Chi siamo
JANNACCI, TESTORI, GABER. LE PERIFERIE DEL NOSTRO CUORE
Giuseppe Frangi, Giornalista, Casa Testori Associazione Culturale; Paolo Jannacci, Musicista. Modera Massimo Bernardini, Giornalista. Con la performance di Michele Maccagno, Attore e Andrea Mirò, Musicista.
Tre anniversari legano questi protagonisti della vita milanese: i 100 anni dalla nascita di Testori, i 20 e i 10 dalla morte rispettivamente di Giorgio Gaber e Enzo Jannacci. Ma c’è un altro fattore importante che lega le loro avventure, sia dal punto di vista umano che culturale: hanno vissuto da dentro e dato voce alle tante periferie di Milano. Per tutti si è trattato di un’affinità esistenziale e non ideologica, secondo un approccio che oggi ritroviamo tanto di frequente nelle parole di papa Francesco. Giuseppe Frangi e Paolo Jannacci, moderati da Massimo Bernardini porteranno la testimonianza e i ricordi delle loro frequentazioni e amicizie con Jannacci, Gaber e Testori. Le voci di Andrea Mirò, cantante, e di Michele Maccagno, attore, renderanno presenti canzoni e parole di quelle tre grandi anime di Milano.
Con il sostegno di isybank.
JANNACCI, TESTORI, GABER. LE PERIFERIE DEL NOSTRO CUORE
JANNACCI, TESTORI, GABER. LE PERIFERIE DEL NOSTRO CUORE
Lunedì 21 agosto 2023 ore: 19.00
Sala Neri Generali – Cattolica
Partecipano:
Giuseppe Frangi, Giornalista, Casa Testori Associazione Culturale; Paolo Jannacci, Musicista. Con la performance di Michele Maccagno, Attore e Andrea Mirò, Musicista.
Modera:
Massimo Bernardini, Giornalista.
L’incontro inizia con una canzone cantata da Andrea Mirò.
Bernardini. Vieni Andrea, Andrea Mirò. Un altro applauso per Andrea Mirò. Buongiorno come un altro, la gente passa e va e la città non lo sa. Abbiamo cominciato questo incontro con una piccola, forse dimenticata canzone di Giorgio Gaber e Renato Angiolini, siamo nel 1964. A farla è stata Andrea Mirò che ha fatto tanto lavoro in proprio come cantautrice e che continua, peraltro, ha fatto tanti Festival di Sanremo. In questi ultimi anni, – naturalmente il microfono non sta.. va beh, lo si fa per animare un po’ la serata – dicevo, però in questi ultimi anni lei che è una musicista, che è una compositrice, che è una cantautrice, in realtà sta facendo gli spettacoli di Gaber. La sentirete, è molto dentro il modo e il racconto di Gaber. Ma vi devo presentare il resto della nostra compagnia che sono: Giuseppe Frangi, giornalista responsabile dell’Associazione culturale Casa Testori e della gestione delle opere del grande scrittore, oltre che suo nipote; Michele Maccagno, attore di teatro, cinema, televisione da più di vent’anni in carriera ha lavorato con registi come Luca Ronconi come Claudio Longhi, Carmelo Rifici, Federico Tiezzi, Damiano Michieletto e nel 2015 è stato premiato proprio con Testori, per il suo Sdisorè, per la regia di Gigi dall’Aglio e ha preso il premio Franco Enriquez per questa pièce; Paolo Iannacci, pianista compositore, arrangiatore, cantante e figlio del grande Enzo. Io sono Massimo Bernardini, faccio il giornalista e il conduttore televisivo, nessuno è perfetto, è la vita, insomma, e lavoro per la Rai. Perché un titolo come Jannacci, Testori, Gaber, le periferie del nostro cuore. Innanzitutto, perché questo 2023 è un anno di anniversari per tre grandi artisti come loro. Giovanni Testori è nato 100 anni fa ed è morto nel ‘93. Giorgio Gaber è morto vent’anni fa ed Enzo Jannacci è morto … sono già 10 anni. Tre assenze che vedrete stasera sono delle presenze, cioè che sono ancora con noi. Tre grandi artisti, tre grandi milanesi, lo dico con un po’ d’orgoglio, che hanno segnato la nostra cultura, ma che avevano una sensibilità umana speciale. In realtà noi stasera usiamo per loro una chiave che è un parziale per artisti come loro, perché hanno fatto anche molte altre cose e hanno guardato anche da altre parti. Per loro il racconto della periferia è stata importante. Provate a pensarci; quando noi viaggiamo, andiamo a Napoli, a Palermo andiamo a Parigi, a New York, la prima cosa che la gente ci dice: “voi però non andate in periferia, state attenti perché in periferia .. è un posto..”. Dappertutto te lo dicono, vai a Napoli, vai a New York, non andare in periferia. Invece per loro, negli anni che racconteremo, cantare la periferia come periferia del cuore, anzi cantare la periferia come autentico cuore della città è stata una grande avventura creativa. Però va fatta una premessa, noi parliamo di un punto particolare della nostra storia, parliamo di una Milano e di un’Italia che, per esempio, fra il 1958 e il 1963 è una un’Italia in cui il prodotto interno lordo italiano è al 6,3% di incremento ogni anno, parliamo di una produzione industriale che raddoppia, parliamo di esportazione che aumenta mediamente il 14% all’anno, parliamo di un’enorme trasferimento di popolazione dal Sud al Nord, grazie al lavoro che c’è nelle grandi città come Milano, fra il ‘51 e il ‘61, 2 milioni di persone abbandonano il Mezzogiorno, nel quadriennio ’60-‘63 il flusso migratorio dal Sud al Nord arriva a 800.000 persone all’anno e Milano nel 1970, alla fine di questo ciclo, raggiungerà il suo record di insediamenti, pensate, 1,7 milioni di abitanti, crescendo del 37% rispetto al ‘50. Questo è il contesto in cui nasce l’arte di cui parleremo stasera e questo sguardo sulle periferie, quindi un momento magico, come viene descritto tante volte; ed è anche il boom edilizio per Milano, cioè nascono per esempio la torre Velasca, il padiglione d’arte contemporanea, il grattacielo Pirelli. Però oltre a questi bellissimi palazzi c’è lo sviluppo selvaggio dei nuovi quartieri, delle nuove periferie. A guidarlo ci sono piccoli gruppi o grandi gruppi immobiliari che, cosa fanno?, comprano grandi spazi agricoli, li fanno diventare terreno edificabile e quindi quartieri su quartieri nuovi. Uno scrittore polemico, cattivo da un certo punto di vista, anche autodistruttivo, ma che ha avuto anche una stagione di grande amicizia con Enzo Iannacci, parlo di Luciano Bianciardi, che ha scritto un bellissimo libro su quei tempi che si chiama “La vita agra”, era arrivato a buttare su Milano un giudizio come questo: “Milano non è una città, non è un paese, non è niente, è solo una grande macchina caotica, senza cielo, sopra e senza anima dentro, andrebbe minata”. Questo Bianciardi che era di Grosseto, peraltro. I nostri artisti di stasera no, nel senso che non sarebbero mai arrivati a una frase come questa; i nostri artisti hanno amato profondamente Milano, hanno amato profondamente le sue periferie e però non si sono mai nascosti le contraddizioni, i vuoti, le ferite. Ecco questo è il tema di stasera. E vengo a Giuseppe Frangi. Abbiamo aperto con Gaber e presto ci torneremo, ma il primo passaggio è per Giovanni Testori. Giovanni Testori, lui si descrive così: “Quando ho detto che sono nato nel ‘23 a Novate, cioè a dire alla periferia di Milano, dove da allora ho sempre vissuto e dove spero di poter vivere sino alla fine, ho detto tutto”. Però – ed è un pezzo della tua famiglia, della tua storia – in realtà viene da una famiglia di industriali tessili che a Novate hanno la fabbrica, che hanno ancora no? Viene da lì, da una condizione borghese, lui si iscrive al Politecnico … Come viene fuori la sua vocazione di artista?
Frangi. La vocazione è molto precoce, nel senso che lui, con grande dispiacere di suo padre, da subito si butta nella cultura umanistica. Il padre avrebbe voluto averlo nella nell’industria, invece non c’è stato verso, lui da subito ha fatto capire qual era la sua natura, la sua vocazione. Però quello che hai detto è importante perché Novate è un piccolo paese, oggi a 20.000 abitanti, è immediatamente alle porte di Milano. La traiettoria che Testori faceva tutti i giorni – per chi non è milanese è importante dirlo che Testori non ha mai guidato e ha sempre viaggiato in treno con le ferrovie Nord, le linee che collegano Milano con tutto il nord della Lombardia -, tutte le mattine prendeva il suo treno e questo treno attraversava la periferia che poi lui ha raccontato, in particolare, in quei ciclo di romanzi che si chiamano “I segreti di Milano” alla fine degli anni ‘50, inizi degli anni ‘60.
Bernardini. Parliamone perché è un ciclo fantastico che è ancora disponibile in libreria, è stato ristampato tante volte. Lui comincia col “Dio di Roserio” nel ‘54, che è la storia di un ciclista.
Frangi. Roserio è un quartiere.
Bernardini. I segreti di Milano pensate è fra il ‘58 e il ’61, è un intero ciclo in cui c’è ci sono raccolte di racconti: “Il ponte della Ghisolfa”, da cui verrà tratto un capolavoro come “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, altro libro di racconti, “La Gilda del Mac Mahon”, due testi teatrali come la “Maria Brasca” e “l’Arialda” e un romanzo “Il Fabbricone”, che è una storia d’amore molto particolare. Ma questa è la prima mossa letteraria?
Frangi. Sì, è la prima mossa. La cosa che hai sottolineato è che lui era un borghese, quindi ha natura borghese e uno dice: come attraversa questa periferia? Perché potrebbe essere lo sguardo sociologico, lo sguardo superiore dell’intellettuale che cerca di raccontare un mondo che gli è estraneo, invece la cosa impressionante è questa capacità sua di immedesimarsi, di calarsi, di farsi amico di questa gente, di questa popolazione, senza mai darne una visione patetica, quindi anche accogliendo tutto l’aspetto di contraddizione, di drammi, di infamia che certi personaggi hanno dentro, quindi li prende nella sua completezza. Per dirvi com’era la logistica di Testori, perché poi è interessante anche capirlo, viveva a Novate, tutti i giorni veniva a Milano, lui studiava storia dell’arte, era critico d’arte e quindi il suo punto d’appoggio era la biblioteca di storia dell’arte che c’è all’interno del castello, lui scriveva lì. Però raccontava spesso che si fermava in periferia, conosceva questi personaggi e poi lui i romanzi li scriveva o nei bar o sui tram, stando a contatto pelle a pelle con i personaggi che inventava e creava. Un altro appunto, mi piace dire. Qual era il suo obiettivo? Lui diceva: non sto raccontando una storia minore di Milano, assolutamente; questi personaggi quì hanno una potenza shakespeariana, la mia sfida è raccontare queste periferie come Shakespeare ha scritto Amleto, che l’Arialda sia un Amleto femminile.
Bernardini. Shakespeare in periferia.
Frangi. Si, Shakespeare in periferia. Non ha mai una prospettiva diminutiva rispetto alle periferie.
Bernardini. Lui ha citato il tram e a questo punto io chiedo a Michele Maccagno di leggerci alcune pagine da “Il Fabbricone” che se non sbaglio, confermarmelo Michele, avvengono su un tram.
Maccagno. Una parte, non tutto, però una parte sì. Spero che si capisca.
Bernardini. Michele Maccagno “il Fabbricone” di Giovanni Testori.
Frangi. Per spiegare la lettura: il Fabbricone è la storia che Testori ambienta in questo edificio che lui inventa, che sta nella zona di via Alba di Milano, che è un edificio a ringhiera e il romanzo è il racconto di tutte le famiglie che vivono dentro questo fabbricone, con gli intrecci che si creano. Quello che ascolteremo è la storia di Sandrino, che è primo di 7 fratelli della famiglia Schieppati che, non facendocela più a stare dentro questa massa di fratelli che vivevano tutti nello stesso letto, a un certo punto cede alle lusinghe di un magnaccia e inizia a fare le marchette, come si suol dire, e guadagnare un fracco soldi. Però, la malinconia, la nostalgia del fabbricone ce l’ha sempre nel cuore e quello che ascoltiamo e il suo tentativo vano di tornare al fabbricone. Ci prova, ma non ci riesce.
Bernardini. Vedete Frangi sa a memoria tutti i testi di Testori evidentemente.
Frangi. È il mio compito.
Bernardini. Michele Maccagno
Maccagno. “Erano le 10, la città, le strade, le macchine, le piante, i tram, tutto sembrava troppo grande. E crudele. Era un’altra cosa, quella di cui aveva bisogno. Quel suo casone, quella sua cucina, quella sua stanza. Altro che la camera dove da tre settimane andava in pensione. Certo, quella era più bella, ma gli dava un senso di provvisorio, come se invece di muri fosse fatta di carta. E tuttavia, anche se lasciandosi prendere dai sentimenti che pian piano gli si stringevano al cuore, fosse deciso a prendere il tram e fosse arrivato là, in via Aldini, cosa avrebbe trovato? Niente, lo sapeva, il coraggio di avvicinarsi al fabbricone non lo avrebbe mai trovato. Ecco, ecco, ecco, non doveva pensare, che anche l’ultima volta, in cui aveva messo piede in casa, era sceso dallo stesso tram, dopo aver fatto più o meno la stessa cosa. Non doveva pensare, che la sua mamma quell’ultima volta l’aveva vista solo per farla piangere. E soffrire. Non doveva pensare a niente, passo a passo, si sarebbe trovato là, con alla destra il suo dolce e maledetto fabbricone. Erano diverse le case lì da quelle del centro. E com’eran diverse le strade, e pareva di capirlo solo adesso, anzi, quelle che vedeva non erano neppure case. Anche gli ultimi, che avevano fatto su a Novate, se le paragonava non solo alla casa dove lo portavano i clienti, ma alla stessa casa di Via Ausonio, dove c’era la sua pensione. Pensione, pensione, pensione per modo di dire, perché, data l’età, tutto avveniva nel silenzio e nel buio. Del resto, cos’era restato più nella sua vita che non avvenisse nel silenzio e nel buio? Il Sandrino continuava a pensare. E ripensare. E tuttavia, pian piano, dentro, si sentiva diventare sordo. Estraneo a quei luoghi. Ma quella staccionata sulla quale, anni prima, si era appoggiato infinite volte per giocare con i compagni a chi indovinava per primo la marca delle macchine. Ma quelle case, a quelle strade, e chissà, forse a quella stessa vita. Le Vittorie, l’Antonietta che andavano al lavoro e che ogni volta tornavano sempre a casa con la stessa minestra, lo stesso salame, le stesse carote, lo stesso pezzo di formaggio, era vita quella? Le finestre di casa sua, il tavolo, le sedie, la cucina, lo stanzone, l’ottomana, quei poveri corpi sbattuti là. Non era tornato per loro. E adesso che li aveva a portata di mano, perché non andava loro incontro? Era solo per la paura di quel che sarebbe successo? O invece per non sentirsi rompere il cuore dalla nostalgia e dal rimpianto? Andare a vederli per cosa? Per sentirsi dire che aveva ragione da una parte e torto dall’altra? Sulla vettura salì per ultimo, uno scossone, due, poi il tram partì, prese il biglietto, ma invece di andare avanti torno indietro, poi s’abbandonò sul poggiamano e cominciò a guardar fuori. Ecco, ecco, tutto quel che conosceva così bene, ecco tutto quel che lasciava. Piano piano il tram, che andava, e la notte col suo silenzio e il suo buio, che gli distruggevano tutto, le luci, le case, il bar di destra, il bar di sinistra, quello in cui era solito andare con lo Zeta, il cinemino, la porta della rosa, una fermata, poi via Eritrea, Quarto, gli impianti della Purina, il ponte…. Addio Via Alba, addio fabbricone, di cui non aveva avuto il coraggio di vedere niente. Addio fino a quando? Fino a quando avrebbe resistito a starne lontano? La sua mamma e i suoi fratelli, l’Antonietta? Come mai adesso che gli era andato così vicino da avere respirato la loro stessa aria, non riusciva più a pensarli come prima? Perché tutto quello squallore, tutta quella miseria che aveva rivisto un attimo prima, miseria, miseria e squallore, anche separati a festa, gli davano un senso così oscuro, ma invincibile, di fastidio? Di che cosa aveva paura? Aveva paura che squallore e miseria lo riprendessero un’altra volta nella loro monotona ma inesorabile morsa? Una morsa che non faceva male, ma che piano piano rendeva prigionieri e distruggeva. Il tram calò lentamente giù dal ponte verso via Espinasse, all’inizio della via si fermò, salirono due fidanzati. La corsa riprese. Il Sandrino era ancora là, nello stesso punto, con l’aria che entrando dal finestrino gli correva tutto intorno alle spalle e alla vita, il pollice tra le labbra. E i suoi pensieri, i suoi dolori nella testa. Alla fermata successiva salì una donna. Stordita dall’odore di brillantina che usciva dai suoi capelli, la sconosciuta prese il biglietto “No, ma lo sentite che odore ha addosso?” disse rivolgendosi al bigliettaio “Chissà perché la gioventù del giorno d’oggi deve conciarsi così”. Il Sandrino si voltò e fisso la donna. Come per dirle che al giorno d’oggi la gioventù si conciava come poteva. Poi, decise e siccome il 6 passava dal parco, al parco si sarebbe fermato. E per distruggere in un sol colpo, rimorsi, dolori, nostalgie, avrebbe cercato di trovare un’ altro cliente, chiodo scaccia chiodo. Era tardi, ma tra via Alemanni e XX Settembre ne giravano tutta la notte. “Perché, signora mia, al giorno d’oggi quel che conta sono questi. Sono solo questi” replicò sforzandosi di sentirsi sicuro e felice. E così, replicando, appoggiò la destra sui calzoni, laddove teneva gonfio più di foto che di soldi, il portafogli.
Bernardini. Apriamo subito un’altra finestra, che è un certo Giorgio Gaber, questo certo Giorgio Gaber è nato musicalmente fra il jazz, il Country Western, il Rock ‘nd Roll, ha inaugurato nel ’58, pensate, la Dischi Ricordi, inaugurata da un 45 giri di Giorgio Gaber che si chiama “Ciao ti dirò” – siamo a Milano, Dischi Ricordi a Milano – e invece per l’altro genere è Maria Callas che fa la Medea di Cherubini alla Scala. Questi sono i primi due dischi della Dischi Ricordi. Questo signor Gaber, questo studente, che poi ha fatto ragioneria, non ha ancora vent’anni, si è mischiato a un certo Enzo Jannacci – ha presente lei, Paolino? Sì, mi sembra di sì.
Jannacci. Abbastanza
Bernardini. I due corsari, quando erano giovani, facevano “I Due Corsari”.
Jannacci. Nelle cantine.
Bernardini. Nelle cantine; erano bravi, eh?
Jannacci. Più che bravi erano due disgraziati, pero’ che disgraziati! Perché c’era quell’energia, quella voglia di vivere, quella voglia di sperimentare che solo il Rock and Roll ti fa crescere, ti dà quell’energia. L’ho avuta anch’io, incredibile, diresti, ce l’ho ancora, incredibilmente, tu diresti, e invece..
Bernardini. No, no, ma ce l’hai, devo dire, non mi attribuire cose che non sto dicendo
Jannacci. Io so che tu sei un abile critico e giustamente mi critichi, perché la critica serve poi a… capito?
Bernardini. Ti stavo chiedendo “I due corsari”, però.
Jannacci. Ho dato una risposta ampia ed emozionale, più di così non saprei cosa dire.
Bernardini. I Due Corsari servono per dire che Gaber, dopo quell’avventura che fa col suo papà, in cui si sono divertiti da pazzi, perché poi negli anni 80, l’ha rifatto…
Bernardini. L’hanno rifatto per risentirsi vicini. Secondo noi e altri critici che ho sentito è perché avevano bisogno di una pausa tra tutte le loro problematiche, anche organizzative, l’organizzazione delle proprie carriere che erano diventate monodirezionali. Alla fine hanno preso proprio un respiro ed insieme si sono presi questa vacanza e hanno fatto questo mini album. Erano 4 brani dove hanno fatto un grande Rock and Roll, secondo me.
Bernardini. Travestendosi fra l’altro da Blues Brothers.
Jannacci. Grazie a Ranuccio Sodi che, credo gli sia venuto in mente di sottolineare questa cosa. Già volevano farlo loro, Ranuccio ha detto “Però mettetevi il vestito, cappello, cappotto eccetera eccetera”, e alla fine hanno fatto tutto. Papà si è messo il calzino bianco. Nota che, uno dice che è una cosa un po’ osè, in realtà in televisione il calzino bianco ha creato la differenza, tutti neri con gli occhiali neri, cappello nero, calzino bianco, ah! Capito? Era per dirvi piccole cose, ma …
Bernardini. Ecco, quei due matti fanno questa avventura, una manciata di 45 giri per la Ricordi, per una sottomarca, peraltro, un’etichetta, la Ricordi è un pochino, insomma…..
Jannacci. Cioè, l’ultima spiaggia?
Bernardini. No, no, parlo proprio di 45 giri.
Jannacci. Ah, scusami.
Bernardini. Però c’è un salto che fa Gaber a un certo punto, perché poi, i due corsari si separano e, come giustamente ha detto Paolo, prendono due percorsi diversi. E in questi percorsi, Giorgio Gaber incontra uno scrittore importante e un po’ dimenticato che si chiama Umberto Simonetta. Umberto Simonetta non era un molto amato, perché era un po’ snobbato, perché era uno scrittore di romanzi, ma anche un autore per il teatro di rivista, scriveva canzoni di intrattenimento, lavorava per la televisione. E infatti lui con grande sagacia si descriveva così “Sono uno scrittore minore lombardo del XX secolo”. Scrive tre romanzi importantissimi per raccontare questa Milano; uno è “Lo sbarbato”, 1961, ed è la storia del rapporto fra un ragazzo di buona famiglia e un ladruncolo; “Tirar mattina”, che è una storia fantastica, 1963, pubblicato da Einaudi, ed è un racconto in cui la sera prima di… finalmente un trentenne ha deciso che si mette a lavorare in quella Milano lì, in cui lavorano tutti, lui era l’ultimo però vuol fare una notte brava, ne fa di tutti i colori, si ubriaca, arriva la mattina e arriva al posto di lavoro e, siccome ci arriva ubriaco, viene licenziato subito, per cui è finita così, e questa è la storia di “Tirar mattina”; e poi “Il giovane normale” nel ’67, che è una storia ancora più complicata, cominciano a intravedersi altre cose, è sempre un giovane che scappa, che se ne va dalla normalità di Milano. Quest’uomo, pensate, è uno che ha aiutato Villaggio a creare Fracchia, a creare Fantozzi, nel ’76 ha fatto un programma, si chiama Tele vacca, che è stato il primo programma in cui si è conosciuto un certo Roberto Benigni. Quindi uno, che nel mondo anche televisivo degli anni ’60, contava. Ecco, incontra Gaber. Pensate che, per prima cosa in realtà fa un pezzo proprio per I Due Corsari, che è “Una fetta di limone”, il cui testo è appunto di Simonetta. Ma poi pensate cosa scrive: “La ballata del Cerutti”, “Trani a gogò”, “Le nostre serate”, “Porta Romana”, “Barbera e champagne” e “Il Riccardo”, tutti testi di Umberto Simonetta, che sono un racconto anche quello della periferia milanese. Ecco, vi dico solo una cosa, qualcuno ha detto “Sono canzoni un po’ da macchietta, non sono così serie, forse non vale la pena”. Io vi dico che, Giorgio Gaber, nel pieno degli anni ‘70, quando faceva spettacoli complicatissimi, impegnatissimi, per bis faceva queste canzoni. Quindi, come dire, lui ci credeva ancora. Allora, Andrea Mirò, ricorro a lei, propone tre di queste canzoni: “Le nostre serate”, 1963, “La ballata del Cerutti”, 1961 èTrani a gogò”, 1962. Per i più giovani, ricordo che i Trani erano dei posti che – Trani, avete presente, città della Puglia, vino pugliese, si vendeva in mescita il vino pugliese – che i milanesi di allora frequentavano abitualmente. E ne racconta, appunto Simonetta e Gaber, in Trani a gogò”. Andrea Mirò.
Mirò. canta e suona dal min 37:06 al min 47:19.
Bernardini. Siamo arrivati a Enzo Iannacci. Se vi capita di andare a trovarlo, al Famedio, insieme a Giorgio Gaber, che sono lì vicini, – il Famedio, per chi non lo sapesse, sono le tombe di milanesi importanti al cimitero monumentale – voi troverete, sulla tomba di Jannacci, questa scritta “Enzo Jannacci medico e artista”. Perché quella definizione Paolo? Ha a che fare questa definizione con questo nostro percorso di periferia del cuore?
Jannacci. Sì, perché è la sintesi di quello che è stato mio padre e quello che, credo, che abbia voluto che la gente si ricordasse di lui. Lui scherzava del fatto che fosse un saltimbanco, che poteva essere preso in giro, però lui sentiva di aver fatto qualcosa per il momento artistico nazionale, ma soprattutto la sua vocazione di sentire i problema degli altri, cercare di aiutarli, come medico, con una diagnosi o con un intervento, è la cosa che lo emozionava di più, lo faceva sentire più leggero.
Bernardini. Tra l’altro lui ha fatto un ambulatorio tutta la vita, oltre che chirurgo.
Jannacci. L’ha fatto per tanto tempo. Poi tira e molla, sai, poi ci sono mille vicissitudini. Anche per il fatto comunque che il tempo lo dividiamo in 24 ore e lui, a un certo punto, doveva scegliere cosa fare, perché alla venticinquesima ora non sapeva bene come organizzarsi. Però, a parte gli scherzi, il fatto di sentirsi nelle ossa un medico e quello di cercare di aiutare la gente, soprattutto chi cercava aiuto, io me lo ricordo, era chi viveva nelle periferie e chi magari non aveva il puntello, l’amico medico o il medico di famiglia, che allora era più facile avere, ma magari in periferia faceva più fatica ad arrivare. Devo dire che, invece, il papà si sentiva più pronto verso questa fascia di popolazione, che da sempre, come hai detto tu, è sempre stata relegata in una direzione in difetto, chissà perché. Che poi invece, la periferia, il fatto di poter creare qualche cosa, derivava proprio dal fatto che, il pathos nasceva in periferia, le idee nascevano in periferia, nascevano dai discorsi fatti in quella piazza, in quella via, in quel bar, in quel mezzo pubblico, non in centro, in centro ci arrivavi con le cose fatte. Anche Testori arrivava in centro e aveva scritto, però aveva cominciato a scrivere da fuori.
Bernardini. Ci voleva quella roba là. Jannacci – li abbiamo visti con I Due Corsari – in realtà, aveva cominciato una linea che poi ha tenuto per tutta la vita, quella della canzone surreale, che è una cifra milanese molto importante, canzoni come “L’ombrello di mio fratello”, “Il cane con i capelli”, “Bambino boma”, “Gheru gheru”, per esempio, lì c’è di mezzo anche Dario Fo. Insomma, non abbiamo il tempo per raccontare tutto, però, nel 1964, aiutato da un certo Nanni Ricordi, non ho il tempo di raccontarvi chi era, ma a Milano è stato molto importante, Nanni Ricordi, perché ha fatto nascere alla Ricordi, di cui lui era un rampollo, insomma, che veniva da quella famiglia, ha fatto nascere i cantautori, tutti. Bindi, Paoli, Tenco sono tutti nati lì, dentro il salotto di Nanni Ricordi. Ecco, Nanni Ricordi produce un fantastico 45 giri di Jannacci, in cui da una parte c’è “El purtava i scarp del tennis” e dall’altra “Ti te se no”. E io chiedo a Paolo di prendersele in braccio e farle per noi al pianoforte.
Jannacci. Lo faccio senz’altro.
Bernardini. Per i non milanesi un po’ di versi di “Ti te se no” ve li devo leggere in italiano, lo so che è una violenza, però chi non è di Milano almeno capisce qualcosa.
“Tu non lo sai?
Perché non vai mica in giro se non per fare la spesa per me?
Perché ci vuole mezz’ora per arrivare giù in piazza Duomo
ci vogliono due tram,
ma io quando sono le 8 torno a casa dal lavoro.
Nascondo la cartella con dentro i miei stracci,
mi allaccio alla giacchetta come mi hai detto Tu
cammino per Milano, mi pare di essere un signor.
Sì, tu non lo sai.
Ci sono automobili, tutti i colori, di tutte le grandezze,
è pieno di luci, sembra di essere a Natale,
e sopra il cielo, è pieno di biglietti da 1000.
Che bello che deve essere fare i signori con la radio nuova
e nell’armadio la torta per i figli che tornano a casa da scuola, ti tocca viziarli
per te un vestitino, un altro a te compro le scarpe,
tu non lo sai, ma questo è proprio un parlare da stupidi,
buono soltanto a ubriacarti.
Tu non lo sai, ma quando io accarezzo la tua bella faccetta così pulita.
Mi sembra di essere un signore.
Jannacci. Canta “Ti te se no”
Bernardini. Paolo Iannacci. Dobbiamo correre anche con gli applausi perché il tempo sta finendo, dai teniamoli per il finale gli applausi. L’hanno trovato sotto un mucchio di cartone, l’hanno guardato, non sembrava nessuno, di gente come questa, in realtà, la grande differenza di Jannacci è che tutta la carriera lui ne parla, “Andava a Rogoredo”, “l’Armando”, “Ma mi” che in fondo, è una canzone partigiana, che parla di una persona, “La ballata del pittore”, “Il palo dell’ortica”, “Veronica”, “Soldato Nencini”, se qualcuno se la ricorda. “Giovanni Telegrafista” quella del (pirì pirì pirì). “Bobo Merenda” che è uno che fabbrica le bombe, non lo sa. “Vincenzina e la fabbrica”, “Il panettiere”, “El me indiriss”, “Cosa importa”, “Son s’cioppàa”. “Se me lo dicevi prima”, “La fotografia”. È andato a Sanremo nel 91 con “La fotografia”, parlando di uno di questi. Volevo ancora fare un’ultima domanda, ma sai a chi lo chiedo adesso? .. lo vedo in prima fila, adesso lo chiamo .. al professor Vittadini, che è stato un grande amico dell’ultima stagione di Jannacci. Abbiamo veramente un minuto Giorgio. Però una cosa ti chiedo, perché secondo te suo papà è andato avanti… Vieni qui sotto la luce, così ti vedono tutti. Perché è andato avanti tutta la vita a parlare di questi?
Vittadini. Perché a differenza degli altri li vedeva. Perché noi non li vediamo. Lui li vedeva. Io sono diventato amico perché essendo della periferia e avendo tutti i difetti di ognuna delle canzoni di Jannacci, perché s’cioppàa completamente, lui mi ha visto il cuore. Io ho visto il suo cuore. Ho visto il cuore di Paolo e con Silvia siamo andati avanti quattro anni, quattro anni a guardarci il cuore. Un cuore che, come quando venne a Porto Franco, era un cuore che disse: “Questo è un luogo di mistero” e per commentare cos’era la cosa che disse su Eluana dice: “Perché la ferita e la carezza sono la stessa cosa”. Guardarsi il cuore è questo e lui era capace di farlo.
Bernardini. Grazie Giorgio. Chiedo scusa ad Andrea Mirò perché avrebbe dovuto farci una sua bellissima canzone che si chiama “L’incantatore di Serpenti”, ma non ce la facciamo e mi scuso con Andrea Mirò. Un applauso in più perché doveva farci questa canzone, ma non ci stiamo dentro, la colpa è mia naturalmente.
Mirò. Eh si, lunga, troppo lunga, Non fa niente, la faremo un’altra volta.
Bernardini. Ma ragazzi, ci cacciano, tornerà, deve farne ancora due. State tranquilli, calma o popolo. Ma torno da Giuseppe, Testori. C’è un altro punto in cui però una stagione ancora più lontana, i primi anni ‘70, dove la sua vocazione popolare risorge, è la nascita del Salone Pier Lombardo che adesso si chiama Franco Parenti, con Franco Parenti, Andrée Shammah che sarà qui al Meeting fra pochi giorni, con Dante Isella, Gian Maurizio Fercioni, fondano in un ex cinema di Porta Romana. Pensate che cosa dice il programma del salone Pier Lombardo, dice che: “è posto a ridosso della cerchia delle mura spagnole, cioè a cavallo fra le grandi arterie di accesso al centro cittadino e vuole parlare a una fascia periferica vasta e popolosa, che non ha iniziative teatrali e culturali”. Quindi il Pier Lombardo nasce così, per parlare verso la periferia di Milano, non verso il centro, così nasce. E lì, però, Giuseppe spiegaci, in realtà comincia una rivoluzione di linguaggio, perché la trilogia con cui si apre l’avventura del Pier Lombardo è Ambleto, Macbetto, Edipus e li esplode la lingua.
Frangi. E si collega, anche, all’esperienza della periferia. Abbiamo parlato molto di sperimentalismo, perché cioè l’approccio con la periferia, porta questi grandi creativi a un coraggio sperimentale. E per Testori la periferia era un l’avventura e l’esperienza di una lingua che coincideva con le cose, con la vita. Iniziano gli anni ‘70, ci si accorge che avviene questa rivoluzione devastante, quella che poi ha raccontato in maniera meravigliosa Pasolini, in cui la lingua si svuota completamente. Quindi si trova spaesato e per tener fede a quella che era stata l’esperienza vissuta in quegli anni in periferia prova ad avventurarsi nell’invenzione di una nuova lingua, una lingua che coincide con le cose, con la vita, con la carne, con il corpo. E quello che ascolteremo è un piccolo pezzetto di un testo che lui ha scritto e che è emblematico di questa avventura sperimentale in cui lui si inoltra, che è una riscrittura de “l’Oreste”, lui lo fa alla fine degli anni ’80, quindi più tardi. Abbiamo scelto questo pezzo, primo, perché è nel repertorio di Maccagno che lo riproporrà tra l’altro dal 25 settembre al teatro Fontana di Milano, ma soprattutto perché si avverte questa bellezza della lingua nuova e questo portar dentro la lingua nuova, quello che era l’umanità della periferia e quindi lui cambia la fine de l’Oreste e Oreste, sentiremo in questo brevissimo pezzo, rinuncia al potere che il popolo vorrebbe consegnargli, perché dice: “a me in questo momento interessa un’altra cosa, un’altra categoria morale, che quella del perdono”, quindi io voglio il perdono e si inventa una parola che dice Testori: “non esiste nel grechico parlar”, cioè non esiste nella filosofia greca, era solo nella filosofia…, nel cristianesimo gli proponeva e quindi dice al popolo, io voglio solo il perdono.
Bernardini. Allora Michele Maccagno in un frammento di Sdisorè.
Maccagno. Vuoi aggiungere che cosa ha appena fatto Oreste?
Frangi. Oreste appena appena ammazzato padre e madre.
Maccagno. Recita Sdisorè
Bernardini. Chiudiamo con un inizio. Abbiamo veramente un pugno di minuti, ma c’è un altro incontro e torno a Giorgio Gaber. Decisivo che gli apre la strada del teatro, che è quello con Luporini. Giorgio Luporini è un pittore, ma insieme cominciano – Giorgio Gaber e Sandro Luporini – a costruire il “Teatro Canzone” e nasce tutto questo da una canzone. La canzone si chiama “Com’è bella la città”. Forse la ricordate ed è, appunto, torniamo al punto di partenza, una lettura della città come luogo paradossale. Dice un verso: “se tu vuoi farti una vita devi venire in città”.
Mirò. canta Com’è bella la città.
Bernardini. Grazie ad Andrea Mirò. Grazie a Giuseppe Frangi e a Michele Maccagno. Vi ricordo che stasera al teatro Galli ci sono Maddalene da Giotto a Bacon, un progetto di Walter Marossi sui versi di Testori. Sta per cominciare alle 21,30. E poi Paolo Jannacci domani sera si esibisce con la sua band alle piscine Ovest, il titolo è: “In concerto con Enzo”. Adesso sforo, adesso mi ammazzano. Abbiamo continuato a parlare dei due corsari. Ci fate un pezzo di due corsari?
Jannacci e Miro’: Cantano “Tintarella di Luna”