LA BELLEZZA DEL LAVORO: UNA QUESTIONE (ANCHE) DI COMPETENZE

Marco Abate, rettore UniMarconi; Nicola D’Erario, capo Area Relazioni di Lavoro e Professionalità Farmindustria; Cristiana Poggio, vicepresidente Piazza dei Mestieri; Francesco Seghezzi, presidente Fondazione Adapt; Guido Torrielli, presidente Rete ITS Italia. Introduce Michele Samoggia, senior manager Communication, Sustainability & Public Affairs Philip Morris Italia

Nel contesto attuale caratterizzato da un’economia sempre più competitiva, veloce e digitalizzata, l’aggiornamento continuo delle competenze, nel segno dell’innovazione, costituisce un obiettivo che impegna tutti gli attori coinvolti, sia pubblici che privati. Le aziende giocano un ruolo fondamentale, stimolando l’aggiornamento tecnologico del tessuto produttivo e creando un contesto all’interno del quale si possa creare sviluppo e lavoro di qualità. Al fine di rimanere competitivi come Paese, occorre intervenire per compensare la carenza di competenze nei vari settori e creare strategie finalizzate a stimolare tali investimenti.

Con il sostegno di Regione Emilia-Romagna, Farmindustria, Philip Morris Italia, Consorzio Scuole Lavoro – CSL

LA BELLEZZA DEL LAVORO: UNA QUESTIONE (ANCHE) DI COMPETENZE

LA BELLEZZA DEL LAVORO: UNA QUESTIONE (ANCHE) DI COMPETENZE 

Sabato 24 agosto 2024 ore 19:00 

Sala Conai A2 

 

Partecipano: 

Marco Abate, rettore UniMarconi; Nicola D’Erario, capo Area Relazioni di Lavoro e Professionalità Farmindustria; Cristiana Poggio, vicepresidente Piazza dei Mestieri; Francesco Seghezzi, presidente Fondazione Adapt; Guido Torrielli, presidente Rete ITS Italia.  

Introduce:  

Michele Samoggia, senior manager Communication, Sustainability & Public Affairs Philip Morris Italia 

 

Samoggia. – 0:16:29 – Buonasera a tutti e benvenuti a questo appuntamento sul tema del lavoro, che fa parte di un ciclo di incontri su questo argomento. Il titolo di oggi è “La bellezza del lavoro, una questione anche di competenze”. Il lavoro è stato uno dei grandi protagonisti di questa edizione del Meeting, con tantissimi incontri. In questi giorni abbiamo sentito parlare molto di welfare, di come ritrovare e ricostruire un senso del lavoro, soprattutto se è vero, come afferma una ricerca del Censis, che due italiani su tre non vedono più il lavoro come una missione, ma semplicemente come un mezzo economico per la loro vita. Il lavoro, quindi, sta perdendo quel ruolo sociale che aveva un tempo. 

Si è parlato molto di un mondo del lavoro attraversato da grandi trasformazioni di lungo periodo, come la digitalizzazione, l’avvento dell’intelligenza artificiale, l’invecchiamento della popolazione, il calo demografico. Con la ministra Calderone si è discusso delle strategie per rilanciare la produttività e di come includere fasce di popolazione che ancora restano ai margini del mondo del lavoro: mi riferisco ai NEET, mi riferisco alle donne, soprattutto nel Sud. Tutti questi temi sono strettamente legati a uno dei punti centrali del titolo di oggi, che è la bellezza del lavoro. E cosa c’è di più essenziale, per collegarci al tema di questa edizione del Meeting, che avere il coraggio di tornare a parlare di un lavoro che deve essere bello per essere produttivo? Dobbiamo ritrovare il coraggio di riconsiderare il lavoro in questi termini. 

Strettamente legato alla bellezza del lavoro è sicuramente il tema delle competenze. Solo un lavoro che permette di esprimere ciò che si è imparato durante gli anni della scuola e dell’università è un lavoro che consente di apprendere costantemente e di mettersi alla prova, non solo sulle competenze tecniche, sempre più necessarie, ma anche su quelle competenze manageriali che spingono a innovare, a intraprendere. Questo è strettamente collegato a ciò di cui discuteremo oggi. Le competenze sono, infatti, il focus del nostro dibattito di oggi, che affronteremo con un panel ricchissimo. Vado a presentarvi i nostri ospiti: sono con noi Marco Abbate, Rettore dell’Università UniMarconi; Nicola Derario, capo area relazioni lavoro e professionalità di Farmindustria; Cristiana Poggio, vicepresidente della Piazza dei Mestieri; Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione ADAPT; e Guido Torrielli, presidente della Rete ITS Italia. Grazie a tutti voi per essere qui. 

Partirei da te, Francesco, per un inquadramento. Certo, a leggere i numeri, ci sono veramente poche notizie positive. L’Italia è tra gli ultimi Paesi per numero di laureati, per numero di persone che sono iscritte o che si laureano in materie STEM. Siamo penultimi in termini percentuali di NEET. Questo è in linea con ciò di cui parlavamo prima: un mondo del lavoro in profondo cambiamento. Come arriva l’Italia a questo appuntamento storico? Qual è la fotografia delle competenze in Italia, sperando di avere anche qualche notizia positiva rispetto a questo scenario? Grazie. 

Seghezzi. – 0:20:20 – Grazie, grazie dell’invito. Se uno parte dal fondo della classifica, vuol dire che quantomeno c’è tanto lavoro da fare, quindi direi che possiamo guardarla da questo punto di vista. Perché sul fronte delle competenze è evidente che i dati non sono particolarmente positivi. Tanti dati si parlano tra loro perché se hai pochi diplomati in percorsi tecnici, se hai pochi laureati, poi non puoi pretendere di avere tante persone con competenze digitali. Le cose sono quindi interconnesse. Ma allo stesso tempo, secondo me, oggi cogliamo un rischio perché i dati sulle competenze che citavi sono sicuramente critici, ma allo stesso tempo oggi abbiamo un mercato del lavoro italiano che va bene. I numeri del mercato del lavoro, che leggete tutti i mesi sui giornali, mostrano una crescita costante ormai da diversi trimestri, direi quasi tre anni. Abbiamo superato i 24 milioni di occupati, un numero psicologicamente importante per noi perché non l’avevamo mai raggiunto. I giovani occupati sono tanti, così come le donne occupate, quindi sembrerebbe che, nei fatti, le imprese che cercano una persona facciano fatica a trovarla, ma a un certo punto ci riescono, perché ogni mese si assume, molto meno a tempo determinato, e si fanno molti meno tirocini extracurricolari rispetto agli altri anni. 

Quindi, cosa non torna? Non torna che, se andiamo a vedere effettivamente quali sono i lavoratori assunti, vediamo che abbiamo tanti assunti in professioni considerate qualificate tecniche, ma allo stesso tempo tante persone con competenze molto basse. Quindi c’è qualcosa che non funziona. È molto probabile che oggi tante aziende stiano assumendo persone che non sono l’ideale che cercano, ma in assenza di altro, prendono ciò che trovano. Questo ha delle conseguenze in termini di produttività e di costi per le imprese, perché se vuoi assumere qualcuno sapendo che lo vuoi formare, che vuoi inserirlo in un percorso, è chiaro che si tratta di un investimento. Se invece assumi dicendo “ho bisogno di qualcuno e non riesco a trovare la persona giusta, prendo un altro e pian piano imparerà”, è tutta un’altra prospettiva. 

Per cui io credo che il tema delle competenze oggi sia particolarmente urgente, soprattutto quando possiamo andare oltre il dato quantitativo. Allo stesso tempo, il tema delle competenze è legato al titolo di oggi, perché parlare di bellezza e lavoro è rivoluzionario nel discorso di oggi, dove il lavoro è concepito principalmente come una fatica. Ed è vero, il lavoro è una fatica, ma questa è una dimensione totalizzante. Dobbiamo considerare non solo come trovare le persone, ma come farle crescere e valorizzarle, quanto meno per non perderle. Se si vuole considerare l’ipotesi più negativa. L’ipotesi positiva, invece, è di avere persone con cui si lavora bene insieme. Per cui c’è un rapporto fondamentale tra i due elementi anche in termini di organizzazione e gestione dell’impresa. Può esserci un lavoro bello se non è un lavoro che conosce quello che sta facendo? O, allo stesso tempo, si può davvero crescere senza un’attrattiva, senza qualcosa che in qualche modo ti attiri mentre lavori, perché capisci che puoi fare qualcosa di bello? 

Per cui il tema delle competenze va molto oltre la dimensione, poi ne parleremo, di “non troviamo i lavoratori, non troviamo i diplomati in professioni tecniche”, che è un problema molto importante. Ma io lo guarderei in modo anche un po’ più ampio: come lavoriamo oggi? Come immaginiamo il ruolo dei lavoratori, o come ci piace chiamarli, collaboratori? Li chiamiamo così, ma in realtà non li trattiamo in questo modo. Perché se collaboro, vuol dire che sto facendo un processo di crescita e di conoscenza insieme a te. Quindi, le competenze io le guarderei anche da questo aspetto. 

Samoggia. – 0:24:49 – Grazie, Francesco. Cristiana, passo subito a te, prendendo uno spunto dal discorso di Francesco. Lui dice che parlare di bellezza del lavoro è rivoluzionario. Tu hai a che fare tutti i giorni con ragazzi che si approcciano al mondo del lavoro. Parlare di bellezza del lavoro significa trasmettere un senso profondo e quasi emotivo di ciò che si fa. È qualcosa che si può trasmettere, si può insegnare? 

Poggio. – 0:25:15 – Buonasera a tutti. Sono partita proprio da qui. Innanzitutto, interrogando me stessa, provando ad uscire da una narrazione del lavoro con cui la mia generazione è stata impregnata. Il lavoro era dovere, era anche bello, ma soprattutto dopo il Covid questa narrazione è scomparsa. Quindi ho immaginato di porre a me stessa questa domanda: ma il lavoro è veramente bello? Lui parlava di fatica, almeno questo dobbiamo dircelo. Ho immaginato di fare questa domanda agli oltre 10.000 ragazzi che ogni anno accogliamo a Piazza dei Mestieri nelle sedi di Torino, Milano e Catania. Sono certa, ho già fatto alcuni tentativi di porre questa domanda, che la maggior parte di loro direbbe di no, che il lavoro non è bello. Direbbero che il lavoro è sfruttamento, mancanza di riconoscimento del valore, scarsa retribuzione. È chiaro che questi sono tutti stereotipi che hanno assorbito dai loro contesti sociali. Noi potremmo obiettare, certo, i ragazzi che vengono alla Piazza dei Mestieri, in gran parte, provengono da situazioni di povertà economica, sociale e culturale. Ma sono altrettanto certa, per tutti gli incontri e il lavoro che abbiamo fatto con le scuole, che se ponessimo la stessa domanda ai ragazzi dei licei, a meno di qualche élite particolarmente illuminata, ci risponderebbero nello stesso modo: il lavoro è qualcosa che si deve fare, non c’entra nulla con ciò che abbiamo studiato a scuola, ed è fatica. 

Allora, ho provato a darmi anche una risposta. Quando si parla di valori, di riconoscimento del valore, si deve arrivare a un livello educativo. Non si può riconoscere un valore nel lavoro se non si è educati, se non si è fatto un percorso insieme. Infatti, la stessa domanda che facciamo ai nostri ragazzi quando escono dopo 3-4 anni dai percorsi della Piazza dei Mestieri, poi vi dirò brevemente di cosa si tratta, otteniamo risposte diverse. Non ci rispondono più come direbbe Cevoli, “è una sfiga”, ma ci dicono: “Oh, lavorare è una figata, è bellissimo, ho imparato un sacco di cose”. Questo cambiamento di prospettiva è possibile grazie a un percorso educativo. 

La Piazza dei Mestieri nasce ormai vent’anni fa. Io e Dario ci commuoviamo per i ragazzi che hanno difficoltà con la scuola e inventiamo questo nuovo modello in cui il lavoro e la formazione formano un’alleanza stretta, viaggiano a braccetto. Iniziamo ad accogliere i ragazzi dopo la terza media per corsi di formazione professionale, ma immediatamente li mettiamo in contesti lavorativi veri e propri. Perché il contesto lavorativo, e qui ci sono degli esperti che possono dirlo meglio di me, stimola i ragazzi a riconoscere una mancanza, un gap di competenze. Si accorgono subito, messi al ristorante con un gruppo di francesi, che la lingua è importante. Allora questa mancanza, che io considero decisiva, se non ci accorgiamo che ci manca qualcosa, non siamo stimolati a cercarla, non facciamo nessun passo avanti. Dicevo questo, la faccio breve, volevo ancora raccontare un esempio. 

Questi percorsi che facciamo con i ragazzi, portandoli subito in un contesto lavorativo per poi inserirli nel mondo del lavoro, ci hanno permesso di notare qualcosa di importante. Volevo sottolineare un fatto: la scuola italiana, però, solitamente fatica a ragionare per competenze. Si parla di competenze, ma in realtà fatica, perché occorre essere coraggiosi. Ci servono dei maestri, degli adulti, che provino veramente a sfidare questi ragazzi, a scoprirli. Dentro ogni ragazzo c’è un punto luminoso, ma bisogna avere il coraggio di andare a cercarlo. 

A proposito di competenze, voglio raccontare un breve episodio. Qualche anno fa, abbiamo iniziato a inserire le LIM (lavagne interattive multimediali) nelle nostre classi. Bellissimo, esperienza straordinaria, formazione dei docenti. A un certo punto queste LIM iniziano a fare cose strane: diventano rosa, gialle, iniziano a usare caratteri giapponesi. Ovviamente i professori sono furibondi: spacchiamo le LIM, le portiamo a riparare, con costi organizzativi ed economici non indifferenti, finché una mattina entro nella corte della Piazza dei Mestieri, e un gruppo di docenti dice: “Li abbiamo scovati, è quella classe lì, la seconda di cucina, che con i loro smartphone cambiano le caratteristiche delle LIM”. “Adesso dobbiamo sospenderli per una settimana”, iniziano a dire. Perché la scuola italiana è abituata: c’è la regola, se si disattende la regola, c’è la punizione. Non so come mi sia venuta questa intuizione, ma ho detto: “No, no, dobbiamo premiarli”. “Ma come, premiarli?” “Proviamo!” 

Quel pomeriggio vado a comprare una coppa. La mattina dopo entro in classe con tutti i docenti, anche molto curiosi, e dico: “Ragazzi, sono venuta a premiarvi”. “No, prof, ma proprio noi?”, rispondono, perché non sono scemi, sanno benissimo quello che hanno fatto. “Siamo una scuola che riconosce le competenze. Voi avete una competenza che nessuno di noi aveva. Ci avete tenuto in scacco per un mese, e io devo riconoscerlo, quindi vi consegno questa coppa”. A parte le dinamiche, si capisce immediatamente chi è stato. Ma lì c’è stato il riconoscimento di un valore e di una competenza che noi docenti non avevamo. Per questo bisogna essere coraggiosi, perché questo mette in gioco i docenti per primi. Ma non solo, i nostri ragazzi hanno immediatamente assunto una responsabilità, perché ho detto loro: un premio implica una responsabilità. Il rapporto con quella seconda di cucina è cambiato da così a così, per aver avuto il coraggio di sfidare i ragazzi su competenze, superando le regole della scuola, ma basandoci sulle competenze che loro potevano mettere in gioco. Allora io credo che la scuola, in questo momento, debba avere il coraggio di fare questo, altrimenti non avremo mai persone veramente formate e continueremo a mancare questo obiettivo. 

Samoggia. – 0:32:02 – Chi sta mettendo in discussione le regole dell’istruzione è anche la Rete dell’ITS. Qui uno dei gap che l’Italia ha sicuramente riguarda le competenze tecniche. I numeri dicono, ma magari tu mi smentirai, che in Italia ci sono 31.000 iscritti agli ITS contro i 720.000 in Germania, 594.000 in Spagna e 551.000 in Francia, paesi con cui competiamo in ambito manifatturiero e anche agricolo. Perché oggi gli ITS sono fondamentali nel sistema della formazione delle competenze? E ti faccio una provocazione: vorrei che tu convincessi più persone possibili in questa sala a tornare a casa e convincere qualcuno a iscriversi a un ITS, o a far iscrivere qualcun altro a un ITS. 

Torrielli. – 0:33:00 – Allora, io non risponderò alle tue domande, come lo sai, è mia abitudine, perché devo fare quello che tu mi hai chiesto. Cioè, io vorrei che all’uscita ci fosse una persona che mi dica che non è figlio di un tassista, e poi spiegherò perché. Vorrei che questa persona dicesse: “Io mi iscriverei a un ITS, però sarei fuori gioco”. Allora, conoscenza, conoscere e sapere. “Conoscere e sapere” è il mio motto da quando sono entrato a questo Meeting. Mi chiedo, quanti di voi sanno cosa significa “profia”? No, no, no. Profia? Io l’ho letto e sono andato a cercare su internet, e ho scoperto che era “professoressa” e la mia amica qui si considera una “profia”. Chi conosce Pier Giorgio Perotto? Forse pochissimi sanno che la Perottina P101 è il primo personal computer costruito. Sapete dove è stato costruito? In Italia, da questo Pier Giorgio Perotto che ho avuto occasione di conoscere. Andava con una Moto Guzzi lungo la strada dalla Ruta di Camogli verso Genova, e aveva una semplicità incredibile. È con questa semplicità che il personal computer, invece di essere prodotto da Olivetti, è stato poi prodotto negli Stati Uniti. 

Ieri ho conosciuto Massimiliano Nicolini, uno scienziato formidabile col Teorema di Assisi. Vi chiederei di andare a leggere cos’è il Teorema di Assisi; non posso raccontarlo adesso. Però, alla fine, la cosa fondamentale è che in questo mondo, dove tutto è basato su quello che i signori qui… Io sono un ingegnere chimico siderurgico che non aveva capito nulla, e che i bit fossero qualcosa di fondamentale. Un giorno il mio professore di impianti chimici entrò in aula e disse: “Ragazzi, se non mangiamo i bit non andiamo più avanti.” E aveva ragione. 

Conoscenza. Chi conosce gli ITS? Chissà cosa sono gli Istituti Tecnologici Superiori. Una ragazzina mi ha chiamato e mi ha detto: “Posso fare un’intervista?” Io le ho detto: “Sì, sì.” Dopo un po’, le ho detto: “Ma scusa, posso farla io a te? Tu sai cos’è un ITS?” Lei mi ha risposto: “No.” Però, un altro anno tutti i diplomi… “Sì.” Allora le ho detto: “Tu sai cosa devi fare? Devi andare su internet, scrivere ITS, e tu navigherai in un mondo di proposte incredibili, perché ci sono 10 aree tecnologiche, ci sono 146 Istituti Tecnologici Superiori in Italia che formano, oggi, 31 mila ragazzi, domani 80 mila.” 

L’ho detto all’ambasciatore tedesco, l’ho detto all’ambasciatore francese, e gliel’ho detto proprio nelle loro sedi. Sono andato all’ambasciata in via Cristoforo Colombo, a casa dell’ambasciatore tedesco, e lui ha accettato questa cosa. Gli ITS non hanno niente a che vedere con quegli 800 mila, quelli 800 mila sono un’altra cosa. È come quando mi chiedono un falegname, un idraulico; noi non formiamo quelle persone lì. Io vorrei creare gli Istituti Tecnologici Inferiori, perché alla fine, nei cantieri e in tanti altri settori, interessano più i falegnami, gli idraulici, i tubisti. Noi invece formiamo delle persone che interessano le imprese. Ma perché? Noi non siamo formatori di ragazzi che poi vanno sul mercato. Noi abbiamo le imprese. 

I nostri comitati tecnici scientifici sono composti da personale delle imprese. Ogni anno, cosa che nella scuola e nell’università richiede 10 anni per cambiare un percorso di studi, noi cambiamo ogni anno il profilo di quella figura che interessa alle imprese. Ogni anno noi cambiamo il percorso formativo. E dopo due anni, questi ragazzi che hanno avuto l’opportunità di imparare quelle competenze direttamente, con il piacere di farlo, con l’entusiasmo di incontrare persone che all’interno del mondo del lavoro ti portano a capire e ad apprezzare la bellezza del lavoro, diventano dipendenti delle imprese. Più del 60% dei nostri formatori proviene dalle aziende. Dopo un anno di inserimento in azienda, quando questi leggono del metaverso, imparano delle cose incredibili. 

Immaginate fare un piano di evacuazione di un ospedale, nella parte della sala operatoria, piuttosto che nella rianimazione. Ci vuole qualcosa che non sia prettamente operativo diretto; ecco dove entra il metaverso. Questi avatar, io ieri sentivo parlare dell’avatar biometrico. L’altro giorno mi sono fatto l’avatar sul mio Facebook, o qualcosa del genere. Ci ho messo mezz’ora, ma non trovavo i capelli bianchi, perché c’erano tutti capelli neri. Oppure si comprano i capelli bianchi, in questo caso. Però devo dirvi la verità, che alla fine questi ragazzi escono. E dopo essere entrati dicendo: “Io tutte le volte faccio il kick-off di tutti i corsi, li incontro tutti, e individuo subito quello che è il capo.” Quando escono, sono fantastici, ti dicono: “Io sono entrato non sapendo chi ero, e adesso non solo so chi sono, ma mi piace ciò che sono diventato. È bellissimo quello che sono.” 

Quindi, qui io non riesco a vedere bene se ci sono dei ragazzi, ma sappiate che nei nostri corsi ci sono anche coloro che escono dal mondo dell’università, con il quale noi non abbiamo nessuna intenzione di entrare in conflitto. Anzi, per noi sono fondamentali, perché costruiscono, in sistemi come quelli dell’Istituto Italiano delle Tecnologie, dove si fanno cose stupende, un qualcosa che poi necessita di un tecnico che le mantenga. Perché tutti noi abbiamo delle macchine dentro le nostre scuole, ma se poi non abbiamo i tecnici che le fanno funzionare, non sappiamo come fare. 

I ragazzi che escono dai nostri Istituti Tecnologici Superiori sono accademie, perché sono le accademie delle piccole e medie imprese. Le grandi imprese hanno le loro accademie, ma le piccole e medie imprese, che non hanno il tempo di fare nulla, si rivolgono a noi, e noi costruiamo per loro le competenze necessarie. Dopo due anni, al 90%, i ragazzi entrano in azienda. Quindi, ragazzi che siete qui, non so quanti siate, ma a voi che siete in collegamento streaming, e penso che siate tantissimi, mi auguro che domani, come quella ragazza a cui ho detto che tutte le volte entro… trovo cinque o seicento ragazzi davanti, e mi faccio un selfie con alcuni di loro, soprattutto con le ragazze. Perché? Perché sono poche, quelle che ancora oggi… E dico loro: “Tra due anni, voglio incontrarti e voglio sapere se ti è piaciuto.” Perché lavorare in questo modo è bello. 

Io sono un missionario degli ITS e lo sarò finché sarò presidente. Qui davanti ho la mia vicepresidente, ho un sacco di persone che mi amano, ma sicuramente voglio che mi amino tutti i ragazzi ai quali posso suggerire di diventare nuovi frequentatori degli Istituti Tecnologici Superiori. Se siete a casa, fate una telefonata a qualcuno che conoscete qui e dite: “Io sono pronto a entrare nell’Istituto Tecnologico Superiore, perché lui mi offre la cena stasera.” Quindi, questo è il mio motivo. Grazie. 

Samoggia. – 0:41:30 – Speriamo che le aziende amino anche formare queste persone. Marco, si parla tantissimo di università telematiche, e ne parlava prima Francesco, dell’importanza del continuare a formarsi lungo tutta la carriera evolutiva. Forse il bisogno vero che intercetta l’Università Telematica è proprio questo. Qual è il vostro ruolo nell’accompagnare le persone che lavorano verso una formazione continua? 

Abate. – 0:42:04 – Grazie a tutti per l’invito e l’organizzazione di questo incontro. La risposta è decisamente affermativa. Le università telematiche nascono proprio per fornire una formazione di livello universitario a persone che lavorano e che sono già inserite nel mondo del lavoro, in modo compatibile con le loro esigenze lavorative. Queste persone hanno una serie di vincoli che è giusto considerare, in modo da permettere loro di ampliare, migliorare e rafforzare la propria preparazione professionale, ma anche culturale e personale. I nostri studenti ci piace chiamarli “lavoratori studenti” e non “studenti lavoratori”, perché sono principalmente lavoratori. Il fatto che, da lavoratori, si impegnino anche in un percorso universitario è qualcosa di assolutamente non banale. Sono persone molto motivate che utilizzano il tempo libero a loro disposizione per studiare. Da questo punto di vista, per noi, questo rappresenta una grande responsabilità, un dovere molto forte, di offrire loro la migliore preparazione possibile, affinché possano crescere professionalmente, culturalmente e personalmente. 

E questo vale la pena ricordarlo, non riguarda soltanto i corsi di laurea e di laurea magistrale, che rappresentano davvero il core business della nostra offerta, ma riguarda anche la formazione cosiddetta continua o permanente, che accompagna tutta la vita lavorativa. Tra l’altro, una cosa che vale la pena dire, perché spesso emerge nelle discussioni, è che la pandemia, come sappiamo tutti, è stata un disastro sotto molti punti di vista. Tuttavia, ci ha costretto tutti a entrare in contatto con la formazione a distanza. Cos’ha significato questo? Va chiarito che la formazione a distanza fatta per bene, come quella che cerchiamo di offrire a UniMarconi, non è quella che è stata improvvisata durante la pandemia; non è una persona disperata che parla a uno schermo nero, nel migliore dei casi riempito di tanti bollini senza facce. Una formazione a distanza fatta bene è progettata per essere fruita a distanza, comprende una fase di pre-produzione, produzione e post-produzione; è un tipo di prodotto completamente diverso. 

Quello che è accaduto è che una grande fetta della popolazione ha scoperto questo strumento e ha compreso la possibilità di seguire percorsi universitari anche a distanza. Non solo il numero di studenti iscritti alle Università Telematiche, in particolare alla nostra, è aumentato significativamente negli ultimi anni, ma anche l’età media degli studenti si è abbassata. A questo punto, ho voluto analizzare la distribuzione di provenienza di questi giovani, e ho scoperto che la grande maggioranza sono lavoratori. Non si tratta di persone che, invece di andare a un’università tradizionale, si iscrivono da noi per fare solo gli studenti. No, anche nella categoria dei giovani, la grande maggioranza sono lavoratori; persone che probabilmente, altrimenti, non avrebbero intrapreso un percorso universitario. Pertanto, stiamo fornendo questo servizio e dobbiamo farlo nel miglior modo possibile, continuando anche dopo la laurea e la laurea magistrale. 

Un punto che è stato sollevato prima, e che presumo verrà ripreso più avanti, è che stiamo vivendo un periodo di grandi cambiamenti nel mondo del lavoro e nella società in generale. Le persone che lavorano hanno bisogno di costruire nuove competenze per apprezzare appieno il loro lavoro e per guidare, piuttosto che subire, questa trasformazione. Come Università Telematica, possiamo offrire corsi di formazione, come i master, che sono abbastanza noti, ma esistono anche corsi di formazione più brevi. Il termine tecnico potrebbe diventare, in futuro, “micro-credenziali”, pensati per rispondere a esigenze specifiche di certi settori produttivi, singole aziende o necessità culturali delle persone, e questi possono essere ben realizzati a distanza. 

A livello internazionale c’è un’ampia offerta e riteniamo giusto proporla anche in Italia, collaborando con le aziende e costruendo contatti per offrire esattamente ciò che è necessario. Considerando anche interessi più generali, alcuni di questi corsi di formazione, come quelli sull’archeologia o sulle lettere antiche, potrebbero non avere un immediato riscontro professionale, ma sono molto richiesti dal punto di vista della crescita culturale. Questo è un tipo di servizio che le Università Telematiche, se lavorano con qualità e con l’idea di creare corsi di valore, possono offrire bene, e devono farlo in collaborazione con il mondo del lavoro, della produzione e anche con gli ITS. In questo modo rispondiamo a un’esigenza di formazione diffusa e possiamo collaborare per fornire una risposta complessiva su vari livelli a questo tipo di esigenze. 

Samoggia. – 0:49:03 – Marco, mi collego a quello che stavi dicendo perché vorrei coinvolgere Nicola nel risponderti. Nicola, tu rappresenti il mondo in cui tutta la formazione e il cambiamento del lavoro trovano concretizzazione. Come sta cambiando il mondo del lavoro e quali competenze sono necessarie? Che appello vorresti rivolgere a Marco e Guido, che si occupano di formare queste competenze? Di cosa avete bisogno, voi aziende? E come collaborate con queste organizzazioni? 

D’Erario. – 0:49:42 – Grazie Michele, buonasera a tutti e grazie dell’invito. Io partirei da un assunto che deve essere il faro di questa discussione sulle competenze, perché altrimenti ci giriamo intorno. L’Italia è uno dei principali paesi manifatturieri al mondo. Questa è la principale trazione economica del nostro Paese, sebbene in un contesto caratterizzato dalla quasi totalità di piccole e medie imprese. Quindi noi non possiamo prescindere dalle competenze. 

Fino a poco tempo fa, il mercato del lavoro, e il mercato economico in generale, era in un contesto di competizione globale. La competizione avveniva sulle materie prime e continua su altri fattori. A breve, in un contesto di calo demografico, che è iniziato anche in Cina, e che sperimenteremo presto in Europa e ancor di più in Italia, il tema su come mantenere questi contesti produttivi sarà quello delle risorse umane con le competenze adeguate. Quindi credo che siamo arrivati in un momento in cui c’è bisogno di una fortissima collaborazione tra tutti gli attori istituzionali. 

Faccio una piccola digressione, visto che Guido prima ha citato la questione: le grandi imprese si fanno le loro academy. Sono sempre esistite. Se guardo alla storia del lavoro in Italia, negli anni ’50, quando esplodevano la Fiat e le Olivetti, avevano le loro academy aziendali. Qual è la differenza rispetto a oggi? Che quelli erano grandissimi poli industriali, che oggi non abbiamo più; si è smantellato, si è parcellizzato. Abbiamo un know-how forte e un lavoro destinato all’indotto che costituisce la piccola e media impresa, ma che ha bisogno delle stesse competenze. Per cui, avere degli attori che si occupano della formazione senza un dialogo stretto con le realtà aziendali rischia di far perdere tempo e opportunità. 

Cito due esempi per essere un po’ più concreto con dei numeri. C’è stato uno studio fatto recentemente dalla Fondazione Nord-Est sugli expat. A prescindere da chi l’abbia fatto, però il dato che conta è questo: gli expat sono gli studenti italiani che vanno all’estero. Il 60% di questi intervistati, iscritti all’AIRE, che quindi stanno lavorando in Europa, svolge delle attività che noi cerchiamo in Italia. E questo sembrerebbe un paradosso. Alla domanda: “Perché siete andati all’estero?”, le risposte sono state: “Perché mi ha convinto, perché quel lavoro è stato motivante, perché quel lavoro mi consente un modello di conciliazione vita-lavoro che ritengo opportuno”. Quindi qui io trovo già un primo elemento sul quale ci dobbiamo confrontare. Noi, il lavoro presente in Italia con la sua bellezza, probabilmente non siamo in grado di raccontarlo. Raccontarlo dove c’è, di che tipo è, come si sviluppa questa attività lavorativa. E questo è un interrogativo importante che le istituzioni formative devono porsi. 

L’altro elemento, quindi non per fare un’analisi tra ITS e università, perché non sono in competizione ma svolgono attività differenti, riguarda la modalità attraverso la quale si deve collaborare con le imprese. Dicevo prima, a mio avviso, questa esigenza è molto sentita e non possiamo più perdere tempo per due motivi. Prima di tutto, stiamo vivendo tante trasformazioni: quella digitale, quella ecologica, e a breve avremo anche quella demografica, purtroppo. In questi contesti, dove le evoluzioni non hanno più uno spazio di manifestazione molto ampio, cioè non si sviluppano più in tanti anni, ma in 2-3 anni, c’è un adeguamento continuo di queste competenze. E sebbene prima le aziende colmavano al proprio interno il gap di competenze tecniche, ora iniziano ad andare in difficoltà. 

Quindi c’è bisogno di un’alleanza, un’alleanza però costruita, a mio avviso, in questo modo: un dialogo continuo per individuare quali sono i gap di queste competenze e poi provare a colmarli insieme. E questo nasce da un secondo dato che voglio citarvi. Quando ho iniziato a cimentarmi su questo tema delle competenze, ho visto una slide presentata da un direttore del personale di un’azienda farmaceutica, il quale molto banalmente citava un dato che per lui era ovvio, ma per me sembrava paradossale: diceva che per determinati profili professionali, da quando li assumono, li tengono in formazione dai 6 agli 11 mesi. Quasi un anno per alcuni profili che sono solo in formazione all’interno dell’azienda senza essere produttivi. Questo per noi è stato il vero grande mismatch che abbiamo provato ad anticipare. Ma come anticipare? Invogliando il sistema delle imprese a collaborare con una formazione all’interno delle istituzioni formative. 

Dove ci scontriamo? In un sistema come quello dell’ITS, che è un modello flessibile, è più facile il dialogo. Ma nei sistemi più istituzionali, come quelli accademici, dove per insegnare c’è bisogno di un profilo accademico, si sconta una difficoltà. Il paradosso dove viene? Nel momento in cui questi ragazzi che dall’ITS vanno in azienda e vengono assunti, siccome sono in gamba, vengono inseriti in progetti di crescita professionale. Ma arrivano a un certo punto dove si crea un blocco, un problema per la direzione del personale, che si trova nell’imbarazzo di dover premiare come capo di un reparto un diplomato, quando tutti gli altri collaboratori sotto di lui sono laureati. Questo è un aspetto che probabilmente dobbiamo affrontare con le università. 

Questo riguarda solo i giovani, ma il grandissimo problema che avremo a breve, visto che ci sono tante trasformazioni, e chiudo, Michele, è che tra un po’ dovremo fare il reskilling e l’upskilling di molti lavoratori, la cui pensione è tra 15 e 20 anni; quindi, dovranno ancora rimanere nel tessuto produttivo. E su questo se ne parla ancora poco. Ma questo è il pezzetto facile di cui volevo parlarvi, perché il pezzetto più complicato, almeno per quanto riguarda il settore farmaceutico, su dati certificati dall’Istat, siamo il principale settore che dice: sì, le competenze tecniche, le possiamo formare dall’interno, ma le soft skills proprio non riusciamo a trovarle. E quindi ben vengano contesti come quelli che ci sono stati raccontati prima dagli altri relatori, perché il tema delle soft skills non è facilmente allenabile nei canali istituzionali. 

Samoggia. – 0:57:38 – Io, Marco, ti chiederei subito un commento su questo aspetto molto importante che Nicola ha evidenziato: una popolazione aziendale che invecchia velocemente, ma con competenze di cui abbiamo bisogno subito. Come possiamo dare una risposta a questa necessità con le aziende? 

Abate. – 0:57:55 – Sono assolutamente d’accordo sul fatto che questo sia un problema grave che dobbiamo affrontare ora, non possiamo aspettare. Dal punto di vista dell’università, ciò che si dovrebbe fare, e che si può fare, richiede del lavoro, ma secondo me è possibile riuscire a stabilire un dialogo più strutturato con le aziende, con l’impresa, con i comparti, con il mondo del lavoro, per identificare quali sono le competenze necessarie in questo momento. In questo modo, possiamo costruire dei corsi di formazione ad hoc in collaborazione con gli esperti delle aziende. Questo è assolutamente fondamentale perché certe competenze non sono presenti in università, ma si trovano nelle aziende e viceversa. È quindi essenziale rispondere a questa esigenza specifica, che è molto importante. Su questo punto ci tengo a sottolineare che la situazione è diversa rispetto alla costruzione di corsi di laurea e laurea magistrale. I corsi di laurea e di laurea magistrale, infatti, sono molto più rigidi e hanno tempi interni più lenti, anche perché hanno, diciamo così, l’obiettivo di fornire una preparazione di base che sia valida e duratura nel tempo. Per questo motivo, sono necessariamente strutturati in modo tale da arrivare in ritardo rispetto a certi cambiamenti. Al contrario, corsi di formazione, corsi post-laurea e master, così come giustamente menzionato per gli ITS, possono intervenire immediatamente, fornendo risposte tempestive alle esigenze attuali. La cosa fondamentale è il dialogo e il confronto, per riuscire a costruire percorsi che rispondano alle esigenze reali. 

Samoggia. – 0:59:57 – Le grandi aziende creano le proprie academy per formare le competenze. Il tessuto produttivo italiano, come diceva Nicola, è però composto da tante piccole e medie imprese che non hanno la capacità economica di incentivare i percorsi formativi. A questa esigenza risponde la proposta che l’intergruppo parlamentare ha fatto ieri al ministro Giorgetti: defiscalizzare, come è stato per l’industria 4.0 e come è in parte per l’industria 5.0, il lavoro sulle competenze in azienda. Vorrei un commento su questa proposta e se può essere d’aiuto in questa direzione. 

Seghezzi. – 1:00:40 – Allora, bisogna vedere il testo nel dettaglio e capire di che tipo di formazione si parla, questo mi sembra il nodo centrale da cogliere. In generale, passare dal considerare la formazione come un costo al vederla come un investimento, e quindi supportare l’investimento così come è stato fatto per il capitale e la tecnologia nell’industria 4.0 di qualche anno fa, è un principio che può funzionare, ma solo se queste realtà hanno la rete per riuscire a realizzarlo. Il problema è che, anche se viene offerto uno sconto fiscale sulla formazione, resta da capire chi formerà e come identificare la persona giusta per farlo, ma prima ancora quale sia il bisogno attuale. Quindi, questa misura può funzionare, ma non deve essere considerata l’unica soluzione. Le piccole imprese hanno bisogno di un ecosistema in cui inserirsi. Sicuramente questa proposta risponde ad alcune delle questioni che stavamo discutendo, ossia che non possiamo contare sull’arrivo di giovani che sostituiscano i lavoratori in uscita o che restano in azienda, anche se con competenze un po’ obsolete, perché questa possibilità non c’è, a causa dei cambiamenti demografici che stiamo già osservando. Inoltre, c’è tutta la questione su come valorizzare le persone e trattenerle, tornando sul tema della bellezza che avevamo menzionato prima, soprattutto in contesti complicati dove il lavoro è più difficile rispetto al passato. È chiaro che il lavoro è bello dove il significato e il senso del lavoro sono chiari. Per capirlo, bisogna approfondire la questione; più si forniscono strumenti alle persone per capire e svolgere bene il loro lavoro, più si ha la possibilità di trattenerle. Quindi, complessivamente, penso che le PMI possano beneficiare di questa misura, perché il problema che hanno oggi è che le grandi aziende hanno le academy e spesso offrono salari più elevati; quindi, la transizione da piccola a grande azienda è molto diffusa. La formazione può essere una chiave anche per migliorare l’ambiente di lavoro e per come si viene considerati per il proprio potenziale. Da entrambi i punti di vista, penso che possa essere una misura positiva. Detto questo, è importante capire esattamente di quale tipo di formazione stiamo parlando. Vedremo quando uscirà qualcosa di più dettagliato. 

Samoggia. – 1:03:17 – Guido, le aziende vengono da te con richieste specifiche su quali professionisti stanno cercando e di quali competenze hanno bisogno? Come ha detto Nicola, e come ha ribadito Francesco, le aziende, di fronte alla scarsità di persone da assumere, spesso assumono personale con un gap di competenze e investono un anno per formarlo. Nicola ha detto, e Marco è d’accordo, che dobbiamo parlarci di più su questo tema e anticipare queste richieste. Le aziende vengono da te? 

Torrielli. – 1:03:53 – No, le aziende vanno a leggere un decreto che è stato fatto dal ministero, dove ci sono le figure professionali che noi possiamo diplomare e che possono essere adattate secondo le esigenze delle imprese. Le imprese non vengono da me, stanno all’interno degli ETS a determinare quelle figure, quei percorsi formativi, quei profili che interessano. E quando non ci sono, cercano di adattarli. Oggi la grande distribuzione sta venendo dagli ETS a chiedere di formare i ragazzi di cui hanno bisogno. Prima che vadano via tutti, non ce l’ho con quelli che vanno via, volevo fare un applauso al 24 di agosto, alle 8 di sera di un sabato, alle persone che sono qui presenti, perché siete encomiabili ad ascoltarci. Quindi, un applauso. Veramente. Devo dire che non mi sto commuovendo, ma io credo che gli ITS siano una rivoluzione incredibile, la rivoluzione più grande che possa essere nata all’interno del mondo della formazione, perché noi, per la prima volta, con un sistema terziario che prima era unico, c’era solo l’università, siamo arrivati piccoli piccoli, quatti quatti, e abbiamo cominciato a dire: signori, noi siamo qua, siamo semplici, siamo flessibili, siamo pronti a qualsiasi cosa e non molleremo. Anche se qualcuno sta cercando di non darci finanziamenti, perché il miliardo e mezzo che è pronto ci stanno ostacolando in qualsiasi modo per potercelo dare completamente. Ma noi siamo pronti, io sono pronto a sfidare qualsiasi cosa per arrivare in fondo, perché noi abbiamo lo strumento più importante per risolvere quel problema che le imprese non ci vengono a chiedere, le imprese se lo costruiscono all’interno dei nostri sistemi. Poi ci sono anche quelle fondazioni che sono nate sotto la stella della speranza, della “spera in Dio vivo al parroco”, come faceva il terzino quando buttava via il pallone all’ultimo momento. Però quelle fondazioni devono dimostrare che hanno alle spalle le imprese, che hanno alle spalle i progetti, perché altrimenti, io come Presidente farò di tutto perché queste non continuino a portare via soldi a quelle che, invece, stanno dimostrando il loro valore, e lo si vede perché stanno arrivando progetti spettacolari. Io vi assicuro, c’è mia moglie qui in sala che ha una paura incredibile di dovermi ancora seguire, e mi ha detto “questa è l’ultima volta”, ma tutte le volte lo dice. Però vi assicuro che saremo prossimi all’inaugurazione di soluzioni spettacolari che sono avvenute nel campo degli ETS, perché gli ETS stanno costruendo edifici, palestre, cose meravigliose che io mi auguro possiate vedere domani in una raccolta di filmati che sto cercando di portare avanti. E al ministro Valditara sto portando le lettere delle imprese che metteranno in gioco la loro convinzione riguardo l’importanza degli ITS, affinché il Ministro faccia poi un appello alle famiglie italiane ricordando che il “4 più 2” vuol dire 4 più 2 anni di ITS. 

Samoggia. – 1:08:00 – Ricordo a tutti che il Ministro Valditara sarà qui al Meeting domani e quindi potrà raccogliere questo appello. Cristiana, ne abbiamo parlato pochissimo: abbiamo parlato principalmente di competenze, ma in un mondo che cambia rapidamente anche le capacità di interpretare questo mondo, di trasmettere dei valori, di saper comunicare, di lavorare in team, sono competenze fondamentali per le aziende. Come si formano? 

Poggio. – 1:08:27 – Sono le prime competenze che ci chiedono ormai gli imprenditori quando dobbiamo inserire lavorativamente i nostri ragazzi, che sono cuochi, camerieri, acconciatori, informatici, grafici. Ci dicono: non vi preoccupate delle competenze tecniche e professionali, siamo capaci. Formateci ragazzi che sappiano collaborare, che abbiano domande, che siano motivati, e questo è difficile. Soprattutto, noi ci siamo chiesti: sono educabili queste dimensioni, diciamo così? Non vorrei entrare nel dibattito su come le chiamiamo, ma sono educabili queste dimensioni con ragazzi di 14 anni? Noi abbiamo iniziato a provarci sette anni fa e posso dire sì, con certezza, a patto che ci siano alcuni elementi che considero fondamentali. Queste competenze soft devono essere discusse con le imprese di riferimento, perché non sono uguali per tutti, devono essere valorizzate, devono essere messe in atto, perché si vedono solo in azione, in un contesto, in un luogo. Ma soprattutto ci devono essere dei maestri davanti ai ragazzi. I miei ragazzi arrivano prima dei percorsi ITS e non riuscirebbero ad avere quella flessibilità di cui parlavamo prima, se non fossero educati prima. Quindi il “4 più 2” vuol dire che noi, agenzie formative dei 4 anni, dobbiamo preparare ragazzi che abbiano in modo specifico queste competenze soft, per poi darle nei “4 più 2” e “4 più 3” agli ITS. Ci deve essere un maestro che trasmetta questa passione, questa competenza, questo sapere, ma soprattutto questa passione per il lavoro. Siamo in gioco noi adulti, noi docenti, in questa rivoluzione. Non ultimo, devono essere discusse da una comunità professionale che insieme le valuti, e questa è la rivoluzione per la scuola, ma anche con le famiglie e i ragazzi. I ragazzi devono essere consapevoli di cosa stiamo valutando in quel momento e di come proviamo a farle crescere. Dopo sette anni, mescolandole anche con le materie tradizionali e senza farci sconti, posso dire che ci riusciamo. Non è facile, ma penso che sia la sfida del futuro, perché altrimenti anche le competenze hard non potranno essere recepite. 

Samoggia. – 1:11:00 – Nicola, in base al tuo appello, Cristiana, Marco e Guido hanno risposto: ci siamo, parliamoci di più, diteci di cosa avete bisogno. C’è un ruolo per l’associazione di categoria in questo? 

D’Erario. – 1:11:14 – Sì, c’è un ruolo e la mia risposta è che ci deve essere un ruolo, ma non tanto delle associazioni di categoria, quanto di tutti i corpi intermedi, associazioni datoriali e anche sindacali, ma anche altri tipi di associazionismo. Sulla questione delle competenze, dobbiamo chiarire una cosa, perché ci porta su un terreno sbagliato nel momento in cui gli ITS sono stati accusati di voler professionalizzare la formazione. Il mio assunto è un po’ diverso, che si collega al titolo di questo Meeting. Costruire una competenza, quella che serve, è un dono che puoi dare a un ragazzo formato, il quale non è detto, e non c’è scritto da nessuna parte e, a mio avviso, non deve essere scritto da nessuna parte, che ci debba essere un vincolo ad andare in quella stessa azienda che ti ha formato o che ha contribuito a formarti. Perché, appunto, deve essere un dono: io ti do delle competenze perché ti sto dando un futuro, poi sarai tu a decidere dove spendere i tuoi talenti, dove riterrai più opportuno o dove preferirai andare a lavorare. Così, caro Michele, il lavoro diventa bello; altrimenti, è solo uno strumento per vivere, una fonte di reddito. Noi come associazione di categoria, per rispondere alla tua domanda sul ruolo dei corpi intermedi, ci siamo posti una domanda. Grandi titoli di giornali dicono che c’è un mismatch del 50%; recentemente è uscito un report di Confindustria che dice che nella manifattura il mismatch, cioè il disallineamento tra la formazione acquisita nei canali di istruzione e quella richiesta dalle imprese, è alto. Questo lo sappiamo, è certificato, l’abbiamo imparato con una “bibbia tool”. Ma la domanda che noi ci siamo posti come associazione è semplice: tu che fai? Puoi solo dire che mi serve, che manca, che la scuola non va bene, che la scuola deve fare, deve ascoltare di più, dobbiamo collaborare. Noi abbiamo provato a fare la nostra parte e abbiamo provato a farlo in una partnership pubblico-privata, associazioni di categoria, anche con le nostre rappresentanze sindacali. Abbiamo firmato dei protocolli tanto con gli ITS, con la rete degli ITS, non con ITS singoli, ma con tutti gli ITS d’Italia. Poi, purtroppo, ne è venuto soltanto uno che voleva collaborare con noi, perché dovevamo coprogettare, mentre gli altri coprogettavano da soli, e qui capisco la battuta di Guido. E recentemente abbiamo fatto anche un protocollo con il MUR, quindi con le università, insieme alla CRUI. Ma non ci siamo fermati lì, perché nell’analisi che noi abbiamo fatto, Michele, non abbiamo parlato di un aspetto: quello degli immigrati. Perché sul tema demografico, che ci presenterà il conto di meno risorse umane che avremo da inserire come ricambio nel nostro sistema Paese, l’immigrazione può attenuare per qualche periodo e le tecnologie, l’intelligenza artificiale, di cui noi ci preoccupiamo, vedo qualche sindacalista qui in sala, ma la tecnologia sostituisce il lavoro. Probabilmente, tra un po’ dovremo anche ringraziarla, perché non troveremo profili professionali e quindi la tecnologia manderà avanti le aziende. Ma come abbiamo collaborato? La risposta alla domanda: tu che fai? Abbiamo iniziato in una maniera, dopo aver firmato tutti questi protocolli, il gap più grosso era quello di coinvolgere le imprese. Il ruolo dell’associazione e dei corpi intermedi è quello di rappresentare i settori, e l’abbiamo fatto individuando tutti quei soggetti che decidevano di dare un contributo, di portare la loro conoscenza nei tessuti formativi con uno spirito semplice, con uno spirito di responsabilità sociale. Facendo una domanda: ti andrebbe di dare un contributo costituito dalle tue conoscenze ai giovani? Nessuno ci ha detto di no, quindi non c’era un vincolo, e questa è la cosa di cui siamo più orgogliosi, perché abbiamo attivato una collaborazione con gli ITS che in cinque anni ha visto coinvolgere 120 manager aziendali, abbiamo formato più di 250 ragazzi, e non profili banali, ma profili chimico-farmaceutici, quindi profili elevati. Il 100% di questi ragazzi è stato assunto, e quindi questo è il grande orgoglio che vogliamo rivendicare, ma fatto con uno spirito di responsabilità sociale, e quindi un dono dato ai ragazzi per rendere bello il lavoro. 

Samoggia. – 1:16:15 – Il tempo è praticamente scaduto. Guido, cinque secondi. 

Torrielli. – 1:16:20 – Le fondazioni sono fatte con le associazioni di categoria dentro. Io sono rappresentante all’interno degli ITS e ICT di Genova, di Confindustria Genova, per cui le organizzazioni imprenditoriali fanno parte del nostro rivoluzionario sistema che deve andare avanti. 

Samoggia. – 1:16:43 – Allora, io ringrazio tutti voi per averci seguito fino ad adesso e, prima di augurarvi buona cena, ringrazio tutti i nostri ospiti e ricordo un’ultima cosa: di donare al Meeting. Ci sono tanti punti dove lo potete fare. Donare al Meeting fa bene al Meeting, fa bene a noi che possiamo godere di questo evento tutti gli anni e dei tanti contenuti che ci vengono trasmessi. Fa bene sicuramente anche alle vostre tasse, perché le donazioni possono essere detratte, e fa bene perché parte di questi fondi vengono devoluti in Terra Santa. Grazie mille, buona serata e buona cena. 

 

Data

24 Agosto 2024

Ora

19:00

Edizione

2024

Luogo

Sala Conai A2
Categoria
Incontri