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LA CREATIVITÀ DIVENTA LAVORO
Interviene Andrea Pezzi, CEO & Founder di Gagoo Group. Introduce Sandro Bicocchi, Vice Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
LA CREATIVITÀ DIVENTA LAVORO
Ore: 19.00 MeshAREA TALK Intesa Sanpaolo B1
LA CREATIVITÀ DIVENTA LAVORO
Interviene Andrea Pezzi, CEO & Founder di Gagoo Group. Introduce Sandro Bicocchi, Vice Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
SANDRO BICOCCHI
Benvenuti a questo incontro del Meeting di Rimini ospitato da MeshArea, questa iniziativa che ha come tema il lavoro e le sue varie forme, le iniziative e le nuove modalità. Abbiamo come ospite questa sera Andrea Pezzi che quelli della mia generazione hanno conosciuto in una veste di Veejay: lui era il volto di Mtv ai tempi in cui partiva in Italia questo modo di fare musica, quindi è stato un personaggio che molto di noi conoscono. Io lo conoscevo dagli anni Novanta, poi l’ho conosciuto personalmente poco tempo fa, quando sono arrivato in una sala riunioni insieme all’amico Vittadini. Abbiamo parlato di un progetto comune che avevamo in mente di proporgli, mentre me lo presentava ho capito di conoscerlo ma l’avevo lasciato uomo di spettacolo ed ho scoperto che ora è un imprenditore, il fondatore ed Amministratore delegato di un gruppo che si chiama Gagoo Group e che ha diverse attività che ci racconterà. Partirei da una domanda molto banale. Come sei arrivato a fare l’imprenditore? Io ho avuto modo di incontrarlo diverse volte da quando ci siamo conosciuti e mi ha colpito, a parte l’entusiasmo e la visione che ha in questioni tecniche e imprenditoriali, che potrebbe essere un testimonial del titolo del Meeting. Non vorrei anticipare un giudizio prima di averlo sentito, ma è mosso da un grande desiderio di fare le cose per bene e di farle anche per altri, non soltanto per un proprio guadagno, tanto che una delle iniziative che ha fatto tocca anche interessi importanti di società non marginali. Ma mi sembra di avere capito che questo non lo spaventa, anzi, è ulteriore benzina nel camino di questo suo desiderio. La domanda che ti faccio è questa: come sei arrivato al tuo percorso imprenditoriale? Perché hai fatto l’imprenditore? Cosa fai esattamente?
ANDREA PEZZI
Buona sera a tutti e grazie per questo invito. Io sono di Ravenna quindi ho sempre vissuto l’occasione dell’incontro di Rimini con grande curiosità, sono felice oggi di esserci e anche di potervi parlare e raccontare di quello che mi rende felice. Quando ero bambino, la cosa che mi ha sempre attratto (ognuno aveva le sue ambizioni) era la felicità. Se devo sintetizzare il mio simbolo infantile di successo, era Terence Hill che mangiava pasta e fagioli in un film western famoso: lo guardavo, sporco e malmesso, e quando ad un certo punto prendeva quel cucchiaio di legno, per me era una divinità. Mi dicevo: «Guarda questo come se la gode». La felicità, visto che il titolo del Meeting è “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”, è il punto che mi ha sempre mosso, quel punto immobile, quella certezza vera, cardinale, che mi ha sempre dato la spinta nelle cose che ho fatto. Quando ho smesso di essere felice in quello che facevo, ho smesso di farlo, ho fatto televisione e mi è andata bene, e ho scoperto che si smette di essere felici quando qualcosa, quello che stai facendo, hai imparato a farlo. La parola esperienza è molto interessante perché ha dentro la parola perire, morire: si muore nella cosa che fai quando l’hai esperita, quando capisci che quell’avventura è consumata, è esaurita. La caratteristica degli esseri umani è la trascendenza, tu ti rimetti da capo in gioco in una nuova avventura, in una nuova esperienza e in un nuovo viaggio: così dovrebbe essere. Ho scoperto quindi che, avendo fatto la televisione, avendo avuto quel successo che da ragazzino mi è capitato di avere, più o meno le regole del gioco di quel sistema le cominciavo un pochino a conoscere e sono andato in crisi. Ho scoperto che per uscire dalla crisi avevo bisogno di crearmi problemi nuovi, dovevo risolvere cose che fino ad allora non avevo neanche la possibilità di risolvere. Piano piano, ho iniziato, con gli studi, a costruire un mio modo di intendere l’impresa, che è molto distante dalla classifica di Forbes, dal concetto di organizzazione aziendale e anche dall’esibizionismo che di solito quando si fa impresa si ha. Per me, impresa è quello che sto facendo oggi: qui oggi c’è una persona che mi ha conosciuto nei mei primi vagiti da imprenditore, con tutte le ingenuità e gli errori che ho fatto. Però l’impresa è un gioco che serve per mettermi in condizioni di capire i miei limiti e di superarli, eventualmente. Mi piace fare impresa, ed è una cosa che gli italiani hanno sempre fatto in modo eccellente, una sfida che ti obbliga a fare in conti con quello che sai o non sai fare, e questo riguarda soprattutto le piccole e medie imprese, perché i grandi sistemi, le grandi aziende, non sono così. Quando fai una piccola impresa, se sbagli con un cliente, se sbagli in una relazione con un socio, tutto ti torna in faccia e arriva con una violenza che può avere due risposte possibili: o il mondo è cattivo oppure tu sei stupido e hai bisogno di imparare come fare a smettere di essere stupido. Devi rimetterti in discussione, ridiscutere completamente te stesso, cambiare, evolverti. Io amo l’impresa non perché attraverso l’impresa faccio i soldi, che peraltro ovviamente devi fare perché senza quelli non puoi parlare di impresa, ma perché mi sfida ogni giorno nel fare cose nuove. L’ho fatto per sopravvivere, perché ogni volta che una cosa è finita bisogna cominciarne un’altra, perché probabilmente le mucche metabolizzano l’erba del prato e danno il latte e gli esseri umani metabolizzano problemi. Noi siamo un Paese pieno di problemi e di contraddizioni, ma i problemi sono la benzina: la creatività nasce a partire da un problema. Voi non potrete mai trovare un’idea imprenditoriale o un servizio se non a partire da un problema, tutto quello che succede dà valore, parte da un problema e da qualcuno che dà una risposta a quel problema. La risposta più efficiente produce il maggior valore, quindi servire l’altro è il modo con cui io intendo l’impresa. Il mio cliente è la controparte su cui mi misuro e che devo rendere felice, che devo accontentare. Scopri, facendo impresa, che devi servire spesso anche la persona, non solo l’azienda che quella persona rappresenta in quel momento. E allora entri in un’empatia umana, scopri che certe volte, con la scusa del lavoro, diventi amico di qualcuno, condividi dei momenti. E questa è la vita che ti cambia. Oggi sono in quella che definisco la mia seconda fase e poi, quando avrò finito questo percorso imprenditoriale, probabilmente vendendo le mie aziende, mettendo da parte i soldi necessari per non dovermi più occupare di lavoro in senso imprenditoriale, probabilmente farò un altro genere di impresa. Questa bellissima cosa che è il Meeting di Rimini è impresa, ma è un’impresa di un’altra dimensione rispetto alle mie imprese: e più sali e più la qualità dei problemi diventa sofisticata, bella, sottile. Perché risolvere i problemi, dare una visione a questo Paese, come cerca di fare questo Meeting di Rimini, è un servizio, è un’impresa che ha una dimensione e una dignità ontologica superiore rispetto a chi, come me, con le aziende che faccio, cerca di servire la spesa pubblicitaria delle aziende. Sento il richiamo verso qualcosa che è sempre superiore, e questa ambizione ha a che fare col fatto che io sempre di più devo imparare a capire me stesso, dove sbaglio, dove non vedo. Se smetto di cambiare mi annoio, non mi diverto, mi abbruttisco, mi intristisco e non ho più l’occasione di incontrare gli altri.
SANDRO BICOCCHI
M piacerebbe tornare su un passaggio che mi ha colpito perché molto vicino alla sensibilità mia e nostra, quando hai detto: di fronte ad una cosa che va come non deve andare, o al mondo che è cattivo o a me che sono stupido, devo cambiare. Questo rapporto con la realtà mi piacerebbe approfondirlo, ma prima ti chiedo di raccontare cosa fai, non diamo per scontata quella che è la tua attività imprenditoriale così partiamo da una base comune e pratica.
ANDREA PEZZI
Tutto nasce quando facevo televisione e sono andato in crisi, era più o meno il 2003 o il 2004, nasce Wikipedia e c’è questo grande dibattito sul fatto che ognuno poteva dire la sua, scrivere la propria voce e la propria biografia. Con questo, inizio a curiosare nel mondo di Internet. Piano piano, per come sono fatto io, comincio ad interrogarmi su che cos’è Internet che stava nascendo, era già nato da qualche anno ma stava prendendo sempre più piede: c’era Google, questo motore di ricerca, c’era Napster, io venivo dal mondo della musica e avevo assistito alla fine degli anni Novanta a questo incredibile fenomeno di un’azienda (non era neanche un’azienda, era una start-up strana) che aveva annichilito l’industria discografica planetaria. E nessuno riusciva a capire come i grandi major della musica potessero finire la loro storia drammaticamente solo perché un ragazzino aveva avuto un’idea. Non c’è genialità sufficiente perché un’idea possa distruggere un’intera industria, ci deve essere qualcosa di più, una specie di grande elemento sottostante quell’idea, un’innovazione di sistema che qualcuno coglie e qualcun altro no. Inizio ad analizzare il digitale, e se qualcuno oggi mi dovesse chiedere cos’è il digitale, la definizione più bella e più vera che darei è che è una radiazione che muta in senso genetico e molecolare l’economia planetaria, la catena del valore e il mondo che noi conosciamo. La rivoluzione industriale ha sempre previsto la produzione di un bene, la logistica per spostare questo bene verso il mercato e la vendita. Tutta l’industria funziona così. Il digitale, e in particolare Napster, che come si diceva è l’industria che ha distrutto il mondo discografico, per la prima volta sono riusciti a scalare il mondo del mercato senza avere la logistica all’interno della catena del valore, quindi senza che ci fosse il trasporto di merce in un settore industriale fatto da “stampo un cd, stampo un disco, lo trasporto nei negozi e la gente lo va a comprare”. Nella cultura cattolica si parla di “sinolo storico” – uso strumentalmente, abbassandola di molto, questa bellissima categoria – un uomo che è unione di corpo e anima. Il disco è musica attaccata ad un corpo che è il disco, il cd, e il padrone del mondo della musica era quello che stampava i dischi. Cosa fa il digitale? Rompe questo sinolo, fa in modo che il contenuto ed il supporto non debbano più necessariamente essere costretti in una unità, scinde questa unità come se l’anima e il corpo potessero viaggiare diversamente. La musica la puoi ascoltare senza cd, e il digitale ha ucciso l’industria discografica che era appoggiata su supporto. Questo concetto, che poi passa alla storia come liquid economy, è la stessa cosa che è successa con Google: invece di fare un giornale e scrivere parole, ha preso le parole di tutti, ha tolto il supporto, tolto la carta (giornale in inglese è newspaper, carta e notizie) e l’inchiostro, che sono le parole che scrivi sul computer, cioè dei bit e non fisicamente qualcosa. Ecco, Google ha preso le parole, che sono intangibili in quanto parole digitali, le ha messe in un grande sito Internet, o motore di ricerca, un sito bianco con un buco al centro, dentro cui però ci sono tutte le parole degli altri. Quindi, la musica degli altri in Napster, sito bianco, buco al centro: scrivo “U2” e mi vengono fuori tutte le canzoni degli U2, in particolare le canzoni degli altri utenti, perché era un modello peer-to-peer, cioè gli utenti si scambiavano così la musica. Stessa cosa Google, un sito bianco con buco al centro e le parole erano degli altri: Google non ha mai scritto un articolo in vita sua. Questo concetto che chiamiamo liquid economy ha distrutto l’industria basata sul supporto fisico. In quegli anni, io venivo da Mtv e quindi, invece di fare la musica video, mi dico: «Faccio i video di Wikipedia, li faccio fare, se ci riesco, anche agli utenti». Poi nasce YouTube, che mi sovrasta come intuizione. Mi dico: «Se potessi mettere tutti questi video in un luogo/non-luogo, e potessero essere distribuiti dappertutto, ricostruirei quello che Google ha fatto con le parole». Ovviamente, era una bella visione da ragazzino creativo ma tutta da realizzare. Ovo, la mia prima azienda, purtroppo non ha avuto successo, si è scontrata con il fatto che l’idea c’era ma che l’ambizione ha bisogno anche di una struttura storica che non sono riuscito a mettere in piedi. Però gli errori mi hanno insegnato tantissimo. Liquidata l’azienda Ovo, ho capito che non potevo lavorare su video da produrre ma che dovevo fare una piattaforma. Nasce così The Outplay, la mia seconda azienda che esiste ancora oggi ed è molto importante nel suo settore; è un’azienda riconosciuta a livello europeo come leader nella capacità di distribuire i video. Perché parlo di piattaforma? Perché è la prima grande ondata, se immaginate la rivoluzione digitale come quattro onde, una successiva all’altra: la prima grande ondata è questa liquid economy che vi ho spiegato, la seconda è la sharing economy: se è vero che bisogna usare le parole degli altri, bisogna usare anche i video degli altri, come fa YouTube, o le parole degli altri, come fa Facebook. Allora il nostro ruolo come operatori digitali non può essere produrre parole, articoli, video: è metterli assieme, cioè diventare una piattaforma in cui tutti quanti mettono i contenuti. The Outplay, la mia azienda, è questo: io prendo i contenuti di tutti i grandi broadcaster europei – Sky, Disney, Viacom -, e i publisher – Corriere, Repubblica, ecc. – accedono alla mia piattaforma per utilizzarli, metterli in pagina e monetizzarli con la pubblicità. Quindi, liquid economy, sharing economy, quella che vi ho appena descritto, cioè le piattaforme, e inizia la terza fase della rivoluzione digitale. Tutti quelli che entrano nel sito degli altri e guardano il video attraverso le piattaforme, tu riesci a conoscerli: si chiamano cookie, pezzi di codice che vengono depositati all’interno del vostro computer. Qua si apre il tema della privacy. La date economy è prerogativa delle aziende che hanno capito il valore della rivoluzione liquida, poi della sharing economy e hanno costruito piattaforme dati. La mia terza azienda si chiama Myntelligence ed è una piattaforma dati, cioè un’azienda che gestisce i dati di grandi operatori come Mastercard a livello global, KPN, che è la grande telefonica del Nord Europa, piuttosto che Enel o Poste italiane. Grandi aziende che usano piattaforme per mettere a sistema i loro dati. Myntelligence fa questo lavoro. Quindi, liquid economy, sharing economy, data economy, robot economy o Industria 4.0. Avrete sentito parlare di questo argomento, c’è l’Internet of things, ecc. Che cos’è l’industria 4.0, o più propriamente robot economy? Nel momento in cui ho capito che i contenuti sono liquidi, che non devo fare contenuti per essere digitale ma devo usare i contenuti di tutti perché tutti possono fare contenuto, ognuno può scrivere le sue opinioni su Facebook, faccio una piattaforma: Facebook è una piattaforma, Airbnb è una piattaforma delle case degli altri, Uber è una piattaforma delle macchine degli altri. Ne gestisco i dati e, mettendo questi dati all’interno di quelli che si chiamano algoritmi di Machine Learning, riesco a produrre una piattaforma intelligente, che impara da se stessa. Così nasce l’Artificial Intelligence: la messa a sistema dei dati produce la capacità di generare sistemi sempre più intelligenti e si apre il grande capitolo dell’intelligenza artificiale. Su questi quattro assiomi, che sono la mia trasposizione concreta del digitale, di ciò che è successo all’economia dopo la rivoluzione digitale, ho fatto delle aziende. Fare le aziende era un modo per vedere se avevo ragione e ritorniamo all’idea dell’imprenditore che ha un’idea, la mette in opera attraverso l’impresa e cerca di capire se ha ragione oppure no, se la sua intelligenza è in gradi di oggettivare la realtà. Per me, la sfida dell’impresa è appassionante perché è a metà tra la ricerca scientifica e la volontà di fare storia, di generare valore e dare posti di lavoro, magari di diventare anche un po’ più ricco e, con questi soldi, fare cose in più. In questa specie di gioco, dove tu hai una visione intellettuale e provi a metterla in opera, io vivo l’impresa: hai un’intuizione, la metti in opera, aggiusti la teoria, capisci sempre meglio la realtà che ti circonda e, capendola, capisci te stesso. Perché quando non capisci la realtà il problema è tuo, non della realtà. Il mondo esterno può essere sbagliato però non puoi non capirlo in modo oggettivo: hai sempre l’obbligo di comprendere, dopo di che puoi non condividere. Se uno mi chiede se amo il digitale, rispondo: no, per niente. Però questa è la storia: io non posso intervenire su un progresso che mi trascende però posso non farmi fregare dal progresso, e per non farmi fregare devo conoscere. L’impresa è anche un modo per non rimanere fregato da questo mondo che è oggettivamente pericoloso, dal punto di vista dell’uomo, perché se l’uomo non comprende le sfide, per esempio dell’intelligenza artificiale, rischia di essere darwinianamente superato. Tenete conto che tra poco saremo sette miliardi di persone. Da sempre, nella storia, Ora, le grandi masse sono servite al mondo per lavorare e per fare le guerre: le guerre le fanno i droni, il lavoro lo fanno i robot e tu che te ne fai di sette miliardi di persone? Se togli il lavoro agli uomini, togli loro lo scopo, questo gioco che vi ho appena descritto. E se lo fanno tutti i robot, come fai a continuare a chiamare uomini gli uomini? Che nome dai all’uomo che non è faber? Che non si misura con la storia e non fa? Quindi, benissimo, che ci siano gli algoritmi a lavorare al posto nostro, ma dobbiamo anche farci le domande, perché se l’uomo perde questa funzione si perde. Quando in televisione ci fu Il Grande Fratello, feci un intervento per la prima edizione, che fu rivoluzionaria, se vi ricordate. Dissi: «Se tu prendi dieci geni, cioè gente intelligente, e la metti in una casa a non fare nulla dalla mattina alla sera, per forza diventano stupidi, perché è l’azione che ti fa intelligente». Perché ho amato molto Vittadini? Non so dire veramente se Vittadini è un genio oppure no, ma la sua azione lo fa geniale. Quello che facciamo ci fa grandi: se metti un uomo anche potenzialmente intelligente su un divano a dire nulla per cento giorni, come accadeva con Il Grande Fratello, quello darà il peggio di sé. Non è vero che siamo così. Ogni uomo, se non fa nulla, diventa scemo, è evidente. E quindi il bisogno di fare ti nobilita. Se fai fare tutto ai robot hai un problema, che tipo di uomini produci? Non che la natura umana cambi, ma l’uomo che non fa, che tipo di uomo è? Una pianta che non sta sotto il sole non è una pianta sana.
SANDRO BICOCCHI
Ci sono due cose che mi colpiscono, che vorrei chiederti di approfondire. Io sono cresciuto nell’esperienza del movimento di Comunione e liberazione con un maestro, don Giussani: uno dei capisaldi è stato che l’uomo scopre se stesso in azione. Quello che stavi dicendo tu con le tue parole, l’ho ritrovato in un punto fondamentale dell’insegnamento che ho ricevuto da Giussani. Secondo: tu hai detto prima, e ci ritorno, che si smette di essere felici quando si impara una cosa, quando praticamente la si sa. E hai fatto l’ultimo passaggio su quello che succede se togliamo il lavoro a qualcuno.
ANDREA PEZZI
Posso? Scusami se ti interrompo, ecco la differenza, per esempio, tra l’uomo e il robot. Mentre il robot raggiunge il suo massimo nell’efficienza, l’uomo raggiunge il suo massimo nella tensione verso l’efficienza. Quando arriva l’efficienza, si annoia e diventa decadenza.
SANDRO BICOCCHI
Però non rispondere a tutte le domande prima che te le faccia, perché se no sono inutile! Invece mi fa piacere, perché hai anticipato il punto che volevo dire: ai sette miliardi di persone, cosa facciamo fare se gli togliamo il lavoro? Stante le cose che hai detto prima, a me piacerebbe che tu approfondissi questo: che non è il lavoro in sé che rende liberi ma la scoperta di senso nel fare il lavoro che uno ha. Ricordo un articolo di Cesana di quindici, sedici anni fa, era La bottiglia e il lavoro. Proprio citando un esempio di Giussani, disse: «Se io vedessi un cucchiaio e lo prendessi per capire come funziona, lo prenderei dalla parte grossa…».
ANDREA PEZZI
La cosa che amo è la parola fondamentale che ancora non abbiamo detto: la motivazione. Secondo me, tutto diventa dolce e bello e pieno di senso quando è la motivazione che ti spinge a quell’atto, all’impresa, a tutto quello che fai, una motivazione di incontro migliorativo con te stesso, quindi con gli altri. Se fai impresa per conoscerti, qualunque cosa farai, magari non sarai l’uomo più ricco del mondo dopo, ma sarai forse l’uomo più felice del mondo o al pieno della tua felicità. Una volta mi è stato fatto questo ragionamento che vi rifaccio perché mi è piaciuto tantissimo. Sono uno molto competitivo, fino a un certo punto lo sono stato, oggi devo ammettere con umiltà che non sono più competitivo, però quando ero ragazzino lo ero. E mi ricordo che ho smesso, ho iniziato il percorso di comprensione dell’idiozia che c’è nella competizione con l’altro, quando un signore ha preso un bicchiere e mi ha detto: «Che cos’è la felicità?». E ha preso una bottiglia, e mentre me lo diceva versava l’acqua dentro questo bicchiere: c’erano un bicchiere piccolo e un bicchiere grande. Ha versato l’acqua dentro il bicchiere piccolo e l’ha riempito colmo. Poi ha detto: «Secondo te, questo bicchiere è felice?». È esattamente questa la felicità – ho risposto -, un bicchiere pieno quando non ci sta più niente, quando hai così tanta gioia, sei così felice perché hai fatto così bene, tutto perfetto, anche le piccole cose, e ti metti a pulire casa. Io amo pulire casa, condivido questa passione con la mia compagna.
SANDRO BICOCCHI
Non si direbbe.
ANDREA PEZZI
Non sto scherzando! Mi piace moltissimo, vieni a casa mia, è pulitissima!
ANDREA PEZZI
La mia compagna è Cristiana Capotondi che qualcuno forse conosce, fa l’attrice ed è una ragazza fantastica, sono un suo fan. Lei ama moltissimo sistemare casa. Come ho scoperto anch’io, al di là del fatto che puoi permetterti qualcuno che lo fa al posto tuo, se sistemi per bene casa tua, nel week-end, quando hai tempo, la casa ti restituisce un benessere: cioè, tu fai la casa ma la casa fa te, c’è questa magia strana. Il lavoro è uguale, lascia stare lo stipendio: se tu fai bene il tuo lavoro, poi sei felice perché ti restituisce qualcosa. Ecco, la felicità è quando tutta l’acqua ha riempito il bicchiere ed è felice anche quel bicchiere piccolo. Il concetto di felicità è un bicchiere riempito. Poi prendi quel piccolo bicchiere pieno d’acqua e lo metti nel bicchiere grande: la stessa acqua non rappresenta nulla per il bicchiere grande. Quindi, ognuno ha la sua felicità. Quando fai impresa, quando fai cose sempre più difficili, il tuo bicchiere diventa grande e non è più possibile trovare la felicità con le piccole cose di quando eri bambino. E non c’è niente di male in questo: però devi fare cose più grandi. Non si diventa grandi con la nostalgia di rimanere piccoli e trovare la felicità nelle piccole cose: queste idee alla Pascoli sono infantili, non a caso. Da grande, sei obbligato a vocazioni più alte. Oggi mi appassiono a cose che non hanno niente a che vedere con l’impresa e addirittura con l’egoismo, che è una parola che amo molto. Ho voglia di fare altro perché so che per essere felice ho bisogno di fare qualcosa dove c’è anche qualcosa per gli altri: mi accorgo che questi livelli crescono perché cresce il bicchiere. La felicità è quando il bicchiere è pieno e non si può negoziare con l’altro, non c’è un rapporto per cui tu fai a gara con l’altro, è il tuo bicchiere che deve essere pieno e la quantità è quella che sta dentro di te. Ritorno al tema del fare: “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. Che cos’è questa forza? Se posso dare una risposta un po’ laica, le forze che muovono la storia è il bisogno di volersi bene, di riempire il proprio bicchiere con le azioni che fai, di riempirlo di cose più pure possibile, sempre più pure, addirittura, perché poi c’è il tema della qualità dell’acqua che metti dentro. Però devi provare questa felicità. Ecco, un uomo felice e l’azione che ti completa sono le due cose fondamentali che mi muovono da sempre. All’inizio non lo capivo ma oggi, se penso all’azienda, penso ad un essere umano. Io ho un capo in ogni azienda, per me l’azienda è lui. Oggi nella mia vita quotidiana quasi non mi occupo più delle cose dell’azienda, mi occupo di lui perché so che, se lui sta bene, lui che ha più motivazioni di me nel fare quella cosa, la farà benissimo, e io ci guadagno. Per cui, mi preoccupo che sia felice, che viva nell’equilibrio che gli consente di risolvere i problemi. Perché io faccio il capo della holding ma lui fa il capo della sua azienda: quel mio socio è un amico, per me. In merito alle cose del lavoro, che conosco perché da li vengo, anche se non ci entro quasi più, sono a favore della delega. La delega è non solo importante, è necessaria. Se tu non lasci fare all’altro gli errori che deve fare, non sarai mai felice, perché sei solo tu. Un’azienda è fatta da un accordo per cui non sei più tu solo. Ho smesso di visionare le aziende proprio perché ero un battitore libero, facevo tutto quello che volevo. Però quando fai azienda ti rendi conto che hai i soci e devi mettere in conto l’equilibrio di tutti quanti. E questa è una sfida difficilissima, per uno che faceva il mestiere da egocentrico della televisione.
DOMANDA
Matteo, V° Ragioneria, Forlì. Due domande. La prima: forse una persona, quando viene sostituita da un robot, può dedicarsi a quella che definirei l’arte della vita. Tu continui a crescere, non attraverso il lavoro ma attraverso ciò che vuoi, senza però avere quel vincolo del «lo faccio anche per scopo di lucro». La seconda domanda: tu apri l’azienda, hai una startup e gente che sia capace, che abbia voglia di mettersi, quindi hai quel bicchiere pieno, di conseguenza non ti impegni con me. E allora, la gente di cui hai bisogno nella tua impresa, come fai a trovarla?
ANDREA PEZZI
Parto dalla seconda che è più facile. Ho una posizione personale rispetto alle persone che vengono a lavorare da me. Io non faccio mai il motivatore, in azienda, non sono uno che ti fa il discorso da capo azienda. Io dico sempre: se non avete le motivazioni giuste per fare il vostro mestiere, non sarò io a darvele perché non credo di poterlo fare. Il motivo per cui le persone devono, per loro stesse, fare il massimo è insito nella natura della persona. Se mi metto nella posizione di darti una motivazione, sto dando per scontato che quella che ti fornisco è migliore di quella che tu devi trovare dentro te stesso. E rispondo, chiosando il pezzo successivo, che non prendo mai una persona adatta perfettamente al ruolo ma sempre una persona sottodimensionata rispetto al suo ruolo. La persona che a settembre verrà nominata Amministratore delegato di una delle due società che vi citavo, è una ragazza che faceva la stagista sei anni fa con me e non si aspetta di diventare Amministratore delegato. Non è adatta ma è una talmente cazzuta, talmente brava che, nelle energie che sprigionerà per arrivare a fare quello che non sa fare, io come imprenditore farò i soldi che devo fare. Se ci metto una persona brava, arriva e pensa di saper fare. Ma quando tu arrivi in un posto e pensi di saper fare, sicuramente sbagli quello che devi fare perché non c’è mai una risposta vera. Soprattutto nel mondo digitale, la tua professionalità è fluida perché tutto è sempre in discussione. Stiamo parlando di come è fatto il digitale. Ho dato una definizione che non sta nei libri, se fossimo una religione saremmo alla patristica, il digitale è alla fase della patristica, nel senso che ci sono i Padri fondatori. Quello che facciamo e diciamo diventerà scuola fra qualche decennio, può essere tutto sbagliato o tutto giusto. Ma se uno arriva e pensa di sapere cos’è il digitale, con me dura due secondi, il dialogo. Se hai capito quello che ho detto prima sul motivo per cui faccio impresa, poi applico lo stesso criterio agli altri. Quindi, ho bisogno di persone che hanno voglia di realizzarsi e di diventare migliori, che hanno l’elasticità mentale per prendere le sberle e sorridere, capendo che quella sberla è il gradino su cui costruire il passaggio successivo. Quando io capisco che una persona ha questa forma mentis, diventa mio socio. Il mio socio era il mio braccio destro, Carlo De Matteo: era il mio assistente, oggi è il mio socio, ma socio vero! Quando vai nelle aziende, la gente dice: «Pezzi? Sì, Pezzi è bravo a parlare ma se non ci fosse Carlo, col cacchio!». Che tra l’altro è vero. È veramente una macchina da guerra, questo ragazzo, l’ho preso un giorno in cui era venuto a fare un colloquio da me. È entrato in ufficio alle 9 del mattino, dovevo fare il colloquio di lavoro e io non so farlo. L’ho visto e gli ho detto: «Senti, che cosa fai?». Ha iniziato a parlare, mi stavo annoiando, del curriculum non me ne fregava niente. Ho detto: «Senti, ho bisogno di fare una cosa, mi dai una mano? Abbiamo iniziato a lavorare insieme e alle 9 di sera eravamo ancora insieme». È uscito dall’ufficio e gli ho detto: «Ci vediamo domani». E lui: «Scusa, non abbiamo parlato di quanti soldi». Ho detto: «Ah, scusami. Quanto prendi?». È iniziata così, non ci siamo mai più salutati, è il mio migliore amico, è il mio socio, con una quota molto significativa. Non ha mai tirato fuori un euro per avere la quota, ma come dicevano i romani «Res clamat ad dominum», cioè, la cosa chiama il suo padrone. Lui è stato così bravo a far diventare sua la mia azienda che, se io non gliel’avessi lasciata, avrei fatto un peccato. E con questo percorso, se trovi una persona di valore è su di lui che costruisci il successo. Con questa frase, rispondo alla prima domanda che era molto bella. Provo a riepilogare: io con l’intelligenza artificiale mi posso dedicare alle cose alte della vita. Qua entriamo in una cosa, non so se conoscete uno psicologo che si chiama Maslow e che, fra le altre cose, è famoso per la “piramide di Maslow” che definisce i bisogni. E non a caso ha detto la piramide. Tutti parlano d’amore, io mi ricordo che da ragazzino, lo posso dire qui, non credo sia una notizia, per otto anni, dopo che ho fatto Mtv – e se volevo avere una fidanzata, dico fidanzata per non essere volgare, non avevo difficoltà -, ho deciso di chiudere completamente con la vita sessuale. Per 8 anni, non sto scherzando. Perché l’ho fatto? Perché c’è stato un momento in cui ho capito che questa roba è difficile, trovare l’equilibrio dentro di me tra la passione verso una donna e il come ci fa stare bene. E allora, visto che è difficile, magari la capirò più avanti, mi sono detto. Quindi l’amore, che è una cosa difficilissima da capire, inizio a sospettarlo oggi! Vogliamo parlare delle grandi cose come Dio? Non puoi arrivare a concepire anche solo lontanamente l’ipotesi di qualche cosa di così elevato da bambino. Per rispondere alla tua domanda, per occuparti delle cose alte devi avere salito prima tutti i gradini. Se ad un uomo togli i gradini banali, semplici, piccoli, il piccolo lavoro, anche, la gavetta, pulire, le fotocopie, tutte quelle piccole cose inutili che ti danno piccole soddisfazioni, della grandezza di un piccolo bicchiere, che cosa ottieni? Una società in cui, su Facebook, c’è gente che si esprime da statista e probabilmente non ha finito la terza media. Tu non lo sai, ma dietro quelli lì ci sono ragazzi di terza media che dicono e pontificano e insultano spesso. Perché? Perché gli abbiamo dato una libertà – è un grande dono, la libertà -, ma è una cosa che va meritata. È vero che l’uomo è libero ma non nasce libero. Se prendi un poppante e lo lasci da solo, non è libero, ha bisogno della mamma se no muore. Non è libero, è talmente poco libero che ha una dipendenza vitale dall’azione di un altro essere umano. Quindi, la libertà è un processo lunghissimo da conquistare. E soprattutto, se vogliamo parlare di cose alte come l’arte, la spiritualità, come l’amore, come il dono, queste cose si possono toccare, le puoi conquistare sia intellettualmente che esistenzialmente a patto che tu abbia fatto un processo, un percorso umile, piccolo, che cresce piano piano. Se l’intelligenza artificiale mi cancella, questo diventa il mio gradino ma per un bambino di due mesi non è un gradino. Rispetto ai grandi temi che mi dici di voler affrontare, non sei niente, ancora, hai bisogno di farti un viaggio infinito. E forse un giorno arriverai a dire: «Ecco che incontro il semplice perfetto, l’uno, il luogo dove tutto trova un senso». Ma prima devi aver vissuto tutte le contraddizioni, tutto l’assurdo, tutto il fastidio, tutto il dolore, tutti i fallimenti, tutte le cose che devi fare. L’intelligenza artificiale uccide questi piccoli gradini che consentono di fare diventare di questo scalino una cosa fattibile. Non so se ti ho risposto. Ci penserai.
SANDRO BICOCCHI
Siamo nell’era digitale e mi è arrivata la richiesta di una domanda digitale da un mio amico, Dan, che invito a venire qua.
DOMANDA
Ciao. Ammetto che sono arrivato dieci minuti in ritardo e spero che tu non abbia già risposto. Io sono al IV° anno di Giurisprudenza e quindi ho tante domande su quello che farò dopo, soprattutto perché vedo che non dedicherei la vita a quello che faccio ora. Mi ha incuriosito molto quando dicevate, sia tu che Sandro: «Un uomo scopre se stesso in azione». Ho questa domanda: vorrei tanto scoprire la mia strada, la mia vocazione lavorativa, ma alcune volte non so dove mettermi in azione. Volevo chiederti se potevi spiegare o raccontare cosa ti ha portato a fare questo piuttosto che altro. Per vederti in azione, dove hai iniziato?
ANDREA PEZZI
Anche questa è una bellissima domanda che credo sia nella testa di tanti. Mi ricordo che da ragazzino dicevo sempre, anche perché ero logorroico, quando i mie amici chiedevano: «Che cosa farò da grande?», «Che cosa mi farà grande?». Il problema è l’impostazione mentale. Secondo me, non bisogna mai pensare a quello che farai da grande ma che cosa ti farà grande. In questo senso, la risposta è facile perché tutto quello che fai – e ritorna il tema della motivazione -, anche Giurisprudenza, qualunque scelta farai, se la farai nel modo giusto, cioè allo scopo di conoscerti, metterti in gioco e capirti, in automatico quella cosa ti farà. Anche Giurisprudenza, o il cameriere al ristorante, qualunque cosa. Non a caso, quando vai a parlare con i grandi manager, i grandi imprenditori, e chiedi: «Qual è la cosa che ti ha aiutato di più?», al novanta per cento ti dicono cose che non c’entrano niente con il loro lavoro. La lezione di vita più grande magari è un dettaglio che, nel momento giusto, gli si è spalancato in faccia. Io, per esempio una volta ho visto – e qui entriamo sullo psicologico andante – un negozio di Caccia e pesca vicino a un negozio di cimeli militari. Ero a Pescara. Se mi chiedi: «Cosa ha cambiato nella tua vita il rapporto con i tuoi genitori?», rispondo «Questa cosa qua». E tu dici: «Che cosa c’entra?». È che io, vedendo quei due negozi in quel momento, non ti so spiegare perché, ho capito una cosa di me, a riguardo di un certo mio modo di sentirmi in colpa, perché sono il terzo di tre figli e il primo, quando sono nato io, è diventato molto orso. Sono un vero rompipalle, quando sono arrivato non è che non si notasse! Così mi sono sempre sentito in colpa: quando incontravo persone che erano come mio fratello, un po’ timide, andavo in rimessa. Questa cosa mi ha sempre creato difficoltà, perché io spesso venivo tecnicamente fregato da persone che avevano questo modo di fare, un po’ sfortunate, un po’ dimesse. Quel giorno, passando da lì, ho capito che anche questo mio modo di sentirmi così importante, addirittura così rilevante da avere cambiato la vita di mio fratello, era una roba da megalomane: ho capito che in verità mio fratello stava mimando mio nonno. Scusate se vado sulla mia psicologia. Mio nonno portava mio fratello a caccia e pesca, era uno che amava i cimeli. I due negozi, uno accanto all’altro, me lo hanno fatto ricordare. Ho capito che quello che faceva mio fratello era per assomigliare al papà della mamma. Non c’entravo io, e in quel momento ho fatto un bagno di umiltà perché dietro questa idea che mi ero formato, di avere rovinato la vita di mio fratello, mi sentivo un dio, la colpa che provavo mi faceva sentire importante. Se mi chiedi: «Che cosa te lo fatto capire?» ti rispondo così, perché quel momento mi ha cambiato la vita: «Tutta una serie di cose che ho fatto senza chiedermi perché». La tua vita è troppo grande per pensare che tu la possa riempire facendo il lavoro giusto. Non c’è un lavoro abbastanza grande per la tua anima. Ogni mestiere è uno strumento per capirti. E proprio dalla domanda che fai si intuisce che ti è stato detto che devi trovare il mestiere giusto, la passione giusta. Sono fesserie. Tutte le cose che fai, se hanno la motivazione giusta, ti insegnano e piano piano ti sbloccano livelli di comprensione di te stesso come quello che ti sto raccontando e che deriva dal fatto che umilmente, piano piano, ti metti nella condizione di spogliarti di tante piccole cose. Se oggi mi chiedi: «Che cosa ti rende felice? Il fatto di essere un imprenditore?», rispondo: «No». «Essere un conduttore televisivo?». «No». «Essere un comunicatore?». «No». «Essere un filosofo?». «No». Cosa sono? Sono un essere umano che cerca di essere felice, io cerco al massimo di me stesso la mia felicità. Cerco di essere come Terence Hill che mangia quei fagioli, voglio quella faccia da beato perché trasformare il beota in un beato – quando nasciamo, siamo tutti un po’ beoti -, è una vocale ma non è mica facile, sai. Arrivare a quella leggerezza con cui vivi i momenti della tua vita con il sollievo di esistere e la felicità di esserci, sapendo che poi non ci sarai ma ci sarai sempre, cioè questo gioco, questa conquista, questa dimensione è più bella della classifica di Forbes. Io non voglio essere l’uomo più ricco del mondo ma voglio essere una persona felice, che poi non è più felice degli altri. Non si può essere più felici di qualcuno perché questa cosa qua, se la cerchi e fai impresa per ottenerla, credimi, è la partita, non è: qual è il mio destino? Qual è il mio lavoro? Perché veramente io conosco gente realizzata facendo niente, rispetto a quello che sembra essere il mestiere. È così, io la vivo così. Anche quando arriverai a diventare il Presidente del Consiglio: scusa, posso parlare dei politici? Una volta, ho incontrato un politico e gli ho detto: «Ma senti un po’, ma tu…»: perché io ho avuto la fortuna di essere famoso e lo so che quando si diventa famosi ti va in pappa il cervello. Quelli che criticano i potenti, secondo me un po’ sbagliano perché essere qui, a questo livello, c’è un vento! Se vai a 20 mila metri di altezza, c’è un altro vento e quello che ti sembra normale qua non è più normale là, e perdi proprio la testa. Nel potere c’è qualcosa che devi essere molto centrato per non subirlo, non è facile. Se vai a fare il Primo ministro per provare a te stesso quanto riesci a rimanere te stesso nonostante le vibrazioni cosmiche che ti toccano, che ogni persona che incontri ti guarda come se fossi quello che gli risolverà la vita – perché questa è la verità del potere, in senso sociale – e riesci a rimanere umile e te stesso, e centrato all’interno di quel gioco, è questa la sfida. Ecco perché fare politica, ecco perché fare il leader, ecco perché essere potente: per capire se riesci a essere te stesso in quel potere, se non perdi te stesso nell’esercizio di quel potere. Questo è il motivo per cui ha senso essere potenti, visibili, conosciuti, famosi. Ricordo Carmelo Bene che diceva: «Tutta la vita per essere diverso dagli altri, e poi? Quando divento famoso, a giudicare se sono migliore, sono gli altri da cui volevo essere diverso, cioè il pubblico. Ma che paradosso è?». E quindi, tutta la protesta di Carmelo Bene era dire: «Voi siete morti!». Parlava con il pubblico, li offendeva, vi ricordate? Ecco, entri dentro questo assurdo se no sei smart. Il problema è sempre la motivazione, fai tutto, fai persino il Primo ministro, ma fallo per capire se riesci a tenere – posso citare Gesù? – in mano il cobra e la colomba, diceva Gesù. Ecco, devi riuscire a essere Primo ministro, stare alle regole della società, fare le cose che vanno fatte per essere un grande leader, ma la colomba, cioè la tua anima, tienila santa, tienila salva. E quindi, ha senso tenere un cobra sempre molto aggressivo se lo scopo è quello di tenere sempre molto docile la colomba, sempre molto pulita la colomba, sempre molto bella la tua anima. Questo è il senso di ciò che sto cercando di dire, non c’è niente che puoi fare che ti rende felice. È il modo in cui lo fai che ti rende felice.
SANDRO BICOCCHI
Che cosa ho imparato dall’incontro di questa sera? Allora, la ricerca della felicità è il percorso comune dell’uomo, questo mi sembra evidente, è stato il tratto conclusivo prima della conclusione di Andrea. Ho imparato che si fa impresa per cercare la felicità, non si parte in primis dalla ricerca dei soldi e non bisogna avere paura di questo desiderio perché seguire il proprio desiderio, anche sbagliando, porta alla felicità. Lui ha fatto l’esempio del bicchiere, ieri all’incontro con Carrón su Giobbe, è stata detta una cosa che mi ha colpito e che un po’ riprende quello che ha detto lui, perché poi il bicchiere, quando sei piccolo, è piccolo e cresce sempre di più. La dinamica con la quale cresce il bicchiere è esattamente quella di un impegno serio con la realtà. Ieri è stato detto dal filosofo che la coscienza è l’approfondimento della percezione dell’alterità a livello di coscienza e la dilatazione della coscienza. Cioè, tu non arrivi per approssimazioni successive a conoscere la verità, perché non l’hai ancora incontrata, ma dilati la tua capacità di conoscerla che è la coscienza. Questo del bicchiere secondo me è un esempio ulteriore. C’è una condizione che io vedo nella mia esperienza, seguire il desiderio fino in fondo, anche sbagliando, porta alla felicità, a patto che si sia leali con la dimensione del proprio desiderio che, come ha detto bene Andrea, per sua natura è infinito. E questo può avvenire in primis nel rapporto serio con la realtà, ma quindi con chi questa realtà la fa perché allora, o è tutto sbagliato ed è tutto da rifare, come diceva Bartali, oppure c’è Qualcuno che questa realtà la fa. Chi? Non lo so perché ciascuno è libero a questo punto della propria vita di ricercare, come diceva lui, la risposta a questa domanda. Ma questa è la domanda delle domande e questo è il senso del titolo del Meeting. E io ringrazio Andrea che è stato su questo livello anche molto personale e credo mi abbia aiutato a fare un passo verso questa coscienza. Ti ringrazio.
Trascrizione non rivista dai relatori