Chi siamo
LA FRATERNITÀ COME CATEGORIA POLITICA. UN NUOVO PARADIGMA DI FORMAZIONE
Ciro Cafiero, Giuslavorista; Alessandra Luna Navarro, Assistant Professor in Façade Design and Engineering, Università di TU Delft; Francesco Occhetta, Segretario generale Fondazione pontificia Fratelli tutti. Brevi interventi di Tommaso Galeotto e Giulia Milani. Modera Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione della Sussidiarietà.
Costruire una giustizia fondata sulla riparazione, pensare nuovi modelli per il mondo del lavoro e affrontare i cambiamenti climatici sono solo alcune delle grandi sfide con cui la nostra società deve misurarsi. Non possono essere vinte da soli. Papa Francesco, con l’enciclica Fratelli Tutti, ha indicato una strada: mettere al centro delle nostre azioni e relazioni la fraternità. Costruire nuovi modelli di politica e di società così orientati è possibile, ma occorre partire dalla formazione. Da più di dieci anni, Comunità di Connessioni offre ai giovani del nostro Paese un luogo di formazione che lavora sulle sfide della società e della politica, ripensando le categorie della politica mettendo al centro la fraternità e la dignità della persona.
LA FRATERNITÀ COME CATEGORIA POLITICA. UN NUOVO PARADIGMA DI FORMAZIONE
LA FRATERNITÀ COME CATEGORIA POLITICA. UN NUOVO PARADIGMA DI FORMAZIONE
Mercoledì 23 agosto 2023 ore 21
Sala Conai A2
Partecipano
Ciro Cafiero, Giuslavorista; Alessandra Luna Navarro, Assistant Professor in Façade Design and Engineering, Università di TU Delft; Francesco Occhetta, Segretario generale Fondazione pontificia Fratelli tutti. Brevi interventi di Tommaso Galeotto e Giulia Milani.
Modera
Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione della Sussidiarietà.
Vittadini. Buonasera. Benvenuti a questo incontro. Che si intitola La fraternità come categoria politica. Un nuovo paradigma di formazione. Ma al di là del titolo, in realtà questo non è un incontro con dei relatori e basta a un incontro con un soggetto, il soggetto della comunità di connessione che intorno a padre Francesco Occhetta, attualmente Segretario generale della Fondazione Pontificia fratelli tutti, ma grande professore, già vicedirettore di Civiltà Cattolica e insegnante, quindi con un grande curriculum di studioso e di come dire operatore sociale e politico all’interno della grande famiglia gesuitica ha costruito intorno a sé una realtà di giovani provenienti da diverse, da tutte le parti del mondo cattolico, con l’idea, tipicamente sussidiaria, che oggi la ricostruzione della società viene dal basso, mettendo insieme realtà che sono diverse come origine ma che convergono non solo al bene comune ma alla comune appartenenza ecclesiale, per fare di questo appartenenza ecclesiale un fattore di ricostruzione della società. Allora io vi voglio far capire la novità rivoluzionaria di questo fatto, perché io che comincio ad avere una certa età, ce l’ho già e appartengo però anche alla prima Repubblica, i primi i primi miti li ho fatti la prima Repubblica, appartengo a un periodo in cui se un ciellino incontrava uno dell’azione cattolica e uno dell’azione cattolica incontrava uno delle Acli e poi uno incontrare Sant’Egidio, erano come le guerre delle città medievali, Assisi contro Perugia, eccetera eccetera, come ai tempi di San Francesco, si era chiusi in appartenenze belle, solide, ma che guardavano l’altra appartenenza come un nemico. Non parliamo poi della grande balena bianca che, in modo anche meritorio, metteva insieme tutte queste realtà in realtà che chiamava correnti, ma che erano quei luoghi dove ai congressi uno diceva amico, mentre il suo collaboratore cercava di fregare l’altro contando le tessere. Quello era il mondo da cui veniamo. Abbiamo perso certamente tantissimo in termini di democrazia, ma forse abbiamo guadagnato qualcosa: che oggi quel mondo è finito, che l’appartenenza non vuol dire chiusura, l’appartenenza vuol dire apertura, vuol dire stima per l’altro, costruzione di qualcosa che va al di là del proprio gruppo e che invece e valorizzazione dell’identità in funzione di un’unità. Ma come avviene questo con delle teorie? No, non avviene con delle teorie, avviene dei fatti, avviene innanzitutto con la stima di persone, con gli incontri, con l’avvenimento, di qualcuno che conosce qualcun altro e questa è la mia esperienza personale con padre Francesco Occhetta, un incontro che poi è diventato un’amicizia profonda, radicale, al destino, una delle amicizie più grandi che ho, e nel suo caso la capacità di fare degli ognuno degli incontri che ha una realtà, la realtà che si incontra regolarmente mettendo a tema gli aspetti religiosi, culturali e politici, tutti insieme, nel rispetto delle identità, ma facendo di questi identità una ricchezza, quindi questa transizione verso una stima reciproca avviene attraverso la costruzione di questi luoghi. Questi luoghi sono il futuro, perché sono dopo l’epoca della, di quello che ho detto della prima Repubblica, non solo politica ma anche culturale, e l’epoca della disintermediazione, non solo politica, ma anche ecclesiale, della diaspora degli uomini soli al comando, l’inizio di una terza epoca, l’epoca in cui questi corpi intermedi vanno a ricostruire pian piano tutto fino alla politica e in particolare questo è un compito dei cattolici. Non c’è più il partito unico. Invece di questo partito unico ci sono queste realtà, come la Comunità di connessione, che stanno costruendo il futuro, dove il futuro nasce dalla stima personale, da una fede partecipata, da un approfondimento nel dialogo e quindi dall’interrogazione della politica della società per trovare risposte. Allora vi dico già prima di dare, di presentare ai nostri ospiti e dare la parola a padre Francesco, oppure se vuoi presentarli tu, che è meglio così e poi che questa è la prima tappa, quest’anno un po in ritardo, abbiamo costruito questa prima tappa al Meeting, ma ricordatevi che questa diventerà non una tappa, ma un Giro d’Italia, un giro del Meeting: ogni anno vorremmo rifare questo incontro con sempre più importanza magari l’anno prossimo, già facendo sì che questa realtà incontri tanti politici che arrivano e quindi invece di incontrare il Meeting, la Comunità. di connessione con la sua autonomia, possa dentro il Meeting, incontrare grandi personaggi e fare di questo un luogo, un appuntamento stabile in cui queste realtà insieme incontrano. Ma cominciamo dalla prima tappa, perché c’è sempre un inizio; quindi, do la parola a padre Francesco, come, perché come prima cosa presenti lui gli interlocutori che sono sul palco. Prego e innanzitutto lo ringraziamo con un applauso perché è un grande onore avere lui tra di noi.
Occhetta. Io non sento di meritare le tue parole. Giorgio, però quello che hai detto è certamente il frutto di un’amicizia, è quello che noi presentiamo, è un’amicizia che è nata anche dal Meeting e noi siamo un’esperienza di vita che ha una dimensione di comunità e una dimensione di formazione e abbiamo tre obiettivi che sono obiettivi semplici ma anche abbastanza ambiziosi. Attraverso la formazione vorremmo costruire o dare le possibilità a una nuova classe dirigente che non ha più luoghi per formarsi, di poterlo fare, in un livello sussidiario secondo, dove molti territori e molte esperienze anche della società civile sono virtuose, ma oggi sono sole, non sanno dove andare, non sanno dove formarsi e quindi possono trovare in quello che facciamo nel piccolo a Roma, nella chiesa del Gesù, un luogo è, diciamo, una rete relazionale. Perché oggi noi, è il titolo del vostro Meeting, noi siamo ricchi delle relazioni che abbiamo. Chi è ricco è perché è ricco di amici, lo diceva Aristotele e lo ha detto meglio il Vangelo di Giovanni al capitolo 13, quando dice, il Signore che non vi chiamo più servi, ma amici. E questo è un bene, un patrimonio che noi siamo chiamati a ridare, a ridonare, quindi, primo è cercare di formare una nuova classe dirigente fatta di volti. Il secondo punto è collegare esperienze di vita di persone che si impegnano, soprattutto giovani, che vogliono impegnarsi per il paese e connetterli tra loro e vincere la loro solitudine. E terzo punto e terzo punto, quello che vogliamo fare, è offrire un modello che non è nostro, ma è che è inclusivo, che ha funzionato per noi, che possa entrare nelle aziende, possa entrare, lo stiamo già vivendo questo questo esperimento possa entrare nelle diocesi, possa entrare nella società civile nel terzo settore. Allora adesso io darei la parola a Tommaso e Giulia Tommaso sta finendo il suo dottorato in diritto del lavoro. Giulia è una psicologa che lavora sui temi legati all’Alzheimer che ci presentano brevemente. Quello che noi siamo.
Galeotto. Grazie Francesco, grazie anche a Giorgio Vittadini per l’introduzione, ovviamente grazie al al Meeting. Allora, come già come già anticipato, comunità di connessioni è innanzitutto una un’associazione che raduna giovani da tutta Italia anche da tutta Europa. Appunto Alessandra viene viene dall’estero, ma anche tanti altri arrivano, arrivano da fuori e che offre appunto ai giovani un ciclo di incontri ogni anno mensile in cui approfondire quelli che sono i temi dell’attualità politica, la grande agenda della politica nazionale e internazionale ed europea, affrontando alcuni temi che, dopo abbiamo anche modo di approfondire, come ad esempio l’ambiente, il lavoro e la giustizia. Ovviamente, però noi non amiamo definirci semplicemente come un’associazione, ma innanzitutto come una comunità, come anche un gruppo di amici che pone appunto il tema dell’amicizia al centro del proprio agire, quindi della propria offerta, della formazione che dà ai giovani e al centro di quella che vuole essere la missione educativa, attraverso un modello che è stato affinato appunto negli anni da Francesco, dato che appunto l’associazione è stata fondata nel 2009 e che è giunta, diciamo a questa, a questa versione che adesso Giulia avrà modo di presentare.
Milani. Si, la nostra associazione si basa su un modello che si compone di più momenti, un momento di introduzione spirituale, la relazione degli ospiti che di volta in volta vengono a trovarci, laboratori politici. Per quanto riguarda l’introduzione spirituale, è il momento che dà inizio alla nostra giornata, perché il nostro modello si fonda su gesti e parole che hanno una radice spirituale. In questo momento noi impariamo a conoscere gli strumenti della contemplazione di un testo biblico, della meditazione e del discernimento, perché crediamo che questi siano strumenti che sono il fondamento di ogni agire politico, libero e responsabile. Sono gli strumenti che permettono di porsi delle domande: per chi si dona la vita nel campo della politica, qual è la scelta che bisogna operare per il bene comune? E si passa poi alla relazione degli ospiti: è il momento in cui noi ascoltiamo delle esperienze di professionisti. Negli anni sono stati i nostri ospiti, ministri, giudici, giornalisti che fanno esperienza di costruzione della democrazia e a questi ospiti si aggiungono spesso i volti della nostra Comunità, giovani professionisti che portano loro stessi testimonianza del loro lavoro e del loro studio e solo recentemente sono stati tra noi il professor Vittadini, che è stato con noi a gennaio per una relazione, e il Sottosegretario Mantovano, la professoressa Cartabia. Quindi nomi che risuonano, ma sempre affiancati da un volto della nostra Comunità. Si passa poi al momento dei laboratori politici che per noi è il cuore del nostro modello. I partecipanti si dividono in piccoli gruppi per lavorare su casi concreti inerenti al tema che è trattato durante la giornata, durante l’anno ci rifacciamo al modello della dell’antico modello della casistica gesuitica in cui dal caso concreto si arriva al principio generale in gioco e sono questi i momenti in cui ci educhiamo all’ascolto reciproco e alla condivisione e allo stesso tempo riusciamo anche ad allenare quegli aspetti di comunicazione che sono fondamentali per l’impegno politico e noi spesso chiediamo ai nostri partecipanti di mettersi nei panni di qualcuno che le decisioni politiche le deve prendere. Quest’anno, per esempio, abbiamo chiesto di immedesimarsi nei membri di una giunta comunale che deve gestire i fondi del pnnr oppure in un giudice della Corte costituzionale ed è sempre molto bello vedere cosa ne esce da questi lavori di gruppo. Ed è qui che arriviamo al momento finale, la condivisione in plenaria, un membro per ogni gruppo, espone le risoluzioni e poi apriamo il dibattito e questo è un momento di confronto ed è sempre molto interessante vedere come da un caso che è uguale per tutti, possano uscire tante idee diverse che sono frutto della pluralità dei volti che fondano la nostra Comunità. Infine, a conclusione della giornata, proprio perché lo spirito che ci muove è quello della fraternità, c’è un pranzo condiviso ed è questo momento in cui veramente le relazioni le connessioni si consolidano, si fortificano. Vi lascio facendo condividendo questo aspetto che ci emoziona sempre molto, quando noi, al termine del nostro anno, consegniamo un questionario per avere un riscontro sul lavoro che è stato fatto e sull’esperienza che è stata vissuta dai nostri partecipanti, emerge sempre una cosa che per noi è importantissima: l’aspetto che coinvolge di più i partecipanti è proprio quello che riguarda le relazioni, le testimonianze tra partecipanti, il networking ma soprattutto l’amicizia. Quello che desideriamo trasmettere con il nostro modello è quel desiderio di ritrovare quell’elemento fondante di amicizia all’interno di un’esperienza che dà valore, questo è connessioni.
Galeotto. Ed è proprio diciamo un po’ su sulla scia di questo, di questo modello di formazione che ci sono altri momenti che ci siamo dati nel corso degli anni per per esperienza di comunità, di connessioni, tra cui il il ritiro, che facciamo annualmente verso settembre ottobre a Monterosso, il Congresso di Monterosso per noi è un momento, un momento centrale, aperto appunto ai ai partecipanti della Comunità in cui ci diamo il compito di rileggere l’esperienza dell’anno passato per progettare e disegnare quello che è il nuovo anno, che la nuova fase in una tre giorni, diciamo piena di spiritualità in cui appunto riproponiamo i temi che affrontiamo anche durante l’introduzione spirituale degli anni in cui ci diamo il compito appunto, di pensare a quali possano essere i nuovi i nuovi interventi, nuovi temi e le nuove persone da invitare all’interno del percorso annuale. È ormai da qualche anno, da circa 3-4 anni, è anche attivo il nostro Magazine abbiamo fondato un piccolo magazine e grazie appunto anche all’aiuto prezioso di Padre Francesco, in cui settimanalmente condividiamo editoriali, approfondimenti, quindi coinvolgendo sia, diciamo i membri della Comunità, quindi grazie alle loro competenze, ma anche tutte le persone che abbiamo incontrato nel nostro percorso e con cui appunto siamo rimasti, siamo rimasti in contatto. Ed è in questo modo che in qualche modo l’esperienza di connessioni ha il desiderio, al desiderio di connettere, connettere, che cosa? Connettere territori, esperienze virtuose ma soprattutto amicizie per noi l’essere qua al Meeting è una testimonianza di quella che è l’amicizia, innanzitutto nostra, ma anche di un luogo che ci piace, che ci piace chiamare casa, che è appunto il Meeting, il Meeting di Rimini, grazie.
Occhetta. Quello che dicevano Giulia e Tommaso è un paradigma nel quale noi siamo chiamati però a scegliere quello che diceva Giorgio è proprio vero e anch’io ho accompagnato tutta la stagione degli anni ‘90 a morire e ne è nata un’altra. Dobbiamo capire come, diciamo così, sotto la cenere, far rifencondare quel fuoco che c’è nella società civile. Non è vero che non c’è, c’è e c’è anche tanto desiderio di molti giovani e non solo o anche di una della middle Age, insomma, di un’età media di impegnarsi. Allora noi abbiamo preso come paradigma il nostro nel nostro agire, quello che questo pontificato ci sta ponendo, diciamo come sfida lo ha posto al mondo, ma anche alle nostre vite che sono da una parte dell’ambiente come struttura olistica, come dimensione olistica, un ambiente da curare, dal nostro cuore alle relazioni che viviamo, fino alla dimensione più diciamo grande che è il rapporto tra gli Stati e il rispetto della natura. Ma c’è una sfida in più che dal 2020 abbiamo che è quella della fraternità. Cosa vuol dire fraternità per noi? L’etimo di fraternità vuol dire rinascere accanto a un altro. Il paradigma è questo, mentre abbiamo un mainstream che è quello della guerra, della violenza, del del rispondere al male col male, noi sappiamo che c’è un paradigma alternativo a questo, che è quello della fraternità, che non è un’idea zuccherata o diciamo così semplice e banale, ma è un’idea adulta per portare un nuovo paradigma e dare futuro ai nostri giorni come comunità e come Comunità anche di amici, se la nostra amicizia si dà e qui sono, c’è una ventina di connessioni, ma siamo un migliaio di ragazzi che sono, non sono tantissimi rispetto ai numeri del Meeting, però sono un migliaio di ragazzi che sono passati nei nostri corsi e hanno abitato nei nostri spazi e le nostre relazioni e perché noi cerchiamo di fecondare la nostra amicizia con un’amicizia più grande, che è quella con il signore con Dio e questa genera sogni, genera forza e genera fino a sperimentare, perché io l’ho visto, nuovi lavori, un modo nuovo di stare, un situarsi nuovo nel nella vita sociale, nella vita politica. Se fraternità vuol dire rinascere accanto un altro, il Papa sottolinea che non è fratellanza, perché la fratellanza è troppo semplice da vivere. Sono i legami di sangue o Legami tra amici che si accordano, ma anche le famiglie mafiose vivono di fratellanza. Noi invece vogliamo rilanciare la fraternità come paradigma politico perché siamo accomunati, direbbe Giussani, da un unico destino. Non ne abbiamo altri, noi dobbiamo scegliere ed è per questo che occorre, a partire da una dimensione sussidiaria di cui Giorgio è maestro, far rinascere l’impegno. E che cosa? Qual è il nostro slogan? Sono tre parole, volti, competenze e metodo, le competenze. Ritornare a studiare i problemi seri e adesso vi daremo un piccolo assaggio di come noi proponiamo anche di riforme al paese e i volti a connettere attraverso l’amicizia, volti che si vogliono impegnare e guardare allo stesso Orizzonte, perché l’amicizia rispetto all’esperienza dell’amore è una è, è più è inclusiva e ti permette di dire e non è, dunque non solo è inclusiva, ma permette anche di sommare forza e di costruire bene comune. E l’ultima cosa che volevo dirvi sulla dimensione della fraternità è che noi abbiamo solo queste due dimensioni: se si eclissa la fraternità ritorna nemico la violenza e il mainstream di oggi.Se si diciamo così, si investe sulla fraternità, allora ritorna a quella che il Papa pone come punto centrale della Chiesa, oggi, dopo il Concilio Vaticano II che è la compassione: il samaritano, è il paradigma, cioè che cos’è la politica? Organizzare i bisogni delle persone che non stanno bene, che sono state picchiate dalla vita, a volte siamo noi sdraiati, altre volte noi siamo chiamati ad aiutare. C’è chi però non si ferma e noi dobbiamo educare una società, a iniziare dalle scuole, a fermarsi davanti al bisogno, perché la politica deve rispondere a quel bisogno e deve riorganizzarlo. Se si arriva a non vedere più quel bisogno, vuol dire che l’altro per noi muore. E quando il secondo comandamento del decalogo muore in una società, allora si diventa tecné, tecnè e non c’è più umanità. E allora come si fa a far rinascere nella cultura, chiaramente non per noi, il secondo comandamento del catalogo: facendo muovere il cuore dalla compassione e vivendo. Ah, io ho una piccola esperienza di cui voglio accennarvi per chiudere. Il 10 giugno in piazza San Pietro con la Fondazione fratelli tutti abbiamo convocato 33 premi Nobel, anche non cattolici, che ci hanno detto che il tema che sta ponendo la chiesa e il Papa nell’ordine mondiale sulla fraternità è urgente e non possiamo più perdere tempo. Ce l’hanno detto persone che ci guardano e che non hanno questi paradigmi, che noi invece abbiamo e abbiamo la e pensiamo di poter vivere anche e sentendo loro non solo mi sono commosso, ma mi sono detto: allora davvero scommettere su questi paradigmi, sembrano appunto paradigmi lontani o teorici, ma che incidono nelle leggi nel nostro modo di stare e vivere le relazioni è fondamentale. Avevamo 8 piazze collegate in paesi poveri che ci han detto la stessa cosa, avevamo ragazzi che si sono presi la mano, di paesi, noi abbiamo 36 guerre in corso nel mondo, si sono presi la mano e han detto che la pace è più forte della guerra, attraverso la fraternità e la giustizia. E poi sono venuti nella bellezza che anche voi qui, nel Meeting la vivete e ce la presentate artisti di ogni parte del mondo sono venuti a cantare e a, testimoniare la fraternità. Noi dobbiamo collegare e tessere tutti questi punti per far nascere un processo, ma dobbiamo crederci, perché questo processo è già avviato, ma non è organizzato, non è organizzato, quindi nel piccolo noi siamo, diciamo così, un piccolo fermento di lievito che può connettere, e come fa l’enzima nei processi di digestione che mette insieme, diciamo così, ciò che va ricomposto. L’ultimissima cosa che voglio dirvi è questa. Noi quindi che cosa siamo? Vogliamo fare diventare cultura la fraternità. Siamo un luogo. Siamo relazioni, cerchiamo di essere delle competenze serie, cerchiamo di ridonare il metodo senza appartenerlo, senza pretendere che sia il nostro, e siamo fondamentalmente, diciamo così, un processo più che una casa, diciamo, abitata, un processo. Anche l’associazione che noi viviamo ribalta le associazioni che sono tutte in crisi oggi, ma custodisce un carisma, l’associazione. Quindi io quest’anno ho vissuto molto il tema della giustizia come riparazione, perché i nostri legami vivono delle rotture. Ma qual è il punto? Che si lacerano se incentiviamo queste rotture, ma si si possono ricomporre, ricomporre se noi come diciamo fanno i giapponesi, prendono ciò che si rompe delle ceramiche e le rimettono insieme, fondendole con l’oro puro che quest’arte che si chiama il kintsugi e noi vorremmo tentare di fare, questo e io questo l’ho imparato qui in mezzo a voi. Quando la professoressa Cartabia mi aveva invitato per parlare di giustizia riparativa, nel 2017 era partito questo processo. Che ha generato libri, ha generato un modo di stare insieme, questo modo di stare insieme, di concepire la giustizia. Con fondamento della fraternità ci ha permesso di parlare in questi anni di alleanze. Perché noi usciamo da una società che era conflittiva e si divideva e di partecipazione nelle aziende. Allora l’ultima cosa che voglio dirvi per passare poi la parola a Ciro Cafiero, che è un giuslavorista e che riflette sui temi del lavoro e ad Alessandra Luna, che si occupa di ambiente ed insegna in Olanda, e io vi volevo dire che noi siamo un po’ a vostro servizio e in maniera inclusiva, cioè noi abbiamo questo livello due dove si può arrivare e fare questa esperienza e ritornare nel territorio e rifondare nei territori per portare avanti questo processo è forse una piccola cosa? Forse sì, però non dobbiamo crederci perché io sono testimone in questi 12 anni di vita, diciamo di questa esperienza che sono nati i progetti, sono nati nuovi lavori, sono nati impegni. È nata poi anche tutta una seconda linea che aiuta ministri. Eh parlamentari a scrivere leggi forse non siamo visibili, ma la forza appunto del lievito crea processi, siamo ricchi degli amici che abbiamo, è quello che io auguro a voi.
Bene, diamo la parola a Ciro Cafiero che è il nostro giuslavorista.
Cafiero. Grazie, grazie, per me è davvero un onore, oltre che un’emozione, essere qui. E ringrazio tutti voi per la partecipazione, e per l’attenzione. Ringrazio tutti gli amici di Comunità di Connessioni che sono qui, siamo in tanti, abbiamo partecipato in tanti perché in tanti tenevamo a questo Meeting, il nostro primo Meeting. Ed è proprio vero quello che il professor Vittadini ci diceva, da quell’apertura nasce un’apertura alle idee, il nostro è un esperimento di sintesi tra idee diverse, e quindi oggi i nel segno di questa prospettiva vorrei provare a restituire le nostre riflessioni sul lavoro, che sono, sintesi di riflessioni diverse e quindi di idee diverse, per, in qualche modo, dare a voi il senso del nostro operato, di quello che durante tutti questi anni, grazie a padre Francesco che si è fatto enzima di processi, possiamo dire, virtuosi, abbiamo realizzato. In Comunità di Connessioni, tengo a dire, noi sperimentiamo quella quell’amicizia in tutta gratuita, come avrebbe detto don Giussani nell’operato normale. E allora partiamo dalla domanda che in qualche modo ha ispirato il il mio intervento e che è in linea con il titolo di questo Meeting, che è amicizia inesauribile. Mi ha molto colpito. L’amicizia inesauribile nel lavoro è una delle prospettive a cui noi guardiamo perché è il tempo delle alleanze contro il tempo del conflitto. E allora l’amicizia nel lavoro possiamo viverla, e vengo al tema che vorrei affrontare, secondo due dimensioni. Quella relazionale pura, diciamo, e quindi orizzontale, cioè tra colleghi, tra pari nel mondo del lavoro, e un’altra dimensione, quella più sussidiaria, quella operativa, come amava definirla don Giussani, intesa come una rete di relazioni dal basso verso l’alto. Secondo però un criterio appunto di sussidiarietà che vuole relazioni in grado di stringersi attorno all’impresa per aiutare l’impresa a superare le sfide del domani, dell’evoluzione della società. E il moto di prossimità che si sposa con questa amicizia inesauribile, quel moto di prossimità è amicizia. Il moto di prossimità, il moto dell’uno verso l’altro per rispondere a un bisogno è un incontro, un incontro tra due bisogni, in grado di decifrare i bisogni facendoci vicino all’altro. Ed ecco, padre Francesco ci ricordava il grande senso della fraternità, che non è fratellanza. La fraternità sta in un moto, sta nel moto del samaritano che aiuta il bisognoso a rialzarsi. E questo, diciamo, è uno dei punti, delle prospettive, che anche nel lavoro è quel diventare altro da sé, direbbe Lévinas, che anche nel lavoro noi ci siamo dati e che cerchiamo di incarnare nella nostra realtà quotidiana, perché il metodo di cui parlava padre Francesco ci spinge anche ad attuare quei principi che in teoria cerchiamo di elaborare sperimentandoli nel nostro vivere quotidiano, nel nostro operato normale. Allora vi chiedo la gentilezza di percorrere un sentiero, sarò molto breve, fatto però di quattro milestone, di quattro pietre miliari, la prima indica la dicotomia che ereditiamo dalla storia molto anacronistica, che oggi ancora inquina il nostro mondo del lavoro e l’ha plasmato. E’ il conflitto tra capitale e lavoro. La seconda pietra miliare indica invece i vizi che a causa di questa dicotomia attraversano ancora oggi l’organizzazione del lavoro. La terza dice invece le soluzioni guardando nel lungo periodo, quindi con uno sbalzo, uno sguardo sbilanciato al futuro, e c’è molto d’aiuto la dottrina sociale della Chiesa, ma anche l’idea di don Giussani, secondo cui il senso religioso realizza l’unità della persona che lavora. E invece la quarta pietra miliare, mi piacerebbe arrivarci molto presto, dice le soluzioni, cioè esempi pratici di come quell’amicizia inesauribile possa davvero sperimentarsi nel mondo del lavoro. Perché, lo ripeto, è nostro dovere e nostra cura incarnare nel quotidiano ciò che riusciamo a sperimentare in teoria. Partiamo dal primo punto, dalla prima pietra miliare, la dicotomia della storia. Il lavoro vive un binomio conflittuale, la storia l’ha condannato al binomio del conflitto tra capitale contro il lavoro. Sono note a tutti le riflessioni di Marx, nei manoscritti, nel capitale. Mentre Tronti, e mi ha colpito molto ciò che scriveva, nel passato scriveva: l’operaio non può essere al lavoro senza che ci sia contro di lui il capitalismo. Ed anche la pittura della cosiddetta schiena curva dice questa dimensione, da Courbet e da Pellizza da Volpedo è ritratto il conflitto nel lavoro. In questa dicotomia, hanno cercato di trovare degli spazi vuoti, ma non ci sono riusciti, i cosiddetti mediatori della storia, da Fourier a Proudhon, secondo cui il lavoro ha un aspetto soggettivo, libero e spontaneo, principio di felicità è un oggettivo, fatale, ripugnante e penoso, principio di servitù e abbrutimento. Allora è su questo binomio, e veniamo al secondo punto, che le organizzazioni del lavoro si sono rette. L’organizzazione fordista, ad esempio, che è figlia del primo capitalismo con la pretesa di superare lo schiavismo e quindi regolare i rapporti tra le parti, quindi questo conflitto tra capitale e lavoro ha finito per imbrigliare il lavoro negli ingranaggi delle macchine, negli ingranaggi delle catene di montaggio. Ha finito per spezzettare la persona come fosse un processo produttivo senz’anima, ma la persona è un universo in evoluzione, non è scomponibile, soffre di riduzione e parcellizzazione. Così come il paternalismo, che nasce e prospera all’interno del capitalismo, ha provato a governare il lavoratore con una aprioristica sfiducia nei propri talenti. E allora, fatta questa premessa, veniamo al terzo punto e poniamoci un interrogativo, cioè come far nascere e crescere la dimensione buona del lavoro, quella che Hegel nella sua fenomenologia definiva l’essenza della persona. La risposta non è complicata ed è attraverso la semplice consapevolezza che dietro il lavoro non c’è merce inanimata, ma la persona umana, e che ciascuna persona umana, anche nel lavoro, fiorisce grazie alla relazione, cioè grazie a quell’amicizia cara a don Giussani, grazie all’amicizia inesauribile. E allora, se anche il lavoro si trasforma in luogo di relazione, ciascun lavoratore fiorisce nell’altro, trova compimento, mette a frutto i suoi talenti. In altri termini, l’organizzazione deve liberarsi dei lacciuoli del fordismo e tramutarsi in organizzazione umana, in un luogo felice, in una comunità olivettiana. Del resto, la radice sanscrita del lavoro e rabh, che significa conseguire ciò che si desidera, che per molto tempo ha ceduto il passo all’interpretazione latina tripalium portare un peso. Rabh esprime invece, la radice sanscrita del lavoro, un desiderio di felicità. E’ questo ciò che ha intuito da molto la tradizione e la dottrina sociale della Chies. A sottolinearlo sono le molte, encicliche, la Rerum Novarum, la Populorum Progressio, la Centesimus Annus, la Laborem Exercens, ma anche l’esortazione apostolica di Papa Francesco, la Evangelii Gaudium, che vuole il lavoro libero, creativo, partecipativo, solidale. E allora possiamo trarre una prima conclusione molto importante, l’amicizia è necessaria e davvero necessaria, perché a prevalere sia finalmente la dimensione buona del lavoro. Ecco una delle prime necessità a cui l’amicizia risponde, ma forse tutto questo in questi giorni lo avete già sentito. E allora voglio aggiungere un ulteriore tassello. L’amicizia oggi è necessaria anche a salvare il lavoro, senza amicizia, se continuerà a prevalere la dimensione cattiva del lavoro, se il lavoro non si trasformerà in luogo felice, il lavoro scomparirà, morirà lentamente, come avrebbe detto Pablo Neruda. Ma perché? Ecco, chiediamoci il perché, ed è qui il punto nevralgico dell’intervento, perché oggi le giovani generazioni, quelle che sono appena dietro di noi, chiedono risposte a domande di senso nel mondo del lavoro, a domande che toccano la loro dimensione spirituale ma non trovano risposte. E quindi reagiscono abbandonando il lavoro. Ma a fare l’impresa, come noto, sono i lavoratori, e se mancheranno i lavoratori mancheranno le persone, mancheranno le imprese. È il fenomeno della Great Resignation, del Quiet Quitting, dell’abbandono silenzioso dei posti di lavoro per la grande insoddisfazione che i lavoratori trovano nei luoghi di lavoro. Secondo, infatti, il Global Rework Report nel 2023, circa il 33% dei lavoratori italiani pensa di abbandonare il suo posto di lavoro entro l’anno, e secondo l’Istat, nel maggio 2023 i NEET, cioè i giovani tra i 14 e i 35 anni che non studiano, non lavorano e non cercano lavoro sono quota sei milioni. Le nuove generazioni sono molto più consapevoli delle vecchie, lo dobbiamo dire con molta franchezza, le vecchie generazioni cercavano sopravvivenza, le nuove generazioni sono la ricerca di domande di senso. Le vecchie generazioni sono nate sotto il segno di della fatica, senza se e senza ma, quella stessa fatica dei padri che avevano ricostruito l’Italia della guerra e che aveva permesso il miracolo dell’Italia di quei tempi, quella classe operaia che è proprio per questa era andata in paradiso, come recita il titolo di un famoso film. Allora la domanda delle domande a cui le giovani generazioni chiedono di rispondere e una, e una sola, perché lavorare? Perché lavorare in una società fondata sulla facile libertà, a cominciare da quella della rete, allergica alla limitazione di spazio di tempo, di potere del luogo di lavoro, ai suoi doveri? in una società fondata sullo sharing che permette di condividere tutto a poco prezzo, dall’auto, alla casa, ai viaggi, su progettualità di breve periodo che non sempre contemplano il matrimonio e i figli. Ecco, l’amicizia intesa come risposta ad un bisogno spirituale, come quel moto di prossimità verso l’altro. Ed è questa la seconda conclusione e anche la soluzione necessaria per salvare il lavoro, e non solo e non più soltanto per far prevalere quella dimensione buona del lavoro. Ed allora, e chiudo, vengo a qualche esempio paratico perché altrimenti sembra tutta utopia o teoria. Le nuove risposte pratiche che le imprese, che le organizzazioni umane come le ho definite, devono dare per attrarre i giovani, per fare quelli che gli inglesi chiamano talent acquisition, e mantenerli, cioè per fare retention sono diverse. Provo a indicarne qualcuna. La prima, una compliance all’interno delle imprese che sia umana, che si tramuta in gentilezza e rapporti autentici, senza maschere. Purtroppo nelle imprese e le compliance spesso finiscono per irrigidire i rapporti, sono eccessivamente formaliste, e a queste e a, questi lavoratori si sono scoperti allergici. Due, un welfare tarato sui bisogni della persona e non più sui bisogni della collettività. I tempi sono cambiati, il bisogno della persona, ce lo dicevamo, attende risposta. Un welfare che risponda ai bisogni della classe, non del singolo e non della persona umana, come amava definirla Dossetti, è un welfare che è destinato a fallire. Tre, politiche, spinte di worklife balance, così torneranno anche a nascere i bambini, uno dei temi che più ci sta a cuore, uno dei temi che deve essere convitato di pietra in qualsiasi meeting è quello della denatalità del paese. Nel 2050 sono circa 300.000 soltanto le nascite previste. Perché non si fanno figli? Perché la conciliazione dei tempi di vita e del lavoro è ancora una chimera. La natalità non svetta dove c’è soltanto occupazione ma svetta dove l’occupazione e conciliata, dove una mamma ha il diritto, può vantare il diritto, di accompagnare i figli a scuola o di allattarli o di accudirli senza eccessivi limitazioni. Ed ancora, politiche di diversità e inclusione verso la parità di genere, versi disabili verso i più deboli, Più sicurezza e un’altra soluzione, un’altra risposta ai bisogni, con l’obiettivo di azzerare o ridurre le morti sul lavoro. Ed ancora, sistemi salariali incentivanti per il raggiungimento degli obiettivi. Ora non voglio entrare nella polemica, ma anziché di salario minimo ragionerei di salario giusto, non bisogna ragionare al ribasso e dobbiamo chiederci invece come ingaggiare i lavoratori con asticelle salariali al rialzo. La partecipazione finanziaria, per esempio, è una delle applicazioni di questo principio, in realtà è la S di ESG, il Social delle politiche ESG che le imprese in questo periodo stanno promuovendo con forza. E concludo, allora, utopia no di certo, il capitalismo ha spesso cambiato pelle, l’ha cambiata durante le guerre, l’ha cambiata durante il Covid, e quindi a tornare. Devono essere quei Faussone di Primo Levi che con la gru toccavano la polvere di stelle, quei lavoratori felici di Simone Weil, quegli artigiani gioiosi di
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E allora voglio concludere davvero con una riflessione che cerca di sintetizzare quello che ho provato a restituire. Una comunità felice sviluppa naturalmente desideri di generare, integrare, accogliere, mentre una società infelice si riduce ad una somma di individui che cercano di difendere a tutti i costi quello che hanno, e tante volte si dimenticano di sorridere. Non sono certe parole mie ma di Papa Francesco. Grazie a tutti.
Occhetta. La parola ad Alessandra Luna Navarro.
Navarro. Buonasera e grazie professor al Vittadini per questo invito, e soprattutto a tutti voi che, anche se è tardi, siete qui ad accoglierci ed ascoltarci. Anch’io vorrei seguire sulla scia della fraternità e invece parlare di transizione ambientale. E vorrei partire con delle immagini, immagini che abbiamo tutte molto vicine, molto fresche nella nostra memoria. Le immagini degli eventi estremi, che hanno colpito anche quest’estate i nostri territori qui in Emilia Romagna lo scorso maggio. Incendi in Sicilia e molti altri. Questi eventi ci ricordano con ancora più urgenza che la transizione ambientale deve essere rapida e sistemica, ovvero, in poche parole deve avvenire il prima possibile e dobbiamo arrivarci tutti insieme nella transizione. La SIMA ha contato ben 243 eventi estremi solo tra il 2022 e il 2023. Quando leggiamo di transizione ambientale nei giornali, sentiamo in televisione, vediamo solo la punta dell’iceberg, ovvero sentiamo parlare sempre di policy politiche di mitigazione e adattamento. Le politiche di mitigazione sono tutte quelle che sentiamo e che riguardano il mitigare il nostro impatto sul cambiamento climatico, ad esempio il passaggio a fonti energetiche rinnovabili, queste mitigano il nostro impatto sulla crisi climatica. Le politiche di adattamento, invece, sono quelle che poniamo in atto per adattarci al clima che cambia, quindi, partendo dal presupposto che il clima sta cambiando, ad esempio abbiamo estati sempre più calde. Ora l’adattamento e la mitigazion non sono lo scopo, il fine, della transizione ambientale sono dei mezzi. Lo scopo, la visione, l’orizzonte della transizione ambientale è invece quella di difendere, tutelare la dignità umana nel rispetto del pianeta, nel rispetto della salute del pianeta, ovvero rimettere in discussione quelli che sono i modelli di crescita che abbiamo avuto fino adesso nei limiti di una biosfera che è sempre più delicata e va protetta. Però questa è la visione della transizione, e la dignità umana e la salute del Pianeta; quindi, le politiche e le policy non servono soltanto a tagliare emissioni, devono arrivare a questo obiettivo comune. Ora il cambiamento climatico non è da solo, si accompagna ad altri grandi fenomeni emergenti. Ne nomino tre. Una popolazione urbana, nelle nostre comunità ci sono sempre più anziani e allo stesso tempo sempre meno spazio per i giovani negli organi decisionali. Questo è una, è un fenomeno che chiama ad un’alleanza generazionale. In secondo luogo una comunità sempre più diversa, in senso ampio, piena di culture differenti, con punti di vista diversi ma che chiamano ad un’alleanza multiculturale con obiettivi comuni, come può essere ad esempio la tutela della dignità umana e della salute del pianeta. In terzo luogo, abbiamo sempre più forti disuguaglianze economiche, e questo anche chiama ad un’alleanza, ad un aiuto. Ora, se mettiamo a sistema tutti queste tre, questi quattro fenomeni. La crisi climatica, la comunità urbana sempre più diversa, ma anche anziana, con un ruolo dei giovani da ridefinire e disuguaglianze economiche sempre più marcate, ci rendiamo conto che la transizione ambientale non può che partire innanzitutto da una comprensione profonda di quella che è la domanda. Sì, la domanda di energia, di servizi, di giustizia, di lavoro, che una comunità ha per proteggere la dignità umana, e soltanto nel ricomprendere quella che effettivamente sono i presupposti, le domande che ogni comunità ha per arrivare a questi obiettivi possiamo formulare risposte efficaci che rispettino anche la tutela del pianeta. I cambiamenti che dobbiamo vivere nella transizione non sono uguali per tutti, ognuno di noi, anche in questa sala, ha barriere, problemi, esigenze, presupposti della transizione ambientale che sta affrontando e sono tutti diversi. Quindi non può e non deve esistere una soluzione comune. Abbiamo già appena ricordato quanto sia diversa adesso la nostra comunità urbana, anche territoriale. Quindi dobbiamo superare l’idea che esista una soluzione semplice, anzi la transizione ambientale non potrà avvenire con cambiamenti facili spontanei, ma c’è uno sforzo grande da fare. Il rischio grande che stiamo per correre e che nella transizione ambientale, invece di risolvere queste disuguaglianze, invece di ascoltare la pluralità di voci che compongono le nostre comunità con esigenze diverse, rischiamo di rendere più acuti e i dissidi, i conflitti, le disuguaglianze. Facciamo un esempio, la transizione ambientale ha un costo, ha un costo economico abbastanza grande. Se non prendiamo, se non mettiamo a sistema, la diversità che la nostra comunità ha all’interno rischiamo di distribuire in maniera non giusta i costi della transizione. Ho un altro esempio, un policy maker, un politico che si trova di fronte alle necessità di dividere il consumo delle risorse naturali che sono sempre più limitate, ad esempio l’acqua o altre materie prime, per esempio. E’ chiaro che corriamo il rischio di aiutare i pochi e non condividere le risorse con i molti, quindi è proprio in questo rischio che la Fraternità gioca un ruolo chiave, perché, come ha ricordato anche Francesco, nella dichiarazione della Fraternità Umana, inizia proprio dicendo: siamo diversi, siamo differenti, e l’unico modo che riconosciamo per vivere in pace è quello del dialogo, dell’ascolto. E anche questo è un modello che è essenziale nella transizione. Ora la Fraternità della Transizione Ambientale può sembrare molto teorica, come riusciamo nel concreto a tradurlo nella transizione ambientale? Come diceva l’economista Matthiessen occorre rendere le persone capaci di cambiare; quindi, quello che gli anglosassoni chiamano capacity. Abbiamo bisogno di creare capacity di fraternità nella transizione ambientale. Come riusciamo a fare questa cosa? Bisogna creare i presupposti tecnici, legali, economici, finanziari perché le persone si ritrovino intorno allo stesso tavolo ad affrontare i problemi, le barriere e le sfide della transizione. Molto concretamente abbiamo sentito parlare spesso di comunità energetiche, questo è un esempio molto chiaro di un’alleanza che si può creare in una comunità per condividere risorse energetiche. Ci sono ancora esempi più forti, per esempio la progettazione partecipata, e questo è un modello che si sta espandendo tantissimo all’interno dell’Unione Europea, perché per esempio appoggiata dall‘European Bauhouse dell’Unione europea, perché vede proprio gli attori, i protagonisti, di ogni comunità attorno allo stesso tavolo a progettare insieme una soluzione ambientale. Questo significa che, ad esempio, uno spazio urbano è progettato sia per le esigenze dell’anziano che per il giovane che per il bambino, che il verde è accessibile a tutti e sicuro per ogni esigenza. La progettazione partecipata è un enzima per rendere le persone capaci di fraternità, in questo senso. Non basta però creare strumenti. I cambiamenti portano con sé rischi. Il rischio c’è sempre quando progettiamo edifici nuovi, infrastrutture nuove, nuovi spazi. Il rischio di per sé non è un problema, il problema è che, se non è gestito nel cambiamento genera incertezza e l’incertezza paralizza la transizione, il cambiamento. Quindi secondo passo fondamentale è applicare, rendere le nostre città dei laboratori dove possiamo mettere in pratica in maniera rapida tutti questi modelli che creiamo di progettazione partecipata, di comunità energetiche, per raccogliere dati, evidenza, esempi e capire dalle lezioni del giorno per giorno quello che funziona e quello che non funziona, cosa dobbiamo portare avanti e cosa dobbiamo ripensare. Dobbiamo rendere le nostre case, le nostre città, i nostri spazi dei laboratori. Per avere esempi,casi studio che ci aiutano a gestire il rischio, l’incertezza. Credo che l’ultima conferenza per il clima ci abbia dimostrato che siamo sempre, in più paesi a sederci intorno al tavolo a parlare di transizione ambientale. Sempre due persone partecipano. Eppure la strada è ancora lunga per viverla in fraternità, dobbiamo veramente tutti insieme renderci capaci di fraternità nella transizione ambientale. Grazie.
Vittadini. Il giorno in cui è morto Papa Giovanni Paolo Secondo Ratzinger era a Subiaco, e riprese un concetto che don Giussani aveva sviluppato un po’ di anni prima, Prendendolo dal filosofo MacIntyre. Era quello delle minoranze creative. MacIntyre diceva che la ricostruzione dopo la caduta dell’Impero Romano non era nata per grandi impeti, ma per piccole comunità che avevano condiviso la preghiera, il lavoro, la riflessione. Carlin Petrini, che viene da tutt’altra tradizione, prima ha ricordato che ha ricostruito l’ambiente mostrando un esempio ante litteram del rapporto equilibrato tra uomo e ambiente. Io vengo da una regione che è fatta fisicamente nella bellezza naturale da questo. E Ratzinger riprese questo discorso dicendo che il futuro sarebbe stato quello delle minoranze creative, che il cristianesimo, diventato minoranza in molte parti del mondo, non ha più con una egemonia politica, sarebbe ripreso da questi luoghi educativi. Allora non furono molti ad essere d’accordo, come non lo furono con don Giussani. Anche tra eminenti porporati si diceva che fosse un passo indietro, era un momento in cui si rinunciava ad un’azione di influenza, e ci furono tentativi molto diversi, per esempio di influire sulla vita politica attraverso non un impegno diretto di un partito ma di influenze culturali che andavano a trattare valori e altro. Io rimango dell’idea che più passano gli anni, più questa intuizione di don Giussani di Ratzinger si dimostra fondata, perché poi la Chiesa come organizzazione potrà evidentemente trattare con deputati cristiani su questo tema o su quell’altro tema, perché nel breve periodo si possano ottenere dei risultati, ma nel lungo periodo il percorso è quello dell’io. E di un io che è un io relazionale. Perché dico questo? Perché noi siamo veramente come in una faglia, quelle faglie dove sono i terremoti. È la fine di un’epoca. Non solo con la caduta del muro sono finite le ideologie politiche, ma con il crollo del sogno dii una pax augusta di un paese l’idea che si ricostruisca a livello mondiale attraverso grandi disegni egemonici. La guerra dell’Ucraina ne è un segno, ma ce ne sono tanti, quelli africane, altre. Non è così. Anche chi credette che la caduta del muro avrebbe portato ad una. Automatica affermazione di chi non era comunista, portò il nichilismo. Oggi non crediamo neanche in questo. Ed è crollato il neoliberismo, perché l’idea che l’egoismo dei singoli attraverso la mano invisibile porti al benessere collettivo o l’idea di Comte dell’inizio dell’Ottocento su cui fonda la sociologia sull’idea che le scienze umane non devono avere un soggetto, devono essere la fisica e la chimica, è crollata, non sta in piedi, non spiega più il mondo. La crisi ambientale, ma a non solo la crisi ambientale, la disuguaglianza, il problema dell’energia, l’incapacità a reggere in sistemi senza crisi periodiche. Le pandemie dicono che non esiste una mano invisibile che regge, non solo perché è invisibile, ma forse perché non c’è neanche la mano, e che l’egoismo non porta al benessere collettivo. Quindi noi siamo alla fine di grandi ideologie politiche, di grandi ideologie economiche e non abbiamo all’orizzonte grandi pensieri. Anche la profezia di Fukuyama della fine della storia si è rivelata una colossale bufala. Allora cosa rimane? Rimane che queste minoranze creative sono dei luoghi dove pian piano si ricostruisce nel micro di punti di pensiero, di azione, di condivisione. Una visione nuova perché, come è stato detto prima, la prima cosa che nasce sono legami, relazioni e rapporti in cui il soggetto che porta un cambiamento nasce. Da che cosa? Da quello che Papa Francesco dice e le encicliche di cui una la Fondazione di cui è segretario padre Francesco Occhetta, in cui il paradigma antropologico è diverso, è un paradigma positivo, è l’io relazionale, è l’io che costruisce, è l’io che è legame. Ma non secondo un’ideologia, secondo un’esperienza secondo la possibilità che nascano amicizie, ma amicizie che riflettono, che vivono. In fin dei conti il Meeting nasce da qui, perché il Meeting nasce da una minoranza creativa che un giorno di quarantacinque anni fa si trovò a Rimini, Emilia Smurro e suo marito e altri, e dissero: ma cosa facciamo di una città in cui passa tanta gente e non succede nulla di positivo, di missionario? Incontrarono don Giussani e pian piano questa minoranza creativa diede vita a questo. Altre minoranze creative hanno costruito il pensiero politico e culturale di chi ha fatto la Repubblica. Oggi quella di cui abbiamo sentito è questa minoranza creativa, che sta crescendo pian piano, non solo come numero. Ma perché è innanzitutto un luogo reale di relazioni, di amicizia. Come quella del Meeting. Di amicizia che però non è solo emotiva, è un’amicizia che vive di comunanza spirituale, di riflessione culturale e quindi di progettualità. Sbaglia chi giudicasse una minoranza incidente sulla storia, perché la minoranza ha una caratteristica, ci vuole del tempo, è lunga. Ma è inesorabile, perché non cresce solamente in grandezza, ma cresce in profondità, consolida tra queste amicizie delle visioni comuni che dopo le cadute generano un altro modo di pensare l’economia, la sanità, l’educazione, i rapporti internazionali, i rapporti tra pubblico e privat, la politica, la stessa visione di come può essere un partito, la democrazia. Allora noi stasera abbiamo sentito, non l’inizio ma in atto, in visione, la costruzione di questa minoranza creativa che può solo crescere. E incontrandosi con altre minoranze creative costruisci un altro modello di storia che poi potrà evidentemente coniugarsi con il pluralismo politico tipico di una democrazia, con la costruzione di partiti che si confrontano in momenti elettorali, ma che ha alla sua base delle amicizie che riescono a innervare punti comuni di questi partiti. E quindi a ricostruire una democrazia e una società che ha dei punti comuni anche tra pensieri diversi. Questo è forse quello che è mancato all’inizio della seconda Repubblica che ha voluto pur dire l’alternanza politica, l’idea che oltre all’alternanza ci volessero questi luoghi capaci di costruire delle unità che rimangono. E ce ne sono tanti che conosco anche di tipo politico, vedo qui in prima fila Francesco Magni che è stato e che è animatore a Milano di un’altra realtà, di questo tipo, di giovani, che sono impegnati in partiti diversi ma che condividono il tentativo di costruire dei percorsi comuni. Quindi noi stiamo guardando un metodo, come è stato detto, fatto da volti che nel paragone costruiscono un altro modello di democrazia e di società. Sbaglierebbe chi, al quarto minuto del primo tempo, dicesse che non ha ancora visto la partita. Perché questo quarto minuto già implica il metodo. Io penso che questo metodo presentato stasera sarà il metodo che fra un po’ di anni. segnerà la ripresa certamente del nostro paese, perché inesorabile, e vorrà dire che oltre alla democrazia partecipata tradizionale, che si incontra al voto, avrà luoghi che crescono anche al di là delle elezioni e costruiscono questa democrazia sussidiaria. Fatta di pazienza, fatta di costruzione, fatta, di inclusione, fatta di stima verso altri tentativi. Io non ci sarò, perché fra un po’ ho finito, ma chi va avanti potrà vedere come questo è un metodo, un metodo interessante, un metodo che ha profezia. Per questo allora, come dicevo all’inizio, oltre a esserti amico e partecipe in tutti i modi durante l’anno in qualunque modo, come ho sempre detto a Francesco, vogliamo fin da adesso dire che questa enunciazione di quest’anno l’anno prossimo dovrà essere un grande incontro Meeting. Lo condivido perché ne abbiamo già parlato col Presidente del Meeting Bernhard Scholz, che dovrà confrontarsi con la politica, mostrare già i suoi segni di cambiamento, quindi arrivederci al prossimo anno, ma arrivederci a fra domani per andare avanti insieme, grazie.