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JÉRÔME LEJEUNE, LA LIBERTA’ DELLA RICERCA DEL BENE
In diretta su Teleradiopace
Angelo Carfì, servizio adulti Sindrome di Down, Policlinico Universitario A. Gemelli, Roma; Aude Dugast, postulatrice della causa di beatificazione di Jerome Lejeune; Giuseppe Zampino, direttore UOC Pediatria Policlinico Gemelli Roma, Responsabile Malattie rare e difetti congeniti Polo della Salute della Donna e del Bambino Fondazione Gemelli. Introduce Chiara Locatelli, responsabile di Struttura Semplice per l’assistenza ai pazienti con Trisomia 21, IRCCS Sant’Orsola di Bologna
A 30 anni dalla morte del venerabile professor Lejeune, la freschezza di una testimonianza sulla verità e qualità della vita umana. La vita di scienziato, di medico, di laico, l’amore sconfinato per i suoi fragili pazienti, la fermezza nel difenderne la dignità e la fede comunicativa del grande scienziato sono più che mai attuali.
Con il sostegno dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
JÉRÔME LEJEUNE, LA LIBERTA’ DELLA RICERCA DEL BENE
JÉRÔME LEJEUNE, LA LIBERTA’ DELLA RICERCA DEL BENE
Sabato 24 agosto 2024 ore 13:00
Sala Neri Generali-Cattolica
Partecipano:
Angelo Carfì, servizio adulti Sindrome di Down, Policlinico Universitario A. Gemelli, Roma; Aude Dugast, postulatrice della causa di beatificazione di Jerome Lejeune; Giuseppe Zampino, direttore UOC Pediatria Policlinico Gemelli Roma, Responsabile Malattie rare e difetti congeniti Polo della Salute della Donna e del Bambino Fondazione Gemelli.
Introduce:
Chiara Locatelli, responsabile di Struttura Semplice per l’assistenza ai pazienti con Trisomia 21, IRCCS Sant’Orsola di Bologna
Locatelli. – 0:03:01 – Buongiorno a tutti. Jérôme Lejeune, la libertà della ricerca del bene. A trent’anni dalla morte del venerabile professor Lejeune siamo qui con dei prestigiosi ospiti che ora vi presenterò. Ecco Aude Dugast, direttrice della Cattedra Internazionale di Bioetica della Fondazione Lejeune, sezione francese, e postulatrice della causa di beatificazione di Jérôme Lejeune. Il professor Zampino, direttore della pediatria del Policlinico Gemelli di Roma, responsabile delle malattie rare ed effetti congeniti, Polo della Salute della Donna e del Bambino, Fondazione Gemelli, Roma. E il dott. Angelo Carfi, laureato in astronomia, successivamente in medicina e specializzato in geriatria, è responsabile del servizio adulti per la sindrome di Down del Policlinico Universitario Gemelli di Roma. Questo incontro nasce da un’esperienza di amicizia: l’amicizia del Meeting con Jérôme Lejeune. Lejeune è stato al Meeting nel 1985 e nel 1990, dove ha tenuto due lezioni magistrali bellissime. E questa amicizia è continuata con la sua famiglia, che abbiamo avuto qui al Meeting, con la figlia Clara, la moglie Birte e tanti altri della Fondazione Lejeune. È un’amicizia che continua e che ha segnato tanti di noi dal punto di vista umano e professionale. E ancora l’amicizia, sia professionale che umana, con questi due colleghi medici, da cui sono nati rapporti ricchi che incidono sia dal punto di vista medico e professionale sia dal punto di vista umano. Quindi, io sono onorata di essere qui. Inizio dicendo qualcosa anche del motivo per cui tengo questo incontro: sono moderatrice di questo incontro e sono molto legata alla figura di Lejeune. Nel 2011 mi trovavo a New York, dove ho trascorso qualche anno con la mia famiglia, lavorando alla Columbia University. La dottoressa Paravicini, con cui collaboravo, mi ha portato a un incontro a New York, il New York Encounter, un Meeting che si svolge ancora oggi ogni anno in America. E proprio lì ho conosciuto la figlia di Lejeune, Clara, che raccontava la figura di suo padre, di cui io non conoscevo molto, l’avevo solo sentito nominare. Sono rimasta affascinata da lui sia come uomo, sia come professionista e medico, ma anche per l’unità della sua vita. Quando sono tornata in Italia, per una serie di coincidenze, il Meeting aveva organizzato una mostra itinerante, e così, insieme ad alcuni amici medici e universitari di Bologna, abbiamo portato questa mostra al Sant’Orsola di Bologna. È stato un altro evento che ha segnato profondamente la nostra realtà. Lì ho rincontrato il professor Stripoli, che molti di voi conoscono; anche lui, incontrando la figura di Lejeune, aveva iniziato a fare ricerca sulla sindrome di Down per trovare una cura, in particolare per la disabilità intellettiva di questi pazienti. Lui è un genetista puro e aveva bisogno di qualcuno che si occupasse della parte clinica di questa ricerca. Io sono una neonatologa, lavoro in neonatologia, dove c’era anche un servizio, iniziato da un’altra figura per me importantissima, che è il professor Cocchi, che seguiva da tanti anni i bambini con la sindrome di Down. Non avevo mai seguito questi bambini, per cui ho deciso di dedicarmi a loro, di partecipare a questa ricerca, e da lì è iniziata una grande avventura umana e professionale. Ho iniziato a seguire questo ambulatorio prima affiancando il professor Cocchi, e quando lui è andato in pensione, ho assunto la responsabilità di questo ambulatorio. Ho ricevuto una grande ricchezza dal punto di vista delle competenze, ma anche una grande ricchezza umana nell’incontrare le famiglie e i bambini che vengono in ambulatorio. Qualcuno mi chiama “l’ereditiera” proprio per la ricchezza di questo luogo. Quindi, questo è per dire come questa figura ha segnato tante storie, incluse le nostre, e il motivo per cui io sono qui. Volevo mostrarvi una slide per farvi capire come questa equipe, da cui tutto è iniziato, si sia poi ampliata enormemente. Vedete al centro il professor Cocchi e poi il professor Stripoli, che sta facendo importanti ricerche e ha formulato delle ipotesi che dovranno essere valutate per la cura di questi bambini. Questo era solo l’inizio; è diventato qualcosa di molto più grande grazie a tanti giovani dottorandi, specializzandi, e medici in formazione che hanno iniziato a dedicare la loro vita a questi pazienti. Ma iniziamo a raccontare chi è Jérôme Lejeune e chiediamo a Aude di parlarci della sua figura, dell’impatto che ha avuto sulla medicina e sulla genetica medica. Aude ha scritto un libro che consiglio a tutti di leggere, dedicato a Lejeune. È stato appena tradotto in italiano ed è una biografia bellissima, che permette di conoscere a fondo la sua vita. Chiediamo a lei di raccontarcela.
Dugast. – 0:10:11 – Grazie, Chiara. Un grande applauso per Chiara, che fa un lavoro bellissimo con tutti i bambini, e a Stripoli, che oggi non è qui ma lavora con lei. Chi è Jérôme Lejeune? È difficile dirlo in dieci minuti, perché è un personaggio su cui lavoro da più di dieci anni e ogni volta che leggo un suo testo, una sua lettera, o sento un genitore parlarmi di lui, mi commuovo, quindi è un po’ difficile. Però è un personaggio straordinario. La sua vita è come un romanzo che ci porta dai bambini con la trisomia 21, che prima venivano chiamati con la sindrome di Down, ma Lejeune ha preferito il termine trisomia 21. Ci porta da questi bambini a John Kennedy, il presidente degli Stati Uniti, a Madre Teresa, a Giovanni Paolo II, a Leonid Brezhnev. Quando si legge la sua vita sembra un romanzo, ma è tutto vero. È una vita davvero incredibile. E poi ci porta anche al Meeting di Rimini, come ha detto Chiara, perché lui è venuto nel 1990. Prima di tutto, mi scuso per il mio accento francese, che è terribile, ma faccio del mio meglio. Lejeune è considerato il padre della genetica moderna proprio perché ha scoperto la trisomia 21 nel 1958, identificando un cromosoma in eccesso nel cariotipo di un bambino con la sindrome di Down, come si diceva all’epoca, e dando il nome di trisomia 21 a questa condizione. Questa è stata una rivoluzione per i genitori e per i pazienti. Non so se tra di voi ci sono famiglie con un bambino con la sindrome di Down o con la trisomia 21, ma è stata veramente una rivoluzione. Prima di questa scoperta, in Francia e penso anche negli altri paesi, questa malattia era percepita come una maledizione. Quando i genitori avevano un bambino così, si pensava che fosse una punizione divina per una vita peccaminosa dei genitori. Era una doppia tragedia, perché non solo c’era questa malattia di cui la medicina non sapeva nulla, ma c’era anche il giudizio della società verso i genitori. Era terribile. Quando Lejeune ha scoperto l’origine genetica di questa malattia, ha cambiato tutto, perché si è capito che la causa era genetica e non imputabile ai genitori. Finalmente, per i genitori, c’era uno scienziato, un medico, un ricercatore che stava dalla loro parte, vicino a loro per aiutarli a vivere con questa malattia. Dava speranza ai genitori. Potrei parlare di questo per ore, perché ho ricevuto tante testimonianze su questo. I genitori mi dicono sempre la stessa cosa, ed è quasi strano. Tutti mi dicono che c’era un “prima” e un “dopo” l’incontro con Jérôme Lejeune. Siamo arrivati con un peso sulle spalle, non sapevamo cosa fare, era molto difficile. Poi lui ci ha dato la forza e la speranza di andare avanti, con il suo modo di amare nostro figlio, nostra figlia, con il suo sguardo. Non ho mai visto nessuno guardare mio figlio con tanto amore, per riassumere ciò che mi dicono i genitori. Questo sguardo d’amore dava speranza e forza ai genitori. È stata una rivoluzione genetica, perché è stata la prima malattia cromosomica scoperta al mondo. Quello era l’inizio della citogenetica. Infatti, lui ha creato la citogenetica e ha reso la genetica una disciplina autonoma. Prima faceva parte della pediatria, ma lui l’ha resa indipendente. È stato creato per lui in Francia la prima cattedra di genetica fondamentale a Parigi nel 1964, e alla stessa epoca fu creata anche una cattedra di genetica fondamentale alla Columbia University negli Stati Uniti. La Columbia University invitò Jérôme Lejeune a New York e gli disse: “Abbiamo creato questa cattedra,” e Lejeune rispose: “Avete fatto bene.” Loro aggiunsero: “Sì, però l’abbiamo creata per lei. Vogliamo che lei ne sia il presidente.” E lui disse di no, preferendo restare in Francia. Questo per dire che veramente era all’inizio di questa nuova genetica nel mondo, era invitato dappertutto ed era veramente la persona di riferimento in genetica. Ha vinto tanti premi, come il Premio Kennedy e il Premio Royal Memorial Award, ma non ha ricevuto il Premio Nobel a causa del suo impegno in difesa della vita umana, ma ne parleremo dopo. Faceva parte di quasi tutte le accademie scientifiche del mondo, tra cui l’Accademia dei Lincei, che è molto prestigiosa. Era al culmine della sua carriera. Però non è solo questo. Se fosse solo questo, io non sarei qui oggi per parlare di lui. Possiamo dire anche, e questo lo vedo sempre di più, che era un maestro della medicina ippocratica. Cosa significa? Significa che già dagli anni ’60, ’68, ’69, e poi ’75 in Francia, iniziarono ad arrivare leggi contro la vita umana, sull’aborto, e oggi siamo in Francia a parlare di eutanasia. Però lui aveva già visto tutto questo all’epoca. Sapeva benissimo che l’aborto sarebbe stato un varco aperto verso l’eutanasia. Diceva che l’età non cambia nulla; quando si decide che alcune persone non hanno il diritto di vivere, siamo all’inizio della vita, ma presto sarà alla fine della vita. Aveva capito tutto. Ovviamente, ha preso una posizione ferma per difendere i suoi pazienti, perché per lui era evidente che il giuramento di Ippocrate non poteva essere messo da parte; era il dovere di ogni medico. Ha avuto il coraggio di dire: “No, questo non si può fare, la medicina deve essere sempre al servizio del paziente,” che può sembrare una cosa semplicissima, ma oggi non è così semplice essere fedeli a questo giuramento. Ovviamente, non aveva paura della scienza o della tecnica. Le scelte che oggi vengono offerte ai genitori e ai pazienti con queste leggi che permettono scelte contro la vita, ma anche contro alcune tecniche. Jérôme Lejeune diceva: “Non è la tecnica che deve far paura, è la scienza senza coscienza che deve far paura, non la scienza in sé.” Quando sono usate per cose buone, va benissimo. Lejeune ci colpisce molto, ed è un maestro per tanti giovani medici, perché ci aiuta a mantenere sempre gli occhi fissi sul bene del paziente. Ma cosa significa? Significa che la medicina deve essere sempre al servizio del paziente, non al servizio di una politica sanitaria nazionale, ma al servizio del paziente, mettendo tutta la conoscenza e la scienza al servizio di questo paziente, ma nel rispetto della legge naturale e della legge di Dio. E questo ovviamente è fondamentale, perché alcuni pensano che per far avanzare la scienza dobbiamo disobbedire alla legge di Dio. Invece, no. Jérôme Lejeune ha sempre mostrato che per far avanzare la scienza dobbiamo seguire la nostra intelligenza, che è legata alla verità, e quindi non possiamo allontanarci dal cammino di Dio. Dio vuole il bene di ogni uomo, di ogni paziente, quindi la legge che ci dà è ovviamente al servizio del paziente. Allontanarsi dalla legge naturale non aiuta mai il paziente, non è veramente al servizio del bene e del paziente. E poi, ovviamente, ha difeso i suoi pazienti con una forza e un coraggio che possiamo definire eroico. Diceva questa frase: “Solo perché è un numero in più o in meno, questo è un razzismo cromosomico, è orribile come tutte le altre forme di razzismo.” Si capisce subito cosa vuole dire. Così facendo, non posso spiegare tutta la sua vita, come ha difeso veramente la vita umana a livello più alto, fino a quando ha ricevuto il premio Lasker Award a San Francisco, nel 1969. Questo è un evento molto importante nella sua vita. Davanti a tutti i migliori genetisti del mondo, fece un discorso incredibile intitolato “To Kill or Not to Kill.” Siamo nel 1969, quando vedeva che sempre più genetisti stavano parlando di selezionare i bambini prima della nascita, lui disse: “Dobbiamo veramente riflettere sulla vocazione della medicina, perché se la nostra vocazione diventa uccidere i bambini malati, dobbiamo cambiare nome; non siamo più medici. I medici non sono qui per uccidere i malati, è il contrario: sono al servizio dei pazienti.” Questo discorso fu una bomba; ci fu un silenzio terribile, nessuno applaudì, tutti lasciarono la sala. Tornando al suo posto, Jérôme Lejeune sapeva bene di aver perso il Premio Nobel, ma scrisse nel suo diario tornando a Parigi: “Sapevo bene che dicendo così avrei perso il Premio Nobel, ma tra perdere il Nobel e perdere un bambino con la Trisomia 21, la scelta era fatta.” Questo fu davvero il momento eroico della sua vita, e da allora è diventato il servitore della vita più famoso al mondo. Era già membro della Pontificia Accademia delle Scienze, e Papa Giovanni Paolo II, nel 1981, quando arrivò a Roma, lo incontrò e ci fu un’amicizia bellissima e fortissima tra loro. Entrambi avevano lo stesso amore per la vita umana, per la bellezza della vita, lo stesso sguardo di contemplazione della creazione, lo stesso senso dell’umorismo; fu veramente come un colpo di fulmine tra di loro. Il Santo Padre si fidava molto di Jérôme Lejeune e gli chiese di fondare e creare la Pontificia Accademia per la Vita. Jérôme Lejeune sistemò tutto, creò la dichiarazione dei servitori della vita, i primi nomi dei membri, e diventò il primo presidente di questa accademia. Poi morì il giorno di Pasqua, qualche giorno dopo la fondazione di questa accademia, nel 1994. Giovanni Paolo II, quando venne in Francia per le Giornate Mondiali della Gioventù, volle andare a pregare sulla tomba di Jérôme Lejeune. La loro amicizia li aveva portati a pranzare insieme il giorno dell’attentato contro il Santo Padre a Roma. In poche parole, Jérôme Lejeune, che oggi è venerabile, perché nel giorno della sua morte tante persone nel mondo hanno chiesto l’apertura della sua causa di canonizzazione. Infatti, Giovanni Paolo II scrisse una lettera bellissima al cardinale di Parigi, dove si vede la sua ammirazione e dice che Jérôme Lejeune deve essere un esempio per tutti noi. Vedete una vita molto ricca che vi ho descritto in poche parole.
Video Lejeune
Dato che i mezzi di diagnosi del bambino che è ancora in utero diventano ogni giorno più sofisticati…
Locatelli. – 0:26:40 – Nel tuo libro scrivi che Lejeune è dedicato ma unificato; non c’è una separazione tra lo scienziato e il cristiano, è un tutt’uno. Questa unità della vita, incontrando la sua figura, è ciò che mi ha sempre colpito, perché è una cosa che desidero.
Dugast. – 0:27:01 – Sì, infatti questo è un punto molto importante della vita di Jérôme Lejeune. La cosa bella quando ho studiato la sua vita è che mi ha colpito anche a livello personale, perché ci sono santi che sono bellissimi, grandiosi, ma mi sembrano così lontani da me che non mi aiutano molto nella mia vita personale. Invece Jérôme Lejeune è un laico, uno scienziato, sposato con figli, lavorava a Parigi, al laboratorio, all’università, andava in bicicletta per le strade di Parigi; è una realtà molto normale. È morto trent’anni fa; per i più giovani di voi sembrerà un’eternità, ma per noi è come se fosse ieri. Conosco benissimo sua moglie, i suoi figli, i suoi nipoti; è veramente uno di noi. E poi, avendo avuto la fortuna e la gioia di poter leggere tutte le sue lettere, anche quelle che scriveva alla sua fidanzata… Si scrivevano ogni giorno e, dopo il matrimonio, quando lui si allontanava per lavoro o lei tornava in Danimarca, perché era danese, per l’estate, si scrivevano ogni giorno. Abbiamo raccolto circa 2.000 lettere scritte tra di loro, con tante indicazioni. Lui mostra, quando era fidanzato, di essere debole, senza forza, senza speranza, e che è l’amore per lei che gli dà la forza. Quando dico questo a chi lo conosceva, mi rispondono: “Non è possibile, lui era la nostra roccia, la nostra forza, la nostra speranza.” Come è diventato questa roccia? Studiando su di lui ho visto che è stata la sua unità profonda tra il cuore e l’intelligenza che gli ha dato questa forza, questa libertà interiore. Cosa significa? Significa che quando vediamo la vita di Jérôme Lejeune, vediamo che l’eccellenza accademica e l’esercizio eroico delle virtù cristiane si rafforzano reciprocamente, in una dinamica che permette una compassione al servizio del prossimo e una grande libertà. Questo è ciò che è straordinario; non è santo da un lato e scienziato dall’altro; è tutto insieme. È un grande medico, un grande scienziato perché è un grande cristiano. È un grande cristiano perché ha vissuto il suo lavoro nel modo migliore, al più alto livello, con tutte le sue competenze, con tutto il suo genio, sempre nella dinamica dell’amore. E noi possiamo comprendere Jérôme Lejeune, davvero. Non possiamo capirlo se non vediamo che la dinamica della sua vita è la misericordia, la misericordia corporea, intellettuale e spirituale, che davvero prende cura dei pazienti con un amore incondizionato, un amore totale per i suoi pazienti. Come ho detto prima, fino a perdere molto della sua carriera, ma questo non gli importava; la sua carriera non gli importava. L’unica cosa che gli importava erano i pazienti. È un amore molto realistico, incarnato. Negli ultimi anni della sua vita, scrivendo a un amico avvocato americano con cui aveva cercato di difendere degli embrioni che il padre voleva distruggere e la madre voleva tenere in vita, i giudici non sapevano cosa fare e chiamarono Jérôme Lejeune a testimoniare. Alla fine, quegli embrioni furono distrutti e Lejeune, ogni anno prima di Natale, pensava a quegli embrioni. Era per lui una sofferenza concreta, fisica, quasi come se fossero i suoi figli. Ogni bambino che moriva per l’aborto o prima della nascita a livello embrionale era per lui una ferita vera, una sofferenza incarnata. E quando parlava, era il suo cuore che amava, ma la sua intelligenza era attaccata alla verità. Il suo cuore diceva “non possiamo uccidere” e la sua intelligenza di medico, genetista e cristiano sapeva che uccidere il paziente è il contrario della medicina. Per lui era molto chiaro, e questa unità tra cuore e intelligenza gli dava la forza e la libertà di dire “no” alle leggi, al potere, ai governi. Ha perso molto: il laboratorio, l’ospedale, i fondi di ricerca. Ma altre porte si sono aperte in tutto il mondo, e ha raggiunto un livello superiore diventando uno dei più grandi servitori della vita al mondo. Vorrei dire, per concludere, che aveva anche la carità della parola giusta. Cosa significa? Significa che lui vedeva che c’erano bambini con l’intelligenza ferita, i suoi pazienti, ma c’è anche un altro tipo di ferita dell’intelligenza: le intelligenze che non amano la verità. E lui diceva che la carità è dire la verità. Dobbiamo sempre dire la verità per illuminare le intelligenze, perché un’intelligenza che non vede la verità impedisce al cuore di amare. È molto forte questo. Quindi c’è la carità della parola giusta, che non è la carità più facile. È quasi più facile dare un bicchiere d’acqua a un povero che dire la verità alla TV, di fronte ai deputati, davanti agli amici, sul rispetto della vita, o quando sei un grande medico, uno scienziato, e sai che forse perderai molto per la tua carriera. Ma è una carità indispensabile, soprattutto nei nostri giorni. E questo ha portato molte conversioni tra medici e scienziati, come vediamo ancora oggi. Concludo con la sua bussola. Come ha avuto questo coraggio? Perché aveva scelto, dall’inizio della sua vita, la sua bussola. E la sua bussola era la conclusione delle sue conferenze ed era la frase di Gesù: “Ciò che avrete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avrete fatto a me.”
Locatelli. – 0:34:20 – Per concludere questa introduzione di Aude, visto che hai citato queste lettere a sua moglie Birte, vi leggo solo un estratto di una lettera che mi ha sempre colpito per la condivisione del vivere per l’ideale. Nella loro famiglia, dice a un certo punto che gli viene proposto questo lavoro con questi bambini e dice a sua moglie: “È un obiettivo appassionante che ci chiederà grandi sacrifici, mia cara, ma se tu sei d’accordo di accettare una vita piuttosto precaria, ma giusta e sana, basata su quella speranza, sono certo che ce la faremo. Dico ‘noi’ perché soltanto se tu mi accompagni e mi aiuti io riuscirò in qualcosa.” Prof. Giuseppe Zampino, mi hanno deciso di darci del tu proprio per l’amicizia che ci lega, che ti dedichi alla cura di questi bambini fragili. Il professor Zampino si occupa appunto in questo ambulatorio di pediatria di malattie rare, di tanti fragili, come il professor Lejeune, che seguiva non solo bambini con la trisomia 21 ma anche altri bambini con condizioni rare e genetiche. Che cosa vuol dire questa fragilità?
Zampino. – 0:35:42 – Ho preparato delle slide. Se devo rappresentare la fragilità, la rappresento con Achille, il grande condottiero, che da solo poteva sconfiggere tutto l’esercito troiano. E perché è fragile? Perché aveva un punto di dolore, un punto di morte. E questo lo rendeva essenzialmente non un Dio, ma un uomo. E come dice Simone Weil, la fragilità è l’essenza dell’uomo. Noi siamo uomini perché siamo fragili. E una delle determinanti della fragilità, non c’è dubbio, è il limite. Il limite è una parola ambigua, perché ha due origini. Da una parte è “limes,” dall’altra parte c’è “limen.” “Limes” significa barriera, termine, perimetro. Invece “limen” è l’inizio, è l’inizio dell’oceano da una parte e dall’altra è la delimitazione dell’isola. Noi pensiamo sempre che il limite sia qualcosa di negativo, mentre l’inizio è qualcosa di positivo. Eppure non è così. Noi siamo quello che siamo perché abbiamo un limite. Voi riconoscete me perché ho questo limite e non quello di Angelo Carfi, per esempio. Noi siamo così perché abbiamo un limite, un perimetro fisico, un perimetro psicologico. Il punto è che sempre di più il mondo ci spinge alla perfezione, dobbiamo migliorare, la medicina arriva alla personalizzazione per essere sempre più perfetti. Eppure la cosa più importante è accettare il nostro limite. Se non riusciamo a partire da questo, riusciamo a comprendere anche molte altre cose che succedono nell’umanità. Per cui il limite, come barriera, non è sempre qualcosa di negativo. Ora, se volessi fare solo un’analisi delle barriere, cioè ciò che determina una disabilità, allora utilizzo la classificazione internazionale della disabilità, solo per farvi capire cosa significa disabilità. Disabilità significa alterazione del funzionamento a causa di un’anomalia di struttura, come la mancanza di un braccio o di un dito, oppure per un’anomalia di funzionamento, come l’incapacità di muovere il proprio braccio o dito. Questo comporta una riduzione sia nelle capacità sia nelle performance. E cosa significa? Che io posso avere tre dita e non essere in grado di suonare il piano, oppure posso essere molto bravo e capace, ma quando sono in un contesto particolare l’emozione è tale che non riesco a suonare nulla. A quel punto, pur avendo le capacità, non ho le performance per fare ciò che devo fare. Se analizziamo la nostra vita da questo punto di vista, non siamo forse tutti un po’ disabili? Se accettiamo che siamo limitati e disabili, allora diventa importante accettare la disabilità in generale. Ovviamente c’è bisogno di fattori contestuali che possono diventare barriere oppure facilitatori. Uno degli elementi maggiori che determina se un fattore è una barriera o un facilitatore sono gli atteggiamenti, più ancora dei fattori fisici; sono le capacità di accogliere o meno quel difetto o quella disabilità. Se invece dovessi fare un’analisi di cosa significa “limen,” “limen” significa principio, soglia, inizio, ingresso. E cosa significa questo in realtà? Nient’altro che responsabilità. Quando nasce un bambino, lì inizia tutto; il vagito del neonato non è paradigma di amore o tenerezza, ma è assolutamente paradigma di responsabilità, perché se non offriamo cura a quel bambino, quel bambino muore.
Locatelli. – 0:40:05 – C’è una frase di Lejeune: “Oggi siamo certamente più potenti che mai, ma non siamo più saggi.”
Zampino. – 0:40:12 – E questo è importante, perché, come diceva Lejeune, man mano che l’umanità progredisce nelle sue conoscenze, diventiamo sempre più potenti. E mentre prima il mondo era più potente dell’uomo, ora l’uomo è molto più potente della terra. Dobbiamo avere l’umiltà di riconoscere questa potenza per essere attenti, perché altrimenti saremo noi stessi a distruggerci.
Locatelli. – 0:40:45 – Al di là dell’intelligenza, c’è un’altra legge di vita che governa anche la ragione e l’affetto per il prossimo, la protezione dell’indifeso, la compassione per coloro che soffrono e il rispetto senza limitazioni, anche per coloro che sono lontani, strani, diversi e per gli sconosciuti che ci seguiranno su questa terra. Sempre Lejeune.
Zampino. – 0:41:08 – Questo è interessante perché ci dà il senso della reciprocità, cioè noi, nel rapporto di diritti e doveri, c’è una reciprocità. Io devo avere un diritto con voi o con me, io ho un dovere con voi o con me, ci deve essere la presenza. Questa storia della reciprocità ha creato un problema, perché io non ho più responsabilità verso chi nascerà nel 2100, perché non c’è. Per cui avrò molta attenzione a dare tutto il mio bene a mio figlio, a mio nipote, al mio pronipote; darò tutto ciò che ho e cercherò di sfruttare al meglio la terra e le sue risorse per dare ricchezza a mio figlio, mio nipote, e ai figli dei figli dei miei figli, ma nulla ai figli dei figli dei figli altrui. Questo atteggiamento significa impoverire la terra e rappresenta l’atteggiamento di responsabilità che il pediatra vede ogni giorno nel far crescere e vivere un bambino, ma il bambino rappresenta in realtà il futuro del mondo.
Locatelli. – 0:42:13 – La compassione nei riguardi dei genitori è un sentimento che ogni medico deve avere. L’uomo che potrebbe annunciare a dei genitori che il loro bambino è affetto da una grave malattia senza sentirsi profondamente turbato al pensiero del dolore che sta per travolgerli, non sarebbe degno della nostra professione.
Zampino. – 0:42:32 – Questo introduce il discorso della comunicazione della diagnosi. Quando nasce un bambino con un difetto congenito, è probabilmente uno degli aspetti più difficili per un medico da affrontare, perché ci sono due elementi di difficoltà. Uno è per il medico che deve dire ciò che non vorrebbe dire, perché ciò che comunica crea dolore, e l’altro è per il genitore che deve accettare che quel bambino, il suo bambino, che ha sognato per nove mesi come bello, biondo, intelligente, il meglio della sua famiglia, ora deve riconoscere che ciò che è nato non è quella fantasia. C’è una reale difficoltà, ci sono diversi problemi da affrontare, in cui il medico deve usare parole difficili che generalmente non si pensa che possano essere usate in medicina, come “non so,” “chissà,” “ho sbagliato.” Allo stesso tempo, quando comunica, deve tener conto delle diverse componenti della famiglia: emotive, cognitive e organizzative. La prima domanda che una mamma pone è: “Perché?” La risposta del medico è semplice: “Se il bambino ha queste malformazioni è perché ha una mutazione del gene FGFR.” Questa è la genetica che risponde a una domanda di eziologia. In realtà, quando la mamma chiede “Perché è nato Luca in questo contesto, in questa storia, in questa umanità, in questa famiglia?” sta ponendo una domanda di fine e di senso. Ahimè, i medici non sono abituati ad affrontare queste domande, perché, come diceva Wittgenstein, anche nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono nemmeno sfiorati. Un altro fatto importante che crea ancora di più e perpetua il senso di colpa di una madre è che un difetto genetico è percepito come un difetto di creazione. Ora, il Salmo dice chiaramente che Dio ti forma così come sei e ti conosce già da quel momento. Anche il Corano afferma che Allah ti conosce già da quando sei formato. Ma se poi esci malformato, cosa succede? C’è stato un errore nella creazione? Ma Dio non sbaglia, e allora la colpa deve essere di qualcosa che hai fatto tu o i tuoi antenati, come nel Vangelo di Giovanni. In realtà, ciò che pensiamo sempre è che facciamo parte solo della parte centrale della gaussiana: siamo giusti perché siamo tra più due e meno due deviazioni standard, e ciò che va oltre deve essere eliminato. Eppure, senza ciò che va oltre la gaussiana, non ci saremmo noi. Il primo anfibio era un pesce malformato, e il primo uomo era una scimmia malformata. Grazie a questa evoluzione, a questo continuo perseverare di errori che la natura fa, c’è la possibilità di avere una vita. E come scrive giustamente Vito Mancuso, non è vero che le eccezioni confermano la regola, né che la distruggono. È vero che la regola è data da tutto ciò che avviene, ciò che è normale e ciò che è eccezionale.
Locatelli. – 0:46:16 – Questo è un commento di Aude nel libro: “È solo un medico, non un Dio. Non è lui che salva o prolunga la vita, ma la serve.”
Zampino. – 0:46:28 – Nell’ambito della genetica, come diceva Aude prima, abbiamo qualcosa di diverso rispetto alle altre aree della medicina. Nelle altre aree c’è una malattia che è il nemico e un malato che è l’entità da salvare, quindi il bene assoluto è il malato, e la malattia è il male assoluto da combattere: devi combattere la leucemia, la tubercolosi, ecc. Quando nasce un bambino con una sindrome, Luca con la sindrome, è la stessa cosa. Per questo motivo sempre di più non si parla di malattia ma di condizione. L’impossibilità di guarire non impedisce, come sempre diciamo, l’importanza della cura. Però pensiamo sempre, e siamo fortemente radicati nel credere che la cura sia un trattamento, una terapia. Ma in greco, terapia significa servizio, rispetto, cura, adorazione. Il verbo “therapeuo” significa aver cura, rispettare, onorare, venerare, niente a che fare con i farmaci. Platone usava il termine “terapeuta” solitamente per gli dèi o i genitori. Chi sono gli dèi genitori? Sono quelli che ti danno metaforicamente o naturalmente la vita. Quindi, il terapeuta è colui che si preoccupa della vita dell’altro, che gli dà importanza, dove la vita non è un feticcio che devi necessariamente preservare, ma qualcosa di cui devi dare importanza. Il ruolo del medico è quello di dire: “Questa vita è importante per me.” Altrimenti non si riesce a capire come mai gestendo bambini che vengono da lontano, che hanno condizioni incurabili, per esempio da Mazzara del Vallo a Roma, con un costo enorme, per fare cosa? Per sentirsi dire da un medico: “È un bel bambino, è una bella vita, ha senso anche questa vita.” E ovviamente questo si rende ben chiaro in questa frase che dice una mamma: “Tantissime sono le necessità di mio figlio e, anche se qualcuno questa sembra una vita inutile e se qualcuno questa vita piace chiamare ‘vegetare,’ per me è la vita di mio figlio.” Questo è importante perché c’è un mio amico, Adriano Pessina, ordinario di filosofia alla Cattolica, che dice che noi non abitiamo lo spazio; noi abitiamo e viviamo il tempo. Non nasciamo completamente dipendenti, poi diventiamo autonomi, sempre più importanti, per ritornare poi in una situazione di dipendenza. Alcuni ci arrivano meglio, altri peggio, ma molti di noi saranno di nuovo dipendenti. Quindi c’è necessità che una comunità sia capace di accogliere qualcuno che inizialmente non è indipendente e poi alla fine diventa dipendente. Ora, questi bambini in realtà, se li analizziamo bene, non hanno il senso della dimensione del tempo; vivono una vita che non progredisce, rimane sempre uguale e, se vogliamo usare una metafora, loro vivono già nella loro vita l’eternità. Sta a noi far capire e dimostrare se quella realtà, quell’eternità è un inferno o un paradiso, in base all’attenzione che avremo per loro.
Locatelli. – 0:50:08 – La qualità di una civiltà si misura dal rispetto che essa mostra verso i suoi membri più deboli. Tutto l’amore, tutta la dedizione, tutto il denaro che saranno spesi per proteggere chi è meno amato e indifeso sono il prezzo e il giusto prezzo che una società deve pagare per rimanere umana.
Zampino. – 0:50:28 – Allora, è vero, è proprio la comunità che deve essere solidale. Analizziamo la sostenibilità. La sostenibilità è un punto di equilibrio tra i vantaggi e gli svantaggi. Quando nasce un bambino con difetti congeniti, la famiglia deve sostenere non solo dei costi economici diretti, ma anche dei costi indiretti, che sono quelli tangibili. Se nasce un bambino con una trisomia 18, la mamma perde il lavoro perché dovrà curare quel bambino per anni e anni. I fratelli diventeranno orfani, il padre rinuncerà a opportunità di carriera; se viene trasferito altrove per diventare un dirigente, dovrà rinunciare a questo. Avrà a rinunciare anche a molte opportunità sia per la famiglia che per sé stesso, e anche per gli altri fratellini. Oltre ai costi indiretti, ci sono quelli intangibili, come costi psicologici e sociali. La maggior parte di queste famiglie vive un isolamento sociale. Anche fare la spesa per una famiglia con un bambino con grave paralisi cerebrale diventa difficile. Se chiedete a una famiglia che ha un bambino con paralisi cerebrale se sono mai andati al teatro o al cinema dopo la nascita del loro figlio, vi diranno che è finito, il teatro è finito, il cinema è finito. E allora, se questo è lo svantaggio, qual è il vantaggio? Qual è l’elemento che equilibra tutto e rende tutto sostenibile? Non c’è una risposta unica, ma sicuramente la forza delle famiglie. Questa forza non è oggettivamente misurabile, eppure è una grande cosa che la scienza dovrebbe imparare a misurare. La forza delle famiglie va ricercata nell’ambito affettivo dei membri della famiglia, nel desiderio di superare il sentimento personale di impotenza, nel sentimento religioso e personale, nell’intento di costruire migliori condizioni di vita. Ma l’elemento principale è che quello è tuo figlio. C’è tutta la discussione se abortire o non abortire, quando inizia la vita umana. Non c’è dubbio, la vita umana inizia dal concepimento, non c’è assolutamente dubbio. Ma quando inizia la relazione, quando senti quel bambino come tuo figlio? Questo è il punto decisivo della questione, perché se io dico che Alidu Kabore, che sta in Burkina Faso, sta morendo di fame, ci interessa fino a un certo punto, ma se noi avessimo Alidu Kabore qui davanti che ci chiede di dargli da mangiare, nessuno di noi sarebbe capace di dire: “Non mi interessa.” Qual è la possibilità di aiutare una famiglia e un soggetto con una disabilità? Certamente è la presenza. Studi dimostrano che una migliore soddisfazione nei confronti di un network sociale è ciò che migliora la vita della persona con disabilità e della sua famiglia, e che la depressione di chi gestisce il soggetto con disabilità è legata essenzialmente all’isolamento sociale, mentre il sostegno sociale è protettivo. Cosa significa? Che parliamo di benessere sociale, ma sempre più la medicina parla di capitale sociale. Capitale sociale è un termine preso dall’economia, e significa che una comunità è capace di essere solidale. Studi mostrano che dove una comunità è più solidale, questa comunità è capace di essere più empatica, ha meno possibilità di soffrire di tumori, depressione, ansia e patologie cardiovascolari. Una comunità accogliente, anche nei confronti dell’immigrato, dove l’immigrato non è visto come portatore di malattie, ma come persona da accogliere. Una comunità capace di accogliere fa bene al prossimo, ma soprattutto fa bene a se stessa.
Locatelli. – 0:55:01 – Ho quasi vergogna della piccola celebrità che sorge intorno a una scoperta che non ci conduce ad alcuna cura. Bisogna fare qualcosa.
Zampino. – 0:55:09 – Lejeune cercò costantemente di trovare una terapia perché diceva che la terapia era la speranza, probabilmente la possibilità di trasformare una condizione in una malattia, per poi attaccare la malattia e difendere il malato. Era l’unica alternativa all’aborto. Ma non si era reso conto che questa idea non era perfettamente corretta, perché la ricerca non soddisfa il bisogno di sperare. La ricerca e la scienza ci danno un’aspettativa, ma l’attesa tecnico-scientifica può far perdere il significato del tempo della malattia. Un mio collega dice che la malattia è un compimento. Che significa? Che se nasco con la sindrome di Down e passo tutta la mia vita sperando che qualcuno trovi un farmaco che mi faccia diventare normale, non ho vissuto la mia esistenza per quello che sono, cioè Luca con la sindrome di Down. La speranza non è l’attesa di un risultato della ricerca, ma essere in una relazione umana affidabile, in grado di contenere la solitudine e la sofferenza. La speranza è una presenza affidabile, e Jérôme Lejeune lo era per tutti i suoi pazienti. Lui era la speranza, come ognuno di noi.
Locatelli. – 0:56:49 – La speranza per Lejeune era una virtù concreta. Si manifesta nel modo in cui guarda i suoi malati, nella convinzione che la loro vita abbia un valore. Questa capacità di compatire e di consolare giorno dopo giorno li solleva e manifesta la sua disposizione interiore davanti alla croce. Egli sa che dietro allo scandalo della sofferenza c’è un cammino di speranza. Grazie, Giuseppe. Angelo, anche lui è un grande amico del Meeting e anche del New York Encounter. A New York sei stato a parlare e a raccontare un’altra storia. Giovanni Paolo II, nel discorso per la salita al cielo di Lejeune, scrive: “Il professor Lejeune ha sempre saputo far uso della sua profonda conoscenza della vita e dei suoi segreti per il vero bene dell’uomo e dell’umanità, e solo per questo.” Emerge come la dedizione di Lejeune e la decisione di prendere determinate posizioni fossero frutto del bene che voleva per i propri pazienti, come abbiamo già detto. E questo permeava lo spirito del laboratorio, del lavoro con i suoi collaboratori. Come questa dedizione ai pazienti può generare luoghi di ricerca e cura al servizio dei più poveri, come li definisce Lejeune, per la tua esperienza?
Speaker. – 0:58:19 – Grazie, ciao a tutti. La dedizione al paziente, l’avete sentito in tutte le sfaccettature, era una caratteristica eccezionale di Lejeune, e se dovessi dire qual è la prima caratteristica che cerco in un collega è proprio la dedizione al paziente, perché dalla dedizione deriva la ricerca. Per noi comuni mortali, si tratta di studiare le cose prima di fare qualcosa con il malato, e non è per forza stare al microscopio. E da lì deriva la cura: chiunque tu abbia davanti, se ti ci lasci coinvolgere, se ti leghi al paziente che hai davanti, allora studierai per lui, allora gli darai il meglio che hai a disposizione, e il momento della cura non sarà solo un momento di passaggio. Anzi, sarà l’occasione per rivalutare più e più volte la situazione. Ma quello che mi sta più a cuore è cercare di capire cosa c’è dietro questa dedizione, perché il rischio di contemplare una figura grande come quella di Lejeune, o dei miei amici Enrico Petrillo e Chiara Corbella, che ho accompagnato al New York Encounter in un’altra occasione, è che tu vedi queste persone straordinarie e dici: “Beh, loro avevano la dedizione, io no, fine.” Era una dote innata loro. Quello che invece voglio dire sono due aspetti. Adesso ci provo. La prima cosa è che Jérôme Lejeune era un privilegiato, come noi siamo privilegiati nel nostro lavoro, perché davanti a lui si sedevano dei malati, come ci ha spiegato il professor Zampino, che sono un’unità indivisibile tra malattia e persona; non si possono separare. E da questa unità veniamo trasformati come medici. Io sono un geriatra, la mia scuola di geriatria mi ha insegnato e formato a guardare l’unità e la totalità delle cose. Se ti concentri solo sulla malattia e ti accanisci contro di essa, fai una medicina spesso rischiosa, dannosa per la persona, sicuramente disumana. È il malato che trasforma Lejeune, è il malato che trasforma noi. Questi sono malati speciali, malati che ci fanno un regalo grandissimo, perché non solo ci aiutano a crescere come medici, ma ci aiutano a crescere come esseri umani. Perché, come ha detto poc’anzi il professore, ogni uomo è un mix indivisibile di cose grandissime e di bassezze, di grande forza e di fragilità. La scuola dei nostri pazienti ci insegna come stare con le persone. Loro ci insegnano cosa significa la sofferenza, e man mano che abbiamo più coraggio di stare con loro, con questi tipi di malati, e diventiamo compagni di cammino, più loro ci formano come uomini. Ci dicono: “Guarda, la sofferenza ti dà questo, la sofferenza ha questo costo, pesa così.” Ma la sofferenza, ho imparato a viverla in questo modo. La sofferenza mi ha tolto qualcosa, mi ha alleggerito, mi ha donato. Questo tira fuori uomini diversi. Entriamo nelle nostre visite in un modo e ne usciamo in un altro modo. Questo è il primo passo per cui Jérôme Lejeune ha vissuto un’esperienza da medico che l’ha cambiato come uomo, che ha contribuito a cambiarlo come uomo. L’altra cosa che vorrei sottolineare e che mi ha colpito tantissimo nel leggere il libro e nell’approfondire la vita di Lejeune è che lui era già abituato a essere trasformato. Quando i suoi pazienti si sedettero davanti a lui, lui era già pronto. Come mai? Mi ha colpito tantissimo che Jérôme Lejeune fu bocciato quattro volte all’esame di chirurgia. Quattro volte? Non una. Se dici una, va bene, due. No, quattro volte vuol dire che ci puntava veramente a quella cosa. Era geniale mentalmente, abilissimo con le mani, aveva tutte le carte in regola per diventare un grande chirurgo, ma quattro bocciature… Così decise di prendere un’altra strada. Secondo me, lì iniziò a ingaggiarsi anche il grande cristiano che era in lui; era giovanissimo, e quel motore cominciò a partire. Il motore che gli permise, mi esprimo così, di abbandonare la sua impresa personale e di entrare in un’avventura che qualcun altro ti propone. E questo, secondo me, lo caratterizzò per tutta la vita. È anche una perla eccezionale; si sarebbe mai immaginato che la vita lo avrebbe portato a rischiare di prendere il Nobel, a parlare con il Papa? Quei quattro “no” che gli aveva dato la vita… Il cuore di Lejeune è entrare in questa avventura, e volevo dire che la sua dedizione non era una soft skill innata. Non si nasce Jérôme Lejeune, si diventa Jérôme Lejeune. Anzi, dirò di più, qualcun altro ti ci fa diventare.
Locatelli. – 1:05:07 – Nella vita di Lejeune emerge come la passione per la ricerca e la sua capacità di scienziato trovassero origine da una passione per la scoperta della verità. Nel tuo lavoro di medico e ricercatore, cosa rende liberi nella ricerca di fronte anche alle dinamiche attuali della società scientifica?
Speaker. – 1:05:28 – Anche qua voglio cercare di dare qualcosa che possa servire a tutti, anche a chi non è ricercatore qui dentro. Una cosa, Jérôme Lejeune… Voglio citarlo, ecco, l’ho preparato… Ai suoi colleghi ricercatori lui scrive: “Bisogna scegliere: o il ronzio dell’acetogenetica come la conosciamo, o un corpo a corpo con l’ignoto per strappare un brandello di conoscenza su cui basare una possibile cura.” O la ricerca così come la conosciamo, un’industria con regole, leggi, un metodo; bisogna fare certe cose… Il motto dei ricercatori è “publish or perish,” “pubblica o perisci.” Allora, ci mettiamo lì, pubblichiamo, accumuliamo tonnellate di articoli, di carta, di cose, che è un lavoro nobilissimo. Oppure c’è questa avventura che dice Lejeune: “Ci buttiamo in un corpo a corpo con l’ignoto per cercare di strappare una cura.” C’è sempre un aspetto fortemente, strettamente relazionale all’interno della ricerca; è indivisibile da una relazione. Lui ha due occhi, uno da ricercatore e l’altro da medico. Fare ricerca per fare carriera è una cosa, fare ricerca perché vuoi bene a qualcuno, perché ti sei affezionato a qualcuno, perché qualcuno ti ha coinvolto, è un’altra. Infatti, lui, per esempio, non darà il suo nome a tantissime altre cose che ha scoperto. Questo è un primo livello, ma forse di minor interesse. C’è un livello, secondo me, molto interessante e straordinario di Jérôme Lejeune, ed è un breve contesto. Lui vive negli anni in cui c’è un boom incredibile della biologia, dove finalmente i biologi hanno tra le mani la molecola miracolosa, questa cosa che si chiama DNA. Loro hanno il DNA tra le mani, lo aprono, lo srotolano, lo possono manipolare, lo possono leggere. È un’avventura culturale, è un grandissimo salto della scienza. Ma ciò che sorprende Lejeune, che rimane così impietrito, è anche questo, lo volevo citare: “Come l’informazione sia entrata nella materia per animarla e governarla, questo lo ignoriamo totalmente.” Cos’è il DNA? È il linguaggio segreto della vita. È un momento nella scienza in cui si legge questo messaggio della vita. Ora, il linguaggio che entra nella materia è ciò che stupisce tutti gli scienziati dell’epoca. Davanti a questa cosa, il ricercatore, il grande scienziato Lejeune, rimane stupefatto, davanti a questo muro, a questo limite della conoscenza, a questo velo che abbiamo della conoscenza. Non lo sappiamo. Com’è possibile che un linguaggio sia entrato nella materia? È un momento incredibile e lui fa un passo indietro: “Noi lo ignoriamo.” È chiaro che nella sua mente, il linguaggio… ti sembra che ci sia qualcuno dietro questo muro dell’inconoscibile, dell’ignoto che parla. Nel contesto culturale in cui vive, dietro questo muro, molto facilmente viene messa l’etichetta dell’errore o del caso. Allora, cosa c’è dietro questo muro dell’ignoto? Uno che parla o l’errore o il caso? Questo è un po’ il cuore che si legge nelle lettere di Lejeune. Diceva che dobbiamo custodire la nostra mente di scienziati prima di tutto perché, davanti a questa realtà, facciamo un passo indietro, consideriamola tutta, non attacchiamo subito l’etichetta “errore” o “caso,” ma rimaniamo davanti a questo mistero. E questa è la scienza che lui vive in quel momento. Secondo me è una cosa che ci portiamo a casa, che mi interpella ogni cinque minuti: dietro le cose che succedono, dietro i pazienti che si siedono davanti, dietro agli eventi, alle discontinuità della vita, belle, brutte, tragiche, gloriose, cosa c’è dietro la storia umana? Cosa c’è dietro il tempo della vita umana? C’è qualcuno che parla o c’è l’errore, il caso? E quindi qui, ora concludo e sto zitto, mi è venuto in mente subito gli auguri di Natale che l’associazione Enzo Piccinini ha fatto questo Natale, che mi sono arrivati anche a me: “O l’uomo è sbagliato o una risposta c’è.” Questa domanda Lejeune ha avuto anche la grandissima avventura di trovarla, anche proprio come scienziato del DNA, e poi in questo campo di battaglia si può manifestare in 100.000 modi: l’aborto, l’eutanasia, ma anche tutti i nostri rapporti interpersonali.
Locatelli. – 1:11:53 – Grazie Angelo, concludiamo questo momento anche se sarebbe bellissimo continuare insieme. Proprio per quello che dicevi tu, Angelo, mi è venuto in mente anch’io. Diciamo che sono cresciuta e impregnata di una realtà segnata dalla presenza di Enzo Piccinini. Stamattina abbiamo visto insieme la mostra, e in mezzo a questa, niente da dire, comunione di Santi, Lejeune, Chiara Corbella, mi è venuta in mente una cosa che lui, in una delle testimonianze, diceva: “La persona è rapporto con l’Infinito. Il Regno dei Cieli sono io. Il Regno dei Cieli è la persona. È la perla preziosa, è il tesoro, questo bene supremo è la mia vita proprio perché è rapporto con l’eterno.” E mi sento di poter dire anche per questi medici, come avrete capito, che sono totalmente coinvolti nella cura dei pazienti, come si capisce da quello che loro hanno raccontato quotidianamente, che questi bambini che incontriamo sembrano essere il tramite più trasparente per questo rapporto con l’infinito e con l’eterno. Per questo motivo ho la gratitudine di poter condividere la vita di questi bambini e di queste famiglie. Concludiamo con un video, prima degli avvisi, su Lejeune, preparato dalla Fondazione Lejeune, che anni fa venne utilizzato per una mostra che è ancora itinerante del Meeting.
Video
Allora, se volete c’è la possibilità di avere i ricordini con la preghiera per l’intercessione del venerabile Jérôme Lejeune; potete venire qui se lo desiderate.
Dugast. – 1:15:39 – Manca solo un miracolo per la beatificazione. Come postulatrice, vi faccio un appello: pregatelo ogni giorno e così forse l’anno prossimo potremo avere la beatificazione.
Locatelli. – 1:16:01 – Vedete la ricchezza del Meeting? Stasera abbiamo ripercorso tanti altri incontri che si sono svolti qui. Conoscete l’importanza di questo luogo, quindi vi ricordo l’importanza delle donazioni che sostengono questa realtà. E un altro avviso importante: in questo particolare momento storico, in cui sempre più incognite ci fanno chiedere come sia possibile costruire dialogo e pace, non potevamo non sentirci provocati e riaccesi da quanto ci ha detto il Cardinale Pizzaballa nel suo intervento all’incontro inaugurale. Per questa ragione, il Meeting devolverà parte delle donazioni raccolte durante questa settimana per l’emergenza in Terra Santa. Grazie ancora ai nostri stimati relatori.