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LA CRISI DIMENTICATA DEL MYANMAR
In diretta su Famiglia Cristiana. In differita su Radio Vaticana sabato 24 agosto alle ore 14:00
Organizzato da AVSI
Guido Calvi, coordinatore umanitario AVSI in missione in Myanmar; Ranieri Sabatucci, ambasciatore dell’Unione Europea in Myanmar. In occasione dell’incontro video intervento di Nang Swesweaye, rappresentante Paese di AVSI in Myanmar. Modera Maria Laura Conte, direttrice Comunicazione Strategica e Advocacy, Fondazione AVSI
Un Paese scomparso dai titoli sui media ma che continua a soffrire a causa della crisi scoppiata nel 2021: è il Myanmar al centro di questo incontro, che si apre con una testimonianza della realtà che la sua popolazione vive quotidianamente attraverso le parole di Nang Swesweaye, Rappresentante Paese di Fondazione AVSI in Myanmar. Seguono gli interventi di Guido Calvi, Coordinatore umanitario di AVSI, e di Ranieri Sabatucci, Ambasciatore dell’Unione Europea in Myanmar, con lo scopo di riportare la situazione del Paese all’attenzione generale.
LA CRISI DIMENTICATA DEL MYANMAR
LA CRISI DIMENTICATA DEL MYANMAR
Venerdì 23 Agosto 2024 ore 14:00
Arena Internazionale C3
Partecipano:
Guido Calvi, coordinatore umanitario AVSI in missione in Myanmar; Ranieri Sabatucci, ambasciatore dell’Unione Europea in Myanmar.
In occasione dell’incontro video intervento di Nang Swesweaye, rappresentante Paese di AVSI in Myanmar.
Modera:
Maria Laura Conte, direttrice Comunicazione Strategica e Advocacy, Fondazione AVSI
Conte. Buon pomeriggio a tutti, benvenuti a questo incontro dedicato a questo Paese troppo dimenticato, il Myanmar. Saluto voi tutti che siete qui e le persone che ci seguono via streaming. Ringrazio il padiglione della cooperazione internazionale che ha reso possibile questo incontro ospitandoci, e ringrazio la nostra organizzazione, Fondazione AVSI, che ci ha permesso di raccogliere testimonianze direttamente dal campo, di avere qui con noi un collega e di portare l’ambasciatore dell’Unione Europea in Myanmar, Ranieri Sabatucci, che saluto: benvenuto! È un Paese a circa sei ore di fuso da qui, l’AVSI lavora in Myanmar dal 2008, ed ho anche il piacere di salutare Luciano Valla, che è seduto qui in prima fila oggi. È stata la persona che ha avviato la presenza dei progetti in questo Paese, un Paese che ci sta molto a cuore e, purtroppo, se voi fate un esercizio molto semplice su Google cercando notizie di questo Paese, verificherete in prima persona quanto sia difficile sapere qualcosa. Però, è un Paese che ci sta a cuore; proprio quando sono dimenticati, noi ci impegniamo a far sì che se ne parli. Sapete, i maestri della comunicazione lo dicono sempre: se una cosa, un fatto, non si racconta, non esiste. E invece il Myanmar, il suo popolo, la sua storia, il suo capitale di tradizione esiste, e di questo oggi noi vogliamo parlare. Presento anche me stessa: sono Maria Laura Conte e dirigo la comunicazione strategica e l’advocacy di AVSI, e il mio collega Guido Calvi, responsabile e coordinatore umanitario per AVSI. La prima parola, però, la do alla nostra lontana collega, lontana ma vicina, che è Swesweaye, che abbiamo raggiunto tramite un video perché vorremmo proprio che fosse la voce di chi vive lì, di chi appartiene a questo Paese, ad aprire il nostro dialogo.
VIDEO
Swesweaye. Sono Swesweaye, vengo dal Myanmar e lavoro qui come rappresentante Paese per Fondazione AVSI. Il lavoro che facciamo qui è per aiutare le persone vulnerabili in Myanmar. Vorrei descrivervi la situazione reale e corrente in Myanmar. Come tutti saprete, siamo nel quarto anno di guerra civile in Myanmar e non c’è alcun segno che le cose possano migliorare. Questa è la situazione che stiamo vivendo nelle aree più rurali, perché in Myanmar circa il 70% della popolazione, la maggior parte, vive in aree rurali.
In queste aree ogni giorno ci sono scontri. Gli scontri si sono intensificati nelle aree rurali in molte zone del Paese e sono diventati più frequenti e più violenti.
Molte persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case, cercando rifugio nelle aree più vicine alle foreste e nei rifugi antibomba.
Questo perché si sono rafforzati i conflitti tra il gruppo armato People’s Defence Force e l’esercito. L’esercito, quindi, bombarda ogni giorno, soprattutto di notte e anche durante il pomeriggio.
Le persone vivono ogni giorno nella paura, soprattutto ogni volta che sentono gli aerei sorvolare corrono nei rifugi e rimangono lì a lungo. Ora poi è anche arrivata la stagione delle piogge, e le persone hanno molte difficoltà a trovare i materiali per i rifugi. Inoltre, le strade sono tutte bloccate, e ci sono molti checkpoint sia dell’esercito che delle forze ribelli; quindi, le persone hanno davvero tantissima paura. Il loro bisogno è grande e devono affrontare tantissime difficoltà; anche le aree urbane non sono sicure.
E questo perché molte persone, soprattutto i giovani, vengono reclutati dall’esercito, secondo la legge marziale.
Quindi i giovani scappano dalle aree urbane, le abbandonano per raggiungere luoghi più sicuri.
L’esercito poi interrompe l’elettricità, interrompe la connessione internet, e non abbiamo connessione con il resto del mondo a causa dell’interruzione della connessione internet.
Inoltre, a causa della guerra ci sono altri problemi, come l’aumento del prezzo del riso. A causa della guerra civile nelle zone rurali non si riesce più a coltivare il riso, e non solo il riso ma anche altri prodotti ortofrutticoli e alimentari. Per questo, nelle città ora tutti i prodotti alimentari sono diventati molto costosi e le persone devono fare lunghe code per comprare il riso. È molto difficile comprare il cibo, quindi siamo molto preoccupati che in futuro ci sarà ancora più carenza di cibo, e che questo provocherà ancora molti problemi. Grazie molte a tutti per l’attenzione.
Conte. Ecco, lei è Swesweaye ed è la nostra rappresentante Paese in Myanmar. Guido Calvi è, come dicevo, il responsabile del settore umanitario; vuol dire che quando c’è un’emergenza, una situazione di crisi, Guido si precipita e imposta i progetti per intervenire e rispondere ai bisogni immediati. Guido è appena tornato da una missione in Myanmar, e quindi vorremmo con lui provare a restare con questa finestra che ci ha aperto Swesweaye e capire com’è la vita delle persone, cosa hai visto, e anche come AVSI può continuare a intervenire in questi contesti, di cosa ha bisogno la popolazione e come è possibile aiutarla.
Calvi. Grazie mille, Maria Laura. Soprattutto ci tengo a ringraziare tantissimo Swesweaye. Rivedendo il video si percepisce veramente la sofferenza e le difficoltà che il popolo birmano sta affrontando, e le fatiche che veramente le persone che sono lì, che lavorano lì per quelle popolazioni, vivono tutti i giorni. Mi viene in mente il lavoro che stiamo facendo, quindi cercherò di rendere quello che ho visto in questo viaggio. Inizialmente, vorrei dare due premesse socioculturali per capire anche un po’ meglio quello che andrò a dire dopo; nel senso che veramente, come diceva Maria Laura, il Paese è distantissimo da noi, non solo da un punto di vista territoriale ma anche culturale. Do questi due piccoli spunti per poi capire quello che andrò a dire. La prima cosa è che in Myanmar ci sono stati quasi 70 anni ininterrotti di dittatura militare. Le persone più anziane sono state cresciute proprio sotto una dittatura militare, hanno una forma mentis plasmata attorno all’essere cresciuti sotto una dittatura militare. Tanto che, un piccolo esempio banale, io sono una persona abbastanza semplice, non molto impositiva, ma qualsiasi cosa io dico, per esempio alla nostra collega Swesweaye, la sua risposta è “Yes sir”, subito così, la risposta precisa è questa, su qualsiasi cosa, come si fa in ambito militare. Magari nelle generazioni giovani questo avviene un po’ meno, ma questo è sicuramente una cosa da tenere in considerazione. L’altra cosa è che non succederà mai – e questo succede magari anche in altri contesti, ma in Myanmar ancora di più – che uno faccia vedere un fallimento, una non riuscita, che sia evidente questa cosa, che ti dicano apertamente che qualcosa è andato male, che qualcosa non ha funzionato; è difficile. Un altro esempio: nel viaggio siamo andati a vedere la direttrice generale del Ministero del Welfare per ragioni che poi magari dopo dirò. L’incontro all’inizio era in inglese, poi alla fine, per facilitare anche loro, è stato tutto in birmano. Io non so il birmano, non ho capito praticamente nulla. Alla fine, chiedo a Swesweaye: “Com’è andato? Abbiamo raggiunto i nostri obiettivi?” “Yes sir!” Perfetto! Ottimo! Poi comincio a vedere… insomma, non mi sembrava molto soddisfatta della cosa. Alla fine, disastro: la vedo a terra. Le ho detto: “Swesweaye, ma quindi niente?” “No, no, obiettivo zero, raggiunto proprio zero.” Quindi queste due cose da tenere in considerazione. Io quando sono atterrato a Yangon – come diceva Maria Laura, io sono uno che va a Haiti, va alla Repubblica Democratica del Congo, va in Ucraina, posti dove ci sono conflitti in corso – oggettivamente mi aspettavo un senso di militarizzazione evidente, magari anche in città come Yangon, un po’ più di controlli evidenti, diciamo così. Io sono andato per il fatto che da quattro anni non abbiamo più la registrazione del Paese, per cui per noi è difficile lavorare, stiamo lottando per averla ma è quasi impossibile, per questo ero andato appunto ad incontrare il ministero, e quindi ho dovuto prendere un visto turistico. Arrivo con il visto turistico, ma sono andato nella capitale Naypyidaw, che è una città lontanissima dalla capitale economica, Yangon, ed è una capitale dove ci sono solo ministeri, quindi tu devi andarci apposta, o in macchina o con l’aereo; sono andato lì col visto turistico, e quando mi sono sentito con la direttrice ho detto: “Guardi, io sono qua con il visto turistico.” “Non dovresti essere qua.” “Lo so, però siamo qua.” Ho girato, sono andato in un altro ufficio periferico, sono andato a fare delle visite di terreno in aree dove ovviamente si può andare, non sono andato sulla red line dove bombardano, però appunto la sensazione, appena arrivato, era che la situazione è tutto sommato così, non è così grave, oppure che le persone soprattutto nelle aree che sono un po’ più stabilizzate, non è che soffrano così tanto. Poi la missione è andata avanti, sono andato sul terreno, soprattutto a incontrare partner locali, organizzazioni della società civile locale con cui lavoriamo tanto, facciamo un lavoro di capacity building, di accompagnamento a queste realtà, sono andato a vedere dei centri, due in particolare, che sono nell’area di Taunggyi, nello Shan State, che è a est del Paese dove lavoriamo, dove ci sono soprattutto ragazzi sfollati dalle campagne, come diceva Swesweaye, l’ambito più complesso; ho potuto incontrare insegnanti volontari che vengono da quelle zone ma che sono anche sfollati. Ho potuto parlare con il nostro staff stesso, che è sfollato anch’esso e che lavora da sfollato per servire e dare servizi alla popolazione. E lì, parlando con le persone, standoci, cercando di scavare un po’ oltre questa mentalità e questo bias culturale che c’è in Myanmar, mi sono reso conto di tre aspetti fondamentali: c’è tantissima paura. Paura di fare qualsiasi cosa, qualsiasi scelta. Per esempio, dovevamo andare a Naypyidaw, potevamo andare in macchina, ma due giorni prima c’è stato un evento a un checkpoint: un monaco buddista è passato, non si è fermato oppure… non si capisce bene, ed è stato ucciso. Per cui lì, super paura: cosa facciamo, cosa non facciamo? Niente macchina, andiamo in aereo. Paura, come si diceva anche prima, perché c’è la legge marziale, c’è la legge di coscrizione obbligatoria per certe fasce di età maschili e femminili della popolazione, per cui alla fine chi mi ha potuto accompagnare sul terreno erano persone che erano un po’ fuori da quella fascia di età. Paura per i checkpoint: abbiamo potuto incontrare solamente alcune delle organizzazioni della società civile con cui lavoriamo perché altri non potevano passare i checkpoint da cui dovevano passare. Anche il nostro staff stesso, ma anche noi stessi, abbiamo potuto visitare solamente dei luoghi dove, sì, c’era un controllo militare e quindi potevamo facilmente raggiungere. Paura tantissimo nei centri di IDP, nei giovani, paura per le proprie famiglie. Scavando, raccontando un po’, ci sono questi ragazzi, alcuni dei quali non vedono la propria famiglia da più di tre anni perché sono rifugiati, sfollati nei boschi, sotto gli alberi, e i genitori non possono raggiungerli, li hanno lasciati in un posto dove possono ricevere educazione e assistenza, ma non possono poi raggiungerli. Alcuni riescono, altri invece sono tre anni che non hanno relazioni, se non telefonicamente. Ma anche telefonicamente è molto complesso perché ci sono zone che non prendono, per cui magari c’è solamente un posto nel villaggio dove (la linea) prende e quindi ci si mette d’accordo. Quindi una paura che c’è, serpeggiante, che magari all’inizio non si vede perché c’è un blocco culturale, ma che condiziona tantissimo la vita delle persone. Una paura che adesso, dopo tre anni e mezzo, sta diventando da un lato stanchezza, tantissima stanchezza, anche tra i nostri colleghi, anche Swesweaye… Noi siamo lì a cercare di dare servizi alla popolazione senza troppo giudizio politico, ma siamo lì per servire. Siamo lì per dare conforto, ma abbiamo problemi: dobbiamo relazionarci con il governo, dobbiamo relazionarci con i checkpoint, non siamo registrati, lo staff rischia per andare sul terreno a servire le popolazioni. Stanchezza per questa situazione, stanchezza per una situazione che è incancrenita e in cui non si vede troppo una soluzione, e questo genera un’attesa, grande attesa. Un altro piccolo esempio che raccontavamo prima: c’è questa attesa, nella popolazione, di un cambiamento che possa arrivare, di cui però non si vedono molto i segni. Tanto che, per esempio, ogni sei mesi ormai il governo militare rilancia, dice che ci saranno delle elezioni, che si stanno organizzando, e ogni sei mesi puntualmente, cade. “No, vabbè, prolunghiamo lo stato di emergenza, andiamo avanti.” Poi di nuovo: “Ci stiamo organizzando, faremo…”. Io ho sentito Swesweaye il 30 luglio, dovevo andare in ferie, facciamo un update: “Ah, adesso il primo agosto ci sarà l’annuncio, finalmente, che stiamo aspettando tutti.” Puntualmente, il primo agosto non è successo niente, hanno rilanciato di altri sei mesi. Però c’è questa attesa, questa attesa, legata a questa stanchezza, di un cambiamento. E noi cosa facciamo? Prima cosa, noi cerchiamo di essere vicini il più possibile alle popolazioni, il nostro staff, che è anche sfollato, ma anche quelli che non sono sfollati – come Swesweaye che viaggia molto sul terreno per stare vicino sia allo staff che ha bisogno sia alle persone con cui lavoriamo. Stare vicino è essenziale per far vedere che c’è qualcuno che, anche in quella situazione, ti vuole bene, e quindi la realtà può essere positiva anche in quella situazione. Quindi, stare con le persone. E poi, come sempre, l’approccio di AVSI in generale: noi incontriamo le persone, per cui il bisogno è guardato a 360 gradi. Per cui, se c’è bisogno dell’educazione – e questo sicuramente è il caso perché, come dicevo prima, tanti ragazzi sono sfollati – questa diventa la nostra priorità. Creiamo, in collaborazione con delle persone che ci aiutano, questi due centri che sono gestiti uno da un prete che aveva un centro di formazione professionale, e si è trovato lì con più di 140 ragazzi, e ha detto: “Che faccio? Li accolgo.” e noi lo sosteniamo. Poi, un altro posto è gestito da un politico di un governo locale che, avendo dei contatti, riesce a occuparsi anche di sfollati, che è un tema molto sensibile dal punto di vista del governo. Anche noi di AVSI siamo stati accusati di collaborazionismo, e quindi non è facile, ma troviamo anche persone che si espongono pubblicamente e rischiano. Quindi diamo sostegno, li facciamo andare a scuola, gli diamo materiale scolastico, l’opportunità di avere un insegnamento minimo di base. Poi, a 360 gradi, cerchiamo di raggiungere anche le famiglie con sostegno economico, alimentare, ove possibile, attraverso questi checkpoint che stanno diventando sempre più complicati, soprattutto se non si è registrati. Accesso a cure mediche, accesso all’acqua, che è un altro tema molto sensibile perché di acqua ce n’è ma non è tanto sana, quindi bisogna controllare, bisogna che abbiano accesso ad acqua sicura. Questo è quello che noi cerchiamo di fare con tante difficoltà, ma con il sacrificio del nostro staff, cercando di portare un po’ di speranza a questo popolo.
Conte. Myanmar è questa terra stretta tra India e Cina, 55 milioni di abitanti che vivono una situazione tribolata da decenni, come ci ricordava. La ricerca di una democrazia che si fatica a guadagnare. Ambasciatore Ranieri Sabatucci, cosa dobbiamo sapere, quali sono gli elementi fondamentali per cominciare a conoscere questo Paese dal punto di vista geopolitico, per poi per entrare più dentro ad altri aspetti? Cominciamo da qui.
Sabatucci. 0:26:58 Myanmar sicuramente è un Paese più importante, per tanti motivi, di quello che sembra e sicuramente più di quello che viene riportato ogni giorno sui media, che è molto poco. Intanto, Maria Laura, l’hai detto tu, è un Paese tra i due Paesi più popolosi al mondo, la Cina e l’India, e voi immaginate stare sotto l’ombra di questi due Paesi nel corso dei millenni e cercare di trovare e di difendere la vostra identità. È una situazione piuttosto complicata che crea grandissime tensioni. È un Paese ricchissimo di prodotti naturali, materie prime, legno, minerali. Probabilmente ciascuno di voi in casa ha qualcosa che dipende da qualcosa che viene dal Myanmar. Le terre rare, completamente esportate in Cina, che poi vengono utilizzate in tutti i sistemi – batteria, litio, e così via; il tessile, una presenza massiccia di imprese tessili europee in Myanmar, che si è sviluppata fra l’altro in un periodo molto breve e in maniera piuttosto positiva grazie anche alle politiche dell’Unione Europea, che ha permesso, come fa con tutti i Paesi in via di sviluppo, di avere accesso al mercato europeo senza duty free, cioè senza limiti di quantità e senza pagare dazi. Questo è fatto apposta per permettere ai Paesi in via di sviluppo di trovare la loro via allo sviluppo. Questo ha permesso in pochissimi anni – perché questa è una politica che è stata permessa e offerta nel 2015 – dal 2015 al 2020, proprio prima del colpo di Stato, la creazione di 100.000 nuovi posti di lavoro ogni anno, quasi tutti per donne giovani che, se non avessero avuto la maniera di trovare questo lavoro, avrebbero avuto pochissime alternative, o alternative molto tragiche. Quindi si è sviluppata e ha mostrato il proprio potenziale di crescita economica in una condizione in cui bastava avere un minimo di libertà e democrazia perché il Paese potesse crescere. È geostrategicamente critico perché, come dicevamo, è tra l’India e la Cina, però se voi osservate – lì vedo che c’è una mappa del mondo – il problema strategico della Cina è che dipende completamente dal punto di vista dello scambio commerciale e dell’accesso alle risorse petrolifere dallo stretto di Malacca, che è un piccolissimo stretto, e il 70%, praticamente tra il 60% e il 70% di quello che la Cina scambia con il resto del mondo deve passare di là, che è chiaramente dal punto di vista strategico estremamente vulnerabile. Ed è per questo che da qualche anno la Cina sta cercando di creare un corridoio che bypassi questo stretto attraverso il Myanmar. Quindi il Myanmar è diventato di un’importanza strategica per la Cina, per evitare di essere limitata attraverso questo stretto. Questa è un’importanza strategica unica che fa sì che le potenze mondiali siano particolarmente interessate al Myanmar. Però questa è la parte strategica, ma c’è anche una parte economica. Un Paese ricchissimo potenzialmente. Nei pochi anni in cui ha avuto la possibilità di svilupparsi come democrazia, cresceva al 6-7% e le previsioni erano che sarebbe cresciuto al 10%. Ha una popolazione incredibilmente volenterosa, vogliosa di lavorare, vogliosa di imparare, affidabile, che è stata facilmente attratta da investimenti stranieri. Ma c’è anche una dimensione, se vogliamo, culturale e sociale. Penso che questo sia uno dei problemi più grandi, una delle perdite più grandi che si hanno quando ci dimentichiamo di questi conflitti, i cosiddetti conflitti dimenticati. Il Myanmar è la culla di una civiltà antichissima, di 2500-2600 anni, la quale ha creato poi anche una cultura che, a livello comune, ha permesso delle relazioni estremamente progredite, una grande solidarietà sociale, una grande volontà di rafforzare proprio a livello comunitario, una grande generosità. È un Paese povero, poverissimo, e si sta impoverendo ogni giorno. Una delle cose che è importante ricordare è che oggi in Myanmar una persona su due – una su due! – ha bisogno di un aiuto umanitario. Prima del colpo di Stato, tre anni e mezzo fa, questa cifra era meno dell’8%, del 10%. Oggi uno su due. E quindi, in questo ambito di un Paese estremamente povero, un’altra statistica che trovo importante è che la linea di povertà, estrema povertà, è stimata a livello mondiale sui due dollari al giorno. In Myanmar, quando tu hai un lavoro, di dollari ne guadagni uno al giorno. Quindi, quando lavori, quando hai la fortuna di lavorare – e c’è una disoccupazione elevatissima – quando hai la fortuna di lavorare, sei più povero dei più poveri del mondo. E queste sono gente che ha un lavoro. Questo è un Paese che allo stesso tempo è il Paese con il più alto tasso di generosità al mondo. Non c’è nessun popolo come in Birmania che dà a qualcun altro, che dà qualcosa di quello che ha, che condivide quello che ha. E, un po’ legando il tema del Meeting in generale, questo credo sia forse l’aspetto più essenziale di tutti: ricordarsi che questo popolo è all’estremo, non per colpa loro, non hanno fatto niente per ritrovarsi in questa situazione, si trova oggi dimenticato, malgrado abbia tutte queste importanze fondamentali: importanza geostrategica, importanza a livello economico e importanza a livello culturale e sociale. Qualcosa che il Myanmar può dare al mondo, dove noi possiamo imparare come poter gestire le relazioni tra comunità. Una delle immagini che mi ha più commosso, qualche mese fa ero in un posto simile dove sei andato tu, Guido, a Taunggyi (noi, ovviamente, finanziamo, siamo tra i più grandi finanziatori dell’aiuto umanitario in Birmania), e stavo parlando con una comunità, una delle controparti che erano dei religiosi cattolici, i quali mi dicevano che durante i bombardamenti dei militari la cosa più spontanea – non c’era un accordo, c’era una spontaneità – era che se bombardavano i villaggi e le vittime erano buddhiste, potevano trovare rifugio nelle chiese. E viceversa, quando bombardavano i villaggi o le chiese, la popolazione cattolica trovava rifugio nelle pagode o nei monasteri. Tutto questo era fatto senza alcuna forma di… era spontaneo, totalmente spontaneo. Ed è, diciamo, espressione della grandissima umanità, che è espressione della grandissima cultura del Paese. E quindi, da questo punto di vista, è importantissimo. Volevo proprio ringraziare Maria Laura, so che l’AVSI si è impegnata in questo senso, per creare questa importante organizzazione, perché questo è quello di cui oggi abbiamo più bisogno di tutti. È un po’ di attenzione. Attenzione a questo Paese in maniera tale che possiamo cercare di continuare a fare quello che è possibile, per non perderlo, perché il rischio di tutte queste crisi non è solo che uno si dimentica della crisi, ma c’è anche il rischio che tante realtà scompaiano, anche a livello culturale e sociale.
Conte. Ha fatto riferimento, Ambasciatore, alla questione culturale. Il Paese è diviso tra gruppi etnici diversi, tanto che anche solo trovare un nome che metta d’accordo tutti è una sfida importante. Come questo patrimonio culturale resiste a tre anni e mezzo da questa ultima crisi? E quanto questa guerra in corso rischia di attaccare i fondamenti di questa lunga millenaria tradizione?
Sabatucci. Questa è un’ottima domanda perché uno dei problemi nel mondo, che è una delle attività preferite dei dittatori o dei regimi autoritari, è impossessarsi della cultura e interpretarla in una maniera che permetta loro di giustificare la loro presa e tenuta del potere. E in Myanmar è chiaramente questo l’aspetto, dove il regime si è impossessato di quello che è un po’ una narrativa legata alla storia, alla cultura buddista, e cerca di promuoverla per fini propri che assolutamente non riflettono la realtà e la sostanza culturale del Paese. Questo già disturba perché uno prende qualcosa a cui non appartiene e lo manipola per fini che non sono assolutamente utili per la società. Ma c’è un altro aspetto che è preoccupante, che trovo sempre e non è l’unico posto dove l’ho visto. Quando uno ha a che fare con una cultura che fa, se vogliamo, della solidarietà, della gentilezza, della disponibilità a evitare delle posizioni violente, il rischio è che venga interpretato, anche dalle vittime, come una cultura debole, perché non riesce a confrontarsi, a opporsi in maniera efficace a quella che invece è una cultura di violenza. Sovente mi è successo che, appunto, riconoscendo la profondità culturale del popolo birmano, attivisti della resistenza mi rispondessero: “Sì, questo però è un problema, questo è il motivo per cui siamo deboli, è il motivo per cui noi dobbiamo subire da 70 anni la violenza, la presenza di una dittatura, perché noi siamo troppo gentili, siamo troppo solidali, questo è una debolezza.” Questo è il rischio, secondo me, più importante, che col tempo si crei questa percezione che coloro i quali in realtà sono nel giusto non possano più esistere, non possano più continuare a vivere nella maniera in cui vivevano quando in realtà dovrebbe essere esattamente il contrario. E questo è un po’ oggi un tema culturale importante nella resistenza birmana nei confronti del come affrontare sia la crisi attuale che il futuro della Birmania. Bisogna imparare a essere duri, a essere capaci di resistere a queste cose e delle volte anche a prendere delle posizioni dove la violenza è necessaria per difendersi. Non è tutto necessariamente sbagliato, però purtroppo è anche un indice dove c’è un rischio di perdita di valori e di una cultura millenaria che aveva fatto di questi aspetti degli elementi principali della loro coesistenza.
Conte. E la comunità internazionale come si comporta? L’Unione Europea che lei rappresenta, che tipi di azioni mette in campo per questo Paese e che cosa dovrebbe fare tutta la comunità insieme? Quali sono le raccomandazioni che lei porta ai tavoli ai quali si prendono le decisioni?
Sabatucci. Intanto, c’è il termine comunità internazionale che dà l’impressione che esista un’entità omogenea che agisce o non agisce. Purtroppo, questo è parte del problema. Non esiste una comunità internazionale omogenea; esiste una comunità che riconosce il problema nel golpe e nel fatto che la leadership militare voglia governare il Paese, e c’è una parte della comunità internazionale importantissima che ritiene che chiunque sia al potere… anzi, se sono questi qua, ancora meglio. Per cui, in realtà, le iniziative internazionali sono paralizzate, cioè non si riesce ad avere una risoluzione a New York del Consiglio di Sicurezza che possa imporre la pace, un cessate delle ostilità e così via. L’altro problema, l’altra distorsione, è che la comunità internazionale che dialoga, che è aperta, che è attenta a sentire, che è disposta a parlare e anche a confrontarsi su alcuni di questi problemi è la comunità occidentale, è l’Europa. Questo è un evento che sta avvenendo oggi perché in Europa si può fare, se ne dovrebbero fare molti di più, però si può fare. E poi c’è una comunità internazionale dove questo aspetto che viene dal basso, il bottom-up, questo aspetto di accountability con la società, non fa parte dei loro sistemi. E questi sono Paesi che si oppongono a delle misure internazionali. Purtroppo, in Myanmar, oggi le leve dell’Unione Europea e del mondo occidentale non sono abbastanza importanti da poter portare un cambiamento definitivo della situazione. I Paesi più importanti, la Cina, ha deciso ultimamente di stare dalla parte di quello che loro chiamano la stabilità, che, tradotto, è la dittatura militare, e sta cercando di aiutarli a consolidare il loro potere, bisogna dire con scarso successo. Quindi, c’è un problema di comunità internazionali. A livello di Unione Europea noi abbiamo tre obiettivi, fondamentalmente. Ogni giorno ci svegliamo, andiamo in ufficio con tre cose che vorremmo fare. Una è pensare a cosa possiamo fare per facilitare, sostenere, mostrare che stiamo dalla parte di coloro i quali vorrebbero un paese democratico, un ritorno della democrazia. Non abbiamo grandi leve, però esistono delle misure che sono state prese che servono a segnalare la nostra posizione e sostenere, anche in una certa maniera, i difensori dei diritti umani, le vittime, le organizzazioni e anche la resistenza. Poi c’è un secondo obiettivo: il popolo birmano è vittima di questa situazione, come ho detto prima, non ha mai fatto niente per avere questo. Questa è una presa di potere di un gruppo che da 60 anni, 70 anni è radicalizzato, che vive dentro se stesso, nella bolla, che promuove le proprie teorie, che sente la propria radio, che manda la gente nella loro scuola e che quindi sono completamente radicalizzati, e questo gruppo impone la propria volontà al resto. Questo resto è vittima, il nostro impegno è, nell’ambito del possibile, dimostrare sia la nostra solidarietà che il sostegno, quindi qualsiasi cosa possiamo fare. Ad esempio: noi continuiamo a cercare di facilitare la vita, ad esempio, alle imprese europee che impiegano centinaia di migliaia di donne nell’industria tessile, per farle rimanere. Molte sono andate via perché trovano che è impossibile lavorare o è molto difficile lavorare in Myanmar. Noi ci adoperiamo affinché rimangano, che mantengano posti di lavoro. O le organizzazioni, come AVSI. AVSI è ancora lì, altre sono andate via e noi vorremmo al massimo che loro fossero lì. Quindi, mostrare ogni giorno il segno della nostra solidarietà e della nostra presenza. In Myanmar è molto apprezzato il fatto che noi siamo ancora lì. Una delle cose che è successa dopo il colpo di Stato è stato un fuggi-fuggi di tutti gli stranieri in Myanmar. Non so se hai notato, quando vieni a Yangon non vedi un europeo. Tu arrivi a Bangkok e ne vedi dappertutto. A Yangon tu puoi stare cinque giorni e non vedi un occidentale. Quando vai in giro, quando io cammino con mia moglie per Yangon, viene gente da noi e ci ringrazia del fatto che siamo ancora lì. L’Europa deve rimanere, deve essere presente in questi posti, in questi teatri, in questi Paesi per continuare, anche solo con la presenza, a mostrare la loro solidarietà. Quindi, queste sono le tre cose. Quello che è necessario, quello che manca, è da una parte un maggiore coinvolgimento o discussione, comprendere l’importanza di non dimenticare questi conflitti. E d’altra parte bisogna essere coscienti che – mentre questo è il trend, i militari stanno perdendo, però non perdono abbastanza velocemente da cambiare la situazione – quello che bisogna fare è possibilmente, se vogliamo, da una parte un po’ accelerare le cose, se possibile, rafforzando e aiutando anche l’opposizione a rimanere unita, a lavorare in maniera efficace insieme e a mantenere anche degli atteggiamenti e degli orientamenti che siano compatibili, coerenti con quelli che sono un po’ anche i valori, diciamo, di un certo tipo sui diritti dell’uomo e così via. Quindi, queste sono le cose che bisogna fare.
Conte. Ritorniamo un momento alla questione della comunità internazionale che, giustamente, ha detto, è una realtà, è spesso un’etichetta astratta, ma anche noi qui siamo protagonisti di questa comunità internazionale. Quindi, a ciascuno di noi qui, cittadino dell’Italia e cittadino dell’Europa, lei che cosa suggerirebbe per capire perché ci conviene sapere di questo Paese, conoscerlo? Perché ci dovrebbe interessare, come cittadini?
Sabatucci. Di questo un po’ ne abbiamo parlato, c’è un aspetto geostrategico che sembra distante, però quando uno capisce che militarmente la Cina è fragile perché non ha l’accesso in quella zona, chiaramente deve poter risvegliare in noi un certo interesse. Per me, diciamo, se io parlo personalmente, è stata l’esposizione a questa cultura. Io non sono un ragazzino, sono parecchi anni che navigo queste situazioni, però diciamo che il Myanmar ha veramente… conoscere il Myanmar, leggere, imparare, capire la loro importanza culturale, è stato un fattore che, secondo me, mi ha cambiato personalmente al di là di quello che è l’impegno professionale. Personalmente ho scoperto delle realtà e dei modi di pensare che erano molto innovativi. Quindi, secondo me, è importante a livello di cittadino cercare di leggere di queste cose, di studiare. Tu hai detto prima che su Google non si trova molto ultimamente; però, se uno cerca, trova tanti reperti e ispirazioni culturali, quella è la seconda cosa. E l’altra cosa è ricordarsi che un conflitto dimenticato non è un conflitto che va via. È un conflitto che rimane dove qualcun altro esprimerà il proprio interesse. Un conflitto dimenticato dall’Europa è un conflitto che però lascia lo spazio ad altri di imporre i loro interessi, la loro volontà, e questa volontà e questi interessi non solo non sono compatibili con quelli che sono i nostri interessi e i nostri valori, ma addirittura non sono compatibili neanche con quelli che sono gli interessi e i valori di queste popolazioni, quindi è un doppio torto. Da quel punto di vista è importante l’impegno di capire che l’Ucraina, la Palestina sono fondamentali, sono alla frontiera dell’Unione Europea, ma ci deve essere spazio per una comunità che ha anche una certa ambizione. L’Unione Europea è una comunità estremamente importante da tanti punti di vista e deve avere la capacità, la volontà e l’interesse di occuparsi di tutto, perché come ho detto prima, un conflitto dimenticato è un conflitto che finisce poi sotto un’influenza, spesso negativa, di altri.
Conte. Un conflitto dimenticato non è un conflitto che sparisce; direi che è un bel sottotitolo per questo nostro evento. L’ultima cosa che vorrei chiedere è proprio questa – ricordo che l’ambasciatore era stato nostro ospite quando era all’Unione Africana, quindi è passato dall’Africa all’Estremo Oriente – c’è però un incontro particolare, un dialogo avvenuto con qualcuno in Myanmar che vorresti regalarci come frammento che fa luce su quanto questo Paese può significare?
Sabatucci. Ho fatto riferimento a uno, mi ricordo il pugno allo stomaco che ho sentito da parte di giovani… Ah un’altra cosa che nessuno prevedeva: il Myanmar è un Paese tradizionale, come tutti i Paesi che hanno una cultura antica, viene delle volte percepito come un Paese un po’ tradizionale, delle volte conservatore. E anche io pensavo questo. In realtà, poi si è scoperto, il giorno però del colpo di Stato, dopo il colpo di Stato, milioni di ragazzi, soprattutto i ragazzi, sono andati nelle strade per manifestare in maniera completamente pacifica dicendo: “Noi vogliamo il ritorno… non vogliamo i militari.” E queste manifestazioni erano estremamente creative, estremamente gioiose, estremamente allegre, e nessuno si aspettava questo in una società tradizionale. Ci sono delle immagini bellissime che non scorderò mai, di questa allegria, di questa gioia, di questa energia. Una ragazza che andava in giro con un cartello dicendo, ad esempio: “Io non ho bisogno dei militari, ho bisogno di un ragazzo.” Potrei parlare per ore di queste cose che leggevo che erano affascinanti. Poi tutto questo purtroppo è stato stroncato dalla brutale violenza della repressione. Però il pugno allo stomaco che ho sentito parlando con uno di questi ragazzi quando uno ha detto: “Il nostro modo di pensare è la nostra debolezza. Dobbiamo cambiare il nostro modo di essere. Non possiamo più essere così generosi, tolleranti, disponibili. Questa è la nostra debolezza.” E lì è stato il momento in cui ho capito veramente l’importanza. Questo modo di pensare non deve progredire perché poi sarebbe praticamente un modo di pensare che la legge della giungla è l’unica che vale. Ed è questo, insomma, ritornando all’essenziale, di non lasciare la legge della giungla poi diventare la legge delle relazioni internazionali.
Conte. Grazie mille. Quindi, si chiude qui il nostro dialogo. Ringrazio vivamente l’ambasciatore dell’Unione Europea in Myanmar, Ranieri Sabatucci, per essere stato con noi e anche per aver così offerto dal profondo della sua esperienza e condiviso lo sguardo che ha su questo Paese. Ringrazio Guido Calvi, coordinatore umanitario di AVSI, ringrazio tutti voi. Vi ricordo che questo incontro è stato reso possibile grazie alla collaborazione con la cooperazione italiana, che ci ha messo a disposizione questo spazio. Vi invito anzi a visitare il padiglione perché questo lavoro che avete sentito è possibile grazie a questa rete di agenzie, a questo impegno nella cooperazione. In quest’area ci sono punti diversi dove è possibile conoscere il lavoro, quali sono i Paesi prioritari. Ricordo anche che siamo al Meeting di Rimini, che si regge anche sulle donazioni di tutti; quindi, siamo invitati a considerare di fare anche una piccola donazione. Ci sono punti per fare queste donazioni in vari angoli, e ricordo che una parte di queste donazioni verrà devoluta all’impegno per la pace nella Terra Santa, che risponde a un appello del Cardinale Pizzaballa, che è stato ospite nei primi giorni. Grazie e seguiteci, restiamo in contatto.