Chi siamo
LA CURA E IL VALORE DELL’ACCOGLIENZA
In diretta su Famiglia Cristiana, Italpress
Organizzato da Compagnia delle Opere (sociale)
Dario Bolis, direttore comunicazione Fondazione Cariplo; Rosanna Di Federico; beneficiaria attività dell’Associazione Cilla; Maria Rosaria Feoli; beneficiaria attività dell’Associazione Cilla; Alberto Garaventa, responsabile dell’ U.O.C. di Oncologia Pediatrica dell’Istituto Giannina Gaslini di Genova; Luca Petrolo, presidente Associazione Cilla. Modera Stefano Gheno, presidente CdO Opere Sociali
Al termine dell’incontro verrà proiettato il docufilm “Con un battito di ciglia”, scritto da Andrea Frassoni e Marco Falorni che ne ha curato anche la regia, prodotto da Libero Produzioni in collaborazione con Rai Documentari e La Meridiana con il patrocinio di AISLA.
La testimonianza diretta di accoglienza delle persone che stanno attraversando il momento delicato della malattia propria o di un proprio familiare attraverso l’esperienza diretta di volontari (ciò che muove) e dei beneficiari (ciò che incontrano) e di chi si occupa degli aspetti sanitari (chi cura). Una condivisione che diviene cultura: accoglienza come gesto concreto di persone che, incontrando il bisogno di altre non assistono, ma condividono, una modalità di intendere l’accoglienza che, pur partendo da un bisogno particolare, diventa attenzione, sguardo alla persona in quanto tale.
LA CURA E IL VALORE DELL’ACCOGLIENZA
LA CURA E IL VALORE DELL’ACCOGLIENZA
Mercoledì 21 Agosto 2024 ore 18:00
Arena cdo C1
Partecipano:
Dario Bolis, direttore comunicazione Fondazione Cariplo; Rosanna Di Federico; beneficiaria attività dell’Associazione Cilla; Maria Rosaria Feoli; beneficiaria attività dell’Associazione Cilla; Alberto Garaventa, responsabile dell’ U.O.C. di Oncologia Pediatrica dell’Istituto Giannina Gaslini di Genova; Luca Petrolo, presidente Associazione Cilla.
Modera:
Stefano Gheno, presidente CdO Opere Sociali
Gheno. Buonasera a tutti, benvenuti qui nell’arena di Compagnia delle Opere. Io sono Stefano Gheno, il presidente di CDO Opere Sociali e sono particolarmente contento di proporvi e di presentare questo incontro. Un incontro, mi permetto di dire, che tratta un tema veramente affascinante: l’accoglienza. L’accoglienza però un po’ particolare, un’accoglienza che ha a che fare con quei momenti della vita in cui magari uno non pensa che gli serva accoglienza, ma pensa che gli serva altro. Ed è quando qualcuno è ammalato, quando uno ha bisogno di cure impegnative, e spesso e volentieri, per come è fatto il nostro Paese, si trova magari a dover affrontare un viaggio in un posto diverso, lontano dai suoi cari, dalle sue radici, dalla sua famiglia. L’Associazione Cilla, con noi oggi ci sono molte persone, è una realtà che da più di 40 anni prova a farsi carico di questo bisogno, dando possibilità di accoglienza alle persone che sono ad assistere un familiare in difficoltà sanitaria. Quindi, con noi oggi sono a trattare questo tema, a esplorare questo tema, Luca Petrolo, che è il presidente dell’associazione, Maria Rosaria Feoli e Rosanna Di Federico, che sono due persone che sono state accolte nelle case di Cilla o comunque anche in modo diverso, perché vedremo che Cilla ha delle modalità diverse di accoglienza. E poi c’è con noi anche un tecnico, il dottor Alberto Garaventa che è un oncologo pediatra dell’ospedale Gaslini di Genova, che ha avuto occasione di verificare come non sia un impatto solo sentimentale questa possibilità di accoglienza, ma abbia anche dei risvolti importanti proprio rispetto alla cura. Chiude questo panel Dario Bolis di Fondazione Cariplo, che ci presenterà un’esperienza molto interessante che ha a che fare, qui voglio fare un po’ di suspense, con un altro aspetto dell’accoglienza. Prima di passare la parola a Luca, volevo ricordare brevemente questa cosa. Ieri mi ha molto colpito in un incontro che si è svolto in questa stessa arena è intervenuta una giovane studentessa di medicina al sesto anno che ha fatto recentemente un’esperienza molto particolare. Lei è una studentessa italiana di Medicina, a Milano e ha avuto la possibilità di andare a fare un periodo in Venezuela. La situazione in Venezuela, sapete tutti, è una situazione molto tragica. Una delle tante emergenze presenti nel Paese è l’emergenza sanitaria. Le strutture sanitarie sono distrutte, non c’è una reale possibilità di cura per le persone. C’è un gruppo di medici venezuelani che, pro bono, dedicano il loro tempo a intervenire nei paesi più distanti dalla possibilità di cura, nei paesi sperduti nella giungla, a intervenire appunto su emergenze sanitarie anche importanti. Passano una settimana intera in questi paesi a operare, intervenire, curare, e questa ragazza ha avuto la possibilità di partecipare con loro. Tutte le sue idee di medicina come atto che fondamentalmente serve per cambiare il corso degli eventi, guarendo le persone, si sono infrante rispetto alla realtà, secondo due aspetti: il primo è che lei si è resa conto che non era in grado di intervenire ancora: è una studentessa, lì c’era gente che lavorava a cottimo per intervenire, e poi perché non è detto che ci fossero gli strumenti per guarire. Diceva: “Noi molto spesso incontravamo una persona, veniva visitata, gli veniva dato un blister di antidolorifici o di antinfiammatori, e questa era tutta la possibilità di cura che c’era”. Raccontava di una mattina in cui si è trovata in questa situazione, anche un po’ sconfortata, e ha visto che c’erano dei bambini da soli che giocavano fuori da questa sala operatoria di fortuna che era stata messa in piedi. Lei è uscita e, non avendo altro da fare, si è messa a giocare coi bambini. Alla sera, alla fine della giornata, i colleghi venezuelani le hanno detto: “Vedi, curare non vuol dire soltanto guarire, eliminare tutto il dolore; molto spesso curare è aiutare le persone che soffrono a portare il loro dolore”. Ecco, a me sembra che le esperienze di cui parleremo oggi, seguano assolutamente questo filo rosso. Quindi davvero, con molto piacere, passo la parola a Luca.
Petrolo. Grazie Stefano, buonasera a tutti i presenti e a chi segue. Ringrazio la CDO per l’opportunità di raccontare chi siamo. Per raccontare l’associazione parto da chi è Cilla. E’ una ragazza che si chiamava Maria Letizia, soprannominata Cilla, che intorno ai 15 anni conobbe il movimento di Comunione e Liberazione, a quel tempo GS, parliamo degli anni ’70 e rimase subito impressionata, colpita, tanto che questo convertì anche i suoi genitori. Cilla morirà a luglio del ’76 in un incidente stradale, apparentemente senza aver fatto niente, come diceva prima Stefano. E invece è stato un seme quello che ha piantato Cilla, che nel rapporto tra il padre e don Giussani ha fatto nascere l’associazione nell’81, quindi qualche anno dopo, dopo che Rino, che era un medico di Asti, si trovò ad accompagnare un’amica per delle cure mediche fuori dal paese d’origine, e si accorse delle difficoltà che chi veniva da fuori, da un altro paese o un’altra città aveva, anche solo come orientamento. Da lì nacque l’idea di creare questo gruppo di amici (lo era all’inizio e, grazie a Dio lo è ancora oggi) che pian piano, in questi 43 anni, ha generato tantissimo. Ha generato innanzitutto case di accoglienza, 17 strutture presenti in tutta Italia. Strutture dove facciamo accoglienza di malati e parenti di malati che vengono da altre regioni, da altri Paesi. Giusto per dare due numeri veloci, ma solo per dare una fotografia: nel 2023 abbiamo avuto un totale di più di 47.000 ospitalità, presenze nelle nostre case. Ma Cilla non è solo le case. In varie città sono presenti anche gruppi di amici che, magari attraverso rapporti con gli ospedali principali di quelle città, penso principalmente a Roma, hanno creato una rete di rapporti e di amicizie che fa la stessa cosa che si fa nelle case e cioè accogliere, anzi, condividere perché, come diciamo sempre tra di noi, Cilla è una condivisione che diviene cultura, perché senza condivisione non c’è accoglienza. Si possono sicuramente fare delle strutture bellissime, ed è bello che ci siano, si può accogliere, ma non è vera accoglienza se non c’è la condivisione, e questo è quello che fanno i nostri volontari, i nostri amici, che fanno un gesto apparentemente semplice, apparentemente minimo, quello di accompagnare, aiutare, fare compagnia a tutti gli ospiti che vengono nelle nostre case o che incontriamo in altre situazioni. Questa è la nostra associazione, questo è quello che noi proviamo a fare tentativamente con le nostre capacità e tutto nasce, concludo, da quello che a me ha sempre colpito. Io ho cominciato facendo il volontario in una casa di accoglienza, in particolare a Bologna, ma quello che a me ha sempre colpito è stato vedere negli anni quello che Cilla, Maria Letizia, ha fatto in pochissimo tempo, che è stato il seme che ha generato tutto. Lei è andata all’essenziale, per lei la fede è stata andare appunto all’essenziale della vita, e questo ha permesso da una ragazza di generare quello che tentiamo di portare avanti oggi. Però qui concludo perché secondo me è più bella l’esperienza dei numeri. Grazie.
Gheno. Grazie Luca, e infatti adesso vogliamo sentire da chi ha fatto questa esperienza di ospitalità di raccontarci questa cosa che tu da presidente hai descritto. Prego, Maria Rosaria.
Feoli. Io sono Maria Rosaria, vengo da Avellino. Ho fatto l’esperienza di questa accoglienza da parte di Cilla a Roma nel 2017. Allorché mio marito aveva ricevuto una diagnosi infausta di una leucemia fulminante, ho cercato invano di aiutarlo e di curarlo a Roma al Policlinico. Nel 2017 cercai una soluzione abitativa e incontrai i ragazzi di Cilla. A 15 anni avevo letto il libro di questa ragazza, mi aveva affascinato, nulla poteva farmi pensare che dopo tanti anni mi sarei ritrovata a cercare aiuto all’associazione. In realtà è stata un’esperienza preziosa per me perché è stato un incontro con delle persone splendide, eccezionali. A Roma non c’è la casa di accoglienza, ma loro fanno di più con la loro presenza nella mia vita, la loro compagnia, in un momento in cui davvero il dolore e la sofferenza sono tali che ti vengono a mancare le certezze, il pavimento sotto i piedi. Monica, Boris, Ettore, Anna, Michela, vi faccio i nomi perché sono state per me persone concrete che a un certo punto hanno cominciato ad offrirsi a me. Non solo mi proponevano dei gesti concreti da fare insieme, ma offrivano la loro presenza, la loro compagnia, la loro vita nella mia vita. Per cui era quasi impossibile astenersi dalla loro compagnia o tenersene fuori. Io ancora oggi sono grata per quello che hanno fatto concretamente: venivano a prendermi al policlinico quando io uscivo dopo l’orario in cui potevo stare in ospedale, siamo stati insieme a Scuola di comunità, a messa, siamo andati a pregare insieme al Divino Amore piuttosto che alla Chiesa di Sant’Eusebio a Roma, dove alla veglia pasquale c’era stata un’esperienza bellissima di ragazze di ogni nazionalità che ricevevano il battesimo per la prima volta. Esperienze forti che mi hanno fatto compagnia e hanno dimostrato che l’accoglienza è al di sopra di tutto un abbraccio non solo fatto di mani, ma di cuore, mente, di presenza di persone che non si astengono, non si risparmiano e soprattutto ti danno la certezza di esserci. Monica mi diceva, “io sono qui, sono per te, ci sono e ci sarò”. Ed era la certezza che mi ha accompagnato per tutto il tempo a Roma, persino fino a quando mio marito stava proprio alla fine dei suoi giorni. Io ero in camera e Monica con Boris erano giù in ospedale. Sono tutti atti non dovuti, non scontati, che lasciano trapelare il Mistero che c’è dietro questo tipo di accoglienza, questo tipo di compagnia che va al di là di un’associazione ordinaria, e denota la presenza di Gesù dietro questo tipo di accoglienza. Questa è stata la mia esperienza e volevo raccontarvela.
Gheno. Grazie, grazie Maria Rosaria. Hai usato più volte questo termine “presenza” e secondo me è molto interessante perché l’esperienza della malattia in realtà è frequentemente un’esperienza di mancanza, di assenza, di qualcosa che ti è tolto. Pensare che dentro questa croce, evidentemente, si possa ancora confidare, sperimentare una presenza, io credo che sia una cosa bellissima e anche, come dici tu, un po’ misteriosa, giusto? Rosanna.
Di Federico. Allora, buonasera, mi presento, mi chiamo Rosanna, vivo ad Arona sul Lago Maggiore e sono un’insegnante. Sono in pensione da tre anni, ho incontrato l’associazione Cilla in occasione della malattia di mio marito, come Maria Rosaria, perché nell’agosto dell’anno scorso Claudio ha scoperto di avere un tumore al pancreas. Confusione generale, abbiamo cercato dove poteva farsi curare e siamo approdati a Verona, dove c’è un ospedale che si occupa proprio di questo, un istituto del pancreas.
Gheno. Scusami Rosanna, posso interromperti un attimo? Non perché non sia interessante, ma perché ho visto che è arrivato un amico che secondo me ha molto a che fare con questa nostra esperienza: Monsignor Paglia è passato a salutarci, sapete, è stato presidente della commissione che il Ministero della Salute ha voluto sull’età, lui la chiama “l’età grande”. Grazie, Eccellenza.
Paglia. Solo un saluto per dirvi il mio compiacimento per questo incontro, perché il tema della cura e dell’accoglienza non gode di grande stima presso molti, ma prendersi cura gli uni degli altri credo sia la sostanza del Vangelo, per quel che mi riguarda, e anche umana. Quindi io sono davvero contento, perché un mio amico, sociologo, dice che è nata adesso una nuova religione che si chiama “egolatrìa”, il culto dell’io sul cui altare si sacrifica tutto. Ecco, il contrario è invece il prendersi cura, che poi è la sostanza del Vangelo e della vita cristiana. Quindi io sono non lieto, ma ancora di più per questa legge per gli anziani che dovrà iniziare a settembre, in fondo segue la stessa prospettiva, quella del prendersi cura. Vedo qui qualcuno del Gaslini e altri, insomma…complimenti! Prendiamoci cura gli uni degli altri, altrimenti è un problema. Grazie e buon lavoro.
Gheno. Grazie Monsignor Paglia, e scusa Rosanna
Di Federico. Assolutamente. Anch’io, come Maria Rosaria, ho dovuto cercare una sistemazione per me a Verona. In realtà conoscevo la storia di Cilla, anzi ho conosciuto da ragazzina il dottor Rino Galeazzo, perché un prete della mia città si era innamorato della storia di Cilla e ci portava a delle feste bellissime a Montemagno, nell’Astigiano, quindi conoscevo già Cilla, ma poi, come capita spesso anche con le cose più belle, me ne ero dimenticata. Quando stavo cercando una sistemazione a Verona, che è una città tra l’altro carissima, un’amica mi ha ricordato che esiste l’associazione Cilla. Mi sono rivolta a loro e, dopo una breve attesa, sono stata ospitata in una casa molto bella, molto confortevole, vicinissima all’ospedale dove era ricoverato mio marito, ci mettevo cinque minuti a piedi. Che dire dell’associazione Cilla? Quando succede una cosa come una malattia grave – ho dimenticato di dire che mio marito è mancato a dicembre dell’anno scorso – quando succede una cosa così sconvolgente, ci si sente un po’ come dentro una centrifuga, si perdono tutti i punti di riferimento. Prima io vivevo in una quotidianità di cui, come tutti voi forse, ero contenta a metà, ma di cui non ricordavo la bellezza, il valore. Improvvisamente questa quotidianità è stata sconvolta e dentro la mia testa si materializzavano delle domande pazzesche del tipo: “Ma cosa sarà di noi? Che cosa ci capiterà”. Oppure la paura della solitudine che mi si preparava nel caso che la malattia, come poi è stato, finisse male. Di che cosa si ha bisogno in questi momenti? Nessuno sa spiegare perché c’è il dolore. La mia laurea in filosofia non mi ha aiutato a capire questo. Nessuno sa spiegare perché siamo così smarriti di fronte alla morte, così disarmati. Nessuno può cambiare e sostenere tutta la solitudine, la prospettiva di solitudine che ci si prepara dopo 40 anni che si è vissuto con una persona che poi perderemo. Allora, di cosa c’è bisogno? C’è bisogno di qualcuno che ci ricordi che questo non è tutto, che c’è una speranza per cui, come mi ha detto una carissima amica che è qua, io non dovevo pensare che non sarei mai più stata felice. E c’è bisogno che, come dice una canzone bellissima di Mia Martini di cui sono fan, “E non finisce mica il cielo anche se manchi tu”. Mi era sempre piaciuta poi l’ho riscoperta, perché dice in un modo forse laico che non finisce il cielo anche se ti manca la persona più cara che hai, perché noi siamo fatti per il cielo, perché noi siamo fatti per l’infinito. E cosa c’entrano le persone di Cilla con questo? Le persone di Cilla sono delle persone che per me hanno fatto riaccadere la speranza che stavo perdendo e me lo hanno fatto capire senza nemmeno un discorso. Tante volte quando si parla di un’associazione, anch’io faccio parte di una APS, un’associazione di promozione sociale che aiuta a studiare i ragazzi con disagio, di solito si pensa a quello che fanno le associazioni, al bene che fanno, perché riescono a fare tanto bene. Quando io invece penso alle persone dell’associazione Cilla, penso a delle persone, a delle facce, a dei volti, penso a Helen, a Mariella, a Paola, a tante altre, penso alla cadenza veneta che avevano, che mi faceva sempre ridere, perché loro attaccano dopo tutte le frasi un “sai” finale e le prime volte io non capivo, pensavo che mi prendessero per stupida perché mi dicevano “stasera veniamo a trovarvi, sai”, e io dicevo “sì, lo so, me lo stai dicendo”. E invece poi ho capito che era una specie di cadenza che avevano e mi hanno contagiato, l’ho presa anch’io, infatti le mie figlie mi dicevano “ma anche tu dici questo ‘sai’ finale, non ti accorgi più”. Perché è stato un impastarsi con queste persone. Vi racconto solo due cose: una volta, dopo l’ennesimo ricovero in terapia intensiva, avevano cambiato camera a mio marito, e questa camera era senza televisione. Penso che tutti possano immaginare che guardare la tv è l’unica cosa che un malato ogni tanto riesce a fare, e quindi disperata, io dissi alle persone di Cilla: “Cavolo, stanza senza televisione, disastro!” In 12 ore mi hanno materializzato una televisione portatile da mettere sopra l’armadietto, quando io gli avevo detto “ma no, dai, lascia stare, ma chi può avere una seconda televisione che presta volentieri a una persona che non hai mai visto né conosciuto, che forse non gliela restituirà?” E invece è comparsa, no? Oppure, io non avevo preso i vestiti invernali perché siamo partiti che faceva caldo, e mi hanno portato la giacca, mi hanno portato i maglioni. Oppure, a un certo punto viene mia figlia a stare un po’ con me e Mariella mi ha cambiato stanza, mi ha dato una camera più grande dove potevamo stare meglio. Oppure Paola, che lavorava in ospedale, e che mi portava le notizie di nascosto, perché quando era in terapia intensiva io potevo stare soltanto un’ora con mio marito e lei invece andava più volte, si era presentata, lo salutava, e poi regolarmente mi scriveva e mi diceva “sta così, va bene così”. Ecco, questo io ricordo delle persone dell’associazione Cilla: delle persone che mi hanno fatto compagnia e che per me sono state, io l’ho detto loro e lo ripeto questa sera perché è proprio una cosa di cui sono convinta, le luci di una pista d’atterraggio quando l’aereo va giù nella notte non si vede niente, si ha solo paura di questo buio, ma queste luci dicono dove tu puoi atterrare, dove puoi stare al sicuro. Questa presenza che diceva il nostro moderatore, per me sono state questo. E l’ultima cosa: stupefacente è che questo clima, questo modo di guardare è contagioso. Io ero con altre tre persone che come me assistevano i loro cari, tra l’altro tutte sarde, che con me si degnavano di parlare italiano perché non rimanessi esclusa dal loro dialetto così difficile. E siamo diventate amiche, una cosa assolutamente improbabile. Poi, mio marito è morto durante la degenza, ma loro sono tornati a casa. E noi ancora ci sentiamo, ci scriviamo, abbiamo una nostra chat divertente che si chiama “Le guerriere” e ci vediamo spesso per raccontarci della vita, delle cose che ci capitano. Perché Cilla è stata una compagnia alla vita in un momento particolarmente difficile. Ecco, queste sono le cose che sono davvero onorata di potervi raccontare stasera.
Gheno. Grazie Rosanna, grazie. Poco più di un’ora fa, in un’altra sala di questa fiera, Padre Candiard stava trattando il titolo di questo Meeting: “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”. In realtà lui dice, Cormac McCarthy, che è l’autore da cui è stato tratto il titolo, nel suo libro scrive “Se non siamo alla ricerca dell’essenza, allora cosa cerchiamo?”. Cos’è l’essenza, dice Padre Candiard? È ciò che dà senso alle cose, e allora la sintesi, lui dice, di questa essenza è che “è bello che tu esisti” perché è la buona novella. E a me sembra che quello che ci ha detto Rosanna, quello che ci ha raccontato dei volontari di Cilla, è un altro modo in cui lei si sentiva rivolta a questa affermazione: “È bello che tu esisti”. Dottor Garaventa.
Garaventa. Grazie dell’invito, grazie soprattutto dell’occasione per ragionare, per trovare le ragioni di questa mia professione e ritrovare nelle cose che avete detto il senso di questo. Prossimo alla pensione posso dire ancora una volta di ripensare al significato delle cose che faccio, quindi grazie. Cilla, cos’è per una struttura come il Gaslini, che eroga il 40% della propria attività a bambini che vengono da fuori regione, da fuori nazione, e per cure altamente specialistiche, altamente complesse? Devo dire che parto da cosa è stata Cilla al Gaslini: nell’89 c’è stata la prima casa, era una casa di 18 letti, soprattutto per genitori che arrivavano, se venivano ricoverati, avevano bisogno di un appoggio, della possibilità di fare una doccia durante la degenza del bambino. E questa prima esperienza ha fatto capire cos’è l’accoglienza, tanto che una delle prime persone accolte, che ha vissuto questa esperienza, che poi è sfociata nel dolore della perdita del proprio figlio, ha deciso di restare a gestire la casa. Ha messo a servizio della casa sé stessa e il marito, nonostante questo fosse il posto dove era morto il loro figlio. Per capire l’impatto di questa prima casa. Oggi sono diverse case per 100 posti letto, che non sono più un dormitorio, ma sono veramente la possibilità di ospitare delle famiglie, perché ci sono dei mini alloggi. Sono tutte in posizioni incantevoli, il vantaggio dell’Istituto, della Liguria, non è trascurabile, parliamo di case che sono a 100 metri dalla passeggiata mare di Nervi o dai parchi di Nervi, ma questo dice l’attenzione che l’associazione ha ai propri ospiti, cioè cercare una postazione prossima all’istituto, a breve distanza e di facile accessibilità sia all’ospedale, sia alla casa. In questo modo è possibile, oggi, dare delle terapie che altrimenti dovrebbero essere date in regime di ricovero. Penso a trasfusioni e terapie antibiotiche che possono essere date a casa con l’assistenza domiciliare, quindi questo dà una possibilità di una dimissione precoce dall’ospedale e per l’ospedale vuol dire avere a disposizione posti letto per altre persone, e allo stesso tempo vuol dire la gestione di queste cure fuori dall’ospedale. Vuol dire anche aumentare la sicurezza perché si evita il sovraffollamento delle strutture ospedaliere, dei day hospital o degli ambulatori in un periodo in cui siamo sfidati dalla sicurezza. Pensiamo all’epidemia del Covid, ai germi multiresistenti, all’impatto devastante che hanno per noi, quindi ridurre il sovraffollamento delle strutture ospedaliere è sicuramente un grosso vantaggio. Non trascuriamo anche, perché siamo genovesi, l’aspetto economico: qualche anno fa facemmo uno studio di quanto costa una cura ospedaliera erogata in una struttura come quella di un day hospital o di un ambulatorio e la stessa cura erogata a domicilio del paziente: c’è un disavanzo di 1 a 3, 400 a 1200 euro a seconda della complessità delle cure. Inoltre le famiglie sanno che possono usufruire a domicilio della continuità delle cure dell’Istituto, ciò significa che vengono dimessi tranquilli, perché sanno di andare in una struttura protetta che consente di non interrompere le cure dell’equipe curante, ma di proseguire con la stessa equipe o con altre persone che però fanno parte dell’equipe che cura, e quindi continuano ad avere i vantaggi dell’assistenza psicologica, dell’assistenza dei volontari che l’Istituto mette a loro disposizione. Questo fa sì che ci sia una vera scoperta del senso del dolore di questi bambini. Volevo dire un’altra cosa. La sicurezza riguarda anche la convivenza tra persone di culture diverse, persone di linguaggi diversi, perché ultimamente, appunto, oltre ad avere tutto il problema dei fuori regione, abbiamo anche la realtà dell’assistenza a persone che vengono dalla Romania o contemporaneamente dall’Ucraina e dalla Russia. O persone provenienti dal Marocco, così come dalla Libia. Quindi, persone che vivono realtà diverse, convivono in queste realtà di accoglienza senza creare problemi, francamente, senza avere problemi, ma riconoscendo la bellezza di queste persone che condividono il loro stesso dolore.
Gheno. Grazie, grazie molte, dottor Garaventa. Prima di passare la parola all’ultimo intervento volevo fare due considerazioni che mi ha suscitato il Dottor Garaventa. La prima è questa: ricordo che tanti anni fa andammo da Papa Francesco in un’udienza in cui Papa Francesco recuperò un proverbio abbastanza famoso, ormai se ne fa anche abuso, che diceva che “per educare un bambino ci vuole un villaggio”. Ecco, mi pare che questo proverbio possa essere assolutamente utilizzato anche per indicare il lavoro che un’associazione come Cilla fa. Perché quello di cui ci ha parlato il dottor Garaventa, questa è la mia prima considerazione, è quello che noi potremmo chiamare una “comunità curante”, che è fatta da competenze diverse: c’è la competenza clinica, tecnica, anche super-specializzata, l’oncologia pediatrica, al di là di questo luogo di dolore ineffabile, verrebbe da dire, ma è anche un luogo di grande sfida per la scienza. Ma insieme c’è un’umanità quotidiana di cui probabilmente noi non abbiamo coscienza, perché Rosanna prima citava la possibilità di farsi una doccia quando si assiste un familiare malato e non sei a casa tua, la possibilità di andare insieme a qualcuno a pregare per chi ha fede o magari semplicemente non sentirsi da sola. Ecco, io credo che non sia che siano cose diverse, ma sono aspetti diversi di un medesimo prendersi cura, che anche poco fa Mons. Paglia ci richiamava. Questa cosa del villaggio mi dà anche l’occasione per dare la parola a Dario Bolis, che è qui con noi. Ultima considerazione: noi siamo un paese di vecchi, la verità è questa, c’è il dramma del dolore innocente, come avrebbe detto Péguy, ma c’è anche una realtà di un Paese che sta invecchiando, in cui la fragilità diventerà, come dire, esperienza diffusa. E se noi come Paese non recuperiamo l’idea che bisogna prendersi cura gli uni degli altri, ecco, non ci saranno strutture che tengono, è impossibile. Ci vuole innanzitutto un cuore capace di accoglienza. Un cuore che non è una pura espressione sentimentale. E qui passo la parola a Dario Bolis di Fondazione Cariplo, che ci lancia l’ultimo pezzo del nostro incontro. Beh, grazie.
Bolis. Parto però da alcune suggestioni che mi avete ispirato, perché è ovvio che nella ricerca dell’essenziale bisogna aver vissuto delle esperienze e purtroppo tante volte ci si accorge dell’essenziale in quei momenti di cui ci avete parlato voi. È capitato anche a me, ovviamente, in un luogo da cui mia sorella non è più uscita e ricordo esattamente quelle sensazioni che però erano sensazioni quasi di benessere, è incredibile. Quando arrivi a quel momento e c’è qualcuno che si prende cura di te, dei familiari, che ti sta vicino e ti accompagna in quel momento così difficile. Questa è l’esperienza che, se non hai vissuto, non riesci nemmeno a raccontare. E che cosa vi voglio raccontare? Non questioni tecniche ovviamente, cosa fa la fondazione… No, io penso che la riflessione che stavi facendo sia importante. In un mondo in cui il nostro Stato fa fatica e arranca nel welfare, c’è quello che noi consideriamo il welfare di comunità, dove a un certo punto lo Stato non ce la fa più, non ci sono più risorse. Qualcuno, però, le cose le deve fare, e queste persone qui lo dimostrano, così come l’esperienza di cui adesso vi racconteremo con uno splendido documentario. Il terzo settore oggi fa supplenza allo Stato. Una volta si parlava di sussidiarietà, oggi fa supplenza. E quindi noi parliamo di welfare di comunità quando c’è qualcuno che, all’interno di un sistema, porta quel pezzetto importante che è la cura e l’accoglienza e che senza il quale probabilmente rimarrebbe l’aspetto, seppure importante, sanitario. Ma io credo che mia sorella non aveva bisogno solo di quello. L’esperienza di cui brevemente voglio raccontare, perché sono la persona meno adatta, anche se sono qui un po’ come testimonial, è quella de “Il paese ritrovato”, che è un luogo particolare che sta in provincia di Monza e Brianza, lo hanno realizzato gli amici della cooperativa La Meridiana. Dovete immaginarvi un villaggio, un borgo, dove le persone che sono lì purtroppo per una lunga degenza però possono vivere in un contesto protetto, possono uscire, possono andare a prendere un caffè in un bar, possono andare dal parrucchiere. È un posto fantastico! Anche questo vuol dire la cura per una malattia o diverse malattie. Quando sono stato l’ultima volta a trovarli, mi capita di andarci, ho incontrato Pippo. Pippo era una persona che viveva purtroppo allettata e parlava solo con gli occhi. Eppure a me ha raccontato che lui si alzava al mattino e aveva voglia di vivere. Aveva una lavagnetta con cui Rita, che è lì davanti, mi ha insegnato a parlare con lui. Con me oggi qui ci sono gli amici della cooperativa La Meridiana, sono loro l’anima del progetto. Le famiglie sono quelle che beneficiano di questa accoglienza, questa cura. È vero, ci sono i muri, ci sono le strutture, ma senza di loro questa cosa sarebbe semplicemente un’assistenza pur professionale, ma sanitaria. Ultimo pezzettino: c’è il welfare di comunità, quello per cui tutti noi ci dobbiamo prendere cura, ma c’è una cosa cui stiamo mirando, che è il welfare di precisione. C’è qualcosa che possiamo fare per cui possiamo dare a ciascuna persona quello di cui ha bisogno, il maglione, perché non tutti hanno bisogno della stessa cosa. Se pensate che ognuno di noi è profilato sulle piattaforme tecnologiche e queste piattaforme sanno di noi qualsiasi cosa, conoscono i nostri bisogni materiali per cui il giorno dopo vi arriva un qualcosa che vi propone l’acquisto di un oggetto. Noi siamo convinti che si possa arrivare a un welfare di precisione per cui, se ciascuno di noi volesse, fosse disponibile a mettere su certe piattaforme che beneficiano della tecnologia i propri bisogni specifici nei momenti di difficoltà, allora avremmo la possibilità di far arrivare a una mamma sola con un bambino i pannolini di cui ha bisogno, non il piatto di pasta, di cui magari ha certamente bisogno, ma forse la sua priorità è quell’altra. Questo garantirebbe la possibilità di utilizzare meglio le risorse, quindi noi stiamo puntando lì. La cura è necessaria, l’accoglienza è fondamentale. La tecnologia oggi ci dà la possibilità di arrivare chirurgicamente a dare quello che serve. Ci vorranno degli anni, ma dobbiamo arrivarci. Quindi, ringrazio tutti voi per le esperienze. Quello che invece vi vogliamo proporre è un altro passo, perché Pippo, la persona che ho conosciuto, come tante altre, era in una condizione che noi pensiamo potesse essere estrema. Invece comunicava, raccontava e via dicendo. Ecco, i malati di SLA, voi credo sappiate cos’è la Sclerosi Laterale Amiotrofica, hanno tante cose da dire, da raccontare. Grazie a un’operazione che abbiamo fatto e che guarda a un concetto di rispetto nei confronti del dolore, che vuol dire esattamente il contrario della spettacolarizzazione del dolore, abbiamo voluto raccontare questa cosa in un documentario che è su RaiPlay. È stato realizzato da una casa di produzione che si chiama Libero, dai ragazzi di Marco Falorni, ed è un’esperienza che dimostra come si possa raccontare alcune delle storie che voi ci avete rappresentato per portarle verso un pubblico più numeroso. Grazie.
Gheno. Grazie anche a Dario Bolis, quindi adesso inizierà la proiezione di questo documentario. Non sarà in diretta streaming, quindi potranno vederlo adesso le persone che sono presenti in sala, però appunto è caricato sulla piattaforma RaiPlay, quindi mi riferisco a quelli che non hanno la possibilità di vederlo adesso, potranno comunque vederlo tramite lo streaming di RaiPlay. Io ringrazio tutte le persone presenti per aver partecipato, ringrazio ovviamente Luca Petrolo, Maria Rosaria, Rosanna, Alberto e Dario per le loro testimonianze. Al termine del video ci sarà il Social Corner con Don Claudio Burgio, i ragazzi di Kairos, per cui la serata è ancora molto intensa. Arrivederci e grazie a tutti.