’urgenza educativa. In un incontro con gli universitari, osserva: “tutto ciò che è umano è frutto di un’educazione”. Come mai? Più volte Giussani cita un’opera di André Gide, Sinfonia pastorale, che contiene la storia di Gertrude la giovane sopravvissuta in uno stato di semiabbandono, in una condizione quasi animale, cieca, ineducata, al punto di apparire anche sorda e completamente ottusa. Proprio per rimarcare, con riferimento alla prima parte del romanzo, che, cito: “l’uomo si sviluppa per rapporto, per contatto con l’altro. L’altro tanto è originariamente necessario perché l’uomo esista altrettanto è necessario perché l’uomo sia veri, sia inveri, diventi sempre più se stesso. Il dispiegarsi dell’umano accade solo là dove vi è educazione”.
È l’educazione la chiave dell’umanizzazione della vita. Il problema capitale per il presente è l’avvenire di una società, il cardine di una civiltà. E bisogna anche dirla reciproca, però, e cioè che vi è educazione solo là dove vi è già l’umano. L’umano è cioè al tempo stesso un presupposto e un risultato, una struttura originaria nativa, come dice Giussani, e una attuazione storica, una condizione è un esito.
“Ora, che ciò che è umano non sia solo un’origine ma anche un risultato questo spiega il senso profondo e inderogabile dell’educazione, rende ragione della sua necessità. L’assetto di un individuo, di una comunità, di una società, di una civiltà si decide in questo spazio che va dall’origine all’esito. La strutturale necessità dell’educazione è inscritta in questa tensione tra l’umanità come presupposto e l’umanità come risultato”.
Tre frasi e chiudo. Nella prospettiva di queste considerazioni, cioè che non è indifferente la provocazione in cui cresciamo, gli incontri che ci fanno crescere, non sono indifferenti. Giussani ribadisce la portata del cristianesimo. Qual è? “è l’avvenimento di Cristo, è l’incontro storico con Cristo, è questa la forma della provocazione che mette compiutamente in azione la nostra umanità originaria, la svela in tutta la sua estensione, nel mentre vi corrisponde l’attiva al massimo grado, la porta a galla nella sua profondità ultima. Non si tratta solo di un contenuto dottrinale, ma di una esperienza storica da compiere oggi nell’incontro esistenziale, umano, concreto, con il volto che la presenza di Cristo assume là dove ciascuno di noi vive. Solo l’accadere di un incontro che provoca una chiarificazione e un’intensificazione dell’umano e della vita senza pari può aprire o riaprire a una scoperta vitale del cristianesimo, può fare riconsiderare i conti con esso”.
Di questo Giussani era persuaso e per il desiderio di essere strumento di una tale esperienza chiese di abbandonare la carriera teologica e di insegnare religione nelle scuole superiori. Meno male che l’ha fatto, altrimenti oggi non saremmo qui.
Savorana. Ecco, tutta la ricchezza di contenuto che oggi abbiamo ascoltato, il fascino di questa proposta, non è abbandonato al tentativo solitario di uno sforzo di realizzazione. Perché, grazie a Dio, il tentativo di don Giussani è possibile, oggi in un luogo: c’è un luogo che ha come suo compito eminente l’attivazione di questo umano che è in ciascuno di noi verso la scoperta del significato della vita, verso la propria realizzazione.
E allora io mi prendo trenta secondi per leggervi una frase di don Giussani che è come una grande premessa a tutto questo lavoro che oggi ci è stato indicato come il lavoro di educazione dell’umano alla vita e che significativamente il Movimento di Comunione e Liberazione ha proposto proprio come tema principale per accompagnare le vacanze di questa estate 2023 che rifluiscono nel grande contenitore, nel grande evento che è il Meeting di Rimini.
Dice don Giussani, e questa credo sia la premessa permanente di tutto lo sterminato elenco di punti del percorso e della proposta educativa di don Giussani: “Incominciamo a giudicare. È l’inizio della liberazione. Se si vuole diventare adulti, senza essere ingannati, alienati, schiavi di altri, strumentalizzati, ci si abitui a paragonare tutto con la propria esperienza elementare. In realtà propongo un compito non facile e impopolare, – e noi dobbiamo essere consapevoli di questo -. Di norma, infatti, tutto viene affrontato secondo la mentalità comune, sostenuta, propagandata da chi detiene il potere. La sfida più audace a quella mentalità che ci domina e che incide in noi per ogni cosa, dallo spirito al vestito, è proprio quella di rendere abituale in noi il giudizio su tutto alla luce delle nostre evidenze prime e non alla mercé delle più occasionali reazioni”.
Cos’è il Meeting, in fondo, se non un tentativo. Ed essendo un tentativo è continuamente perfettibile di rendere abituale, familiare, qualcosa che abituale, familiare, oggi non è più nella nostra società. Giudicare, che Giussani indica come l’inizio della liberazione, dell’io dall’omologazione, dall’alienazione.
E allora, per chi ha intercettato casualmente o intenzionalmente il Meeting di Rimini, come non capire la preziosità che una realtà come questa possa continuare a vivere? E può vivere solo se una, 10.000, 100.000 libertà raggiunte da questo suggerimento che può essere un soffio o una proposta eclatante sentono come rivolto a sé un invito, una promessa. E allora arrivare fino a toccare il portafoglio con assoluta libertà e senza pretesa, offrendo un contributo piccolo quanto si vuole ma decisivo perché questa realtà esista, è parte di questo inizio di liberazione. Allora vi invito, se non l’avete già fatto, a donare quel che potete, nei punti d’onora del Meeting, un contributo perché questa esperienza unica non per presunzione, ma per un mistero che ha scelto di consentire che questo Meeting continui ad esistere, possa crescere e continuare ad essere luogo di questa liberazione per tutti.
Ricordo che per chi fosse interessato ad approfondire o riprendere i temi di oggi c’è un sito che la Fraternità di CL ha aperto da anni che è scritti.luigigiusani.org dove tutte le fonti a cui oggi i nostri autori hanno attinto sono reperibili nella loro forma integrale. Ringrazio team dagli Stati Uniti, Monica e Dima e buon Meeting a tutti.