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LA CURA DELLA VITA
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Franca Benini, responsabile Centro regionale veneto di Terapia del dolore (TD) e cure palliative pediatriche (CPP), Padova; Davide De Santis, presidente Mongolfiera odv; Cristiano Ferrario, docente di oncologia McGill University, Montreal. Introduce e modera Marco Maltoni, Medicina e Persona, direttore Unità Cure Palliative della Romagna, presidente associazione Sul sentiero di Cicely-Per le Cure Palliative APS
L’essere affetto da una malattia “inguaribile” non coincide con il trovarsi in una condizione “incurabile”, ovvero è sempre possibile prendersi cura di una persona affetta da malattia, anche quando cronica ed evolutiva, o da disabilità. La cura della vita non garantisce alla persona ammalata una risposta automatica ai “perchè” che si presentano, in particolare al “perché” ci si sia venuti a trovare in quella condizione così drammatica, che non si è scelto. Le relazioni di cura possono, però, sostenere la libertà del malato nella ricerca del significato e dell’essenziale, ricerca che spesso esplode in un grido nei momenti connotati da una sofferenza tale da potere annichilire. Nella “comune vulnerabile umanità”, come diceva la infermiera fondatrice delle cure palliative Cicely Saunders, la condizione di chi è curato e di chi cura favorisce il cammino di una ricerca, che può diventare accettazione dell’istante presente, e fioritura di una speranza dentro ad un limite. È come se certi “vincoli”, anziché limitare la espressione della libertà, la mettessero nelle migliori condizioni di esprimersi. La iniziatrice delle Cure Palliative Pediatriche Italiane Franca Benini, e l’oncologo palliativista Cristiano Ferrario raccontano come, nella loro esperienza, si siano verificate delle “prese in carico” di malati e famiglie in cui siano accaduti un rapporto e uno sguardo così affascinanti.
Con il sostegno di Tracce
LA CURA DELLA VITA
LA CURA DELLA VITA
Martedì 20 agosto 2024
Ore 17:00
Sala Auditorium D3
Partecipano:
Franca Benini, responsabile Centro regionale veneto di Terapia del dolore (TD) e cure palliative pediatriche (CPP), Padova; Davide De Santis, presidente Mongolfiera odv; Cristiano Ferrario, docente di oncologia McGill University, Montreal.
Introduce e modera
Marco Maltoni, Medicina e Persona, direttore Unità Cure Palliative della Romagna, presidente associazione “Sul sentiero di Cicely-Per le cure Palliative APS”.
Con il sostegno di Tracce.
Maltoni. Buonasera, grazie a tutti per essere qui. Il tema dell’incontro di questa sera non è semplice: riguarda quella cosa scandalosa e misteriosa che è la presenza del dolore nella vita dell’uomo. Scandalosa e misteriosa perché nessuno se lo sceglie. Se lo si trova, a volte all’improvviso, a volte progressivo e persistente giorno dopo giorno. È anche stringente perché mette alle strette. Del tutto legittimamente, può annichilire, può far chiudere in se stessi, può far disperare. E certamente, almeno in alcuni momenti, io credo che sia così per tutti, specie quando si tratta di dolore innocente, cioè quando a farne le spese sono i bambini, i piccoli. Ma può anche succedere che, a partire da questa sofferenza, il dolore stesso, “occasione”, fra virgolette, non voluta, tolga la sordina alle domande vere, al grido del perché, alla ricerca del significato di quello che sta succedendo, alla ricerca dell’essenziale che impregna la quotidianità, ma che deve essere comunque scrutato e riconosciuto. Può iniziare un cammino, un cammino personale di passaggio dall’inaccettabilità della dipendenza ad un’accettazione e perfino ad un’offerta della dipendenza. Ma questo cammino personale, fatto da soli, o soli come individui o soli come famiglie, è impossibile. La tribù va allargata. La cura della vita, il titolo di questo incontro, passatemi il termine, rappresenta una sintesi antropologica di un modo di concepire l’uomo. Nella cura sono rappresentati due soggetti: quello che si prende carico e quello che è preso in carico. Per un dinamismo umano di cura, spesso reciproca, è necessaria una concezione dell’uomo come relazione. L’incontro di oggi pomeriggio vuole mettere a fuoco delle esperienze di cura. Fra l’altro, prima abbiamo visto insieme una splendida esperienza degli hospice in Russia, che è veramente un esempio molto, molto bello. Esperienze di cura, cioè di presenza, di rapporto, di accompagnamento, di cammino insieme. So che ci sono delle legittime preoccupazioni nella società civile, che la volontà delle persone malate rispetto ai trattamenti che vengono loro proposti siano rispettate. Questo è assolutamente giusto. Ma le sottolineature con una pretesa esaustiva, totalizzante, di autodeterminazione corrono il rischio di lasciare ai curanti e a tutti un gusto amaro, a mio modo di vedere, un gusto amaro di deresponsabilizzazione, di disinteresse, di presa di distanza, di inerzia nella ricerca clinica e nella ricerca psicologica, di un accontentarsi troppo facilmente. Come diceva il chirurgo noto a tanti di noi, Enzo Piccinini, la cura è essenziale perché un uomo è qualcuno quando è qualcuno per qualcuno. Oggi pomeriggio abbiamo alcuni amici qui ad aiutarci in questo percorso di conoscenza della cura. Franca Benini è la responsabile del Centro Regionale Veneto di Terapia del Dolore e Cure Palliative Pediatriche a Padova, ma è la fondatrice delle cure palliative pediatriche italiane. Davide De Santis, nella sua vita e nella sua esperienza, ha fatto nascere l’associazione La Mongolfiera, di cui adesso è presidente. Cristiano Ferrario, oncologo, è docente di oncologia alla McGill University di Montreal. Abbiamo deciso di provare a fare una cosa: due giri di domande, per rendere il momento più interattivo. Le domande sono le stesse, quindi le dico una volta sola; dopo ricordatevele. La prima domanda è: da cosa è nato tutto? Cioè quali sono i bisogni che avete visto nella realtà, con i quali vi siete impattati tali da mettervi in moto? Franca.
Benini. Grazie Marco, grazie agli organizzatori e soprattutto grazie a voi. Allora, io non so se riuscirò a fornirvi un aiuto nella gestione, nel capire che cosa è l’essenza della cura, ma cercherò di condividere i miei moltissimi dubbi, le domande senza risposta e anche alcune certezze. Domande che alle volte richiedono dei sistemi di fuga, perché diventa veramente troppo trovare delle risposte esaustive o dare delle rassicurazioni a bambini e a genitori che mettano a tacere i dubbi e rispondano ai perché. Anche perché, per il lavoro che faccio, molto spesso ti trovi a confrontarti con storie diverse, ma dove l’inguaribilità, il dolore e la sofferenza sono una parte reale della vita, senza filosofia, senza sublimazione retorica. E bisogna rispondere in maniera concreta a quello che il bambino ti chiede, quello che ti chiede la famiglia, quello che ti chiedono gli amici, quello che ti chiede chi c’è intorno a lui. Io, come avete capito, faccio la palliativista pediatra. Mi occupo di bambini che non hanno la possibilità di guarire e delle loro famiglie. È un lavoro strano, un lavoro per me molto bello, che mi ha permesso di conoscere tantissime storie, tantissimi bambini che si modulano per età, dal feto fino al giovane adulto, per patologia. Bambini che hanno una malattia oncologica, ma molto, molto più spesso che hanno patologie diverse, neurologiche o di altro genere. Bambini che vivono in contesti diversi, che vivono in culture diverse, che hanno credi diversi, ma se poi tu porti al nocciolo e rifletti su quello che quella storia ti pone, le domande sono sempre uguali. Perché così tanto dolore? Perché una sofferenza così ingiusta? Qual è il senso di tutto ciò? E se poi lo ribalti sulla tua professione ti chiedi: ma io cosa posso fare veramente per loro? Sto vendendo fumo o riesco ad aiutarli in qualcosa? Ti chiedi se lo fai per te stesso oppure se credi che quello che fai sia veramente l’essenza di quello che tu ritieni essere la tua professione. E tutto questo si svolge in un mondo dove parole come dolore, inguaribilità, sofferenza, morte non sono più di moda e dove, se tu cominci a chiedere il perché, molto spesso rimani senza un interlocutore. Tornando un po’ alla domanda di Marco su come sono partita, ecco, vi dico una certezza. È successo per caso. È successo come una cosa del tutto naturale. Perché? Perché è naturale rispondere ai bisogni che ti trovi di fronte, bisogni che molto spesso rimangono non corrisposti. Ed è cominciato con una storia, come succede molto spesso per noi. Due gemelle, estremamente premature, nascono. Una muore in sala parto, l’altra vive. A quei tempi facevo la neonatologa, un lavoro che ti stimola perché ti senti di poter cambiare il futuro delle persone. E siamo nei primi anni ’80, quindi una neonatologia completamente diversa, come strumenti e come possibilità. Sara, questo è il nome della bambina che vive, vive nonostante noi. Ha delle situazioni in cui preannunciamo ai genitori: guardate che sta per morire, delle situazioni in cui lei ce la fa. Io ricordo ancora quando Sara è andata a casa e sono passati un bel po’ d’anni, tutti felici, i genitori perché ricostruivano la loro famiglia, noi perché eravamo stati bravi, perché ci sentivamo realizzati da un punto di vista professionale. Abbiamo seguito Sara con i famosi follow-up; una volta al mese incontravamo la bambina, cercavamo di capire quali erano i bisogni clinici e non eravamo in grado di ascoltare i veri bisogni. Poi casualmente incontro, dopo circa sei mesi, per le scale, il papà. Aveva in un braccio un sacco di carte, la cartella clinica e moltissime ricette, e io chiedo la fatidica domanda: come sta Sara? E lui ha avuto una reazione stranissima, ha cominciato a urlare per le scale, la gente che si fermava, e mi ha detto: Ma che cosa mi chiede? Lei lo sa come sta Sara, Sara sta male? Non vede, non sente, non comunica, non mangia; sto organizzando un nuovo ricovero per darle da mangiare attraverso una PEG. La nostra famiglia va a rotoli, voi non ci avevate detto nulla, voi siete spariti. E mi ricordo che mi ha detto: non è sufficiente tirarli fuori, è un detto; sono riusciti a tirar fuori questo bambino, bisogna esserci nel dopo, bisogna esserci nonostante tutto. Noi c’eravamo, ma sapevamo già che Sara era così e pensavamo di non poter fare nulla per aiutare Sara e questa famiglia. Ecco che da lì è venuta un po’ l’idea di provare a fare qualcosa, e uno dopo l’altro si sono inanellate persone e idee e si è costruito il team delle cure palliative pediatriche, dove l’obiettivo era di seguire prima, durante e dopo la malattia, focalizzandoci appunto sui bambini che non rientrano nella medicina classica, che non rientrano nei paradigmi del bambino sano che cresce, che è un piacere condividere in tutte le sue conquiste. Quali sono gli strumenti che abbiamo messo in campo inizialmente in maniera molto limitata? Abbiamo cercato soprattutto di giocare su quelle cose che non sembravano tanto mediche, perché io mi ricordo che mi dicevano: “ma tu sei un medico bohémien”. Perché abbiamo cominciato ad andare nelle case, a chiedere, ad ascoltare, a dedicare tempo, a creare relazioni, a decidere, a fare delle scelte. Scelte che sono dolorose alle volte, ma che condividendole con i genitori, e quando possibile anche con i ragazzi e con i bambini, diventano delle scelte di vita, perché ti permettono di costruire la speranza nel limite invalicabile della malattia. Noi sappiamo che c’è una malattia che non guarirà, e quindi su quella dobbiamo lavorare, su quello che la malattia non ci toglie, che è la vita, indipendentemente da tutto, e su questa vita noi possiamo fare tantissimo e lavorare tantissimo. E da lì è partita tutta questa lunga esperienza. Ricordo una riflessione. Nella nostra realtà, nell’hospice pediatrico, si bevono molte tisane, molti caffè. Davanti a un caffè una mamma, Paola, la mamma di Alessandro, mi ha detto: “le devo dire una cosa, la vita inizia quando finisce la paura, quando tu non hai più paura che tuo figlio possa soffrire, quando non hai più paura di non potercela fare, quando non hai più paura di quello che succede domani, quando non hai più paura di essere solo”. E quindi io condivido l’ipotesi di Paola. Anche secondo me, la cura e l’essenziale della cura è lavorare per togliere la paura, e gli strumenti ci sono, bisogna ritirarli fuori dal profondo del nostro modo di essere persona, nel rispetto delle cose, nella non delega assoluta di quello che noi abbiamo paura di fare, di esserci nelle scelte, di esserci indipendentemente dalla fatica dell’esserci, perché è un lavoro che alle volte è faticoso, che ti dà la voglia di fuggire, ma che ha anche molte opportunità, per quanto riguarda il bambino in primo luogo, ma anche noi stessi come professionisti. Non so se ti ho risposto.
Maltoni. Le ho chiesto se queste cose così belle che ha raccontato posso dire che vengono da una donna di buona volontà che raccontava prima nel salottino la ricerca e il desiderio di incontrare una risposta che ancora non si è, come dire, palesata o riconosciuta, diciamo, esplicitamente. Davide, grazie.
De Santis. Io sono Davide De Santis, ho studiato economia, adesso faccio il consulente e, in effetti, parlare della cura e della vita in mezzo a due professionisti della cura mi fa chiedere anche il perché, ecco la prima domanda di senso. Cercherò di dare il mio contributo, non so se sarò in grado, nel caso sono dieci minuti in cui vi potete riposare tranquillamente e godervi anche quest’aria fresca che è molta. Parto subito. In verità io faccio parte della Mongolfiera, che è un’associazione che segue famiglie con figli disabili. Non stiamo parlando di persone, di bambini che hanno una fine vita o qualcosa del genere. Anzi, diciamo che la sofferenza non ha una fine. Tutte le persone che incontriamo non vedono una fine a questo, che può essere una risoluzione della disabilità o la fine appunto della vita. E mi sono sempre chiesto cosa accomuna tutte queste famiglie. Vi faccio alcuni esempi di famiglie che incontriamo, che sono più vicine a me. C’è una famiglia con un figlio con la sindrome di Angelman, che ho conosciuto a Messa. Facevano una raccolta fondi per andare a Miami, dove avevano letto che c’era una ricerca che poteva risolvere questa sindrome di Angelman. Mi ricordo le loro facce, tristi, assorte, e non sapevano cosa fare con questo bambino. Oppure un’altra famiglia in cui il figlio era nato a 450 grammi. L’abbiamo conosciuta tra l’altro perché la dottoressa gli aveva dato alcuni consigli alla nascita, anche un po’ insistendo. Dopodiché la dottoressa gli ha detto: “Guarda, ho degli amici”. Li abbiamo conosciuti ed è diventata un’amicizia familiare, quasi. Oppure un’altra famiglia che ha un figlio con un ritardo: la incontriamo e inizia una convivenza e una scelta su tutte le cose che dovevano decidere per il figlio, perché questo ritardo li aveva un po’ sconquassati, non sapevano proprio cosa fare con questo bambino. Oppure un padre con una figlia tetraplegica, che la prima volta che l’ho incontrato mi ha detto: “Davide, il mio desiderio più grande è che il primo giorno in cui è nata, la dovevo portare al cimitero, non dovevo prolungare le sue sofferenze e non so perché siamo ancora qua”. Tutte queste storie hanno qualcosa in comune, che può essere le terapie; in verità, tutti questi casi hanno terapie e ausili diversissimi tra loro. Ma quando ci troviamo di fronte a questa famiglia, la prima domanda, come diceva prima Franca, è una domanda di senso: “Perché proprio noi? Perché i nostri figli? Ma alla fine, la felicità è possibile per noi?”. Qui non si risolve mai la questione. In verità, a queste domande, quando me le fanno, mi viene in mente molto quello che è successo alla mia famiglia. Io sono un ragazzo molto semplice, sono molto orso. Mi interessavano poche cose quando ero all’università. Mi interessavano cose abbastanza futili, che io non reputavo importanti per la vita, ma erano le uniche cose che mi davano felicità. E quando all’università incontrai il dottor Enzo Piccinini, che seguiva l’esperienza degli universitari di CL, mi aprì il mondo. Innanzitutto, aveva questa caratteristica che, anche se le cose futili che io pensavo fossero futili, erano importanti anche quelle. Erano il calcetto e la mia futura sposa. Anzi, se le godeva di più, con un’intensità maggiore di quella che io pensavo ci potesse essere. E l’altra cosa era che aveva una vita intensa su tutto. Gli interessavano le elezioni, la politica, l’amicizia, il lavoro, andava in giro per tutto il mondo. E questo mi ha sempre stupito perché ho detto: “Veramente si può essere felici ancora di più di quello che pensavo, ma soprattutto su tutto, con un’intensità pazzesca”. E aveva contagiato anche quegli amici che poi mi avrebbero accompagnato di lì in poi. Quell’intensità era una conseguenza, perché io mi ricordo benissimo una sua ultima testimonianza quando disse di un dialogo avuto con Giussani e Giussani gli chiese: “Cosa vuol dire amare i tuoi figli?”. E lui disse: “Vado lì con la copertina, gli do la carezzina, quando arrivo a casa li abbraccio”. E in quel momento a me interessava tanto Sara, che era mia moglie. Mi immaginavo di abbracciarla, ecco questa è la felicità. Giussani lo ferma e gli dice: “No, voler bene ai tuoi figli vuol dire voler bene al loro destino”. Quella era una parola che cambiava tutto, perché dava un senso a quell’intensità. Ma è come se lui la vivesse e le desse come una forma, un volto, che io ancora non davo. Per fortuna ho avuto degli amici da lì in poi che mi hanno sempre stimolato a cercarlo, a domandarmi, a guardare quello che succedeva e a tendere a quell’intensità lì. Più avanti l’ho riconosciuto nel dolore. Adesso, nel 2006, abbiamo vinto i mondiali e mi sono sposato. Nel 2008 ci danno la notizia che Sara era incinta. Erano due gemelli. Io pensavo fossero gemelli, avevo detto: “Squadrone De Santis, lo squadrone di calcio”. Invece erano due femmine. Adesso ho quattro splendide femmine. Diciamo che la squadra di calcio è fallita. Però, dai, sono splendide. Insomma, andiamo alla morfologica e il dottore, dopo un interminabile minuto di silenzio, comincia a parlottare con tutti i suoi collaboratori e all’improvviso si volta verso di noi: “Le vostre figlie hanno dei problemi, c’è uno scambio feto-fetale, per cui una, Simona, cresceva più di Teresa, in pratica, in parole povere, rubava sangue e alimentazione a Teresa che rischiava di morire. “E quindi potete prendere una decisione: entro una settimana dovete andare a Madrid, Parigi o Londra per fare un aborto selettivo”. Adesso molti di voi avranno avuto dei momenti di sofferenza, noi eravamo nel momento di felicità più elevata, io e Sara. In quel momento è come trovarsi in spiaggia, qui a Rimini, con il costumino; io non uso il costumino, però con il costumino e l’infradito, e in un secondo ti trovi nella tempesta sull’Himalaya e non sai dove andare. Da quando siamo usciti di lì, veramente il grido era lo stesso di quello che dicevo prima: “Ma perché proprio a noi?”. Noi eravamo disposti a dare la vita per queste due bambine, cioè piuttosto fai del male a noi, io veramente… dov’è la felicità in tutto questo? La cosa bella è che quando uno fa una domanda ha bisogno di gridarla a qualcuno. e se c’è qualcuno a cui gridarla è essenziale. Noi siamo usciti di lì e abbiamo chiamato Chiara, che è una nostra amica fraterna. Ma per due motivi è importante. Uno, perché non è che quando uno ha un problema, ci deve andare a fondo nel problema. Se ha un problema sanitario, Chiara era una dottoressa e si siamo andati a fondo in quell’aspetto lì. Tant’è vero che abbiamo deciso di cambiare dottore, che ha deciso di attendere fino all’ottavo mese. Sara è entrata in ospedale e le gemelle sono nate entrambe. L’altro motivo, in verità, è proprio perché quel grido va rivolto a qualcuno. Va rivolto a qualcuno perché da soli ti schiaccia. Il bello è che Chiara e poi in verità tutti gli altri nostri amici, tutti si sono attorniati intorno a noi. Questa domanda se la sono fatta loro. Sono venuti lì, hanno abbozzato una risposta data dall’esperienza che viviamo tutti, però il bello è stato proprio che hanno cominciato a sorreggerci in tutto il nostro cammino, come se fosse la loro la domanda. Le mie figlie non sono più solo nostre, sono anche di tutti i nostri amici. Cercavano con noi una risposta vera; quel destino buono ancora non ce l’avevo. Eravamo ritornati sulla spiaggia. Purtroppo, quando sono nate c’è stata una complicazione, per cui quella che doveva nascere e non essere abortita ha avuto una sofferenza durante il parto. Mi ricordo come se fosse ieri che mi sono trovato in terapia intensiva da solo. Mia moglie non l’aveva ancora vista, aveva avuto un parto cesareo. Situazione molto confusa, tre giorni senza essere alimentata. Ho fatto cose molto incasinate, volevo addirittura menare l’infermiera che non le dava da mangiare, perché voi pensate a una bambina che piange, il babbo vuole risolvere il problema il più presto possibile. È come se avessi fatto un passo indietro in quel momento. C’è una frase di Mounier che descrive bene la cosa. È come se avessi riconosciuto quel destino buono che diceva Giussani a Enzo. Perché era l’unica soluzione, l’unico senso a tutto quel dono grande che mi era stato fatto. Mi sono trovato ad abbracciare l’incubatrice in cui era Simona a un certo punto. Però lo descrive bene Mounier: “Non può essere un caso o un incidente. Qualcuno è arrivato”. E descrive sua figlia, che era disabile. “Qualcuno è arrivato, era grande e non era una disgrazia. C’era solo da fare silenzio davanti a questo giovane mistero che piano piano ci riempiva di gioia. Mi sono avvicinato a quel lettino senza voce, come a un altare in un luogo sacro dove Dio parlava attraverso segni. Non ho mai sentito così intensamente lo spirito di preghiera come quando la mia mano parlava a quella fronte che non rispondeva o quando i miei occhi vagavano lontano. Mistero che non può essere altro che bontà, una grazia, un’ostia vivente in mezzo a noi, muta come un’ostia, splendente come un’ostia. Niente assomiglia di più a Cristo che l’innocente che soffre”. Questo porta a tre cose e chiudo. Quando uno incontra una cosa e dà un senso, dà un volto a quel senso misterioso di cui parlavamo prima, le conseguenze sono diverse. Uno diventa curioso su tutto perché tutto quello che accade diventa un dono ed è come se tu volessi vedere quel volto, gli volessi dare sempre più definizione a quel volto, diventa un innamoramento, quindi quando uno è innamorato lo ricerca sempre, non lascia più fuori nulla. E quindi la seconda conseguenza è che non si ha più paura, come diceva adesso. Non si ha più paura, si vuole affrontare tutto. Attenzione, la terza cosa che vi dico è che la sofferenza continua perché le domande sulla figlia, su tutto quello che è accaduto dopo, sono tante. Mia figlia, dopo quell’evento, ha avuto una disabilità motoria e ci siamo andati dietro per tanto tempo. Però la sofferenza continua ma la positività è talmente grande che ha sconvolto la disabilità di mia figlia, addirittura ha sconvolto e ha fatto maturare tutta la nostra famiglia. È questo che vogliamo portare a tutte le famiglie, ma siccome so già anche la seconda domanda, il resto te lo…
Maltoni. Va bene, grazie, grazie.
Ferrario. Anch’io voglio ringraziare tutti voi di essere qui ad ascoltarci, ringrazio il Meeting per aver preso questo rischio di darmi il microfono in mano e ringrazio Marco per questa domanda sull’inizio. Perché è vero che all’inizio non lo fai mai tu, a volte lo riconosci poi a posteriori ed è sempre pacificante ritornarci. Se devo essere sincero, il mio inizio, stranamente, è quando avevo 16-17 anni, quindi un po’ indietro, quando un’amica carissima della nostra famiglia si è ammalata improvvisamente di un tumore molto grave, di cui poi sarebbe morta nove mesi dopo, a 42 anni. Io ero un adolescente medio, non particolarmente brillante, e quella situazione di sofferenza che mi superava da tutte le parti era una cosa assolutamente nuova per me. E in quella circostanza di sofferenza ingestibile con le risorse che avevo allora, forse, che metteva in crisi anche la fede che credevo di avere e le ragioni di questa fede, c’è stata un’intuizione di due cose che erano evidenti anche in mezzo a quel pasticcio. La prima era che comunque c’era una convenienza in fondo a stare davanti a queste domande che venivano fuori, che era meglio una vita che si facesse queste domande difficili che una vita che non se le facesse, e questo era conveniente per me e quindi anche in quella confusione adolescenziale questo era chiarissimo. La seconda cosa era che anche quando mi veniva da cedere magari al nichilismo o al pessimismo o alla mancanza di significato, era proprio la testimonianza di questa persona, come lei ha vissuto la sua malattia come una vocazione, diremmo in termini tecnici, era una provocazione tale che io non lo sapevo spiegare, ma che provocava una grande invidia da parte mia, un desiderio di capire le ragioni di quella certezza. Lei addirittura parlava di sentirsi preferita dal Mistero, una frase che magari sentiamo spesso nel movimento, ma quando la vedi incarnata da una persona malata assume uno spessore che è radicalissimo. E quindi, stranamente, l’idea stessa di fare il medico e poi di andare in oncologia, di approfondire le cure palliative, in qualche modo embrionalmente c’era già in quell’inizio e forse è stata una conseguenza un po’ egoista, diceva Franca prima, nel senso che era evidente che era interessante per me continuare a stare di fronte a persone così. C’era quasi un desiderio di poter stare di fronte a persone così per la vita. Mi fa sorridere, questo lo dico anche per spezzare una lancia in favore dei 16 anni, perché a volte, il Signore, anche nel cuore di una persona così magari poco preparata, mette una cosa che poi fa sbocciare lui nel tempo. Adesso, 30 anni dopo, mi ritrovo dall’altra parte dell’oceano in questo posto strano. Lavoro in un ospedale ebreo, in una provincia francofona ma in un ospedale anglofono, in un quartiere di immigrati che vengono accolti da questa società canadese. Abito a Montreal, in Canada, una società molto, molto multiculturale e dove quindi tutti questi pazienti che vengono a trovarmi per una diagnosi oncologica vengono da percorsi assolutamente diversi ed è una continua ricchezza, per me, incontrare tutta questa diversità, ricchezza umana. Non c’è uno uguale all’altro, in tutti i sensi della parola. Ed è un lavoro che trovo veramente appassionante. Mi occupo di pazienti che hanno spesso tumori inguaribili e quindi ci impegniamo per farli vivere più a lungo e nel miglior modo possibile, ma anche, per carità, di un bel numero di pazienti che può guarire dal loro tumore. Magari vengono a vedermi per fare delle terapie che possono aumentare le probabilità di guarigione. La prima cosa che mi colpisce (parlavi dei bisogni) è che il bisogno di significato, che in fondo forse è la domanda “come si fa a vivere dopo una diagnosi così?”, è veramente lo stesso, indipendentemente dalla gravità dello stadio della malattia e forse anche indipendentemente dall’essere malati, perché poi sono domande che mi ritrovo adesso anch’io quando vado a casa la sera e ho passato la giornata in compagnia di queste persone. La prima cosa che fa il tumore, una diagnosi di tumore, è di toglierti quel falso senso di controllo. Normalmente tante delle nostre vite vanno avanti cercando di avere l’impressione che più o meno le cose siano sotto controllo, ed è come se il velo venisse strappato, anche un po’ violentemente, da una diagnosi così quasi indipendentemente dalla curabilità o meno della situazione. Il paziente è chiaramente chiamato a fare i conti con questa perdita di controllo e a decidere, metabolizzare questa cosa, in modo che in fondo è una decisione se questa mancanza di controllo è una cosa positiva o negativa. Ci sono anche i pazienti che verranno guariti, li vediamo spesso fare delle crisi anche profonde, quando poi finita la chemio e i capelli ricrescono e devono tornare alla vita normale, ma se quel passaggio, quell’accettazione di non controllo non è stato fatto, rimane comunque un’ansia profondissima. Mentre alcuni pazienti, magari come la mia amica di quando avevo 16 anni, riescono a fare un percorso invece di accettazione, di affido ad altro da sé, anche in situazioni ben più gravi. Oppure ci sono malati con situazioni incurabili che non riescono a fare questo passaggio per motivi diversi, ognuno ha le sue risorse. Per esempio, io trovo che anche il ricorso sempre più frequente all’eutanasia, che da noi ormai è presente da diversi anni e non solo si sta un po’ normalizzando come procedura ma, oserei dire, anche banalizzando, ecco, il motivo più frequente per cui i malati oggi chiedono l’eutanasia, almeno dove abito io, non è tanto uno stato di sofferenza ingestibile, ma quanto questo tentativo estremo di trovare un po’ di conforto nel controllare quello che si può ancora controllare, e quindi stranamente anche controllare magari decidendo tu il giorno e l’ora di quel passaggio. La cosa che mi colpisce sempre è che di fronte al bisogno dei pazienti che incontro corrisponde sempre, non tanto la risposta che do, ma tanto il bisogno che ritrovo in me. Per esempio, questo bisogno di accettare la perdita di controllo può corrispondere, da parte mia, al bisogno di imparare che anche quello che offro, le terapie che offro, anche le migliori terapie che offro, sia un tentativo come di preghiera, più che una risposta esaustiva o una pretesa sulla realtà o sulla persona. Oppure, in maniera più semplice, anche il bisogno di liberarmi io dalla mia ansia di controllo, dalla mia ansia di prestazione. Ho un esempio molto semplice. Un po’ di anni fa ho seguito una paziente che era un’artista, una donna bellissima dentro e fuori, con una sensibilità molto particolare, che però, di fronte appunto a questa malattia così grave, aveva sviluppato un’ansia veramente, veramente grossa. E io, senza accorgermene, ero come scivolato in una dinamica in cui ero anch’io un po’ controllato dalla sua ansia e cercavo continuamente di aggiustare le cose, di sistemare le cose in modo che soffrisse il meno possibile. E capita poi una volta che lei aveva fatto un test di cui aspettava il risultato veramente con molta ansia, e io avevo promesso che l’avrei chiamata a brevissimo per discutere il risultato, ma poi la realtà ha infilato una serie di giornate dove è stato veramente impossibile chiamarla e quindi poi ci siamo rivisti all’appuntamento successivo. E appena entro, vedo subito che lei è delusissima, proprio amareggiata e amara contro di me, e mi dice: “Non so se riuscirò ancora a fidarmi di te”. E io, un po’ ferito, però le dico che mi dispiaceva ovviamente e che forse la promessa più vera che potevo farle era che ci avrei tenuto a lei comunque e che avrei provato ad aiutarla per come potevo, ma non potevo promettere di essere perfetto e coerente sempre. Le ho anche detto: “Se ti serve un nuovo inizio, possiamo cercare uno dei miei colleghi se ti fa piacere, magari ricominciare con un’altra persona, però stai attenta perché c’è un livello dove il bisogno che tu hai è veramente soltanto Dio che può rispondere a quel bisogno lì, e non sarà mai un’efficienza del team che scegli che può garantire una risposta adeguata”. Mi ha colpito perché da quella, se vuoi, ammissione di colpevolezza quasi, da quella posizione che non aveva tanto da difendere di fronte a lei, è veramente lì che ho conquistato la fiducia di questa persona ed è nato un rapporto molto più sincero. Infatti poi, da lì a poco, si sarebbe aggravata e abbiamo preso delle scelte ben più difficili con una leggerezza che fosse impensabile prima. L’ultimo esempio che voglio fare, per un minuto ancora, è rispetto al bisogno che è evidente nei nostri malati, di queste persone, di essere viste, di essere guardate. Il titolo della mostra della Russia secondo me è bellissimo, “Passare dall’invisibilità all’essere visti”, a cui corrisponde anche il mio bisogno di vedere, di essere stupito tutti i giorni, di scoprire quello che ancora non so. Un esempio molto semplice, dove si invertono un po’ i ruoli per spiegarvelo: c’era una mia paziente a cui volevo tanto, tanto bene, e a un certo punto si è aggravata improvvisamente. Lei arriva a questo appuntamento con il suo taccuino, dove aveva preparato tutte le domande da farmi, preparatissima, organizzatissima, e comincia a farmi tutte le domande. Alla fine mi dice: “E poi c’è una cosa che vorrei discutere, vorrei capire meglio questa storia, questa opzione dell’eutanasia. Però, per come ti ho conosciuto, per come hai lavorato per me in questi anni, ho come l’impressione che sia una cosa che non ti va tanto di discutere”. E non è che le avessi detto: “Sono di CL, sono cristiano”. Non lo so, l’ho curata. “Per cui, se è una cosa che ti dà fastidio, che ti ferisce discuterne, ne parlerò con il mio medico di base”. E mi ha veramente commosso questa attenzione che una paziente ha avuto verso di me, dove mi sono, tra l’altro, sentito io, guardato, scoperto, riconosciuto come persona e non come il provider di un servizio, tipo macchinetta delle bibite da cui vai a comprare la chemio o l’eutanasia. Per cui, giusto per concludere, il titolo è sulla cura; in inglese c’è questo termine bellissimo del “care”, che mette un po’ insieme il prendersi cura di qualcuno perché ti curi di lui, ti interessa questa persona. Perché l’altro ti interessi vuol dire che devi riconoscere che ha qualcosa da dire a te, che tu sei nella posizione di bisogno di essere sorpreso tutti i giorni ed essere tirato fuori tutti i giorni dalla tua bolla e da quello che sei già.
Maltoni. Grazie, penso che staremmo qui ad ascoltarvi per delle ore. La seconda domanda vi richiede invece anche una attenzione ai tempi. Avete già iniziato a dire come, di fronte a quei bisogni che avete colto nella realtà e che sono aperti, cioè non è che si chiudano, però il tentativo di rispondere, il tentativo di una responsabilità di fronte a questa realtà che vi ha interpellato.
Benini. Personalmente sento fortissima la responsabilità di fare bene questo lavoro, di non vendere fumo. Perché di fronte ho delle persone che hanno dei bisogni ed è mio compito professionale rispondere in maniera adeguata. È una responsabilità che però, da sola, va puntellata. Da solo ciascuno di noi può fare quel pezzettino che può, come dicevi tu, ma va puntellata in un lavoro di team, va puntellata in un lavoro continuo di conferme e riconferme con la famiglia, con il malato, con il bambino. Non diamo quasi mai grosso valore al bambino, parliamo molto spesso di genitori, ma dobbiamo ricordarci che, in tempi e in età che noi non presupponiamo nemmeno, già verso l’anno, i due anni, i bambini ti fanno capire quello che vogliono, come vogliono che tu li gestisca, quali sono i loro desideri. E quindi è un continuo rimbalzo, è come giocare a ping pong, fra quello che tu proponi e quello che loro ti ripropongono, e nella ricerca di una deresponsabilizzazione verso il possibile errore che può essere solo nostro, e che quindi diventa responsabilità di proposta e accompagnamento assoluto nelle scelte. È un lavoro faticoso, sì, è un lavoro difficile perché ti trovi talvolta a rispondere a dei bisogni che mettono insieme le tue competenze professionali ma anche con quella parte di te che è molto più difficile da gestire: la deontologia, l’etica, ma soprattutto la tua emotività di persona, il fatto che ti affezioni a quelle persone, a quei bambini, alle tue paure, alla tua storia personale. E questi diventano dei filtri della tua cura che alle volte possono essere dannosi, ti allontanano, ti fanno paura, e allora qualche volta succede, dobbiamo accettarci anche per questo, dai delle risposte a scatti, fai la fuga oppure rispondi in maniera impersonale credendo in una medicina miracolistica che tu sai già che non è possibile e che fallirà. Quindi è un lavoro difficile, ma dove la difficoltà viene sicuramente ottemperata se lavori in team e giochi a ping pong con la famiglia, ma soprattutto con il bambino. È un lavoro difficile perché sono malattie in continuo divenire. Una mamma una volta mi ha detto: “Sai, ogni tanto mi manca il fiato, perché fai le scale e sei arrivata in cima e poi ruzzoli alla base di quella scala, e quindi ricominci, ti ri-livelli verso altre situazioni.” E quindi è importante capire e mettere in tasca, già in partenza, questa possibilità e condividerla con i genitori, dicendogli che succederà questo, ma noi ci siamo. È un lavoro difficile perché a volte si fa fatica a farsi capire, a livello sociale, ma non solo, anche a livello medico. Si usa talvolta un glossario difficile, si usano delle parole che vengono interpretate in maniera anomala e quindi alle volte diventa ancora più difficile. Ma è un lavoro che, come vi ho già detto, fa innamorare e che cambia la vita della gente, cambia soprattutto la tua vita. Almeno a me l’ha cambiata, mi ha fatto tornare con i piedi per terra. Io non rinnego la medicina, non rinnego la tecnologia, non rinnego la scienza, ci credo, fermamente ci credo; ha creato un mondo diverso, forse alle volte anche un mondo più giusto, ma senza l’altra gamba che è data dalla relazione, dalla capacità d’accoglienza, dalla capacità di comunicare onestamente, dire la verità, la medicina lascia il tempo che trova, diventa una vendita, diventa una messa a disposizione di strumenti dove però ciascuno di noi si trova da solo nell’usarli. Ha sicuramente cambiato il mio concetto di tempo. Il tempo è prezioso, è svalutato in maniera drammatica in questa società, e anche questo l’ho imparato dalle storie. In un colloquio post-mortem, quando muore un bambino, noi, i genitori, chi l’ha seguito ha bisogno, non dico di chiudere il caso perché non si chiude, ma di rivedere come sono andate le cose. E ricordo una coppia in cui si siedono e la mamma mi dice: “Beh, devo dire che noi siamo stati proprio fortunati.” È un po’ strano che una coppia ti dica questo quando stai parlando di un’esperienza certamente destruente come la morte del proprio figlio. E allora le ho chiesto: “Ma mi spiega un po’ il perché?” E lei mi ha detto: “Perché noi abbiamo avuto del tempo. Voi ci avete preparato, ci avete detto che per nostro figlio c’era poco tempo e noi ce lo siamo goduti. È un tempo preziosissimo, è quello che ti resta, è quello che resta ed è il ricordo più bello. Pensi un po’, ci sono delle famiglie che perdono i figli in un secondo, in un incidente, quelli non hanno tempo.” E quindi questo messaggio sul tempo a noi tutti, come persone, come professionisti, penso che sia un messaggio centrale da far nostro. Mi ha insegnato sicuramente la grandezza dei bambini, perché loro sono meravigliosi. Tu gli dai un supporto e loro ti cambiano la vita, ti prendono per mano. C’è da dire che la disperazione è infettiva. Quando uno è disperato, è disperata la famiglia, è disperato il mondo, è disperato il team che lo segue, soprattutto se questa disperazione non ha un senso, se questa disperazione toglie il fiato. Quindi il bambino riesce piano piano a condurre, nella stragrande maggioranza dei casi, e vi assicuro, non è l’età, non è la competenza a cambiare le cose. E questo è qualcosa che io ho imparato da loro nella vita vera, nella modalità di affrontare la malattia. Ho cambiato i miei riferimenti, le mie cose essenziali, le cose, le persone, le relazioni, ed è innegabile che loro mi hanno insegnato a vivere meglio. Sono tante storie, tante diverse, ciascuna a modo suo importante, ciascuna a modo suo unica, ma ci sono alcune storie, e non so neanche il perché, che ti rimangono più in testa. Ve ne racconto una, ad esempio, la storia di Davide. Davide è un bambino di sei anni, un po’ avanti, perché a sei anni leggeva, scriveva, che muore per un tumore cerebrale, un glioma intrinseco del tronco, un tumore che quando fai la diagnosi hai già in tasca l’evoluzione. È un bambino considerato serio, dalla diagnosi non è mai stato ricoverato. È un bambino che viveva sempre con un quaderno dove scriveva tutto, disegnava tantissimo, faceva un sacco di ghirigori. Di quei bambini che li ritieni un po’ troppo adulti per la verità, ma poi nel momento giusto sanno dare il massimo dell’essere bambini. Bene, Davide muore di una “bella morte”, come l’hanno definita i genitori, muore a casa sua, nel suo letto, con il fratello. Muore senza dolori, i genitori dicono che si è addormentato e la mamma mi ha detto che è stata un’esperienza positiva, un’esperienza bella, e questo senza creare della filosofia su un evento che trascina sicuramente un mondo di disperazione. Però l’evoluzione è stata questa. Qualche giorno dopo i genitori vengono in hospice e mi portano in una busta un foglio del quaderno di Davide. E c’era scritto: “Franca, ti regalo i miei giochi,” con un punto esclamativo grandissimo. Guardo la mamma e mi dice: “Guardi, è tutta farina del suo sacco”. Quando io gli ho chiesto: “Ma perché regali alla dottoressa i tuoi giochi?” Lui ha risposto: “Perché lei vede tanti bambini e quindi magari può cercare di giocare anche con loro. Ogni tanto giocavamo con il cubetto di Rubik, che perdevo sempre. “E poi ho pensato che forse fa bene anche a lei giocare un po”. E allora quando vado in crisi, non è frequente, mi chiedo: “Ma perché non continuare a giocare?” È un messaggio drammatico, secondo me è la cura che i pazienti hanno di noi. E quindi, pazienti come Davide, ma ce ne sono tanti, sono lo stimolo per andare avanti, sono lo stimolo vero per continuare in una professione che secondo me non può essere se non così.
De Santis. Il mio secondo intervento durerà mezz’ora. C’è già il timer grosso, sono già preoccupato. Da una gratitudine scatta una gratuità su tutto, come dicevo prima. È nata un’associazione che si chiama “La Mongolfiera”, che non è una questione di uno, ma è veramente dal bisogno di uno che è nata un’avventura per tanti. È un’amicizia che è maturata veramente lì ed è diventata per il mondo. È nata quando io ho iscritto mia figlia a una scuola paritaria quando aveva tre anni, quindi la scuola materna, e ho capito che in quel tempo c’erano pochi contributi statali per gli insegnanti di sostegno di cui lei aveva bisogno. Soprattutto, io abitavo in un altro comune, quindi il comune non ci dava nessun contributo. Io volevo portare mia figlia lì perché sapevo che quella scuola lì le voleva bene, cioè c’erano persone che avevano uno sguardo positivo nei suoi confronti, l’amavano, mettevano al centro i bambini che avevano di fronte, e lei aveva questa caratteristica, come penso tanti di noi, che se il punto originale è metterla al centro, lei faceva di tutto. Anche nelle terapie era così: ogni volta che qualcuno la guardava in maniera amorosa, lei poteva fare di tutto. Io volevo che andasse lì. La Preside mi dice: “Questo è un costo troppo elevato per noi e ci dovete dare una mano.” Questo voleva dire per la famiglia dare sui 7.000 euro oltre la retta. Era una cosa insostenibile, io uscito di lì ero molto arrabbiato perché non è possibile che per una disabilità tu debba pagare di più degli altri. Ho chiamato l’avvocato, l’avvocato era nel consiglio d’amministrazione della scuola quindi era tutto un casino, e allora sono andato via e con mia moglie ci siamo detti: “No, dai, proviamo a vedere se riusciamo a risolvere la questione.” Quindi abbiamo chiesto agli amici, ed è stato bellissimo perché è stato un processo di responsabilità nei confronti di nostra figlia che neanche mi potevo immaginare, perché ci siamo mossi e abbiamo chiesto. C’è un popolo che ci è venuto incontro ed era pronto ad aiutarci. Tant’è vero che sono ritornato dalla Preside, che ero contentissimo, ero veramente fiero di me. Ho detto: “Ho fatto l’Excel, abbiamo ottenuto tutti i soldi, la iscriviamo qua.” Però c’era una domanda che ti sale e diventi curioso, come dicevo prima, e ho detto: “Ma le altre famiglie come fanno? Perché io ho fatto molta fatica e poi non so quanta rete ci sia per le altre famiglie.” E la Preside secca ci ha detto: “Escono da quella porta e lo iscrivono in un’altra scuola.” Ma questo, se voi ci pensate, non è solo per la scuola, è anche per la fisioterapia, la logopedia, la psicomotricità. Tutte, nel percorso educativo e sanitario, sono tante cose a cui le famiglie devono rinunciare per il loro figlio e per i costi che hanno. Io sono uscito di lì, io sono un consulente, quindi i problemi bisogna risolverli nel più breve tempo possibile, o comunque dimenticarli, se sono troppo lunghi da risolvere. E quello era il caso in cui si poteva dimenticare dopo una dormita, cioè saranno problemi degli altri, io ce l’ho fatta. Però quando la realtà chiama non puoi più far finta di niente, quindi sono ritornato dai miei amici e li ho convocati e ho detto che dobbiamo dare una mano a queste famiglie. I miei amici hanno detto che si erano rotti le balle, perché qui… All’amico fraterno con cui condivido molto spesso le cose ho detto: “Addirittura dobbiamo fare un’associazione, si chiama Mongolfiera, così diamo un po’ di soldi a queste famiglie che hanno bisogno.” Lui mi ha detto: “Davide, ci sono tante associazioni per disabili, vai dalle altre associazioni, per favore”. Però in verità è stato bello perché mi ha costretto ad andare a fondo delle mie ragioni. È stato veramente un giudizio insieme nell’originare quest’opera, perché anche lui dopo, e anche gli altri, ha capito le ragioni per cui dovevamo aprire questa associazione che fa due cose. Una è raccogliere fondi tramite eventi, tramite il rapporto con alcune aziende, poi ci saranno altre occasioni per raccontare gli eventi strabilianti che facciamo, per darli alle famiglie con figli disabili, per quello che vi dicevo prima: l’insegnante di sostegno, la psicomotricità, la fisioterapia, tutto quello di cui hanno bisogno durante l’anno. Erano quattro famiglie nel 2012, adesso sono più di 400, eroghiamo 400-500 mila euro in Emilia-Romagna, e anche in Lombardia. E anche questa è un’altra storia bellissima che racconteremo in altri luoghi. Però la cosa più bella che facciamo è questa. Con la prima famiglia che ho incontrato, eravamo proprio uno di fronte all’altro, e la famiglia incomincia a dire il bando cosa fa, possiamo sostenere queste spese, eccetera eccetera. Dopo un’ora di dialogo, alla semplice domanda di come stai, naturalmente si apre il mondo perché, rispetto a queste situazioni, chiedere come stai è molto difficile. Anche gli amici che loro hanno scappano perché è una situazione molto complessa. Quindi, dopo un’ora di dialogo, lei si ferma e dice: “Davide, grazie per i soldi, però noi abbiamo bisogno… domani non so come stare di fronte a mio figlio.” Anche rispetto alle terapie che facevamo con mia figlia, nasceva sempre la domanda: “Perché? Perché proprio a noi?” Quella domanda che vi dicevo prima mia è una domanda di senso di tutti. E questa domanda rischia di schiacciare se non è condivisa in una compagnia, in un popolo. Per questo abbiamo deciso che a ogni famiglia fosse affiancato un volontario, meglio due, due amici, che si propongono appunto in un’amicizia quotidiana, nelle cose che succedono, ma proprio per cogliere tutti i momenti in cui c’è una risposta a questa domanda di senso. Faccio velocemente riferimento ai quattro casi che vi ho detto prima, due specifici, perché vi ricordate quella famiglia con la figlia tetraplegica che il padre voleva portare al cimitero il primo giorno per risolvere la situazione di sua figlia tetraplegica. Con lui è nata un’amicizia, grigliate. E sempre inizia una discussione su questo fatto. Io positivo sul dono dei nostri figli e lui contrario a tutto quello che io dico. Proprio una posizione presa. Discussioni interminabili. Finisce sempre così che io dico: “Ma cosa daresti in cambio del sorriso di tua figlia?” Che, tra l’altro, sorride solo quando sta in braccio a lui. E lui mi risponde: “Niente.” E da lì si libera una commozione sempre tra noi due, nel riconoscere qualcosa di imprevisto che dà un senso a tutto. Oppure l’altro bambino, che ha un ritardo, sempre Davide si chiama, condividiamo con la famiglia tutta, anche le scelte scolastiche, va a fare le medie nella scuola paritaria che vi dicevo, in un tema scrive: “La persona che stimo di più è Don Giuseppe Zanotti, il prete di religione, insegnante di religione, perché parla di Cristo al presente, è come se fosse qui,” e decide lui, con una consapevolezza, io penso, più grande di tanti di quelli che sono qua, di fare Battesimo, Comunione e Cresima. Ed è stato bellissimo perché ha proprio stravolto, oltre agli aspetti educativi, che non si pensava che arrivasse. È stata veramente una rivoluzione per noi e per la sua famiglia. È questo che vogliamo fare. Chiudo con tre citazioni, se vogliamo. Vogliamo sostenere questa domanda di senso. Troppo lungo, vero? Ma tanto finisco. C’è la figura di Ermanno lo Storpio, che è questo beato tedesco, e c’è un audio di Giussani che è bellissimo perché dice che lui fu affidato… era di una famiglia nobile tedesca, aveva grossi problemi fisici e quindi la sua famiglia subito, invece che buttarlo nel fiume, lo affida a un monastero benedettino. E lui dice: “Questo monastero, questo popolo, aveva chiaro il destino buono di questo bambino.” E quindi lo accudisce, dice, con due caratteristiche: pazienza e tenacia. Infatti lo accolgono, lo crescono, eccetera eccetera. Lui scrive il “Salve Regina”, che tanti di noi conosciamo, e con una consapevolezza anche qui più grande di me, sicuramente. Un popolo, un popolo che abbraccia quello che c’è davanti, qualsiasi cosa essa sia, che abbraccia e va a fondo del senso. Vi leggo, infine, una frase di Enzo… Vi invito tutti ad andare a vedere la mostra. Tra l’altro, adesso alle 19.30 c’è un altro incontro con Isacco Neri e Paolo Zambelli, che sono miei amici fraterni, quindi parlano di Enzo. All’interno del libro “Amico carissimo” che è uscito, Enzo dice: “In quella lettera bellissima, San Luca, capitolo 9 Luca dice ‘E li mandò ad annunciare il Regno di Dio e a guarire gli infermi’ definisce il cambiamento della tua vita. La tua vita ha scopo per questo, se annunci il Regno di Dio e guarisci gli infermi. Li mandò a gridare dappertutto che c’è un motivo per vivere, che c’è una ragione per soffrire, per lavorare, per gioire, per guardare al futuro, che c’è una ragione per cui una madre è madre, un padre è padre. Li mandò ad annunciare questa positività in tutto il mondo. Se la mia vita sempre di più accetta di avere come suo scopo supremo testimoniare lui, gridare a tutti la positività della vita, questo è guarire ciò che ha ammalato”. Ecco, la cura che concepiamo all’interno della Mongolfiera è questa frase di Enzo. Finito.
Ferrario. Per gli ultimi minuti che ci rimangono volevo raccontarvi una storia particolare, non è la storia del paziente medio, ha degli aspetti molto canadesi, ma anche per la nostra realtà è comunque un po’ eccezionale. È la storia di una ragazza che, quando arriva a incontrarmi, non ha ancora 30 anni, ma ha già alle spalle una sofferenza enorme e una vita complicata che l’ha resa molto sola. Lei ha anche una sensibilità assolutamente unica, un punto di vista sul mondo peculiare, e mi spiega, quando ci raccontiamo, che questa sua grande sofferenza viene da una disforia di genere, un campo di cui non so assolutamente nulla, ma che, mi spiega, rende impossibile per lei accettare la sua apparenza e quindi trova che la sua vita non abbia più un senso, come ha detto già a meno di trent’anni. Al punto che aveva già fatto domanda di eutanasia per questa disforia di genere. La domanda era stata rifiutata perché la legge permetteva, permette, questa opzione soltanto per malattie fisiche inguaribili. Per cui lei, molto delusa dal fatto che non ha i criteri per accedere all’eutanasia, in realtà poi, quando viene diagnosticato un tumore allo stadio iniziale, è lì che ci incontriamo su quel tumore a uno stadio iniziale, guaribilissimo. E un’esperienza veramente paradossale è di trovarsi di fronte a una persona che non ha nessun motivo per desiderare di essere guarita, al punto che, capendo la legge, il nostro primo incontro si conclude con lei che pianifica di aspettare tranquillamente che questo tumore diventi inguaribile, di modo che poi possa avere accesso all’eutanasia. Quindi uno scardinamento totale di tutte le categorie con cui un oncologo entra e vuole sistemare la situazione. Io mi ricordo di quel primo colloquio, di essermi trovato completamente impreparato e sopraffatto dalla quantità di sofferenza che questa persona mi comunicava, mi raccontava; più di un’ora a parlare di questa sofferenza senza neanche arrivare a parlare del suo tumore. E mentre lei mi raccontava tutte queste cose di sé, la domanda che veniva in cuore era: “Ma è possibile che in questa persona così bloccata, così con questo livello di sofferenza, ci sia ancora uno spazio di libertà?” E poi questa domanda diventava subito una preghiera: “Ma Tu, Signore, cosa vedi qua, cosa vedi in questa persona?” E questa domanda poi è rimasta anche dopo perché, anche se il colloquio, questo primo colloquio, si conclude in maniera un po’ paradossale, io provo a buttare l’idea di curare il tumore con un’operazione semplicissima, e sembrava veramente una risposta a una domanda che nessuno aveva chiesto e quindi liquidata in due secondi. Però lei mi dice: “Mi è fatto bene parlare con te, quindi se vuoi ci possiamo rivedere e facciamo insieme i follow-up per vedere come evolve la malattia.” E quindi pianifichiamo dei follow-up che sono molto diversi dai follow-up di tutti gli altri pazienti, in cui ci vediamo a parlare molto poco del suo tumore e molto molto della sua sofferenza, del suo punto di vista, del perché lei cerchi la morte così insistentemente, così ossessivamente, con tutta una sua logica che sembrava quasi coerentissima. E in questi colloqui a volte litighiamo, a volte va bene, a volte ci becchiamo, a volte piange, a volte vuole menarmi, non lo so, un po’ di tutto. E io avevo ovviamente anche la domanda se ci fosse qualcosa che potesse interessarle o riprendere un minimo di interesse per la vita, perché io mi sentivo pronto a servire quello, se venisse fuori. Salta fuori una storia che l’unica cosa di cui mi parla per tre minuti, che non finisce con un desiderio di morte, è il fatto che a un certo punto aveva anche fatto domanda per una chirurgia estetica del volto, perché il volto potesse essere più simile a quello che aveva in mente lei. E io, che ovviamente anche di quello non sapevo niente, mi metto un po’ a capire con lei come funzionava tutta questa vicenda e la metto in contatto con un chirurgo che poi le offre generosamente per conto suo questa operazione che lei voleva. E lei assolutamente scioccata dalla sorpresa che qualcuno si fosse coinvolto con lei, non soltanto su “poverina, poverina”, ma anche sugli aspetti pratici di quello che per lei era forse una forma di desiderio, in quel contesto si apre un pochettino al desiderio magari di provare a curare anche la malattia, anche se non si capiva se eravamo ancora in tempo. Sempre in quel periodo della chirurgia estetica, un altro problema che si pone, interessante tra virgolette, è che ci doveva essere qualcuno che l’accudisse per un paio di giorni dopo l’operazione e lei non aveva di fatto nessuno in città o disponibile ad accompagnarla in quella fase. Mi viene questa idea un po’ folle di farla incontrare con una mia amica infermiera del gruppo adulto lì in Canada, a Montreal, Cristina, e tra le due nasce subito una simpatia immediata che per me è già del miracoloso, e che poi prende una vita tutta sua. Forse con Cristina la mia paziente aveva un rapporto più libero, più amicale di quello che poteva avere con me, e quindi si sviluppa, con uno spettacolo davanti ai miei occhi, una cosa assolutamente imprevista dove si genera intorno a questa persona una compagnia che evidentemente è molto più adeguata della mia ad accompagnarla. Per cui Cristina la invita a casa, lei conosce le altre di casa e loro si mettono ancora a capire che cosa le interessa, che cosa le piace, organizzano delle serate di canti. Poi si scopre che le piace il poker, allora tutta la casa del gruppo adulto ha dovuto studiare il poker per fare la serata di poker. Una sera l’accompagno a casa dopo la serata poker e mi dice: “Certo che sei un dottore strano comunque, perché non penso che tanti dottori possano offrire ai pazienti l’esperienza di avere una famiglia, ed è quello che tu mi stai regalando”. In questo contesto, mentre Cristina e i miei amici sviluppano questa amicizia veramente sorprendente, io ho sempre la parte più antipatica del dottore, di cercare di capire se vuole fare la chemio o no, se vuole fare questo o no, ed è sempre un po’ una riconciliazione. A un certo punto arriva un momento in cui decidiamo che deve fare un ricovero per una chemioterapia molto importante e in quel contesto poi avevo dovuto sistemare una serie di cose complicatissime per l’ospedale per dei motivi che vi risparmio, e quindi, dopo tanto lavoro anche da parte mia, arriva questo ricovero finalmente dove cominciamo questa chemio importantissima. Vado a fare l’accettazione, e lei mi guarda con quell’aria, io direi un po’ viziata, e fa: “Non so se mi va di fare la chemioterapia domani.” E io… soffoco, mando giù il mio istinto omicida, però non riesco tanto a nascondere il mio disappunto, e le dico: “Vabbè”. Scambiamo due battute e io sono chiaramente molto infastidito, e le dico: “Dormici su, fammi sapere domani, buonanotte.” Me ne vado, arrabbiato, e mentre faccio l’ascensore e mi ricordo il punto preciso dell’ospedale in cui mi fulmina questo pensiero nitido che mi dice: “Ma in fondo in fondo è questo che mi piace di questa persona, questa assoluta irriducibilità.” Io posso avere per lei il piano più bello di tutti, che guarisca, che torni a vivere, che sia felice, però non posso comunque ridurre questa persona anche al piano più bello che ho fatto per lei. E se lei sente questo da parte mia, forse un po’ ha anche ragione a ribellarsi. Questa è stata una grande lezione per me. L’ultimo passaggio che vi racconto sono gli ultimi dieci giorni di vita sua su questa terra. Siamo ormai a più di tre anni dalla diagnosi iniziale, e lei nel frattempo, in queste serate di poker, ha sviluppato per conto suo delle amicizie con 7-8 di noi della comunità lì. Viene ricoverata perché non è più in grado di stare a casa, e in questo ricovero queste persone che avevano stretto un’amicizia con lei si fanno avanti, prima per messaggio, poi cominciano a trovarla, e lei aveva pianificato di fare l’eutanasia, c’era una data in aria che sembrava un po’ come una spada di Damocle. E in questi dieci giorni stranissimi io ho visto uno spettacolo, secondo me, posso solo dire bellissimo di umanità. Perché queste persone appunto si alternavano per andare a trovarla, per mangiare sempre insieme, per non lasciarla mai da sola, per portarle cose buone da mangiare, non dell’ospedale. E lei in cambio, si apriva a questa disponibilità, pianificava un film diverso per ogni persona che andava a trovarla, scelto da lei personalmente per guardarlo insieme. Una sera abbiamo giocato a Ticket to Ride fino alle 11 di sera, con le infermiere che ci guardavano un po’ stranite. E quindi dieci giorni così, di vita insieme, dove a me ha commosso prima di tutto la posizione di questi miei amici che stavano con questa persona, direi inscatolabile, con il solo problema di stupirsene, di guardarla, come diceva il titolo della mostra della Russia, di vederla. E di fronte a questa apertura, lei si è lasciata guardare, lei che è sempre stata così chiusa, così riservata, così antisociale, si è lasciata abbracciare da queste persone al punto che ognuno che andava a trovarla, quando poi andava via, lei diceva: “Torna ancora domani a trovarmi, se puoi”. Quindi questa persona con tutta la sua storia, che non è mia da risolvere, però per dieci giorni, io direi, ha detto a Gesù che andava a visitarla: “Torna ancora domani a trovarmi”. E questo non è zero. L’ultima mattina che l’ho vista doveva scrivere quello che doveva essere il suo testamento perché aveva due o tre cose tecniche da sistemare, e le ho detto: “Devi scrivere tu di tuo pugno, così poi è fatto e anche legalmente”. E quindi questa ultima mattina, dove dovevo trovarla per l’ultima volta, lei finalmente prende foglio e penna e comincia a dirmi a voce alta le cose che sta scrivendo, e io pensavo che si trattasse solo delle due cose tecniche che aveva in mente. Invece diventa come un flusso di pensiero, come un testamento spirituale, potremmo dire, dove lei, con un linguaggio anche da semplice, quasi da quinta elementare, a un passo dal limite ultimo che incombeva, comincia a elencare una serie di desideri semplicissimi, stranissimi, immaginati per la prossima vita. E mi elencava questi desideri di quello che sperava in un contesto così paradossale. Io, sentendola elencare queste cose come una fontana di speranza assolutamente inattesa, mi veniva da dire: “Ma questa sei tu, ecco il tuo io che si è nascosto per tutto questo tempo, ma che dopo dieci giorni di convivenza con Gesù si dà il diritto di sperare ancora un po’, si dà il diritto di cominciare a desiderare proprio adesso”. E questo magari non è il lieto fine come l’avevo scritto io, ma è un modo diverso che Cristo ha di vincere e che è persuasivo.
Maltoni. Grazie, amici. Diceva Cristiano adesso, in queste due frasi di conclusione che faccio, che la cura della vita ha bisogno di speranza. Mi veniva da dire che nel romanzo sulla vita di Cicely, la fondatrice delle cure palliative, viene detto che la speranza è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere e che è fatta di limiti, cioè a dire che non c’è una speranza senza un rapporto e che esiste la possibilità di una domanda che cerca la risposta dentro il limite. Per chi vuole, domani pomeriggio c’è la possibilità di continuare i racconti di oggi al padiglione C1, dove verrà proiettato anche un film sulla vita di Cicely. L’ultima riflessione è questa: perché questo lavorio, questa dinamica dovrebbe affascinare? Perché dovrebbe colpire ed essere di pertinenza sia del credente che anche dell’uomo o della donna di buona volontà? Azzardo una risposta lasciando aperto il lavoro. Questa dinamica è affascinante perché è sempre possibile, è conveniente per chi la vive, conviene. È bella da vivere, è bella da vedere, è bella da raccontare ed è bella da farsi raccontare. Grazie. Concludo dicendo che noi siamo qui grazie al Meeting e ognuno di noi può dare un contributo decisivo a questo Meeting e partecipare a questa grande avventura umana di ricerca dell’essenziale. Lungo tutta la fiera si possono trovare le postazioni “Dona Ora” caratterizzate dal cuore rosso. La Fondazione Meeting è un ente del Terzo Settore per cui chi sostiene il Meeting può usufruire dei benefici fiscali al momento della dichiarazione dei redditi. Grazie.