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LA DIPLOMAZIA DI FRANCESCO. LA MISERICORDIA COME PROCESSO POLITICO
Partecipa Antonio Spadaro, Direttore de La Civiltà Cattolica. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.
LA DIPLOMAZIA DI FRANCESCO. LA MISERICORDIA COME PROCESSO POLITICO
ALBERTO SAVORANA:
Buon pomeriggio e benvenuti a questo incontro nella giornata conclusiva del Meeting “Tu sei un bene per me”. Lo scorso mese di febbraio, padre Antonio Spadaro, gesuita Direttore de La Civiltà Cattolica, ha scritto sulla sua rivista un lungo articolo che ha dato il titolo a questo incontro, si intitolava infatti: “La diplomazia di Francesco: la misericordia come processo politico”. Già la cosa aveva destato in me e in alcuni amici una grande curiosità, perché sembrava introdurre nella lettura delle misericordia, a cui il Santo Padre ha dedicato un anno santo straordinario, un elemento nuovo che in qualche modo costringeva a interrogarsi. Poi leggerlo ci ha entusiasmato e lo abbiamo inseguito per alcuni mesi per averlo al Meeting e io sono gratissimo che abbia anticipato il suo ritorno dalla Svezia per essere con noi nella giornata conclusiva del Meeting.
Vedete, in quell’articolo che ci ha entusiasmato, lui ha fatto questa operazione: ha letto i tratti della diplomazia della misericordia del Papa ripercorrendo momenti, fatti, tappe di questi tre anni di pontificato. Oggi noi possiamo consentirci attraverso il tuo intervento di cogliere più in profondità, con più consapevolezza, il metodo che ci ha guidato, che è il modo con cui il Papa entra nella storia. E allora questo metodo costringe, sta costringendo tanti a interrogarsi, a rivedere criteri, atteggiamenti con cui solitamente si accostano le vicende del mondo. C’è un dato di novità che non possiamo ignorare, ce lo ha ricordato il Papa nel messaggio che ci ha fatto avere attraverso il cardinale Parolin per il Meeting: “Di fronte alle minacce alla pace e alla sicurezza dei popoli e delle nazioni, siamo chiamati a prendere coscienza che è innanzitutto un’insicurezza esistenziale che ci fa avere paura dell’altro, come se fosse un nostro antagonista che ci toglie spazio vitale e oltrepassa i confini che ci siamo costruiti”. Oggi ascolteremo da Antonio Spadaro qual è questa risposta del Papa, qual è il contributo che il Papa sta dando alla vita dell’uomo oggi, delle nazioni, dei popoli di fronte alla terza guerra mondiale a pezzi.
Io credo che prendere consapevolezza di questo metodo che vediamo nel Papa sia molto importante in questo momento della storia, un momento della storia che il Papa non si stanca di ripeterlo non è un epoca di cambiamento ma è un cambiamento d’epoca. Siamo di fronte a qualcosa che non era mai accaduto prima e la riposta deve essere all’altezza di questa provocazione, di questa sfida, di questa attesa, perché per il Papa la fede non è fuori dalla storia e Cristo non è un ornamento, qualcosa che abbellisce in qualche modo le nostre case. Tanto che arriva a dire che anche il linguaggio della politica, addirittura della diplomazia, deve lasciarsi ispirare dalla misericordia. Ascolteremo adesso come questo si concretizza nell’agire del Papa, e questo è quello che abbiamo chiesto a Padre Spadaro di aiutarci ad approfondire, questa dimensione pubblica, politica del metodo con cui Dio agisce nella storia. Altro che ritiro nelle sacrestie, inincidenza storica, altro che privatizzazione della missione della chiesa, perché vedere incarnato in un uomo, il Papa, il metodo di Dio e sentire dire a lui questo della misericordia, forse ci deve indurre a rivedere qualcosa nel nostro modo di pensare e di agire. Allora ti chiediamo, Antonio, di aiutarci a prendere più consapevolezza, perché tutta la nostra vita vuole collaborare con questa missione del Papa, che è la stessa per cui abbiamo fatto il Meeting anche quest’anno.
ANTONIO SPADARO:
Grazie Alberto e grazie a tutti voi, siete qui l’ultimo giorno del Meeting alle tre del pomeriggio, è davvero un’impresa eroica, quindi grazie e soprattutto una premessa, le cose che dico non le ho ancora capite, quindi abbiate pazienza, è un tentativo di comprendere quello che sto vedendo che accade davanti ai miei occhi. L’esperienza che sto facendo, quindi quello che vi comunico, è un contenuto di idee, di riflessioni ma sono riflessioni che nascono dall’esperienza, quindi vi comunico il mio block notes di riflessioni, di pensieri che riflettono l’esperienza che vedo ma che non capisco fino in fondo, da un certo punto di vista dico fortunatamente. Io non sono un esperto di geopolitica, non lo sono mai stato, ma mi sono appassionato davanti al fatto che il messaggio cristiano, come ha già detto bene Alberto, dice qualcosa alla storia di tutti gli uomini, cioè non è un messaggio ideologico per un gruppo di eletti, ma è un messaggio che dice qualcosa alla storia dell’uomo di oggi. E mi ha colpito in modo particolare una cosa, l’11 gennaio scorso. Voi sapete che il Papa tiene ogni anno un discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, in questo discorso Papa Francesco ha citato la misericordia otto volte. Allora, quando noi pensiamo alla misericordia pensiamo ad un buon sentimento cristiano, o meglio questo era ciò a cui io ho sempre pensato, lo ammetto con candore, quindi vedere declinare questa parola misericordia, all’interno di un contesto politico, diplomatico, quindi geopolitico, mi ha profondamente colpito. E poi ha anche detto, queste sono parole del Papa, “la misericordia è stata come il filo conduttore che ha guidato i miei viaggi apostolici, già nel corso dell’anno passato”. Quindi chiaramente l’itinerario dei viaggi apostolici del Papa è stato segnato dalla misericordia e la misericordia ha un valore politico e geopolitico. Allora ho cominciato a riflettere in che senso si può affermare che la misericordia abbia un valore politico? E qual è questo valore politico? In che modo la misericordia va intesa come una forma dell’agire politico o dell’agire diplomatico e quali sono i tratti di questa diplomazia della misericordia all’interno dell’intelligenza politica che Bergoglio sta esprimendo? Ricordo con grande chiarezza quello che mi disse un amico molto caro del Papa, Omar Abboud, che è un mussulmano argentino: “Il 13 marzo del 2013 non è stato eletto solo il Papa della Chiesa cattolica, ma è stato eletto anche il leader morale del mondo”. Questo mi ha molto colpito, e anche questo ha bisogno, detto da un mussulmano, tra l’altro, di chiarificazione. Allora ho cercato, come dire, di rendermi conto di questa dimensione poliedrica, di ricostruire questa figura geometrica complessa, dalle molte facce, della misericordia. Allora proverò a descrivere questa figura geometrica poliedrica così come appare ai miei occhi. E la prima definizione è questa: la misericordia è un processo drammatico e terapeutico. Nella sua prima intervista, l’intervista che mi diede nel 2013 per Civiltà Cattolica, il Papa mi disse: “Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia”. Quindi come la forza della misericordia si manifesta nel tempo? Poiché il Papa, in un discorso fatto all’inizio dell’anno, disse che in fondo la pienezza del tempo cioè quando Gesù è venuto sulla terra, non era affatto il tempo geopoliticamente propizio per Israele, perché era sotto la schiavitù romana, allora dobbiamo concludere che i tempi della misericordia non coincidono con quelli che la geopolitica considera favorevoli. Il tempo della misericordia non è il tempo della pace, non è il tempo bello in cui tutti i rapporti con le nazioni sono sereni e distesi. Al contrario, il tempo della misericordia si manifesta nel dramma, nel tempo drammatico e conclude Papa Francesco in questo suo discorso: “Non è dunque alla sfera geopolitica che si deve guardare per definire il culmine del tempo”. Per Bergoglio la pienezza del tempo è la presenza di Dio nella storia, non un insieme di fattori umani favorevoli, è l’esperienza gloriosa che si manifesta nella nostra drammatica esperienza storica. Allora capite perché Francesco, sempre in quella famosa intervista del 2013, mi disse che la chiesa è un ospedale da campo. Capite il dramma che c’è in questa definizione, non mi ha detto “la chiesa a volte deve essere un ospedale da campo”, no, ha detto “la chiesa è”, quindi una definizione ecclesiologica. E questo gli viene dagli Esercizi spirituali, quando S. Ignazio, nella seconda settimana degli Esercizi, fa vedere all’esercitante, a colui che prega, il mondo con gli occhi di Dio e che cosa vede Dio? Vede un campo di battaglia nel quale, scrive, S. Ignazio, alcuni sono in pace, altri in guerra e gli uomini cosa fanno? Ferire e uccidere. Allora il Papa prosegue usando questa metafora, con due immagini liquide, quella del fiume e quella dell’oceano. E dice che nel mondo c’è un fiume di miseria che sembra trascinarci verso l’Apocalisse e che tuttavia nulla può contro quell’oceano di misericordia che inonda il nostro mondo. Il Papa è molto concreto nel vedere questo fiume di miseria nel quale ci troviamo, però nello stesso tempo questa immagine liquida del fiume viene assorbita all’interno di questo oceano, che è molto più grande del fiume, che è come se in qualche modo inondasse il fiume di miseria. La presenza misericordiosa di Dio può mutare un tempo di miseria geopolitica nella pienezza del tempo cristiano. Questa è la potenza politica della misericordia, mutare il significato dei processi storici.
Mutare il significato della storia, sciogliendone le fangosità e travolgendone i detriti. Francesco sa perfettamente, non è un idealista, è un realista, un uomo molto concreto che ama la realtà, e sa perfettamente che la pace non esiste. La pace in astratto non esiste, l’uomo non ha mai vissuto la pace, la conflittualità è un elemento caratteristico della natura umana, quindi l’uomo deve sempre affrontare il conflitto, il conflitto è ineliminabile nella dinamica dei rapporti umani e quindi anche di quelli internazionali. Ma sa che la misericordia può cambiare il mondo, ecco allora che comprendiamo la traiettoria dei viaggi di Francesco. Vi ricordate cosa Francesco ha fatto al muro di Betlemme, vi ricordate questa immagine? Ad un certo punto il Papa, era a Betlemme, è sceso dalla macchina e si è recato presso quel muro che divide ebrei e palestinesi e che cosa ha fatto? Qualcuno lo ricorda? Ha detto qualcosa? No. Ha appoggiato la testa e ha messo la mano.
Vi ricordate che cosa ha fatto ad Auschwitz, davanti al muro dell’esecuzione? Ha appoggiato la mano, non ha detto nulla. Io ero lì, ad Auschwitz e stavo aspettando l’arrivo del Papa dall’interno. Ad un certo punto si è visto un uomo vestito di bianco, nel silenzio più totale, varcare il cancello. Non ha detto una parola, è stato finalmente libero, il primo Papa libero di dire nulla davanti alla tragedia. Era quello che avrebbe desiderato fare Benedetto XVI che però, da tedesco, non poteva fare, come lui stesso ha detto.
Ha appoggiato la mano. Qualcuno mi ha chiesto: “Ma che cosa voleva fare il Papa poggiando la mano su questo muro?”. Francamente non sapevo cosa rispondere, perché è un gesto che il Papa ha fatto spontaneamente, non era previsto dal protocollo, non era prevista questa sosta. Me lo ha chiarito, però, il mussulmano citato prima – interessante questa cosa, per capire il Papa bisogna chiedere ad un mussulmano qual è il significato del suo gesto. Mi ha detto: “Beh, Gesù, cosa faceva? Toccava i malati per guarirli. Ecco il Papa fa lo stesso, tocca i muri per risanarli”. Il Papa tocca fisicamente i muri, gli piace toccare i muri, perché sa che i muri sono ferite e li risana. Ma così è avvenuto anche simbolicamente in Corea. Il Papa è andato in Corea e non ha mai parlato di Corea del Nord e di Corea del Sud, ma ha parlato di un Paese unito dalla lingua madre, perché ciò che ci unisce è la madre, e la lingua è una madre. E allora andando lì, alla frontiera, tra un popolo diviso in due pur essendo uno, ha toccato invisibilmente questa ferita aperta.
Così è avvenuto a Sarajevo, dove i muri sono ancora segnati dalle pallottole, non a Mostar dove ci sono i cattolici. Qualcuno ha detto: “Il Papa però ha sbagliato, è stato consigliato male, doveva andare a Mostar non a Sarajevo, i cattolici sono là!” Nno! Il Papa non va semplicemente dove ci sono i cattolici, il Papa va dove c’è una ferita aperta, che è ancora aperta perché la vuole risanare, perché vuole appoggiare la mano di Cristo su quella ferita. E così è andato a Lampedusa, porta d’Europa, cosa ha donato a Lampedusa? Ha donato a Lampedusa,, un grande enorme crocifisso che ora si trova nella parrocchia e chi gli ha regalato questo crocifisso? Glielo ha regalato Raul Castro, a Cuba. Quindi il crocifisso di Cuba è andato a Lampedusa, Lampedusa porta di Europa, Cuba porta d’America. Qui avete riflettuto al Meeting sul rapporto Cuba Stati Uniti. Cuba, il Papa è andato a Cuba, altro muro che è diventato ponte. Io mi ricordo, quando siamo arrivati lì, il primo discorso che il Papa ha fatto a Cuba, proprio all’inizio. Ha detto “Cuba ponte tra nord e sud, tra est e ovest”. Io ho detto: “Che è ’sto ponte tra est e ovest?”. Non avrei potuto mai immaginare che poi sarei tornato a Cuba, dopo pochi mesi, perché lì c’è stato l’incontro tra il Patriarca di Mosca e il Papa. Tra est e ovest e lui già lo aveva in mente: ponte tra nord e sud, tra est e ovest. Quindi Cuba altro muro che diventa ponte.
E che dire di Bangui? io vorrei stare un’ora a parlare di questo viaggio africano, dove Kenya e Uganda sono state tappe importanti ma il cuore di questa tappa era la Repubblica Centroafricana, era Bangui. Il Papa era in aereo e davanti alla domanda di un giornalista che gli chiedeva “Santo Padre, davvero andremo a Bangui?”, perché le notizie erano terribili, c’è stato quasi un terrorismo psicologico perché il Papa non andasse, lui ha detto: “Voi fate quello che volete, io ci vado anche se dovessi andare col paracadute”. Benissimo, allora non mi dilungo su questo, ma tutti dicevano: “Non ci sarà nessuno per strada”. Ebbene, non ho mai visto gente più felice di quella povera gente di Bangui che diceva: “E’ venuto il Papa, siamo salvi”.
Ragazzi, quattro o cinque ragazzi sul motorino che facevano la scorta al Papa, Papa che ha voluto con sé l’imam della moschea di Bangui e insieme hanno attraversato il km 5, questo quartiere terribile dove è avvenuto di tutto, gli episodi più sanguinosi sono avvenuti lì.
E infine cito ancora Ciudad Juarez, al confine tra Stati Uniti e Messico. Concelebravo a quella messa nell’altare Papale, e davanti a noi c’era il Messico, accanto a noi c’erano gli Stati Uniti e la gente era raccolta lì, dietro la grata di divisione, ad ascoltare la messa.
Anche lì la ferita, il muro è diventato un ponte. Questo è il primo punto, la misericordia come processo drammatico e terapeutico. Il Papa viaggia per toccare ferite e per porre la sua mano su quelle ferite, come Cristo ha messo la sua mano su quelle ferite. Questa è misericordia.
Seconda faccia di questa misericordia politica, la misericordia come realismo non determinista. Cosa voglio dire? In estrema sintesi è quello che anche il Papa poi ha detto a voi, qui al Meeting. La misericordia a livello politico significa non considerare mai niente e nessuno come definitivamente perduto, questo nei rapporti personali ma anche nei rapporti tra nazioni, popoli e Stati. Questo è il nucleo del significato politico, non dire mai “ormai questa situazione è persa, non ci si può fare più nulla, è irreconciliabile”. La misericordia impedisce che questo possa avvenire. La misericordia riorienta le acque del corso della storia e spalanca gli argini stretti del determinismo. Questa apertura è stata resa quest’anno molto ben evidente dall’apertura di migliaia e migliaia di Porte Sante. Anzi la prima Porta Santa è stata aperta proprio a Bangui e non a Roma, altro evento straordinario. Ma sono state aperte porte di tutti i tipi, una di queste per esempio è stata aperta in Georgia, qui c’è una mostra sulla Georgia dove Monsignor Pasotto, non avendo potuto costruire una chiesa, ha costruito una porta, e c’è una porta senza la chiesa. Si attraversa la porta e si entra e si esce, è una porta di legno che è in mezzo ad un prato. Allora tutto diventa porta, in questo anno santo che è diventato un mondo santo, tutto il mondo diventa una porta. Ci sono delle catapecchie che sono diventate luoghi in cui c’è una Porta Santa, ci sono delle stazioni, che è la stazione di Roma, che ha la sua Porta Santa. Tutto il mondo diventa il luogo per una Porta Santa.
Proprio questa fluidità è il motivo che fa comprendere con grande evidenza perché Papa Francesco non sposi mai meccanismi interpretativi rigidi per affrontare le situazioni e le crisi internazionali. La dinamica della misericordia obbliga a quello che Papa Francesco, sempre nell’intervista del 2013, definiva pensiero incompleto, pensiero aperto. Anche politicamente, geopoliticamente è necessario avere un pensiero incompleto, un pensiero aperto, cioè fluido, non determinista di cui si possono descrivere alcuni tratti. Per esempio nel settembre del 2013, scrivendo al presidente Putin in occasione del G20 a San Pietroburgo, Francesco ha affermato: “Duole costatare che troppi interessi di parte hanno prevalso da quando è iniziato il conflitto siriano, impedendo di trovare una soluzione che evitasse l’inutile massacro cui stiamo assistendo”. Putin è venuto due volte in Vaticano, nel novembre del 2013 e nel giugno del 2015, il Presidente iraniano Rouhani è stato ricevuto in udienza dal Papa il 26 gennaio 2016, questo ha significato che la Russia e l’Iran, in questo caso, doveva essere considerato come una parte del discorso. Quello che ci colpisce, ma potrei fare altri esempi, è quello che sta avvenendo in Cina. Il Papa ha sorvolato già per tre volte il territorio cinese, questo non era stato mai permesso ad un Pontefice precedentemente. Vi racconto un piccolo episodio che non so se conoscete. Dall’aereo Papale viene inviato di prassi un telegramma al Presidente della nazione che in quel momento viene sorvolata. Allora, come sempre si fa, appena siamo entrati nello spazio aereo cinese, è stato inviato il telegramma. Però purtroppo c’è stato un problema tecnico e i cinesi non hanno ricevuto il telegramma. Allora i cinesi hanno chiamato in Vaticano per avere il testo del telegramma, si aspettavano il telegramma. Allora anche questo è un ponte, un telegramma che diventa un ponte. La Colombia, storia di questi giorni, il Papa ha detto con chiarezza “se voi fate la pace io vengo”, ecco, adesso la pace la stanno facendo, l’hanno fatta, quindi certamente il Papa andrà in Colombia. Anche qui riconciliazione.
Dunque facciamo la sintesi di questo quadro. Ho dato soltanto qualche tassello di un mosaico complesso. Primo: la Santa Sede vuole stabilire rapporti diretti, fluidi con le superpotenze, senza però entrare dentro reti di alleanze e influenze precostituite. Quindi la Santa Sede non si schiera e vuole interloquire direttamente con le superpotenze. Del resto Francesco è consapevole che la prima e la seconda guerra mondiale vertevano sulla ridistribuzione della potenza tra i grandi attori internazionali, tra i grandi attori mondiali. Invece la terza guerra mondiale a pezzi minaccia di scaturire proprio dalla relativa impotenza, mentre osserviamo il diffondersi a macchia d’olio di territori non governati o a bassissima pressione istituzionale. Mentre la prima e la seconda guerra mondiale erano fondate sulla ridistribuzione della potenza tra gli attori mondiali, la terza guerra mondiale a pezzi si fonda proprio sull’impotenza e sul fatto che ci sono dei territori assolutamente ingovernabili o a bassa pressione istituzionale.
In questo quadro il Papa non vuole dare né torti né ragioni. Il Papa non parla mai né di vittime né di carnefici, mi ha colpito molto questo anche in Israele, riguardo al conflitto tra israeliani e palestinesi non ha mai parlato di vittime e di carnefici, il Papa non dà torti e ragioni, perché alla radice dei conflitti lui sa che c’è sempre una lotta di potere per la supremazia regionale, che è stata definita dal Papa, soprattutto in Medio Oriente, come vana pretesa.
Quindi non c’è da immaginare uno schieramento per ragioni morali, si impone una visione differente. C’è una figura che mi colpisce e fa parte della spiritualità di Francesco, Pietro Favre, che lui ha fatto santo: questo è un uomo che è morto a 40 anni, nato nel 1506, morto nel 1546 ed è veramente un faro, un punto di riferimento per il Papa. Con Ignazio e Francesco Saverio, ha costituito il primo gruppo di compagni che poi ha dato vita alla Compagnia di Gesù. Nel suo diario spirituale, un giorno ha scritto che ha sentito di pregare per otto persone insieme, senza pensare ai loro difetti: il Sommo Pontefice, l’imperatore, il re di Francia, il re di Inghilterra, Lutero, il turco e Filippo Melantone. Cioè praticamente Favre metteva nella sua preghiera tutti insieme: oltre alle figure religiose e a Papa Paolo III, tutti i grandi attori politici del suo tempo, cioè Carlo V, Enrico VIII, ma anche Francesco I e Solimano II, firmatari di quella alleanza franco ottomana che causò un grande scandalo nel mondo cristiano dell’epoca e durò per 250 anni. Quindi la visione di Favre era di mettere tutti insieme, perché non devi dare torti e ragioni, perché nel mondo il conflitto è ineliminabile, e il mondo non è divisibile in chi ha torto e in chi ha ragione. Devi immergere in Dio il conflitto perché questo prenda una forma spirituale. Allora Favre ha vissuto il clima, fluido e burrascoso della prima metà del ’500 e ha incarnato un’apertura mentale e spirituale che è quella che stiamo vedendo in Francesco. Francesco, che non è un pacifista, non è un pacifista astratto e ideologico, sa perfettamente, come vi dicevo prima, che il conflitto è ineliminabile nella dinamica dei rapporti umani. La sua lotta per la pace, di conseguenza, è un’azione sui quadranti più delicati della politica internazionale, in nome di quelli che lui definisce scarti, cioè i più deboli. Le iniziative di pace sono sempre collegate a due grandi temi sociali che preoccupano il Papa, la pace sociale e l’inclusione sociale dei poveri. Lui sa che c’è un nesso profondo tra economia e geopolitica, quindi tra economia e guerra. La guerra diventa uno strumento economico. È quello che ha detto nel viaggio di andata per Cracovia: “Siamo in guerra, in quella che io chiamo la terza guerra mondiale a pezzi”. Ma ha detto anche una cosa molto chiara: “Non voglio dire che siamo in una guerra di religione, ha aggiunto, ma in una guerra vera, cioè in una guerra fatta di conflitti di interesse”. Questa è un po’ la descrizione di questo quadro, dove la misericordia è vista come un processo, un processo fatto di grande realismo, di un realismo non determinista. Le cose non sono necessitate, bisogna essere molto concreti e capire che non ci sono in ballo questioni morali ma questioni di interessi e bisogna affrontarli con grande realismo. In tutto questo, poi, Francesco sta svolgendo una narrativa che definirei anti-apocalittica. Davanti all’orrore, la shoa, gli attentati di Parigi, la strage, gli attentati che si sono susseguiti, ecco davanti a questo orrore la prima reazione di Francesco è stata quella dello sgomento, non quella dell’invettiva o della schieramento. Il Papa non si schiera. Questo fa tanto problema a molti che vorrebbero un Papa che proclama la crociata cristiana contro il nemico islamico. Il Papa esprime sgomento, non esprime schieramento. Mi ha colpito il fatto che ogni tanto il Papa lascia dei messaggi scritti nei luoghi in cui va, perché c’è un libro d’onore in cui dovrebbe mettere la firma e poi aggiunge qualche frase. Ad Auschwitz ha scritto una citazione molto breve: “Perdono per ciò che il tuo popolo ha fatto, perdono per tanta crudeltà”. Non ha detto “perdono per coloro che hanno fatto questo crudeltà” ma “perdono, pietà per il tuo popolo, perdono per tanta crudeltà”. Si è messo dalla parte dei carnefici, come ha messo tutti noi dalla parte dei carnefici, tutti noi racchiusi nel peccato. Non dice “perdono per coloro che hanno commesso questo atto”. Il Papa non ragiona per questa logica binaria, di vittime e carnefici. Ricordiamo le parole del suo discorso durante la visita al memoriale dello Yad Vashem a Gerusalemme, nel maggio 2014, nel quale si è rivolto all’uomo in quanto tale, senza connotazione di vittima e carnefice; ricordiamo la telefonata a Lucio Brunelli, direttore di TV200, dopo l’attentato di Parigi del 13 novembre 2015, quando Francesco ha detto: “Sono commosso e addolorato, non capisco, ma queste cose sono difficili da capire fatte da esseri umani, per questo sono commosso, addolorato e prego”. E lo stesso Francesco, nell’incontro con i rifugiati e i disabili presso la chiesa cattolica latina di Betania nel maggio del 2014, come ha definito i terroristi? “Povera gente criminale”. Povera gente criminale, criminale, ma povera gente. Questa cosa la dico così molto tranquillamente, ma quando ci penso mi vengono i brividi. Qual è – mi chiedo – la peculiarità del cristianesimo, qual è la cosa specifica del cristianesimo, qual è l’amore specifico proprio del cristiano? L’amore del prossimo, amare il nemico. Allora cosa c’entra col cristianesimo tutto quello cui assistiamo di questo coro di gente che vuole la religione a mano armata, fatta anche da uomini di Chiesa? Che balbettiamo a fare, che ci stiamo a fare? Per me è complicatissima questa cosa, io la dico, ma non so se riesco ad amare il nemico, anzi diciamocelo chiaramente, io no riesco ad amare il nemico e se ci riesco è per grazia. Questo amore al nemico cambia tutto. Questo è scandaloso, è rivoluzionario, inutile perdersi in bla bla bla di gente di Chiesa che continua a chiedere al Papa la condanna dell’Islam in blocco, che, in fondo, è quello che vogliono i terroristi. Pare che lo stesso Daesh abbia notato la peculiarità di Francesco, cercando di smentirla in tutti i modi, perché sa che quello che sta dicendo Francesco è esattamente quello che loro non vogliono. Loro vogliono una guerra di religione, vogliono che sia chiaro, vogliono che si crei un clima da guerra di religione. Quando si arriva a guardare l’uomo che commette l’errore di uccidere un prete indifeso, anziano, che parla di pace, e di mandare bambini a farsi esplodere ad un pranzo di nozze, quando si guarda a questo uomo con pietas, con pietà, quando si guarda il mostro al limite del demoniaco, incarnazione del male, con pietà, allora il Vangelo trionfa, allora Cristo risorge, allora la misericordia esiste.
Con il suo atteggiamento il Papa sta svuotando dall’interno la macchina narrativa del Califfato, fondata su un millenarismo settario che prepara l’Apocalisse e per questo inneggia alla morte con toni sacrificali, da scontro finale. Per questo la prospettiva di una guerra di terra mossa da eserciti occidentali, inviati a combattere i miliziani del sedicente Stato islamico, sarebbe il segno atteso che la profezia jihadista inizia a compiersi, quanto di più desiderabile, per il tanto desiderato dagli jihadisti scontro finale di civiltà. Ma di riflesso il Papa sta incarnando, in fondo, la scelta di Cristo davanti al “grande inquisitore” come ce la propone Dostoevskij: un bacio sulle labbra esangui di chi gli annuncia la condanna a morte, un bacio che non fa mutare idea, ma che fa tremare le labbra e brucia il cuore. Facendo così, Francesco, parallelamente, di riflesso, svuota anche il millenarismo apocalittico cristiano, che vuole definirsi cristiano e che si pone come giustificazione della guerra contro quello che viene definito in termini etico religiosi l’asse del male. Ci sono, chiaramente, governi interessati a coltivare l’ideologia e la prassi della guerra al terrorismo, nella speranza di rispondere alle domande di sicurezza che sale dai loro elettori, non solo governi, ma anche partiti, anche in Italia. Francesco intende smontare questa doppia narrativa dello scontro finale dall’amaro gusto religioso che nutre la narrativa del terrore e alimenta l’immaginario jihadista e dei neocrociati. Il fondamentalismo non è il prodotto dell’esperienza religiosa, e voi lo sapete molto bene per quello che vi ha detto don Giussani, il fondamentalismo è una concezione povera e strumentale del sentimento e dell’esperienza religiosa. Quindi coraggiosamente Francesco non dà alcuna legittimazione teologica politica ai terroristi, evitando così ogni riduzione dell’Islam al terrorismo islamista e svolgendo così il suo compito che è quello di capo religioso cristiano che lavora per il dialogo. Francesco respinge con tutte le sue forze le ombre minacciose di una guerra santa, le respinge perfino con il lessico e la grammatica, contro coloro che, come vi dicevo, vorrebbero una Chiesa a mano armata e la costruzione di muri e di barriere, di fili spinati. Per Francesco, per Papa Francesco, l’unico filo spinato è quello della corona di spine che Cristo ha in capo. La terza guerra mondiale non è un destino, evitarla implica di usare misericordia e in questo caso, questa è l’altra faccia, la terza faccia che vi illustro, significa sottrarsi alle narrazioni fondamentaliste e apocalittiche.
Ancora un quarto aspetto – spero di non essere troppo complicato, ma il poliedro è complicato, ha tante facce diverse e in misura differente. Io non sono qui, come non ero qui due anni fa, per semplificarvi la vita ma per complicarvela, per farvi capire che le cose sono complesse e non semplici e ovvie. Francesco, quarto aspetto di questa figura geometrica, oppone una forte resistenza alla fascinazione del cattolicesimo inteso come garanzia politica, ultimo impero, erede di gloriose vestigia, pilastro e argine al declino davanti alla crisi delle leadership globali del mondo occidentale. Bergoglio postula la fine dell’epoca costantiniana, rifiuta radicalmente l’idea dell’attuazione del Regno di Dio sulla terra che era stata la base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche ed istituzionali, fino alla dimensione del partito. Se così inteso, il popolo eletto, che diventa Sacro Romano Impero, che diventa partito, entrerebbe in un intricato intreccio di dimensioni religiose, istituzionali e politiche che gli farebbero perdere il senso della sua diaconia, del suo servizio universale e lo contrapporrebbero a chi è lontano, a chi non gli appartiene, a chi è nemico. L’essere parte crea il nemico, bisogna sfuggire da questa tentazione temporalista. Bergoglio riconosce ciò che è affermato nella lettera agli Ebrei (13,13): “I cristiani devono seguire Cristo fuori delle mura della città santa dove Lui muore come un maledetto per poter raccogliere l’umanità intera, anche quella che si crede maledetta e abbandonata da Dio”. Seguire Cristo fuori dalle mura della città santa. Non vi ricorda questa espressione quella che Francesco ripete fino alla noia, “la Chiesa in uscita”? Seguire Cristo fuori dalle mura della città santa per morire, per essere con Cristo che muore come un maledetto fuori dalla città santa, per aggregare tutta l’umanità, anche quella che si crede maledetta e abbandonata da Dio. Solo la Chiesa in uscita fuori dalle mura della città santa può stare con Cristo, solo così potrà rompere quello spettro che le proietta addosso l’immagine di essere la garanzia politica dei ceti dominanti, la garanzia dell’istituzione pubblica. In tal modo il Papa segue la lezione di un suo confratello, Erich Przywara, maestro di Hans Urs von Balthasar, che disse: “Solo così la Chiesa potrà riprendere il contributo che nel tempo hanno dato Francesco di Assisi, Ignazio di Loyola, Teresa di Lisieux”. Allora, quali sono le radici cristiane dell’Europa, cos’è la radice cristiana? Il Papa ha rilasciato un’intervista, tre giorni dopo aver ricevuto il premio Carlo Magno, alla Croix, quotidiano francese e ha detto il suo disagio a parlare di valori non negoziabili, soprattutto di radici cristiane dell’Europa. Però, si può usare questo termine, e allora qual è la radice cristiana? La risposta è netta, “la lavanda dei piedi”, questo è il valore cristiano, “la lavanda dei piedi”. Allora vedete anche qui, quanto è difficile questo, ma questo è il vangelo. Qual è il valore cristiano per eccellenza, il gesto cristiano per eccellenza? La lavanda dei piedi. Per questo il Papa sottolinea così tanto, lo faceva già da arcivescovo di Buenos Aires, questo gesto il Giovedì Santo, nel pomeriggio, recandosi nelle carceri, in luoghi, in campi dove sono raccolti i profughi, lavando i piedi a gente di vario tipo. Prima ci si scandalizzava perché il Papa lavava i piedi alle donne, ma poi ha continuato, ha lavato i piedi a mussulmani, a una transessuale. Lavare i piedi è questa la radice cristiana dell’Europa: se si dimentica questo si cade nel costantinismo, nel voler imporre dei valori contro altri. Ancora un altro aspetto: la misericordia come ermeneutica della periferia. Spero siate già abbastanza confusi da quello che vi ho detto, ci saranno molte obiezioni immagino dentro di voi, come ci sono in me. Vi ho detto che non ho ancora capito le cose che vi sto dicendo, ma pian piano le assimilo, in fondo è il vangelo. Allora questo discorso delle periferie, ne abbiamo parlato e se n’è parlato al Meeting anche due anni fa. Qual è stato il primo viaggio del Papa, che passa come primo viaggio italiano, ma che io invece considero come il primo viaggio europeo? A Lampedusa, porta d’Europa. E allora cosa ha fatto il Papa? Lasciando stare la cronologia, guardiamo invece la cartina geografica. Lampedusa, porta d’Europa, cosa viene poi dopo geograficamente? Turchia, Istanbul: ponte tra Europa e Asia. Sappiamo adesso cosa avviene in Turchia, quanto aperta sia questa ferita in questo momento, quali tensioni questa terra stia sviluppando. Albania, altro Paese che chiede di entrare nell’Unione Europea ma è fuori dall’Unione Europea, Paese che ha dei cristiani ma è a maggioranza mussulmana. Quante contraddizioni dentro l’Albania, Paese di martiri, che viene fuori da una dittatura tremenda. Da qui poi, lo so perché me l’ha detto lui, ha deciso di andare a Strasburgo, il centro d’Europa. Tirana, Strasburgo sono un’unica cosa, cioè solo partendo dalla periferia arrivi al centro, per poi tornare in periferia. Sarajevo, Bosnia, poi geograficamente parlando il salto in Polonia. La Polonia è il primo Paese dell’Europa centro orientale, è un luogo molto complesso, difficile, di tensioni nazionaliste, quindi certamente la GMG, però in questo viaggio c’era sicuramente la visita a questo grande Paese che è la Polonia, ed evidentemente anche la tappa di Auschwitz. Poi a fine ottobre andrà a Lund in Svezia. Che sta facendo il Papa? Guardate la cartina, immaginatela nella vostra mente: è andato in Francia? È andato in Inghilterra? È andato in Germania, è andato in Svizzera? Sta circumnavigando l’Europa. Non solo, c’è uno spostamento a Est molto visibile: il Papa è stato in Armenia, che si è impegnata nell’integrazione con le Istituzioni europee, aderendo al programma partnership for peace della NATO e al consiglio d’Europa, di cui fa parte. Nell’ottobre del 2014, poi, è entrata a far parte dell’Unione economica euroasiatica. A fine settembre il Papa andrà in Georgia e Azerbaigian, per questo è importante visitare la mostra che c’è qui. La situazione del Caucaso è una situazione molto complessa dal punto di vista geopolitico, fatta di una storia molto travagliata, di momenti di feroce violenza, di tensione. Ricordo la veglia a Erevan con il Catholicos per la pace dove sono rimasto colpito perché in una veglia per la pace si parla di pace, invece ho ascoltato il Patriarca dire delle parole molto forti contro l’Azerbaigian per la situazione del Nagorno Karabakh. Quindi vi sono tensioni vivissime che tuttora si sperimentano: l’Azerbaigian divenuto luogo di convivenza di religioni diverse, laddove c’è una maggioranza sciita, in un paese che ha forti relazioni con la Turchia che è sunnita. Insomma è un puzzle incredibile: il Papa ama questi luoghi che sono al confine tra Asia ed Europa, ma sono un po’ Europa, si sentono Europa. Oggi ascoltavo appunto l’organizzatore della mostra sulla Georgia che diceva che i Georgiani si sentono europei, parte della storia d’Europa. E allora vedete questo Papa che tende pericolosamente verso est, ma che viaggia l’Europa circumnavigandola, quindi visitandola in periferia e cercando di testimoniare la pace. In fondo il senso della visita in Georgia, il senso fondamentale è “la pace sia con voi”, la pace, non tanto l’ecumenismo. Voi sapete che la chiesa georgiana non riconosce neanche il battesimo dei cattolici o dei protestanti, quindi l’ecumenismo è difficile, ma che cosa importa alla fine per il Papa? Qui la questione è creare un clima, è incontrare, è abbracciare anche il Patriarca Kyrion. Il Papa non è un Papa dei trattati. Ricordo la firma di una dichiarazione comune con il Catholicos di Armenia. E’ stato il momento più noioso di tutta la visita. Il Papa era molto assente. Firmava carte, cinque minuti e sono andati via. Questo non per dire che non ha importanza, ma per dire che l’importanza non sono le carte bollate, non sono le carte firmate, ma sono gli abbracci, sono gli incontri. Lo stesso con patriarca Kirill di Mosca. Secondo me il Papa avrebbe potuto firmare qualunque dichiarazione, lo ha detto chiaramente in aereo quando siamo risaliti, dopo Cuba, per andare verso il Messico. I pezzi di carta sono pezzi di carta, non facciamo l’esegesi di questi pezzi di carta, perché ciò che conta è l’esperienza dell’incontro, è quello che cambia la vita. Come nella fede è l’incontro con Cristo, così tra gli uomini non sono le parole firmate e bollate, ma sono gli sguardi, le mani e gli occhi, le mani e gli occhi. Il Papa li usa spesso, vedete quanto tocca, è un Papa touch, un Papa tattile, ti viene anche da toccarlo, proprio fisicamente e quando ce l’hai davanti lo vorresti abbracciare, ti ispira questa fisicità che trasuda, perché è un feeling particolare, perché avverti subito una paternità che ti attira e davanti a un padre che ti attira non puoi dire buongiorno, Santità, c’è qualcosa nel tuo fisico che ti calamita, cioè che senti, senti l’attrazione e che è appunto il gusto, il sapore buono della paternità, che è quello che poi si esprime nell’incontro. Proprio ad Erevan, mi ricordo, subito dopo questo incontro della firma, è avvenuto quello che per me, nel mio ricordo, è la cosa più importante dell’incontro con i vescovi armeni: tutti l’hanno salutato e tutti si sono inchinati e quasi tutti gli hanno baciato l’anello e ho visto il sorriso, non si capivano evidentemente ma che importa la parola, l’occhio importa, quello stesso occhio che ho visto, l’occhio del Papa e gli occhi del Patriarca Kirill, che ho colto nel momento in cui si sono incontrati. Bastava quell’incontro per dire che si sono incontrati. Le carte bollate, poi, lasciamole stare. Allora il Papa, facendo questi viaggi, cioè spostandosi pericolosamente verso est e circumnavigando l’Europa, cosa sta facendo? Sta facendo il medico. E che c’entra? C’è tra di voi un medico generico o anche un cardiologo? Forse sì. Che cosa fate quando un paziente sta male? Lui resta steso e voi gli controllate il polso. E perché gli controllate il polso? Perché gli sentite i battiti del cuore. Ma il cuore dove sta, qui? Non sta qui, però per sentire il cuore tu senti qui. Quindi è la periferia che ti fa capire come sta il cuore. Allora, toccando le periferie, il Papa capisce e intuisce il cuore dell’Europa. Questo è il suo approccio che ancora una volta si rivela un approccio terapeutico. Il Papa ha vissuto un’esperienza nella sua giovinezza che, secondo me – non gliel’ho mai chiesto, un giorno o l’altro glielo chiederò – lo ha segnato profondamente. Mi riferisco alla sua malattia ai polmoni, al suo ricovero in ospedale da giovane, alla sua mancanza di fiato, al fatto di essere stato curato e queste metafore mediche continuano a uscire, a sprigionar fuori il suo Magistero dalla sua esperienza. E’ quell’esperienza giovanile che spiega quest’approccio terapeutico, da medico che testa il polso all’Europa, non toccando il centro, ma la periferia. E’ un modo artigianale, ma il Papa ama questo approccio artigianale ed efficace di verificare. Pensiamo al suo discorso al Premio Carlo Magno: il Papa è assolutamente alieno da tutto ciò che riguarda la sua persona e la celebrazione di sé, non ha mai letto un libro su di sé, non ha mai visto un film su di sé, i premi gli fanno orrore. Se ha accettato il Carlo Magno è perché voleva dire qualcosa al cuore dell’Europa, delle Istituzione europee, che si sono radunate da lui in Vaticano. Allora quel discorso che è stato un discorso radicalmente anticarolingio – lui ha ricevuto il premio Carlo Magno e fa un discorso completamente anti-Carlo Magno – va letto alla luce di questa geografia dei viaggi periferici bergogliani. E il Papa l’ha detto chiaramente in una intervista bellissima che lui ha rilasciato a un importante giornale di una parrocchia di periferia di Buenos Aires, la Cárcova News. Non l’ha detto quindi al New York Times, non l’ha detto a Le Monde, lo ha detto alla Cárcova News. Ha detto: “Quando parlo di periferia, parlo di confini. Normalmente noi ci muoviamo in spazi che in un modo o nell’altro controlliamo: questo è il centro. Il centro è uno spazio che noi controlliamo. Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso, scopriamo più cose e quando guardiamo al centro da queste nuove cose che abbiamo scoperto, da questi nuovi posti, da queste periferie, vediamo che la realtà è diversa. Una cosa è osservare la realtà dal centro, e un’altra è guardarla dall’ultimo posto in cui tu sei arrivato. Un esempio. L’Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, quando però Magellano arriva alla fine del Continente americano guarda all’Europa da un nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa”. Allora questo il Papa vuole, questo sguardo di Magellano, questo è quello che il Papa venuto dalla fine del mondo vuole: guardare la realtà con gli occhi di Magellano, l’esploratore che dalla periferia vede la realtà in un modo diverso. Il punto è che oggi l’Europa stessa sta diventando periferica, ha detto il Papa. Lo ha detto in un videomessaggio per una manifestazione che si è svolta a Monaco il 2 luglio scorso. L’Europa stessa oggi sta diventando periferica. “L’Europa, ha detto, si trova in un mondo complesso fortemente in movimento, sempre più globalizzato e perciò sempre meno eurocentrico”. E concludo con una sesta faccia, l’ultimo aspetto della misericordia. La misericordia come costante processo di integrazione, che è un’altra parola chiave di Francesco. Per Bergoglio l’Europa, qui parlo di Europa in modo specifico, non è una cosa. Noi tendiamo a considerare l’Europa come uno spazio, la troviamo sulla cartina geografica, quindi è uno spazio, la studiamo in geografia, quindi per noi l’Europa è quella cosa là, fatta di confini particolari, di caratteristiche anche geografiche molto specifiche. Bergoglio non vede l’Europa così, ma la vede come un processo tutt’ora in atto all’interno di un mondo in movimento. Dunque l’Europa per lui non è uno spazio ma un tempo, cioè un processo, che è una cosa che io vi dico ma che devo ancora capire, perché io sono sempre stato abituato a intendere l’Europa come una realtà geografica, una cosa, un’entità, non un processo. Allora occorre verificare non se la casa regge, ma se la sua realizzazione è in progress. La domanda che molti si fanno è: ma questa Europa regge, reggerà? Non è questa la domanda di Francesco, anzi forse posso dire che Francesco non è interessato a sapere se l’Europa regge, ma è interessato a capire se l’Europa è in progress, cioè se questo processo è attivo, se ha questo atteggiamento non difensivo di una cosa che sembra andare persa, ma un atteggiamento proattivo e dinamico. Se l’Europa considera se stessa come uno spazio, allora prima o poi arriverà, ed è già venuto, il momento della paura, del timore che lo spazio sia invaso. In questo caso lo spazio va difeso. Se invece l’Europa viene considerata come un processo in divenire, in fieri, allora si comprende come questo processo metta in movimento energie, accettando, non rifiutando le sfide della storia. Il Papa riconosce che questa visione dinamica abbia aiutato i nostri popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano incontrando. Il Papa parla di allargare l’anima dell’Europa attraverso un processo di integrazione. Però, anche qui c’è un altro problema. Quando noi parliamo di integrazione europea, intendiamo l’integrazione a due velocità circa l’adozione di certe politiche sul mercato, sul bilancio. Integrazione significa avere una velocità simile nell’andare avanti su queste cose e possiamo anche postulare un’Europa a due velocità: una più veloce e una meno veloce. Invece per Francesco integrare significa inserire le differenze di epoche, nazioni, stili, visioni, nel processo di costruzione. Allora l’identità si allarga. Il Papa ha detto questo chiaramente in Corea, dove ha parlato dell’identità. L’identità non è fatta solo di contenuti dati da preservare, l’identità non è fatta del passato, da conservare gelosamente, ma vive, così il Papa ha detto in Corea, di una dinamica che ha il suo fuoco fondamentale non nel passato, neanche rigidamente nel presente, ma nel futuro. Il tempo verbale dell’identità per il Papa non è il passato – da qui la vanità delle tentazioni identitarie, come le chiamiamo -, il tempo dell’identità è il futuro. L’identità rivela non solo chi siamo ma che cosa speriamo; la tua identità non è data per il Papa da chi tu eri, ma da ciò che tu speri. Questo è ciò che ti dà l’identità. Questo in fondo è la vera domanda che Francesco sta ponendo all’Europa: non chi sei, ma che cosa speri? Grazie.
ALBERTO SAVORANA:
Che cosa speri? Pensate che certezza deve avere il Papa per porre oggi all’Europa, al mondo, all’uomo una domanda su cui tutti crollano, per la paura, per l’insicurezza, per l’incertezza del futuro. Come deve essere certo che c’è un oggetto di questa speranza per non considerare mai niente e nessuno come definitivamente perduto, per guardare i terroristi jihadisti come povera gente criminale. Nel messaggio al Meeting ci ha detto che il modello è il Figliol Prodigo. Il Vangelo ci consegna un’immagine suggestiva di questo atteggiamento: il Figliol Prodigo che pascola i porci e il Padre che tutte le sere sale sulla terrazza per vedere se torna a casa e spera. Ecco la speranza, malgrado tutto e tutti. Come cambierebbe il nostro mondo se questa speranza senza misura diventasse la lente con cui gli uomini si guardano tra di loro. E’ impressionante vedere nel tuo racconto il dispiegarsi di questo sguardo, di questa lente attraverso cui il Papa ci restituisce una realtà che non conosciamo. Mi stupisce che in ogni punto del tuo discorso c’era il mantra “non l’ho capito, non lo capisco ancora”. E non è una finzione, non è un gioco letterario, è che è talmente misteriosa e talmente nuova questa modalità, che uno la registra stupefatto e vuol capire, vuole rendersi conto di questo metodo che affascina. A Firenze il Papa ha parlato dell’Ecce homo come il modello del cristiano nel mondo, non nell’angusto spazio della parrocchia, del movimento, del gruppo, dell’associazione, ma che si inoltra nella realtà disarmato, spogliato di tutto, pone dei gesti, tocca e questo ottiene risultati che 10, 100, 50 anni di diplomazia, 1000 anni di separazione non potevano ottenere e che sono bruciati via in un istante. E questo metodo il Papa lo applica a tutto. Non c’è più il dentro e il fuori, non c’è più il privato e il pubblico. In un testo inedito, pubblicato oggi sull’ultimo numero di Civiltà Cattolica, viene riportato un dialogo privato, che durante i giorni della GMG il Papa ha avuto con un gruppo di gesuiti polacchi e lì c’è un passaggio in cui questo metodo della geopolitica il Papa lo applica nel rapporto da persona a persona. “Uno mi ha domandato oggi: cosa devo dire a un amico o a un’amica che non crede in Dio? Ecco – dice il Papa – si vede che a volte i giovani hanno bisogno di ricette. Cosa devo fare? Come faccio a convincerlo? Come faccio a convincere l’avversario, sia esso l’amico, l’amica, o il capo di Stato o il jihdista? Io gli rispondo: guarda che l’ultima cosa che devi fare è dire qualcosa. Tu comincia a fare qualcosa, poi sarà lui o lei che ti chiederà spiegazioni su come vivi e perché. Ecco bisogna essere diretti, diretti con la verità”. Ma per essere diretti con la verità bisogna esserne in qualche modo posseduti, è questo che mi stupisce nello scenario che tu hai descritto. Vediamo questo uomo disarmato, senza eserciti, senza potere, che si inoltra nei punti più avanzati nel mondo e provoca qualcosa, qualcosa accade e non è più come prima, in modo disarmato. Don Carrón ha intitolato il suo primo libro italiano La bellezza disarmata. Io vedo nel Papa questa “bellezza disarmata” che si offre a tutti, senza cedere alle logiche dello schieramento. Ed è impressionante, perché capiamo di più adesso, dopo il tuo intervento, le tue parole, come la misericordia, appunto, non sia un pio sentimento, qualcosa per anime belle che si concede a questo o a quello, ma sia come una lente con cui introdursi nella realtà. A me sono venute in mente, mentre parlavi, alcune parole di don Giussani, proprio sul tema della misericordia, con le quali voglio ringraziarti per il sacrificio che hai fatto di essere con noi, parole che mi sembrano la fotografia di questo Papa che tu hai la fortuna di conoscere e frequentare più di chiunque altro oggi e te le consegno come gratitudine, perché seguendo te, seguendo come tu segui il Papa, noi da oggi possiamo seguirlo di più, possiamo come te ingaggiarci nell’avventura di renderci conto della portata storica della sua proposta. Dice don Giussani: “Il Mistero della Misericordia sfonda ogni immagine umana di tranquillità o di disperazione. Anche il sentimento del perdono è dentro questo Mistero di Cristo. Il Mistero come Misericordia resta l’ultima parola anche su tutte le brutte possibilità della storia”. Non le cancella, ma resta l’ultima parola. Che cosa speri? “Per cui l’esistenza si esprime come ultimo ideale nella mendicanza. Il vero protagonista della storia – ecco la portata della storia, della fede del Papa, una portata che sembra perdente, la pienezza del tempio non è un momento di vittoria ma di sconfitta – il protagonista della storia è il mendicante, cioè Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo”. Questo è per me il Papa oggi, questo mendicare quella speranza per ogni uomo che incontra, senza porre condizioni previe, ponendo gesti che muovono, che riaprono la partita e fanno sperare.
Voglio finire ringraziando ancora Antonio per il sacrificio enorme che fa e per l’aiuto che ci dà a una intelligenza della fede dentro la realtà. Grazie.