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LA CURA DEI FRAGILI E LA COSTRUZIONE DELLA SOCIETÀ CIVILE
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Lida Moniava, vicedirettrice hospice pediatrico Dom s majakom (La casa col faro) e direttrice dell’omonima fondazione di beneficenza; Frederica de Graaf, medico e volontaria del primo Hospice di Mosca; Giovanni Guaita, sacerdote e monaco Chiesa ortodossa russa. Introduce Giovanna Parravicini, Fondazione Russia Cristiana
Esiste una Russia sconosciuta ai più, la Russia di una società civile che da trent’anni sta battendosi per il valore e la dignità della vita umana. Ce ne parlano Lida Moniava, la cui vita è legata all’Hospice Pediatrico che dirige, Frederica De Graaf che testimonierà sull’incontro con Dio e la scoperta del proprio io, come base per accompagnare l’altro al mistero della vita e della morte, padre Giovanni Guaita sul significato della speranza cristiana davanti al dolore.
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LA CURA DEI FRAGILI E LA COSTRUZIONE DELLA SOCIETÀ CIVILE
LA CURA DEI FRAGILI E LA COSTRUZIONE DELLA SOCIETÀ CIVILE
Sabato 24 Agosto 2024 ore 12:00
Auditorium isybank D3
Partecipano:
Lida Moniava, vicedirettrice hospice pediatrico Dom s majakom (La casa col faro) e direttrice dell’omonima fondazione di beneficenza; Frederica de Graaf, medico e volontaria del primo Hospice di Mosca; Giovanni Guaita, sacerdote e monaco Chiesa ortodossa russa.
Introduce:
Giovanna Parravicini, Fondazione Russia Cristiana
Parravicini. Buongiorno a tutti – sono felice di salutarvi – a questo incontro che ha come titolo “La cura delle fragilità e la costruzione della società civile”. Parlando delle fragilità, a volte si ha l’impressione che sia un problema di alcuni. In realtà, la fragilità è una componente che accompagna la vita di ciascuno di noi: o perché si è piccoli, o perché si è anziani, o perché si è malati, o perché si aspetta un bambino… E quindi, in qualche modo, la cura delle fragilità, l’accompagnamento delle fragilità è un po’ il paradigma della vita umana, cioè dell’aiutare la persona a vivere il suo valore ultimo. L’hospice, di cui parleremo in questo incontro con particolare riferimento all’esperienza dell’hospice in Russia, non è tanto un luogo, quanto una possibilità di accompagnare la persona in questo cammino e in questo cammino di accompagnamento, che è un cammino molto personale, c’è anche, come diciamo nel titolo, la costruzione di una società civile.
In Russia, l’hospice è un fenomeno ancora estremamente limitato, piccolo, ma questo seme che è stato gettato ha già dato dei frutti molto grandi. Noi abbiamo qui tre persone che hanno contribuito a questa storia e che ce la racconteranno. Ma vorrei sottolineare una cosa che mi sembra molto importante. Da un lato, è una battaglia che dura ormai da più di 20 anni per chiedere allo Stato, alle strutture statali, delle leggi giuste, degli strumenti, per chiedere la possibilità di antidolorifici adeguati. Ma c’è anche la convinzione che anche la struttura più perfetta non può essere sufficiente. Per una persona malata, bisognosa, entrare in una struttura anche di eccellenza, che è doveroso che ci sia, non basta se lì non c’è uno sguardo umano, un’attenzione al suo bisogno di persona, un aiuto a superare le paure e a rispondere insieme alle domande fondamentali.
Per questo motivo abbiamo invitato tre personaggi, e qui vorrei dire anche una cosa molto importante, secondo me. Sono tre persone che hanno dato la vita per la cura delle fragilità in Russia in modi diversi, ma è interessante che soltanto una di loro sia russa dalla nascita. Ed è Lida Moniava, russa appunto. Poi abbiamo altre due persone che sono padre Giovanni Guaita, italiano di origine, come capite dal nome, e Federica de Graff, che ha rinunciato alla sua cittadinanza olandese per ‘farsi russa ai russi’.
E un’altra cosa, secondo me, importante è che proprio alcuni mesi fa, quando con Lida abbiamo cominciato a interloquire più nello specifico, preparando insieme la mostra che c’è al Meeting, “Un mondo in cui ciascuno è importante”, ho saputo che Lida, alcuni anni fa, per iniziare il programma di cure perinatali, si era rivolta a una fondazione a New York, in cui lavora tra l’altro anche mia sorella, che si dedica appunto alla comfort care per i neonati. Cioè, voglio dire che esiste comunque una circolazione umana di persone che vivono una corresponsabilità, che vivono una passione per l’uomo, che vivono una ricerca dell’essenziale. Questo è forse il motivo che ci ha spinto a fare la mostra e a promuovere questo incontro, che va ben al di là dei conflitti e delle cose terribili che stanno succedendo in tutto il mondo e in particolare riguardano la Russia e l’Ucraina.
E allora cominciamo da padre Giovanni Guaita, italiano come dicevo, sacerdote ortodosso della Chiesa Ortodossa Russa. Lui ha lavorato molto per l’hospice, in particolare parlando con le famiglie, aiutandole di fronte alle diagnosi dei loro figli, di questi bambini. Però tutto questo, l’hospice, ha avuto inizio da alcune figure straordinarie di sacerdoti e di pastori che hanno non soltanto segnato la vita dell’hospice, ma anche la vita, penso di dire giusto, padre Giovanni, se dico che hanno segnato anche la tua vita. E allora, queste tre figure sono padre Alexander Men, padre Gheorghi Cestiakov e il metropolita Anthony di Sourozh. Chiederei a padre Giovanni se ci parla, se ci introduce come l’hospice è nato da queste figure e che cosa anche hanno voluto dire per te.
Guaita. Sì, come diceva Giovanna – è interessante: siamo un Giovanni e una Giovanna – io sono italiano, però vivo da quasi 40 anni in Russia, 39 anni e qualche mese. Sono arrivato in epoca sovietica, ho conosciuto la Russia sovietica con tutte le sue caratteristiche, una delle quali era una sorta di pudore nei confronti della sofferenza umana. L’Unione Sovietica costruiva, come ogni società socialista, il “futuro luminoso”, e in questo quadro non c’era posto per qualcosa che ricordasse la sofferenza.
Certamente, lo Stato si occupava di malati, di moribondi, di persone con handicap e così via. Però questo era piuttosto velato e quasi nascosto. Gli hospice in quanto tali non esistevano e nei reparti, in alcuni reparti degli ospedali, si faceva di tutto per non manifestare o non far vedere, non ricordare la morte, il fatto che, comunque sia, tutti andiamo incontro alla fine della nostra vita. Questo era all’inizio della mia esperienza in Russia.
Anche all’inizio della mia esperienza ho fatto la conoscenza di questo straordinario testimone della Russia e della Chiesa russa, padre Alexander Men, sacerdote ortodosso molto aperto, molto colto, da alcuni definito il missionario della “tribù degli intellettuali”, perché, uomo di erudizione sorprendente, aveva attorno a sé persone che rappresentavano il mondo della cultura, dello spettacolo, dell’arte e così via. Ha scritto una gran quantità di libri, in particolare un’opera in più volumi, in sei volumi, che traccia, se così si può dire, il cammino spirituale dell’umanità, cioè la crescita della coscienza spirituale, a partire dalle civiltà primitive, passando attraverso la cultura greca, romana e così via, fino ad arrivare ai profeti, fin oltre ad arrivare alla storia di Israele e alle soglie del Nuovo Testamento, alla predicazione di Giovanni Battista. Poi ha scritto un altro libro che è una “Vita di Cristo”.
In epoca sovietica, è stato ordinato sacerdote nel 1960, in anni piuttosto difficili della destalinizzazione, che significava un’apertura ideologica, ma nello stesso tempo una nuova persecuzione per i fedeli e la Chiesa. Nonostante questo, padre Alexander ha saputo rispondere a questa nuova sfida. Tra l’altro, questa nuova persecuzione significava una lotta sul terreno ideologico e sul terreno culturale. Dunque, l’attenzione dello Stato era quella di far vedere che ogni sentimento religioso è un pregiudizio e che la scienza nel XX secolo ha ampiamente dimostrato che non c’è nessun Dio, e per questo nessun sentimento religioso ha diritto di esistere. Proprio in questo contesto padre Alexander si afferma come pastore, come missionario, se così si può dire, e come intellettuale, dando anche delle risposte in sede culturale a questa diatriba.
Ha scritto un’enorme quantità di libri, opere in sei tomi sullo sviluppo della coscienza religiosa nella storia dell’umanità, ha scritto una “Vita di Cristo” straordinaria, ha scritto un intero dizionario bibliologico, un’opera notevole, e tante altre cose. Tutte queste opere naturalmente erano diffuse clandestinamente, manoscritte o dattiloscritte, non ha mai visto un suo libro pubblicato durante la sua vita in Unione Sovietica. Sono stati pubblicati all’estero e poi arrivavano in Unione Sovietica nelle valigie degli stranieri, diplomatici, turisti e così via.
Oltre a questo, però, ha anche creato una vivissima comunità cristiana attorno a sé, nelle parrocchie che gli venivano via via affidate, in genere piuttosto lontane dalla città di Mosca; non ha mai avuto una parrocchia a Mosca, ma nella campagna, diciamo così, della regione di Mosca, a un centinaio di chilometri almeno dalla capitale. E lì è stato capace di costruire vere comunità cristiane. Bisogna dire che padre Alexander è nato in una famiglia ebrea ed è stato battezzato nella Chiesa clandestina. Quindi concepiva la Chiesa… la Chiesa clandestina che era perseguitata dallo Stato, celebrava nelle case di campagna, negli appartamenti delle persone, non aveva delle chiese in muratura sue. Questo ha aiutato padre Alexander a capire che la Chiesa è prima di tutto una comunità, una comunità viva, non è solo un luogo di culto e non è neanche solo “il culto”, ma è prima di tutto la presenza di Cristo nella comunità, Gesù Cristo ha detto: “Dove due o tre sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Questo per lui era la Chiesa.
Ma la presenza di Cristo ci dà un’attenzione per qualunque prossimo ci passi accanto. Non si può essere cristiani e rinchiudersi in una torre d’avorio della nostra fede che ci dà sicurezze. Al contrario, la fede cristiana ci chiede di scendere dal Tabor, di ritornare nel mondo con tutte le contraddizioni, i dubbi, le sofferenze, e di cercare di portare, se non risposte, almeno la nostra solidarietà a tutti. Questo padre Alexander insegnava, prima di tutto con la sua vita, ma anche costruendo delle comunità di questo tipo. Ognuno dei parrocchiani era inserito in gruppi di studio della Sacra Scrittura, di meditazione, di preghiera, ma anche di carità cristiana concreta.
È stato, alla fine dell’epoca sovietica, il primo sacerdote a dare un corso di religione in una scuola dello Stato, ancora dello Stato sovietico. È stato il primo a organizzare un’azione di volontariato in un ospedale per l’infanzia. E qui bisogna pensare che padre Alexander è anche all’origine del volontariato in quanto tale, perché non esisteva in epoca sovietica, appunto perché lo Stato diceva di occuparsi lui stesso di ogni necessità della popolazione e, come ho già detto, soprattutto il tema della sofferenza era praticamente tabù. Invece Padre Alexander è riuscito a farsi accettare in un ospedale, ha cominciato lui a frequentare questo ospedale, andando a trovare i bambini malati e poi attorno a sé ha organizzato un’intera équipe, una squadra di laici, alcuni che professionalmente erano medici, infermieri e così via, altri che non avevano alcuna istruzione in questo, ma che mettevano il loro tempo, i loro talenti a disposizione di questi bambini malati.
E da lì è nata una grande azione di volontariato, il cui seguito è appunto ciò di cui parleremo in maniera più precisa oggi, cioè l’hospice, concretamente il primo hospice di Mosca per persone adulte alla fine della loro vita e il primo hospice per l’infanzia. Entrambi i progetti sono di importanza federale, cioè hanno importanza non solo per la città di Mosca ma per tutta la Federazione Russa e in qualche modo sono legati alla figura di padre Alexander e anche alla figura del metropolita russo Anthony Bloom, che era metropolita a Londra, che è riuscito a ispirare un’azione di questo genere e di cui poi penso ci parlerà più precisamente Federica, perché ne fa parte ancora oggi, e l’hospice invece per l’infanzia di cui più precisamente ci parlerà Lida, che ne è in sostanza la fondatrice.
Quando padre Alexander Men nel 1990 è stato ucciso in maniera molto barbara al mattino presto mentre si recava a celebrare la liturgia – uno sconosciuto che tuttora oggi non si sa chi sia stato, gli ha praticamente spaccato il cranio con un’ascia – tutti i suoi discepoli si sono ritrovati in una situazione in cui non sapevano come andare avanti. Grazie a Dio ci sono stati altri sacerdoti che hanno portato avanti le stesse posizioni, la stessa esperienza di vita di Chiesa vissuta e anche di solidarietà e partecipazione ai problemi di tutti gli altri. Tra questi, padre Gheorghi Cestiakov, che era uno dei sacerdoti probabilmente più colti all’epoca. Ho avuto la fortuna di conoscere anche lui molto bene perché siamo stati docenti nella stessa università, io insegnavo letteratura italiana, lui insegnava greco e latino, avevamo addirittura gli stessi gruppi di studenti. E padre Gheorghi, nonostante fosse un grande intellettuale, aveva però anche un gran talento nell’aiuto in particolare ai bambini, perché ha continuato nell’ospedale pediatrico in cui appunto padre Alexander Men aveva cominciato questa azione di volontariato, l’ha portata avanti padre Gheorghi.
Tutto questo ci dice che il cristianesimo è solidarietà e condivisione. Non esiste una risposta al perché tutti noi moriamo. E non esiste una risposta, ed è ancora molto più difficile la risposta, alla domanda sulla sofferenza del giusto, perché muore un bambino. Questa domanda, in maniera drammatica, se la pongono in genere i genitori di questi bambini. Noi non pensiamo di avere la risposta. Noi abbiamo solo la possibilità di condividere, di portare avanti, di portare insieme le situazioni a volte difficilissime che si creano, anche concrete nell’assistenza a questi bambini in particolare. Credo che l’importanza dell’hospice e dell’assistenza e dell’attenzione alla fine della vita sia prima di tutto questo: condivisione, essere accanto, partecipare. Questo naturalmente si può fare a partire anche da posizioni assolutamente laiche, di questo io ne sono profondamente convinto, però per noi cristiani si fa anche a partire dal fatto che Gesù Cristo è in ogni persona, in maniera particolare nella persona che soffre. Come ci mostra tutto il Vangelo, dalla parabola del Samaritano in poi ci fa vedere che la solidarietà umana è l’altro volto, diciamo così, della fede cristiana.
Parravicini. Ti ringrazio. Lida Moniava, fin da piccola, quando frequentava le scuole superiori – lei è giornalista di professione, quindi non è un medico, non è un sanitario – ma fin da quando frequentava le scuole superiori aveva il desiderio di cose grandi. E questo l’ha spinta a un certo punto a diventare volontaria in questo ospedale pediatrico federale di Mosca, dove si riunivano i casi più disperati provenienti da tutto il paese. Devo dire che quello che mi ha sempre colpito in Lida è il fatto che per lei tutto parte dall’incontrare il singolo bambino, il singolo ragazzo, la singola ragazza. Ogni persona è veramente un universo. E da questo incontro con l’ospedale pediatrico, da questo lavoro nel volontariato, dall’incontro con padre Gheorghi Cestiakov, nasce il sogno, insieme ad altre grandi persone, di cui forse ci parlerà Lida, di creare un hospice pediatrico.
E allora questa ragazza giovane riesce, insieme ad altri amici, a ottenere dal comune di Mosca un appezzamento di terreno, a costruire un hospice pediatrico meraviglioso, un’eccellenza, ma soprattutto a mettere in piedi un servizio che oggi raggiunge circa mille bambini e quindi mille famiglie a Mosca e in provincia, con un’équipe di 450 persone. Pensate che soltanto il 15% del finanziamento è dello Stato, l’85% è, diciamo, sulle spalle della Provvidenza, che in questo caso è il nome di Lida Moniava. Dico questo perché la cosa che vorrei chiedere a Lida adesso è, da un lato, la sua storia e anche gli incontri e le cose più importanti che lei vede nell’hospice, e dall’altra parte, che cosa è cambiato e come è cambiata in questi ultimi due anni la sua visione, il suo sguardo. Cosa vuol dire fare l’hospice oggi quando la situazione è una situazione di guerra, di aggressione, e quindi questo vuol dire anche di profughi, di prigionieri di coscienza e così via.
Moniava. Grazie mille. Innanzitutto, volevo dire che io sono arrivata dalla Russia, da un paese che adesso si trova in una situazione di guerra. Molte persone in Russia sentono un fortissimo senso di colpa, per cui è molto importante adesso parlare di questa cosa. Intanto che ho il microfono in mano vorrei poter chiedere scusa ai nostri amici ucraini per tutto quello che sta succedendo tra i nostri paesi. E volevo dire grazie mille a tutti voi che siete venuti al nostro incontro, perché siete ancora pronti a entrare in dialogo con noi, persone che vengono dalla Russia. Io capisco che adesso non è una posizione molto popolare e sono molto grata a voi della vostra apertura al dialogo.
Volevo raccontare come funziona l’hospice pediatrico a Mosca in tempo di guerra. Innanzitutto, la cura palliativa è un prendersi cura delle persone alla fine della loro vita, e ogni giorno ci prendiamo cura della vita delle persone più deboli. Questa idea è assolutamente contraria all’idea che guida la guerra. Quando parliamo di guerra, si tratta di distruzione, di morte, di aggressione, di non rispetto della vita umana. Ma l’hospice invece si occupa di amore, di vita, di prendersi cura di ogni persona e ogni giorno. E quando la Russia ha iniziato la guerra, mi è nata questa domanda: come possono, nello stesso posto, convivere la guerra e la cura palliativa?
Fino all’inizio della guerra, in Russia noi ci muovevamo per garantire i diritti di questi bambini: il diritto all’istruzione, perché questi bambini non possono studiare a scuola; il diritto a entrare nella società, perché in Russia molti edifici non sono accessibili a questi bambini. Ci sono molti trasporti che non sono accessibili e c’è in generale un isolamento di queste persone. Molte persone invalide non riescono neanche a uscire di casa, di fatto. E noi ci siamo sempre sforzati di fare battaglie per non far vivere in istituti queste persone, dimostrando che questi bambini malati avevano gli stessi diritti dei bambini normali e non ne avevano di meno. Adesso, tutti questi scopi sembrano non essere più attuali perché non si può lottare per entrare nella società quando c’è una guerra e intere città vengono distrutte. E nella guerra non vengono osservati i diritti di nessuno. Ma è importante capire che nonostante tutte le difficoltà noi non possiamo smettere di prenderci cura di questi ragazzi, per niente, neanche in un momento.
Durante la guerra, noi viviamo in una situazione in cui non è chiaro cosa succederà domani. Gli hospice non possono fare dei piani per il futuro. Noi non possiamo pensare a nuovi progetti o pensare a un sostegno per i pazienti a lungo termine. Ma la situazione in cui ci troviamo, in cui poco dipende da noi, fa rendere ancora più importante il rapporto tra le persone. Adesso per me la cosa più importante è passare il tempo con i pazienti dell’hospice. Per esempio, adesso nel reparto di degenza vive Dania, che ha tre mesi. Quando sua mamma era incinta, le avevano detto che suo figlio sarebbe morto troppo presto. I medici hanno tentato di convincerla ad abortire, ma lei si è rifiutata e ci ha chiesto aiuto anche prima della nascita di Dania. Abbiamo accompagnato la famiglia durante la gravidanza, abbiamo parlato con loro di quello che li avrebbe attesi, abbiamo tentato di tranquillizzarli rispetto a quello che sarebbe successo.
Le persone dell’hospice erano lì quando Dania è nato, l’hanno aiutato a battezzarlo, gli hanno fatto le prime foto e al terzo giorno di vita l’abbiamo portato nel nostro hospice. Dania ha una malformazione del volto molto evidente e per le persone estranee può sembrare spaventoso quasi, ma i genitori lo amano tantissimo proprio per come è e sono felici di ogni giorno che possono passare di fianco a lui. Capiamo che la vita di Dania sarà brevissima, non sappiamo quanto potrà vivere, e tutto quello che noi possiamo fare è prenderci cura di ogni giorno di Dania, perché lui non soffra per il dolore. Potremo sostenere i suoi genitori, essere vicino a loro e insieme a loro godere di ogni giorno della vita di Dania. Quando Dania ha compiuto sei mesi e poi continua a crescere, ogni volta nell’hospice c’era una festa. Quando c’erano queste feste compravamo delle torte, venivano degli ospiti, il fotografo faceva delle foto ricordo e così noi festeggiavamo ogni giorno di vita di Dania come una festa.
Oppure Veronika, una ragazza con atrofia muscolare spinale, che è attaccata a una ventilazione artificiale. Poco tempo fa sono stata con lei in un turno di notte e lei mi ha chiesto di essere portata in discoteca. Siamo andate di notte in questa discoteca e Veronika era contentissima. Mentre la riportavo a casa su questa carrozzina su cui vive, lei respirava con la ventilazione artificiale e nel frattempo cantava le canzoni che aveva sentito e diceva che era felicissima. Per me questo forse è il più grande risultato del lavoro negli hospice. Sì, per questo noi degli hospice abbiamo dovuto comprare un’apparecchiatura speciale per la ventilazione. Abbiamo dovuto comprare apparati per la nutrizione, per l’idratazione. Prendersi cura della salute è molto importante ma non è abbastanza per una vita felice. Per una vita felice serve avere degli amici, essere necessari a qualcuno, poter condividere con qualcuno la propria vita e non essere soli.
E poi volevo raccontare anche un’altra storia, la storia di Dima. Dima era un ragazzino con una distrofia muscolare. Anche lui non riesce a muoversi da solo. Il nostro hospice lo ha aiutato per circa 10 anni. Tutti questi anni Dima ha vissuto con sua nonna, che non aveva possibilità di curarlo. Dima ci diceva che voleva morire, che non voleva continuare la sua vita, si rifiutava di prendere le medicine, rifiutava la ventilazione artificiale. Noi abbiamo continuato a discutere con lui quello che desiderava come aiuto per il fine vita, cosa scrivere nei suoi social quando lui sarebbe morto, dove voleva morire, dove voleva stare negli ultimi giorni. In questi anni siamo riusciti a organizzare per Dima una residenza assistita presso gli hospice. In questo appartamento vivono delle persone che accompagnano Dima. Insieme suonano la chitarra, cantano canzoni, si divertono, vanno al bar. Dopo un mese in questo appartamento, Dima mi ha detto che aveva cambiato idea, non voleva più morire, voleva ancora vivere e voleva prendere le medicine. Voleva anche prendere la ventilazione artificiale, perché aveva sentito che serviva a qualcuno e che la vita era bella.
Una parte importantissima del lavoro negli hospice è incontrarsi con la sofferenza delle persone ed essere con loro in questa sofferenza. Ma se noi vediamo che una persona può sopravvivere ancora per un po’ di tempo, allora uno dei compiti più importanti di questo hospice è ricordare che la vita è felice, che si può essere felici nella vita. E nella mia esperienza, condividere la gioia della vita è difficile tanto quanto condividere la sofferenza. Perché per questo bisogna avere molta vita e molta gioia dentro di sé, perché si possa condividere con altre persone che stanno facendo più fatica. Adesso per me il compito più importante non è quello di curare questi bambini malati, ma di aiutare le famiglie a vivere una vita più felice. Noi andiamo insieme, per esempio, in estate in vacanza, insieme festeggiamo il Capodanno. E mi sembra che proprio questo sostegno umano, più il nostro aiuto professionale, possa cambiare veramente la vita delle persone. Molte persone avevano detto a Dima di prendere le medicine, ma finché lui non si è sentito di voler vivere, tutti questi consigli non sono stati utili. Dima ha voluto continuare a vivere solo quando ha capito che lui era importante per qualcuno e che nella vita c’era molta gioia. Grazie.
Parravicini. Io credo che questo applauso sia proprio un applauso al fatto che noi tutti siamo qui perché cerchiamo l’essenziale. Siamo venuti a Rimini così in tanti proprio in questa ricerca e in testimonianze come quella che abbiamo ascoltato noi troviamo proprio l’accento che questo essenziale c’è ed è incontrabile. Basta a volte un sorriso, basta a volte una canzone cantata insieme perché una persona decida che la vita vale la pena di essere vissuta. Questo è l’applauso e credo che non è per sminuire la figura di Lida, ma Lida è veramente parte, è una testimone di questa ricerca dell’essenziale e per questo l’applauso era proprio giusto. Stare di fronte alla vita, stare di fronte alla morte, Federica de Graff, che è la nostra terza ospite, è una persona che più volte ha rimesso in gioco completamente la sua vita per il fascino di un incontro. Olandese, slavista, si è convertita e si è battezzata ortodossa ormai in età adulta e questo perché ad un certo punto ha assistito più o meno casualmente alla lezione di una grande figura di pastore che prima già ricordava padre Giovanni, il metropolita Anthony Bloom, all’inglese, oppure Anthony di Sourozh alla russa, cioè uno dei vescovi della Chiesa Ortodossa Russa che era anche responsabile, diciamo così, delle strutture ortodosse russe in Europa. Lei ha visto gli occhi ardenti del metropolita Anthony e ha capito che quest’uomo custodiva una presenza. Questa presenza l’ha così affascinata che lei ha abbandonato tutto quello che stava facendo e anche il suo paese, si è trasferita in Inghilterra, si è mantenuta facendo la commessa in un negozio e intanto ha studiato psicologia e riflessologia. Lei pratica l’agopuntura, aveva una sua clinica. Ed ecco che negli anni 2000 si è resa conto, forse ancora negli anni ’90, che tanti russi venivano in Gran Bretagna con dei viaggi della speranza, chiamiamoli così, alla ricerca di cure. Molti trovavano un miglioramento, una guarigione, molti però ritornavano in Russia senza speranze. E da lì la decisione, benedetta ancora una volta dal metropolita Anthony, di venire in Russia, dove vive da ormai 23 anni, per seguire queste persone, per aiutare queste persone, per aiutarle curandole, ma aiutarle anche a stare di fronte alla domanda sulla vita, sulla morte, a superare le paure, a rispondere alle domande, perché la domanda ineludibile di fronte a cui siamo ciascuno di noi è veramente la domanda della morte, della vita, del senso della vita e anche della fine della vita e del senso della vita.
E così si è messa a lavorare, con una serie di incontri, si è messa a lavorare nel primo hospice di Mosca, che era nato appunto agli inizi degli anni ’90, dove lavora tuttora. E a Federica, che lavora con gli adulti, vogliamo chiedere soprattutto cosa vuol dire accompagnare una persona al grande incontro, alla soglia. In che modo si può stare vicino a una persona, aiutarla e al tempo stesso non difenderci, non usare, come dice lei, il camice da parte del personale sanitario, come un giubbotto antiproiettile, cioè avere il cuore aperto all’altro. Federica.
De Graaf. Vi ringrazio di essere qui, nonostante il caldo. Vorrei parlare con voi. Ci sono molte questioni che riguardano le cure palliative, ma in 20 minuti si può dire molto poco. Poi, se volete, potremo discutere ancora se ci saranno altre domande. Io ho scelto per il nostro incontro il rapporto con la sofferenza e con la morte. Non la morte degli altri, ma la morte propria e la propria sofferenza quando le persone muoiono. Perché se noi vogliamo prenderci cura delle persone che sono malati terminali e che si trovano in crisi, noi dobbiamo innanzitutto guardare noi stessi, chi siamo. La questione tocca quindi i nostri criteri che abbiamo davanti alla morte, e questa è la cosa più importante che abbiamo quando siamo con le altre persone. Vorrei citare quindi il metropolita Anthony di Sourozh che dice rispetto al rapporto con la morte: “Io sono sicuro che la morte è la pietra angolare del nostro atteggiamento verso la vita. Chi ha paura della morte ha paura della vita. Risolvere il problema della morte non è insignificante. Se abbiamo paura della morte, inevitabilmente non saremo mai disposti ad andare fino in fondo, rischiando la nostra vita. A volte attraversiamo la vita in modo vile, cauto e timido”.
Io volevo anche citare Antoine de Saint-Exupéry, che dice che l’essenziale è invisibile agli occhi, si vede solo con il cuore. E il metropolita Anthony dice che la vita spirituale inizia con l’educazione del cuore innanzitutto. Volevo dire due parole sulla sofferenza e sul fatto di incontrarsi con ogni crisi e incontrarsi con la morte faccia a faccia. Vi farò vedere dei piccoli esempi di persone che si sono affacciate alla morte con coraggio oppure che l’hanno negata. Vi parlerò di Ivan, che aveva 60 anni più o meno e lui per tutto il tempo diceva che aveva un’osteoporosi, anche se in realtà aveva un cancro alle ossa. Io gli chiedevo tutte le volte: “Qual è la tua diagnosi?” e lui mi rispondeva sempre “osteoporosi”. E io un giorno ho visto sua moglie che entrava nella sua camera e si asciugava le lacrime perché voleva fare la finta che andasse tutto bene e lui le aveva viste gli occhi lucidi. Allora io ho detto alla moglie: “Forse dovremmo dirgli qual è la sua vera diagnosi, cosa sta succedendo davvero”. E lei mi ha detto: “Sì diciamoglielo qual è la sua diagnosi, ma facciamolo insieme perché io ho paura.” Allora lei si è avvicinata a lui e gli ha detto: “Guarda che non hai l’osteoporosi”. E lui le ha risposto: “Guarda che io lo sapevo dall’inizio questa cosa”. Hanno pianto entrambi e poi tra di loro non c’era più questa menzogna e sono riusciti ad avere un incontro autentico, aperto.
Il problema della diagnosi è un problema reale. Se tu neghi tutto quello che sta succedendo, allora la persona che muore rimane da sola con le sue paure e con il suo dolore e quindi di solito poi ci si sente colpevoli dopo la morte della persona cara. Io voglio dire due parole su come noi ogni tanto rifiutiamo le diagnosi e come questo abbia un effetto proprio sul corpo. Perché l’anima e il corpo sono una cosa unica. L’anima non si vede e il corpo esprime quello che accade all’anima e quando non ci sono possibilità di dire quello che succede all’anima, allora il corpo soffre. Vi faccio un esempio di una ragazzina che si chiamava Anna, aveva 16 anni, aveva un sarcoma agli arti. Era tanto tempo fa e Vera Vasileva-Nemlionskaya, che era ancora viva, durante una visita mi aveva chiesto di passare da lei perché non riuscivano a anestetizzarla perché niente la aiutava. Per me era molto difficile perché non conoscevo né lei né la sua mamma e andare nella stanza di una persona che non conosci e parlare di una cosa così importante non è semplice. Io dentro mi sono fatta un segno di croce e ho detto: “Signore, aiutami a capire da dove partire”. Quando sono entrata ho visto questa giovane ragazza bellissima con dei grandissimi occhi azzurri, senza capelli e lei mi guardava e aspettava quello che le avrei detto. E io, inaspettatamente, le ho chiesto: “Cosa è stata la cosa più difficile per te quando sei stata per due anni in ospedale?” E lei, a denti stretti, mi ha risposto: “Il sangue dal naso”. Le ho detto: “Ma quando vedi del sangue a volte ti sembra tanto, ma non lo è effettivamente”. E lei mi ha detto – era molto chiusa e molto riluttante – e mi ha gridato: “No, io non voglio stare in ospedale, io ci sono già stata”. È scoppiata a piangere. E io le ho chiesto: “Ma perché piangi? Come era là? Come era là in ospedale per te?”. Mi ha risposto: “Era accogliente, era tutto bello”. E, ancora di più, piangeva. E poi dopo, allora, le ho detto: “Ma se era così accogliente e bello, perché piangi?” E lei, con tutta la sua voce, mi ha detto: “Non voglio stare lì”. È stata la prima volta che è riuscita a dire che sapeva di stare per morire e che aveva paura e non voleva morire. Purtroppo, poi la mamma proprio in quel momento è arrivata e ha detto: “Ma Anya, andrà tutto bene, andremo nella nostra casa di campagna”. E in quel momento Anya dice: “Ah, mi fa male il braccio”.
E questo è un esempio così chiaro del fatto che quando non riesci a spiegare quello che ti succede nell’anima, lo esprimi con un dolore fisico. Io penso che se noi stiamo con le persone malate, bisogna innanzitutto guardare qual è il mio rapporto con la morte e con la sofferenza. Posso quindi condividere con una persona quello che succede veramente. C’è una questione: la sofferenza è sempre male? Io voglio citare Viktor Frankl, che era uno psichiatra, uno psicoterapeuta e che nella Seconda Guerra Mondiale è stato nei campi di concentramento. Parla della sua esperienza e dice: “Se acquistiamo un significato nella sofferenza, acquisiamo una maturità nella sofferenza. Cresciamo, superiamo noi stessi, e quando siamo impotenti e senza speranza, non potendo cambiare la situazione in cui siamo chiamati, proprio lì noi siamo davvero chiamati e sentiamo il bisogno di cambiare noi stessi. La sofferenza ha un senso se si diventa diversi da se stessi”.
Il metropolita Anthony a questo riguardo diceva: “Quando noi riusciamo a guardare direttamente ogni crisi come la crisi della morte, senza dubbio la persona acquista una nuova misura, una nuova grandezza. Quando una persona riesce a guardare in faccia la sua sofferenza, l’odio, il dolore, gli orrori della guerra, riesce a rimanere umano fino in fondo”.
Vorrei fare un altro esempio di Tatiana, che è ancora viva – suo figlio ha tre anni – ed è malata terminale da tanti anni. Si trova sotto ventilazione artificiale e durante un incontro mi ha detto: “A che scopo tutto questo, perché?”. Ovviamente non abbiamo una risposta a questo, ma nel tempo lei è riuscita a rispondere a questa domanda e ha detto: “Io sono diventata un’altra persona, ora non ho più gli stessi valori che avevo prima nella vita”. E piano piano si sta preparando a lasciare suo figlio, anche con fatica. Quando c’è la sofferenza, una sofferenza personale e quando c’è il dolore della separazione, sempre c’è una scelta: l’essere vittime – e quindi le persone chiedono sempre “perché”, “a che scopo”, “io ero una persona buona”; oppure scegliere che questo è un modo per imparare qualcosa e fare dei passi avanti. È molto importante anche imparare a parlare di queste cose con le persone malate, perché si viva autenticamente e questo è possibile solo quando noi guardiamo in faccia tutto quello che sta succedendo.
Vi faccio un esempio di una ragazza di 18 anni, che stava morendo per un tumore al seno e sua mamma non voleva accettare il fatto che lei stesse morendo. Lei, come tutti gli adolescenti, aveva già studiato tutto sul computer, tutti i possibili scenari li sapeva e si era scritta tutti questi scenari, tutti gli orrori che sarebbero potuti accadere. Era finita quindi in una depressione terribile e non riusciva più a parlare. Io l’ho curata con l’agopuntura per molto tempo e alla fine ha iniziato a fare qualcosa, ha iniziato a fare la maglia e la mamma non riusciva a stare di fianco a lei. Lei viveva già nel futuro, la mamma. Aveva già seppellito sua figlia e diceva: “Ma che cosa farò quando lei non ci sarà più?”, perciò non riusciva a stare di fianco alla figlia. Capita quindi che le persone pensino a quello che è successo prima nel passato. Per esempio, mi è morto un parente un po’ di tempo fa e loro riportano tutte queste cose che sono successe nel tempo presente. L’esperienza del passato viene trasportata nel presente e ci ostacola la vita adesso, e io credo che adesso si debba parlare di questo, sia importante parlare di questo.
Spesso le persone che pensano al futuro, invece, sono davanti a una persona che sta morendo, soprattutto quando questa persona è in coma ed è come se non sentisse niente. È importante sapere che invece questa persona sente tutto e quindi è molto importante stare di fianco a una persona che è in coma perché sente tutto e capisce tutto. Capita quindi che le persone, i parenti, dicano: “Ma quanto durerà ancora? E come faremo con la sepoltura?”. Bisogna pensare seriamente a questa cosa. È molto importante l’esperienza del metropolita Anthony, che dice che, perché la persona non muoia da sola, senza nessuno, bisogna stare attenti perché capita che una persona dica: “Ma ormai è già in coma, ormai è finita, andiamo”. Ma la cosa più importante che si può dare alla persona cara è di starle vicino fino alla fine. Ma capita qualche volta che la persona che voglia essere vicino a una persona che muore fino alla fine, se ne va per un attimo a fumare o va in bagno e proprio in quel momento la persona malata muore. E allora se non si parla di questo ci sarà un terribile senso di colpa tra quelli che rimangono vivi. E invece bisogna dirgli: “No, non è così. La persona che è morta senza la vostra presenza ha avuto pietà di voi perché non poteva sopportare che voi foste vicini proprio nell’ultimo minuto”. Oppure, loro non riuscivano a lasciarlo andare e allora il malato è come se pensasse: “Adesso che non c’è, si può morire”. Ma di queste cose bisogna parlare apertamente, chiaramente.
Questo problema di lasciar andare, da parte dei genitori, i loro malati, io penso che sia particolarmente attuale quando non c’è la fede, quando non c’è un’esperienza personale di fede del fatto che la morte non è la fine. Allora uno si attacca alle persone che ama fino alla fine, anche se queste soffrono. Capita che io chieda ai genitori di alcuni malati se vogliono che i loro figli continuino a soffrire e loro continuano a dire: “Sì, perché almeno qualche giorno in più saremo con loro”. Ma se c’è la fede e un’esperienza personale di fede e quindi del fatto che questa non è la fine, ma l’ingresso in un nuovo mondo, allora è molto più semplice lasciar andare. Ma devo dire che questo è un caso molto raro anche tra i credenti. La realtà della resurrezione non è una realtà viva, e il metropolita Anthony dice che noi possiamo essere contenti per una persona che se ne va, per il fatto che sarà da suo padre, sarà nel posto a cui ha teso per tutta la vita. Ma c’è comunque un dolore per la separazione. Penso che adesso c’è ancora poco tempo, ma vorrei dire ancora una cosa.
Il metropolita Anthony dà questo consiglio: quando una persona amata muore c’è un compito, come c’è un compito per la persona che muore, c’è anche un compito per chi rimane, cioè perdonare. Perdonare, lasciare andare perché ci sia come un perdono dal nostro canto. E, in secondo luogo, al posto che vivere di tranquillanti, di distrazioni per non vivere il dolore, vedere tutte le cose più luminose che c’erano state in questa persona durante la vita, per esempio la bontà o le qualità migliori di questa persona, allora vivere tutta la vita di questa bontà della persona amata; questo lo dice come compito, per non perdersi nel proprio dolore, ma vivere di quella bontà che era la caratteristica fondamentale della persona morta. E perché il mondo non finisca per il fatto che una persona è entrata nell’eternità. Questo è un compito concreto che aiuta tantissimo ad andare avanti nonostante il dolore.
Ancora il metropolita Anthony dice che il dolore dopo una separazione e la solitudine, che è inevitabile, è comunque un’espressione del nostro amore per questa persona perché anche nella gioia e anche nel dolore noi esprimiamo la nostra affezione per lui. C’è ancora un minuto? Volevo affrontare brevemente la questione dell’eutanasia. Quando c’è un senso, come diceva Lida, allora si può vivere. E Viktor Frankl dice: “Se c’è un perché per la vita, se c’è uno scopo, allora si può sopportare praticamente tutto”.
Vorrei fare un esempio di Dimitri che aveva 59 anni e aveva una grave malattia, non poteva più camminare. Sua moglie lo veniva a trovare dopo il lavoro ed era come se stesse andando tutto bene quando erano insieme. E un giorno mi dice: “Federica, io non ce la faccio più a vivere, voglio uccidermi”. Io gli ho detto: “Dima, questa non è la soluzione della domanda”. Dopo qualche giorno, lui dice: “Non voglio più morire”. E allora gli ho detto: “Cosa è successo?” E lui mi ha detto, lui non era una persona molto credente, ma mi ha detto – queste sono le sue parole proprio – “Dio mi ha fatto vedere che c’è un compito dopo la morte”. “E qual è il compito che hai?” gli ho chiesto. E lui mi ha detto: “Io sarò una guida per tutti coloro che verranno dopo di me”. Questo gli bastò per non pensare più al suicidio. Questa è una questione, quindi, di accettazione della sofferenza, di consapevolezza della sofferenza. È importantissimo quindi cercare un senso e trovare un senso a tutto quello che succede.
Volevo finire questa nostra conversazione con le parole del metropolita Anthony di Sourozh, che amava così tanto Cristo che aveva avuto per tutta la vita il desiderio di essere con Lui e in questo mondo per lui era così chiaro che le persone che stavano morendo gli si avvicinavano e gli dicevano: “È come se io fossi già là, ti saluto, arrivederci”. Vi leggo una citazione che appartiene al mio libro Non ci sarà separazione. “Dio non ci strappa dal dolore della terra e da quella vita che alterna gioia e dolore, perché il nostro cuore diventi profondo, in modo che nella nostra anima e nella nostra vita non rimanga altro che amore. E anche a noi il Signore dice: non piangete, non nel senso che ci chiede di dimenticare il dolore, ma nel senso che con la fede in Lui, con la fiducia nelle cose invisibili, possiamo superare noi stessi, superare il tempo, superare il dolore e crescere nella misura di un vero uomo, capace di vivere una vita d’amore che non è separata da nulla, perché anche sulla terra è eterna e dopo la morte diventa incrollabile”.
Parravicini. A me non resta che ringraziare i nostri “testimoni”, io li chiamerei. C’è una mostra al Meeting, “Un mondo in cui ciascuno è importante”, in cui ci sono molte cose che hanno detto e hanno fatto padre Giovanni, Lida e Federica. Io ricordo soltanto una frase che è di Oksana Popova, una ginecologa che ha avuto una bambina con una gravissima sindrome, è stata curata dall’hospice, è morta e adesso Oksana Popova è il capo dei servizi del programma di cure perinatali dell’hospice. E lei ricorda: “C’era un’infermiera che sorrideva quando io, nel reparto di maternità, mi sentivo tutti che mi gridavano addosso perché non avevo abortito e io avevo lì in braccio la mia piccola Agna che aveva 200 crisi epilettiche al giorno. Io credo di non essere impazzita in quei giorni solo per il sorriso di quell’infermiera”. Ecco, l’hospice è questo, nel grande e nel piccolo, questo accompagnamento, questo sguardo umano sul dolore che segue la nostra fragilità e la fragilità di chiunque. E, abbiamo detto, abbatte le barriere di tempo, di spazio, le barriere geografiche e ci aiuta ad essere realmente costruttori di pace. Da questo punto di vista, ricordo che il Meeting si regge sulle nostre offerte, sui nostri contributi. I nostri ospiti dalla Russia erano impressionatissimi dalla enorme grandezza del Meeting e dal fatto che il Meeting è sostenuto dai volontari. Ma ancora più impressionante è il fatto che il Meeting, quest’anno, proprio avendo sentito il Cardinal Pizzaballa, che ha parlato il primo giorno al Meeting, ci ha parlato in modo così impressionante del conflitto che c’è, dei bisogni che ci sono, quest’anno il Meeting ha deciso di devolvere parte delle donazioni raccolte nel corso di questa settimana per l’emergenza in Terra Santa. Quindi tendiamo la mano e sappiamo che contribuiamo a costruire la pace con queste possibili donazioni. Grazie a tutti e grazie tantissimo a voi.