Chi siamo
ISLAM, COSTITUZIONI E DEMOCRAZIA
Islam, costituzioni e democrazia
Partecipano: Rafaa Ben Achour, Giudice della Corte Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli; Tania Groppi, Docente di Istituzioni di Diritto Pubblico all’Università degli Studi di Siena; İbrahim Kaboğlu, Docente di Diritto Costituzionale alla Marmara University, Istanbul; Adel Omar Sherif, Vice Presidente della Suprema Corte Costituzionale d’Egitto. Introduce Andrea Simoncini, Docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Firenze.
ANDREA SIMONCINI:
Bene, buonasera a tutti. Iniziamo questo incontro dal titolo Costituzioni. Democrazia, Islam. In un editoriale pubblicato poche settimane fa dalla professoressa Tania Groppi, che è uno dei nostri relatori, lei poneva questa domanda: cosa resta oggi della Primavera araba? Occorre ammettere che questa domanda è davvero bruciante, soprattutto perché proprio in questi giorni noi la poniamo con un crescente sgomento e anche disorientamento per le notizie che continuano ad arrivare. E’ indubbio che il termine Primavera araba sia ormai entrato nella storia, lo dico per gli italiani che vedo numerosi in sala. L’Enciclopedia Treccani ha deciso, nel nuovo lessico del XXI secolo, di inserire l’espressione Primavera araba e questo è il sintomo ormai che con questa espressione si denota qualcosa che è destinato a rimanere nella storia. Certamente nessuno può dimenticare il vento di speranza fortissimo che cinque anni fa si è alzato e ha cominciato a soffiare dalla sponda sud del Mediterraneo per investire le nostre democrazie sazie e appagate, dimostrando quanta, invece, fame di libertà, di partecipazione, di responsabilità collettiva c’era a poche miglia dai nostri confini. Ad un continente come quello europeo, abituato a pensare al sacrifico per la libertà e la democrazia solo come un ricordo dei nostri nonni, i social media, la televisione, hanno dimostrato che giovani, ragazzi e ragazze che oggi, in questo momento, qui vicino muoiono e lottano per quei valori che noi a fatica ricordiamo. Una grande speranza per tutti, dunque. Ma subito dopo sono iniziati i problemi. Innanzitutto, direi, i problemi di comprensione: abbiamo veramente capito quello che sta succedendo in quei Paesi? Soprattutto stiamo capendo quello che sta accadendo ora, dopo quegli inizi? Uno tra i miei più cari amici, che è qui in sala con noi, il Professore Wael Farouq, mi ha sempre fatto notare questa difficoltà strutturale che abbiamo noi occidentali a capire quello che succede nel mondo arabo: l’esempio più eclatante è la stessa espressione Primavera araba. Mi faceva notare, Wael, che solo agli occhi di un europeo o di un americano la primavera rappresenta la bella stagione che annuncia la rinascita della natura. Per chi vive nel Nord dell’Africa, la primavera è l’inizio di una stagione che è un incubo, fatta di caldo e aridità. Dunque, mai un arabo avrebbe scelto il termine Primavera araba per definire quello che stava succedendo, solo un occidentale. Dunque, abbiamo davvero compreso quello che stava accadendo? Quello che sta accadendo? Oppure, come spesso succede, ci siamo limitati a proiettare i nostri schemi mentali, i nostri desideri, su quello che vedevamo? Comprendere qualcosa vuol dire farsi colpire, farsi ferire in qualche modo, e non sempre si è disposti a perdere qualcosa per amore della conoscenza. E così, in Europa e in America, è immediatamente cambiato lo stato d’animo riguardo a quello che stava succedendo lì. Alla stagione della primavera è seguito l’incubo della infuocata e arida estate Nordafricana. E siamo onesti: se oggi facciamo riferimento alle rivoluzioni arabe, è molto spesso per segnalare che esse sono una delle cause fondamentali del flusso di rifugiati e di immigrati che fuggono da questi Paesi nel caos per cercare nei nostri. E così viene fuori la nostra democrazia sazia, la nostra libertà asfittica, per cui comincia a serpeggiare il dubbio che, se il prezzo da pagare per la democrazia degli altri sono barconi pieni di migranti, beh, forse è meglio la dittatura. Non possiamo accettare questa miopia: e il problema principale per i miopi è la distanza, come è noto. Noi guardiamo quello che succede, ma questi Paesi sono così lontani che tutto diventa confuso, sfuocato, incomprensibile. La grande opportunità, unica, che offre il Meeting è proprio quella di bruciare via questa distanza, consentendo un incontro, un dialogo faccia a faccia con i protagonisti di queste vicende. Allora vorrei, aprendo la discussione, ripartire dalla domanda della professoressa Groppi: cosa resta delle Primavere arabe? Ma ponendola a quattro illustri e graditissimi ospiti, anche amici, che hanno accettato l’invito di venire qui a Rimini. Tre dei quattro ospiti di questa sera vengono da altrettanti Paesi simbolo di questa grande trasformazione del Nordafrica: Tunisia, Egitto, Turchia. Sono tutti Paesi chiave in quel fenomeno che abbiamo chiamato Primavera araba: la Tunisia, dove tutto è iniziato e che nel gennaio 2014 ha adottato una nuova Costituzione e subito dopo, come abbiamo visto tutti, sembra essere rientrata in un tunnel terribile di terrorismo; la Turchia, reduce da recentissime elezioni, nel giugno 2015, che hanno prodotto nuove inedite maggioranze che probabilmente porteranno a un ulteriore scioglimento del Parlamento. Un Paese sempre più cruciale nello scenario internazionale. E poi l’Egitto, da sempre il Paese chiave del Mediterraneo, in cui la Primavera araba ha prodotto uno dei simboli più noti: piazza Tahrir. Proprio per questo, li ringrazio: da ciascuno di questi tre Paesi abbiamo i nostri relatori di questa sera. Il Professore Adel Omar Sherif, Vice Presidente della Suprema Corte Costituzionale d’Egitto, che, oltre ad essere giudice in questo organo, è anche Professore di Diritto Costituzionale, è stato ed è Visiting Professor in un numero elevato di università, sia nel Nord America che in Europa, oltre che essere studioso di Diritto Costituzionale e di Diritto di Famiglia. Grazie, professor Sherif. Il professor Rafaa Ben Achour, Professore di Diritto Costituzionale dell’università di Cartagine: ci ha tenuto a fami ricordare che noi, post romani, pensiamo che Cartagine sia stata distrutta e basta, no! Cartagine c’è ancora e c’è una università dove lui insegna Diritto Costituzionale. Ha avuto una lunga e importante, prestigiosa carriera politica, essendo stato Ministro della Tunisia in Marocco, essendo stato Vicepremier, fondatore dell’ associazione di Diritto Costituzionale tunisino e, cosa non secondaria per il tema che affronteremo stasera, membro della Corte Africana dei Diritti Umani. Grazie, professor Ben Achour. Il terzo ospite è il professor İbrahim Kaboğlu, che è Professore di Diritto Costituzionale all’università di Marmara ad Istanbul, in Turchia, anche lui fondatore dell’associazione turca dei professori di Diritto Costituzionale. E’ uno dei principali protagonisti del dibattito pubblico che in questo momento, come ascolteremo anche dalle cose che ci dirà, è particolarmente vivo in quel Paese, sulla tutela dei diritti. Grazie, professor İbrahim Kaboğlu. Ma come sappiamo, per vincere una miopia bisogna avvicinare gli oggetti, certe volte non basta e occorre un supporto, un aiuto, un paio di occhiali, una lente capace di avvicinare le cose e renderle più chiare e più distinte. Per questo, oltre ai nostri autorevolissimi ospiti, abbiamo invitato ad aprire la discussione di stasera una carissima amica e collega, uno degli esperti più autorevoli in Italia e in Europa di Diritto Costituzionale Comparato, molto vicina proprio a questi Paesi. Ha scritto un libro insieme a Irene Spigno sulla Tunisia, La Primavera della Costituzione, proprio quest’anno, è Tania Groppi, professoressa nell’università di Siena. Le chiederei di aiutarci, prima di ascoltare i diretti protagonisti, ad entrare in questo tema.
TANIA GROPPI:
Grazie, Andrea. Grazie a tutti voi che siete qui così tanti e numerosi. Questo è davvero confortante e bello. E grazie ai colleghi autorevoli, gli autorevoli giudici che hanno accettato questo invito. Non so se ho degli occhiali idonei, provo a proporvi un po’ quelli che sono i miei. Partendo però da una considerazione che è stata fatta nel messaggio che ha rivolto qui al Meeting il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Egli, nel suo messaggio, ci ha detto con grande lucidità e coraggio, cito le parole del Presidente: “Il terrorismo, alimentato anche da fanatiche distorsioni della fede in Dio, sta cercando di introdurre nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Africa, i germi di una terza guerra mondiale. Sta nella nostra responsabilità fermarla”. Quindi, l’’interrogativo che vorrei affrontare qui e poi soprattutto le questioni che vorrei porre ai nostri ospiti, riguardano il contributo che in questa lotta, perché di questo si tratta, il costituzionalismo può dare. Quello che può dare la democrazia costituzionale, il costituzionalismo del secondo Dopoguerra. Ora, il cuore del costituzionalismo del secondo Dopoguerra, quello che è nato per intenderci dopo Auschwitz, quello basato sui trattati internazionali sui diritti umani, sulle Costituzioni contemporanee, è la centralità della persona umana. La persona umana, la dignità della persona umana, i diritti inviolabili che devono essere rispettati da tutti, compresi i poteri dello Stato e le maggioranze politiche democratiche, quelle che vincono le elezioni, quelle che governano. Il costituzionalismo del secondo Dopoguerra – per stipulare all’inizio di questo incontro, che parla anche di Costituzione, qualche definizione – ci dice che intorno a questi valori inviolabili, scritti nelle costituzioni rigide, cioè norme supreme dell’ordinamento, si costruisce un patto fondante che mantiene unite in una visione condivisa le società pluraliste, in cui le diverse componenti, una volta rispettato questo nucleo di diritti, sono poi libere di sviluppare i propri progetti di vita. Ora, questo nostro discorso che, oltre alla Costituzione, investe poi anche le parole – nell’ordine che poi vedremo del titolo preciso, Islam, democrazia, Costituzione – attorno alle quali ruotiamo, io cercherò di svilupparlo brevemente su due piani, secondo due assi. Un asse esterno rispetto ai nostri Paesi occidentali, che ci porterà a parlare di quello che eventualmente la democrazia costituzionale può dare anche nei Paesi a maggioranza musulmana. E un versante più propriamente interno ai Paesi occidentali, per vedere se stiamo sfruttando tutte le potenzialità che la democrazia costituzionale ci dà all’interno dei nostri Paesi, per rapportarci nelle nostre società sempre più multiculturali con gli abitanti di religione musulmana. Quindi, cercherò di sviluppare questi due piani: sono due versanti – quello che ho chiamato esterno, che guarda di più ai Paesi di maggioranza musulmana e quello interno, ai Paesi occidentali – interconnessi perché, e qui cito di nuovo le parole del messaggio del Presidente Mattarella, “la democrazia si esporta con la cultura e con l’esempio”. Quindi, non possiamo prescindere dal trattare congiuntamente questi due piani. Debbo fare anche due premesse: c’è un punto di partenza che può essere certo messo in discussione e che io do per presupposto, che la democrazia costituzionale ha dimostrato con la sua esperienza nei Paesi in cui è stata applicata a partire dal 1945 che è una cosa buona. Cioè che è uno strumento, un assetto istituzionale che produce pace all’interno dei Paesi in cui è applicata e nei rapporti tra le nazioni. Quindi, do questo come punto di partenza: non abbiamo finora individuato, guardando l’esperienza comparata, altri assetti istituzionali che possano produrre risultati analoghi. Questo è un mio punto di partenza. L’altro è che io sono un Professore di Diritto Costituzionale C, questa è la mia prospettiva: non sono un esperto di Islam, non sono un esperto di Paesi a maggioranza musulmana: la mia esperienza, anche pratica, sul campo si è limitata al lavoro fatto in qualità di esperto nel partecipare all’attività costituente in Tunisia. Fatte queste premesse, alcune parole sul versante esterno di questo tema: Islam, democrazia, costituzioni. Ora, io penso, ce lo diceva già Andrea Simoncini, che abbiamo oggi una opportunità straordinaria per capire meglio cosa sta avvenendo in questi tre Paesi, che sono molto diversi tra di loro ma, benché per ragioni diverse, sono tutti e tre cruciali. Credo, come diceva Andrea, che la domanda ce l’abbiate anche voi che siete accorsi qui, probabilmente è una delle domande che vi ha spinto: cosa resta oggi di questi movimenti che abbiamo visto in scena quattro, cinque anni fa? All’inizio del 2011 sembrava che anche nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, che erano rimasti fuori dalle grandi transizioni alla democrazia degli anni ’90 nell’Europa Centro Orientale, nell’America latina, dopo il 1989, insomma, si fosse messo in moto qualcosa, che anche questi popoli volessero prendere in mano il proprio sistema istituzionale. C’erano in queste aree regimi autoritari, lo sappiamo, che godevano del sostegno dei Paesi occidentali, un sostegno che dopo l’11 settembre si era notevolmente rafforzato. Chi ha studiato attentamente le Primavere arabe, ci ha detto che al loro interno questi Paesi, questi regimi autoritari, si basavano su una sorta di patto sociale in cui, pur negandosi diritti civili e politici, si distribuiva però un moderato benessere; e che nel 2011 le rivolte non sono arrivate dal niente, che il malcontento era maturato negli anni. C’era una miscela esplosiva di corruzione, di diseguaglianza, di nepotismo che la crisi economica globale probabilmente ha contribuito a fare esplodere. Ci sono tanti studi, quello che io vi dico è senz’altro molto semplificato, però, al di là delle cause, benché esse non siano ininfluenti per comprendere gli sviluppi successivi, quello che è impressionante e che ci porta alla domanda su che cosa è successo, è l’esito di quelle rivolte. Rileggendo alcuni testi scritti nel 2011, 2012 e anche 2013, per preparare questo incontro, la distanza che oggi ci separa da quegli eventi, anche dalla lettura e dalla interpretazione che all’inizio era stata data, è abissale. Si comparavano gli indignados di Madrid che, in conseguenza della crisi economica chiedevamo più uguaglianza e più diritti sociali, con quello che accadeva in Egitto, al Cairo, in piazza Tahrir. Queste comparazioni oggi ci sembrano poco centrate e poco realistiche. Perché oggi la sensazione – non so se mi sbaglio, ognuno di voi può poi percepire quella che è la sua sensazione di quello che è accaduto – che si ha qui sulla sponda Nord, è che la gran parte di quei movimenti abbiamo prodotto molto poco e che, a parte i casi più drammatici, in cui c’è stata la guerra civile, la Libia, la Siria, anche negli altri Paesi ci sembra che ci sia stato un ritorno all’ancien regime o che, comunque, di quei movimenti abbiano beneficiato essenzialmente gli islamisti. Dove per islamisti io intendo quei movimenti politici che, più o meno apertamente, mirano all’imposizione della legge islamica quale legge suprema dello Stato. Perché, al di là di quello che veniva chiesto dalle piazze nelle rivolte – probabilmente, essenzialmente dignità, anche una maggiore uguaglianza sul piano economico – quello che è accaduto e che accomuna non solo Tunisia ed Egitto ma anche la Turchia, quello che è accaduto in molti Paesi è stato che nelle prime elezioni democratiche, libere, si è assistito ad una vittoria dei partiti e dei movimenti islamisti. Quei movimenti o partiti che, se non hanno l’obiettivo esplicito di trasformare in senso islamico lo Stato, tuttavia quando arrivano al potere favoriscono le condizioni per una islamizzazione dal basso di una società che in seguito, secondo una logica dei tempi lunghi, dei tempi lunghissimi, anche, potrà dare luogo ad una trasformazione istituzionale dello Stato. Ora, queste vicende ci sembrano quasi rafforzare l’idea che la democrazia non sia compatibile con l’Islam, in quanto la democrazia, con la sua apertura ontologica al pluralismo, una volta che si introducono elezioni libere non riesce ad impedire l’emergere dell’islamismo. Strettamente collegata a questa reazione, la reazione connessa secondo la quale solo regimi autoritari possono evitare nei Paesi di tradizione a maggioranza musulmana questo processo involutivo e preservare una sfera pubblica neutra non islamizzata. La Tunisia sembra costituire un’eccezione in questo contesto: è un Paese che è riuscito ad approvare una Costituzione rispondente agli standard della democrazia costituzionale, c’è riuscito con un procedimento costituente partecipato e consensuale, dove è stato davvero trovato un consenso tra i diversi partiti politici. Le prime elezioni erano state vinte dal partito religioso Ennahda, che però non aveva la maggioranza assoluta nell’assemblea costituente e ha dovuto negoziare con gli altri partiti. La società civile ha partecipato anche direttamente e la Costituzione è entrata in vigore, ci sono state le elezioni. Quasi tutti gli organi previsti dalla Costituzione democratica sono oggi in funzione e quindi sembra un po’ costituire un’eccezione. Però, se andiamo a guardare più da vicino quello che sta accadendo in questi giorni, in queste settimane, in questi mesi in Tunisia, ci rendiamo conto che non è soltanto diventata un obiettivo primario, proprio per questo successo della transizione, del terrorismo internazionale, ma ha mostrato anche di essere estremamente vulnerabile: la democrazia costituzionale, il patto raggiunto, la Costituzione scritta in cui si trova un equilibrio tra tutela dei diritti umani, pluralismo e ruolo dell’Islam, è estremamente fragile. Qui vengo al problema che vorrei porre essenzialmente anche agli altri relatori: sembra che anche la società tunisina, così come anche le altre società dei Paesi a maggioranza musulmana, sia attraversata da una frattura quasi insanabile sui valori che divide in due la società. E’ stato scritto, forse in modo semplicista, che in molti Paesi musulmani esiste uno sfasamento spazio-temporale nella popolazione: una parte, gli islamisti, vorrebbero vivere in un’altra epoca lontana, il Medioevo; una parte della popolazione, i laici, le elites laiche, in un altro luogo, l’Occidente. Questi due mondi si incontrano con grande difficoltà o non si incontrano affatto e in questa situazione l’islamismo non ha troppe difficoltà a fare presa sulla popolazione, approfittando dal substrato diffuso dell’Islam popolare e soprattutto dei giovani. Penso a quello che abbiamo visto in Tunisia, il numero dei giovani tunisini che combattono nelle file dell’Isis, numeri che sono importanti e che non si possono spiegare che con un disagio dei giovani. Cito un documento molto interessante, Il patto sociale contro il terrorismo, approvato il 13 agosto dalla riunione di mille intellettuali tunisini, che ci dice che questi giovani dell’entroterra e delle periferie mancano di un progetto di futuro, mancano, per stare sul nostro tema, della mancanza. Quindi, anche questa eccezione, la Costituzione perfetta che risponde ai canoni dello Stato democratico costituzionale, il processo costituente partecipato, mostra però questa grande vulnerabilità. Mi chiedo, e sulla domanda speriamo dei lumi dai nostri ospiti: è proprio così? Cioè, la democrazia costituzionale, anche là dove viene introdotta, è fragile come sembra di fronte all’islamismo? E’ davvero incapace di attivare le risorse presenti nella società a difesa di un autentico pluralismo? Ci sono nelle società dei Paesi mussulmani delle forze per una reazione? Alcune le conosciamo, le donne, gli attivisti dei diritti umani: ma possono riuscire a raggiungere altre fasce di popolazione, ad uscire dai loro ambienti urbani e intellettuali, a raggiungere le zone rurali, povere e abbandonate? Cioè, si può innescare quel patto sociale diffuso che solo può essere la forza della democrazia costituzionale o bisogna ipotizzare delle soluzioni diverse e la democrazia costituzionale come l’abbiamo conosciuta, come la conosciamo dal secondo Dopoguerra, come ci sembra cosa buona, non va bene, non è la soluzione più opportuna perché manca quella che viene chiamata dagli studiosi costituzionalisti l’opinione pubblica costituzionale? Cioè, forze vive, maggioritarie nella società, che davvero credano nei valori del pluralismo. Vengo rapidamente – e concludo – alle nostre società, invece, ai nostri Paesi, all’Italia, ai Paesi europei che vivono nello Stato costituzionale, al ruolo delle nostre Costituzioni in questa guerra al fondamentalismo e al terrorismo. Qui non c’è, secondo me, solo il tema abbastanza noto del doppio scandalo, cioè dell’ambiguità degli occidentali che fanno affari con i terroristi, che non si impegnano a sufficienza a favore delle forze veramente democratiche dei Paesi mussulmani. Questo lo sappiamo, purtroppo, è ben noto: invece mi ha molto colpito quanto dice da tempo il nostro collega Wael Farouq sul fatto che nei nostri Paesi, in Europa, vivono venti milioni di mussulmani europei, a tutti gli effetti occidentali. Ma vivono in ghetti, sono invisibili, cioè c’è una falsa integrazione. Un’Europa fedele ai suoi principi, fedele allo Stato costituzionale, fedele allo Stato pluralista dovrebbe rendere visibili questi cittadini nella società civile, nell’università, nei partiti politici, nel Governo. La prima linea di resistenza contro l’Isis sono gli europei mussulmani. In altre parole, parliamo di Stato democratico pluralista in Occidente ma non abbiamo esplorato in realtà appieno le possibilità offerte dal pluralismo nel costruire anche qui un’identità che sia ad un tempo occidentale e mussulmana. Ecco, credo che abbiamo ancora molte possibilità inesplorate, in Europa, quanto meno, e ora sentiremo se le abbiamo anche nei Paesi mussulmani, per reagire all’attacco alla democrazia pluralista, perché di questo si tratta, che viene portato dal fondamentalismo. Quello che credo occorra fare, e che eventi come questo contribuiscono a fare, è essere vigili, essere desti, non cadere mai in preda a quel terribile “a me che importa, sono forse io custode di mio fratello?” che ha citato Papa Francesco nel discorso a Re di Puglia, ricordando lo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
Queste parole, “a me che importa, sono forse io custode di mio fratello?” hanno già causato tanto dolore e stanno causando tanto dolore all’umanità: quindi non dobbiamo cadere in questo tranello. Dobbiamo esplorare queste possibilità e lo dobbiamo fare dialogando e incontrandoci. Grazie.
ANDREA SIMONCINI:
Grazie. Professor Ben Achour.
RAFAA BEN ACHOUR:
Grazie, cari colleghi, vorrei innanzitutto ringraziare gli organizzatori per avermi invitato a questo Meeting e anche per aver previsto un incontro su questo tema che è molto interessante, un tema che sembra destare preoccupazioni visto che ci sono tantissime persone, lo vedo dalla platea numerosissima. Signora Presidente, avevo previsto di parlare di Islam, Costituzione e democrazia, ma dopo avere ascoltato la mia collega illustre, Tania Groppi, che ringrazio perché lei in un certo senso è stata l’artefice del mio invito, vorrei tornare su alcuni punti che sono stati sollevati nelle sue parole. A questo scopo, vorrei anche fare alcune precisazioni, in particolare per i numerosissimi giovani che sono presenti qui, e che rappresentano il futuro dell’Europa, il futuro del mondo e anche il futuro del bacino del Mediterraneo. La prima precisazione, signor Presidente, che vorrei fare, è su questo concetto di Primavera araba: ebbene, l’espressione Primavera araba è stata inserita ufficialmente, e io sono tra coloro che in un certo senso insorgono contro questa definizione e rifiutano questo concetto. Per quale motivo? Perché questa espressione rappresenta una scorciatoia troppo facile e anche una schematizzazione semplificatrice di una realtà molto complessa. Non esiste una Primavera araba, c’è stato un inizio di Primavera tunisina ma negli altri Parabi, che sono precisamente 23, c’è stato invece un clima brumoso, grigio, molto all’insegna del temporale, dove non c’era nessuna traccia di gemme da primavera, un‘aria tempestosa ben lungi dal permettere lo schiudersi di fiori. Nel 2011, quattro Capi di Stato arabi hanno lasciato per così dire lo scenario internazionale in seguito a rivolte popolari: il Presidente tunisino Ben Alì, il Presidente egiziano Mubarak, il Leader libico, perché era così che si chiamava Gheddafi e il Presidente yemenita Ali Abdullah Salah. Questi quattro Paesi, oggi, che situazione vivono? In due imperversa la guerra, una guerra fratricida, drammatica, ogni giorno si contano migliaia di vittime: in due di questi Stati quindi possiamo dire che non c’è più uno Stato. E in Libia addirittura lo Stato è scomparso: questo purtroppo fa sì che non possiamo aspettarci che da domani si instauri un nuovo Stato. Per quanto riguarda i nostri fratelli algerini, Sherif ne parlerà sicuramente in modo più dettagliato rispetto a me, la situazione è sempre difficile. L’Egitto ancora non ha ritrovato un equilibrio, malgrado l’eliminazione dei Fratelli Mussulmani dalla scena politica di potere. Quindi, non riesco a capire perché si parli di Primavera araba. Vorrei sottolineare anche che l’espressione Primavera è stata utilizzata spesso dai giornalisti: nel ’69 si era parlato della Primavera di Praga e subito dopo è arrivato l’inverno, di botto, non c’è stata l’estate. Si è parlato anche della Primavera della piazza Tienanmen, una primavera brevissima, di un solo giorno: allora, perché questa scorciatoia? Perché questa espressione, come quella che crea quasi uno slogan di tipo turistico, della rivoluzione del gelsomino? Non c’è stata nessuna rivoluzione del gelsomino. In Tunisia c’è stata una rivoluzione della libertà e della dignità e qualcosa che sicuramente ha una consistenza completamente diversa dal gelsomino, anche se il profumo dei gelsomini è meraviglioso, ma dura soltanto 24 ore. Una seconda precisazione che vorrei fare, se me lo consentite, riguarda il terrorismo. Il terrorismo, lo sapete tutti, e gli amici italiani forse anche meglio di qualunque altro, non ha nazionalità né religione. Il Paese che ci accoglie oggi ha conosciuto il terrorismo e la democrazia italiana è stata scossa nel profondo. L’Italia ha conosciuto il terrorismo ideologico delle Brigate Rosse, ha conosciuto il terrorismo, anche, per così dire, dei gangster che hanno provocato la morte di centinaia di persone, nonché di tantissimi magistrati. Ebbene, proprio per questo non si può parlare di terrorismo islamico o mussulmano: in ogni religione ci sono degli integralisti, persone violente e persone tolleranti. E quindi, non voglio insegnare affatto agli europei tutti gli orrori che sono stati perpetrati in nome di guerre di religione. Signor Presidente, vorrei fare una terza osservazione che riguarda un distinguo che potrebbe apparire difficile. Una distinzione tra Islam, che è una religione monoteista, una religione comparsa nel VII secolo d.C., e l’islamismo, che è una dottrina politica che utilizza la religione per scopi politici, usando il fattore religioso come leva: infatti è un fattore che suscita un sentimento intrinseco all’essere umano, e si è certi, facendo leva su questo tasto, di riuscire a raggiungere un numero smisurato di persone. Di conseguenza, l’islamismo non è la dottrina di tutti i mussulmani, io sono mussulmano e fiero di esserlo, vivo bene la mia religione mussulmana ma non sono affatto islamista, rifiuto l’islamismo e lo combatto. Non ho ancora concluso, signor Presidente! Una quarta riflessione, se me lo consente, riguarda il costituzionalismo, una dottrina politico-giuridica, politica nella misura in cui si rifà ad un ideale di libertà, ma anche giuridica nella misura in cui assume una forma giuridica determinata, che è proprio quella della Costituzione. E la Costituzione è la norma suprema, quella che tra virgolette, per citare J. J. Rousseau, “è il cosiddetto contratto sociale”. Se stabiliamo un collegamento tra questi tre concetti – Islam, Costituzione e democrazia -, vedremo che parliamo di tre concetti anacronistici, o meglio, discronici: l’Islam è una religione comparsa nel VII sec. prima di Cristo, la democrazia è comparsa nel V secolo prima di Cristo, con il secolo di Pericle, e infine la Costituzione è comparsa nel XVIII secolo, se consideriamo la Costituzione americana del 1787 come la prima manifestazione del costituzionalismo. Spesso costituzionalismo e democrazia non sono andati di pari passo, i Paesi dell’ex impero sovietico pretendevano di essere democratici e si facevano chiamare Democrazie Popolari e avevano delle Costituzioni. Di conseguenza, il legame tra la democrazia liberale e la Costituzione non è stato sempre storicamente stabilito. Infine, signor Presidente, visto che sono tunisino, sono obbligato a parlare della Costituzione tunisina: una Costituzione adottata il 27 gennaio 2014. Ma vorrei sottolineare che la Tunisia ha già una lunghissima storia costituzionale, una lunga tradizione costituzionale, una tradizione che comincia da un movimento intellettuale di riformatori e che si manifesta sul piano giuridico nel 1857, con l’adozione di una dichiarazione di diritto che si chiama “il patto fondamentale”. Qualche anno dopo, quattro anni dopo per la precisione, questo patto fondamentale viene seguito dall’adozione della prima Costituzione del mondo arabo, la costituzione tunisina del 26 aprile 1861. Nel 1920, il primo partito politico del mondo arabo si chiamava Destur, che significa Costituzione, quindi il partito Liberale Costituzionale Tunisino, e nel ’34 poi c’è stato un rinnovamento di questo partito che si è chiamato Neo-Destur. Successivamente, c’è stata la Costituzione tunisina del 1 giugno 1959. Ecco, adesso faccio un salto temporale nella storia, poiché mi hanno passato un foglietto dicendomi che ho solo tre minuti, pensavo di averne sette. Concordo con quanto ha detto la collega Groppi: “La Tunisia oggi è un’eccezione”, un’eccezione a cui bisogna aggiungere anche il Marocco. Attualmente, questi sono i due Paesi arabi che sono riusciti a compiere una transizione democratica. La Costituzione tunisina è stata difficile da elaborare poiché, in un primo tempo, si è voluta realizzare una Costituzione teocratica, ma è proprio grazie alle resistenze espresse dal popolo tunisino in merito, e soprattutto grazie alla resistenza esercitata dalle donne tunisine, grazie alla resistenza di tutta la società civile tunisina, che questa Costituzione teocratica non è stata adottata. E quindi il progetto del giugno 2013, che ad esempio inseriva in uno dei suoi articoli che la donna è il complemento dell’uomo, ma non era specificato se era un complemento oggetto diretto o indiretto, oppure un complemento nominale, un complemento avverbiale e così via: tutta la grammatica era possibile. Signor Presidente, giungo ad una conclusione. Per concludere vorrei citare tre articoli, solo tre su 148 che formano la Costituzione tunisina. L’articolo 6, voglio leggerlo, se me lo consente. Non credo che sia un articolo comune alle Costituzioni contemporanee. Questo articolo parla dello Stato e dice: “Lo Stato protegge la religione e garantisce la libertà di credo, di coscienza nonché di esercizio del culto”. E al paragrafo 2, si aggiunge: “Lo Stato si impegna a diffondere i valori di moderazione e tolleranza”. Vorrei leggervi anche l’articolo 46: molti Paesi democratici sognano un articolo come questo. Che cosa recita questo articolo? “Lo Stato si impegna a proteggere i diritti acquisiti della donna e fa sì che questi diritti vengano consolidati e promossi. Lo Stato si prodiga anche affinché venga realizzata la parità tra l’uomo e la donna”. In Tunisia, per le elezioni, i partiti politici sono obbligati a presentare liste di candidati che presentino elenchi di questo tipo: uomo/donna, uomo/donna o donna/uomo, donna/uomo. Infine, signor Presidente, vorrei concludere citando l’articolo 49, un articolo che trae direttamente spiegazione dal patto internazionale sui diritti civili e politici. L’articolo 49 dice che “nessun attacco alle libertà e nessun attacco ai diritti è autorizzato, salvo i casi in cui sia necessario e proporzionale, e questo sotto il controllo della Corte Costituzionale”. Grazie, signor Presidente. Avevo preparato tutt’altro, per la verità, ma ho deciso di cambiare in corso d’opera. Grazie.
ANDREA SIMONCINI:
Grazie, professor Ben Achour. Professor İbrahim Kaboğlu.
İBRAHIM KABOĞLU:
Sono molto felice di essere tra voi questa sera, qui a Rimini, in occasione di questa sessione dedicata a Islam, costituzioni e democrazia. Il mio intervento ha il titolo seguente: La democrazia costituzionale in Turchia. Ovviamente la Turchia è uno Stato con determinate caratteristiche e contemporaneamente è uno Stato europeo e uno Stato del Medio Oriente. Ma prima di tutto: qual è l’originalità della Turchia? Sta nel fatto che è uno Stato raro, che è riuscito a conciliare l’Islam e la democrazia: e questo, grazie alla laicità. In effetti, secondo l’articolo 2 della Costituzione, la repubblica di Turchia è uno Stato di diritto democratico, laico, sociale e rispettoso dei diritti dell’uomo. Parlerò di quattro aspetti diversi nel mio intervento. Prima di tutto, farò un’introduzione, proprio per ricordarvi la storia della Turchia, poi parlerò dei diritti dell’uomo, poi del regime politico e infine parlerò della situazione della Turchia nel tempo e nello spazio costituzionale, cioè parlerò del costituzionalismo in Turchia e contemporaneamente nel bacino mediterraneo. La Repubblica di Turchia si basa sul concetto di stato-nazione e sul principio di laicità. La fondazione della Turchia moderna è il risultato del processo di trasformazione della Turchia da impero multinazionale a Stato nazionale e contemporaneamente da impero multiconfessionale a Stato laico. Il completamento di questo processo di cambiamento si colloca all’inizio del 1920. A seguito dei moti per l’indipendenza nazionale, la firma del trattato di Losanna del 1923 permise alla Turchia di diventare uno Stato indipendente. Ma questo trattato ha permesso contemporaneamente ai cittadini turchi non musulmani di avere uno status di minoranza religiosa. Dopo l’Impero ottomano, la Turchia ha conosciuto cinque grandi Costituzioni. La prima è del 1876, sotto l’Impero ottomano, la seconda è la Costituzione fondatrice del 1921, c’è un’altra Costituzione del 1924 e poi un’altra del 1961. Da ultimo, la Costituzione del 1982, che è quella attuale, ancora in vigore. Quali sono le caratteristiche di queste Costituzioni? Senza entrare troppo nel dettaglio, vorrei ricordare, dal punto di vista dei diritti dell’uomo, quali sono le caratteristiche delle Costituzioni, poi parlerò del regime politico della Turchia. Dal punto di vista dei diritti dell’uomo, devo dire che lo stato della Turchia è uno degli stati fondatori del Consiglio d’Europa. Come la collega diceva parlando del costituzionalismo del secondo Dopoguerra, il processo di internazionalizzazione dei diritti dell’uomo riguarda anche l’internazionalizzazione del diritto costituzionale. E questi sono stati sposati anche dal mio Paese. Proprio per questo motivo, la Turchia è uno Stato a tutti gli effetti europeo. Dal punto di vista dei diritti dell’uomo, che sono considerati l’infrastruttura normativa della democrazia, la nostra Costituzione adotta un approccio che si rifà alla costituzione liberale. Questo vale anche per quanto riguarda il regime politico. Da un quarto di secolo, vediamo alcune riforme molto significative a livello costituzionale nel campo dei diritti umani nella Costituzione come testo iniziale, che aveva introdotto alcune restrizioni non trascurabili che poi abbiamo riformato. Che cosa hanno prodotto queste riforme sui diritti umani? Prima di tutto, c’è stato un consolidamento delle libertà e dei diritti costituzionali. Inoltre, ha portato a una giurisdizionalizzazione dei diritti umani, abbiamo cercato di conformare lo status dei diritti umani all’Unione Europea. E poi c’è stata un’internazionalizzazione dei diritti umani. In caso di conflitto tra legge nazionale e uno strumento internazionale che riguarda i diritti umani, è lo strumento internazionale che ha la meglio e che deve essere applicato in via prioritaria rispetto alla legge nazionale. In Turchia, lo Stato di diritto è stato creato, stabilito grazie alla Costituzione precedente del 1961. La nostra costituzionale attuale aveva già introdotto alcune deroghe non trascurabili allo Stato di diritto. E questo alla fine ha portato alla creazione dello Stato di diritto. Ma questo non vuol dire che lo Stato di diritto sia in vigore al 100%. Abbiamo comunque un costituzionalismo nel Paese ancora incompiuto, che non ha ancora completato il suo processo. Parliamo adesso della laicità in Turchia. La nostra Repubblica si fonda su tre principi: la cittadinanza, l’uguaglianza e la laicità. Una cittadinanza allargata, approfondita, è fondamentale proprio per l’esistenza del principio di uguaglianza e la laicità non è concepibile senza un principio di cittadinanza basato sul principio di uguaglianza. Da noi, in Turchia, la laicità è stata costituzionalizzata nel 1937. Attualmente, la laicità fa parte di tutti i dispositivi che non possono essere modificati all’interno della Costituzione. E l’articolo 24 della Costituzione proibisce la strumentalizzazione della religione a scopi politici. Ad esempio, noi critichiamo molto il nostro Governo che è al potere da alcuni anni, proprio perché ha strumentalizzato la religione a scopo politico. Quindi, la laicità in Turchia non è in pericolo. E’ un principio comunque fragile, e per capirlo bisogna capire qual è il regime politico attuale. In Turchia, come in Italia, il nostro regime politico è quello parlamentare. Il regime parlamentare è stato instaurato dall’Impero ottomano in maniera graduale, ma la nostra Costituzione ha consolidato il potere esecutivo. C’è stata recentemente una riforma che ha modificato lo scrutinio del Presidente della Repubblica che, fino al 2014, veniva eletto, come da voi, dal Parlamento. L’anno scorso, però, per la prima volta, il Presidente della Repubblica è stato eletto come in Francia dal suffragio universale. E quindi, grazie a questa modifica, il nostro Presidente della Repubblica, il signor Erdogan, sta cercando di introdurre un regime presidenziale o semipresidenziale. Attualmente in Turchia il dibattito si concentra proprio su questo tema, e cioè se la Turchia dovrà mantenere il proprio regime parlamentare democratizzando sempre più questo regime oppure se il signor Erdogan, insieme al suo partito, riuscirà a introdurre un regime presidenziale. Ci sono state delle elezioni legislative il 7 giugno e il partito di Erdogan ha perso la maggioranza, gli sono mancati 18 deputati. Quindi, speriamo in elezioni anticipate che possano garantire una maggioranza assoluta, le avremo fra due mesi. Adesso vediamo qual è la situazione e il ruolo della Turchia, anche legato al bacino mediterraneo. Vediamo la Turchia nel tempo e nello spazio costituzionale. Dato che i colleghi hanno già detto riguardo al costituzionalismo, io non mi concentrerò su questo ma su alcune caratteristiche delle Costituzioni contemporanee. La Costituzione è l’autobiografia di un popolo: sì o no? Forse la Costituzione può anche essere concepita come una tecnica per raggiungere la libertà. E una terza caratteristica delle Costituzioni contemporanee è che c’è un sistema di checks & balances, di pesi e contrappesi. Io mi occupo proprio di studiare questi meccanismi di pesi e contrappesi, e di come una Costituzione contemporanea possa introdurre questi meccanismi di checks & balances a vari livelli per garantire una separazione dei poteri e quindi un equilibrio tra la società e lo Stato. Nel bacino mediterraneo, vale anche il termine transcostituzionalismo, cioè la costituzionalizzazione del territorio da una parte e dall’altra la territorializzazione della Costituzione. In effetti, giusto per farvi capire, la convenzione di Barcellona, a cui Tunisia, Turchia e Italia hanno aderito, può comunque offrire uno strumento importante di costituzionalizzazione del territorio, perché il suo obiettivo è quello di creare una zona integrata che merita di essere protetta all’interno del bacino del Mediterraneo. Partendo da questo testo, si può parlare di costituzionalismo mediterraneo? Sì o no? Forse è troppo presto per farlo, ma vediamo comunque che è in corso un processo di costituzionalismo nello spazio mediterraneo e questo ha avuto inizio nel 2010. Dall’Egitto al Maghreb in Tunisia, ci sono due meccanismi costituzionali: prima di tutto la giustizia costituzionale, che dà alla Costituzione il proprio valore normativo e il transcostituzionalismo,, che può aiutarci a introdurre questo concetto di costituzionalismo nel bacino mediterraneo. Le Corti costituzionali possono trovare soluzioni simili a problemi analoghi, in una società islamica o cristiana o in qualsiasi altra società, anche atea. Se i problemi sono analoghi, le Corti costituzionali possono trovare soluzioni analoghe e quindi la giustizia costituzionale ci sembra essere la pietra miliare del costituzionalismo e del processo costituzionale nel bacino mediterraneo. Affinché la giustizia costituzionale assuma il ruolo di guardiano, bisogna prima di tutto accettare il principio di coesistenza costituzionale di tutte le libertà e di tutti i diritti economici, sociali, ambientali, ecc., come ha fatto la Costituzione tunisina. La Costituzione deve rispondere, garantire l’indipendenza dei giudici e gli organi nazionali devono essere accessibili agli individui che sono rimasti vittime di violazioni delle libertà: è proprio il motivo per cui in Turchia abbiamo adesso il ricorso individuale alla giustizia. Ovvero, dobbiamo garantire tramite questo anche il rispetto dei diritti dell’uomo. Qual è la differenza fra Turchia e Paesi del Medio Oriente? La Tunisia e l’Egitto cercano di garantire l’alternanza politica, la Turchia lo faceva già nel 1950. In Turchia abbiamo anche una separazione del potere temporale e spirituale. La Costituzione è un testo temporale, non è un testo spirituale e questo è molto importante per la Turchia. Per concludere, devo sottolineare l’importanza della duplice dimensione della democrazia: la democrazia non può ridursi a una democrazia maggioritaria. La democrazia deve essere una democrazia pluralista, se la democrazia maggioritaria contiene comunque degli aspetti tecnici, l’altra democrazia riguarda più un aspetto etico. Se accettiamo che i diritti umani siano davvero l’infrastruttura normativa della democrazia, bisogna comunque accettare contemporaneamente le due dimensioni della democrazia. Grazie della vostra attenzione.
ANDREA SIMONCINI:
In conclusione, il Vicepresidente della Corte egiziana, professor Sherif.
ADEL OMAR SHERIF:
Vi ringrazio tantissimo. È stato un piacere seguire questi interventi ma era così comoda la poltrona che stavo per addormentarmi. Quindi preferisco alzarmi in piedi. Vi prometto di non eccedere nel tempo che mi è stato assegnato. Innanzitutto, sono molto grato al Presidente di questa sessione e anche ai miei colleghi da cui ho appreso moltissimo: è stato veramente un incontro molto interessante. E provo anche molta umiltà nell’essere invitato qui a Rimini, al Meeting che mi porta di nuovo in un Paese che adoro, che mi piace, a cui mi legano tantissimi ricordi. E’ veramente un grande piacere per me tornare qui di nuovo. Penso che oggi tutta questa discussione è stata un po’ su diversi versanti, abbiamo parlato di nazione, abbiamo parlato di costituzionalismo, di religione, dell’Islam in particolare e della partecipazione pubblica in questi contesti. Il tutto si è riflesso molto sulla Primavera araba, certamente. Queste sessioni diventano anche un po’ complicate, è difficile riuscire a trovare dei termini della discussione. Quindi, potremmo essere d’accordo o non essere d’accordo sui punti che sono stati presentati: ciascuno di noi ha le proprie idee e queste idee devono essere rispettate dagli altri. Tuttavia, vediamo che c’è una molteplicità di opinioni e non vogliamo che comunque le nostre siano soppresse da questa grande varietà. Non c’è molto tempo per dare una spiegazione estesa di tutto l’argomento affrontato, ricordiamoci che usiamo anche diverse lingue per arrivare a tutte le persone qui presenti. Alcuni non sono esperti del tema ed è quindi necessario utilizzare la terminologia nella maniera più facile possibile. Potrei riassumere il tutto in due grandi argomenti: il primo riguarda il futuro della Primavera araba, se c’è un futuro di questo movimento; e il secondo, che è il più importante, è questo: l’Islam è davvero una minaccia? Dobbiamo veramente pensare all’Islam da tutti questi punti di vista, anche dal punto di vista costituzionale, come una minaccia che non può trovare un posto nella cultura occidentale. Comincerò dal primo argomento, riguardo alla Primavera araba, perché alcuni oggi hanno messo in dubbio la presenza, la realizzazione di una Primavera araba. Ho anche sentito che, addirittura, c’è stata forse una Primavera tunisina, non una Primavera araba che si è estesa a tutto il Nord Africa. È un’idea che rispetto ma che non posso confermare, direi che tutto sia cominciato in Tunisia e che poi gli altri Paesi hanno seguito questo processo. Vorrei tornare al gennaio del 2011, a questo proposito. A metà gennaio ero in Georgia per un incontro, con i colleghi che stavano osservando gli avvenimenti della Tunisia. C’erano persone che uscivano in strada, che si rivoltavano. Sembrava che i nostri amici tunisini avessero avuto successo in quello che stavano realizzando, ma non c’era qualcosa di simile a quello che stava avvenendo in un altro Paese, l’Egitto? Prima di venire qui, a questo incontro di persone che sono anche molto esperte di studi politici, la risposta era no: questo non sarebbe mai potuto succedere in Egitto, dicevano gli esperti, perché tutti sapevano quanto fosse oppressivo il sistema politico e quanto fosse difficile, per esempio, svolgere manifestazioni pubbliche per strada. Dieci giorni dopo, gli egiziani hanno iniziato a riversarsi per le strade e, nel giro di tre giorni, hanno cambiato la forma non solo del loro Paese ma di tutta la storia dell’intera regione. Forse, all’inizio hanno, sì, imitato i colleghi tunisini, però dopo hanno intensificato l’esperienza e hanno portato qualcosa di unico. Eppure all’inizio nessuno in Egitto credeva a quello che stava succedendo, a quello che era successo, perché eravamo tutti convinti che il regime fosse così potente che magari stava mostrando un po’ di tolleranza per alcuni giorni, però dopo avrebbe ripreso tutto il controllo, opprimendo le persone, che saremmo subito ritornati sui vecchi binari. Io stesso ricevevo telefonate da colleghi da tutto il mondo che erano preoccupati per la mia situazione, volevano capire cosa stava succedendo e cosa poteva succedere nei tre giorni successivi. E la mia risposta, sicuramente, era: “non lo so, però mi sembra che il regime riprenderà il controllo della situazione”. E poi avvenne il miracolo. Cadde il regime e la gente vinse quella battaglia. Perché l’hanno fatto? Perché gli egiziani hanno sofferto a lungo, non per decenni ma per secoli: quando studio la storia dell’Egitto, dall’epoca dei Faraoni fino ad oggi, tutte le varie dinastie, c’era un’oppressione continua che è stata esercitata da una dinastia dopo l’altra, fino a quando abbiamo raggiunto quello che abbiamo raggiunto nella rivoluzione del ’52, quando abbiamo ricevuto una sorta di sistema democratico in teoria e nella realtà un regime oppressivo. Potevamo avere una Costituzione stupenda, scritta in maniera meravigliosa. Se la leggete, dite: “Mamma mia, ma che roba è? Qui i diritti umani sono tutelati, ci sono tre rami del Governo che si riequilibrano tra loro, c’è una separazione dei poteri, sono tutti responsabili per gli altri. Cosa volete di più?”. Però la realtà, qual era? Non si trattava tanto del testo ma di come quel testo veniva messo in pratica. E qui entra in gioco il ruolo dei giudici e della magistratura, perché i giudici possono fare anche esperienze comparative da tutto il mondo. Sono coloro che possono dire che le Costituzioni non sono la lettera morta che leggiamo nei documenti scritti. Ma vedono quello che succede nella realtà. Noi avevamo questo bellissimo documento che non veniva messo in pratica, era stato sospeso e distrutto quasi da una legislazione particolare che appunto dava un’immagine di sé ma poi succedeva dell’altro. E nacque l’idea di avere anche delle ambizioni politiche: ma non avevamo nessuno del Paese che aspirasse ad entrare nell’arena politica, perché c’era il dominio di un gruppo specifico che non consentiva a nessuno l’ingresso. L’essere umano medio non pensava nemmeno di potere intraprendere una carriera politica. E quindi, a cosa portava tutto questo? A perdere interesse. Le persone erano disinteressate, non tanto alla politica, ma al proprio Paese: qualsiasi cosa succeda non ci sarà poi una ricompensa, un ritorno. Meglio lasciar perdere. Ma poi è successo il miracolo, le persone hanno raccolto la sfida e si sono riprese il controllo. E ci sono conseguenze dallo sviluppo di tutto questo, che non riuscirò ad approfondire ora. Ma vorrei dare una risposta alla domanda riguardo alla continuazione della Primavera araba e a quale sia il suo futuro. Per adesso, la tengo in sospeso, ve la dirò alla fine dell’intervento, fra cinque, sei minuti. Cosa possiamo dire della minaccia dell’Islam? L’Islam è davvero una minaccia? La gran parte di noi non sa nemmeno di cosa sta parlando, quando parla di Islam: c’è un approccio ispirato a stereotipi o a idee un po’ confuse. Uno pensa al terrorismo, alla violenza, quando si parla di Islam; si pensa alla diseguaglianza, alla condizione delle donne. Sono tutte critiche che vengono attribuite a questo rapporto che c’è nei confronti di questa religione. Ma non si tratta di parlare solo di relazioni, quando parliamo di Islam: si parla di un sistema completo, che si basa certamente su delle relazioni e sui precetti divini che controllano queste relazioni. Le persone per natura sono molto religiose, molti di noi, se non tutti noi, crediamo in Dio e se uno crede in Dio, deve seguire i suoi precetti. Quando si arriva all’Islam, tutto il concetto sta nel fatto che Dio ci ha dato questa vita e ci ha dato un sistema che è la Sharia, e questa Sharia regola tutti i nostri affari quando ci mettiamo in relazione come individui, come Paesi e anche con Dio. Quindi, bisogna osservare la parte della devozione e la parte dell’azione. Però, il problema è che non è facile identificare quali siano queste regole, perché quando Dio ha trasmesso tutti i suoi precetti nei libri sacri, attraverso i profeti, ci sono testi unici ma non sono completi, non ricoprono tutto. Quindi, la nostra missione come esseri umani è andare alla ricerca delle regole che Dio vuole che siano applicate nelle varie situazioni specifiche. Questo lo vediamo, lo esaminiamo attraverso diverse fonti, diverse prassi, al fine di giungere a una giusta conclusione: apparentemente, non tutti hanno i titoli per svolgere questo compito. Ma anche coloro che hanno i titoli per poterlo fare, potrebbero arrivare a conclusioni controverse. E’ sicuramente la misericordia di Dio che mostra la diversità delle persone. Pertanto, potremmo trovarci d’accordo oggi su una cosa su cui non siamo d’accordo domani. Quindi, c’è tutto uno sviluppo di aperture e di chiusure. Adesso si parla del diritto islamico che è stato sviluppato nel tempo. Però ci sono norme che non sono definitive, che possono essere cambiate. Oggi a uno non è permesso commettere un certo reato, ma potrebbe poterlo fare domani, perché ci sono fattori che devono essere presi in considerazione per poter giungere a una conclusione. Quindi, abbiamo un sistema flessibile che è in grado per davvero di rispondere alle necessità delle persone in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. Ci sarebbe molto da dire di questo processo di sviluppo del diritto islamico, che cosa vuol dire diritto, però l’oggetto finale ha a che vedere con la giustizia, fare ciò che è giusto e non consentire che sia fatto ciò che è sbagliato. E’ lo stesso concetto che sta anche nella relazione con il divino. Tutte le fedi monoteistiche si trovano d’accordo, sicuramente senza eccezioni, su questo punto: questa cosa deve essere fatta in questo modo, quest’altra cosa non può essere fatta, questa è l’idea. E quando si parla di Islam, si parla anche di continuità, di altre forme di relazione. Alcune di queste regole seguono lo stesso percorso che si trova anche in altre religioni, quindi non bisogna sorprendersi del fatto che anche in certe aree dove l’Islam è attaccato, ci sono regole che vengono prese, per esempio, dall’Antico Testamento. Per esempio, si parla spesso della possibilità della poligamia nell’Islam, si critica questa cosa. Però, se si studiano i testi dell’Antico Testamento, si trovano riferimenti anche alla poligamia. Certamente ci sono poi stati movimenti e sviluppi per cui ad un certo punto la poligamia è stata vietata, però le regole sono lì presenti, ci sono alcune opzioni che si possono interpretare. Adesso c’è questo accordo tra le scuole islamiche per cui alcuni comportamenti, alcune attività non sono vietate rispetto invece alla fase in cui ci sono altre religioni per cui quelle stesse cose sono vietate: abbiamo un sistema di diritto veramente complesso. E questa complessità ci dovrebbe spingere a non guardare al tutto come a una minaccia ma a cercarvi la compatibilità. Ci sono sistemi contemporanei che potrebbero essere inseriti in questo contesto, in questo quadro: noi che lavoriamo negli studi comparati, cerchiamo di capire quali sono le somiglianze e quali sono le differenze per cercare di raggiungere una valutazione finale che faccia veramente giustizia a quella che è la giustizia in sé. E quindi, qual è il futuro della Primavera araba? Torniamo a questa domanda. Ho detto all’inizio di fare attenzione alla Costituzione, allo statuto nel testo costituzionale: anche se si riesce a sviluppare un buon testo costituzionale, magari non è la fine dei problemi ma potrebbe essere solo l’inizio, soprattutto nella gran parte dei Paesi della Primavera araba, dove c’è stata anche esperienza di situazioni disastrose nel redigere la Costituzione, nel prepararla. Abbiamo veramente visto esperienze drammatiche in Afghanistan, in Iraq: i nostri amici degli Stati Uniti hanno fornito la loro esperienza in quei contesti, ma qui possiamo produrre un bellissimo documento scritto che però non c’entra niente con l’ambiente. E non basta guardarci alla televisione: venite da noi, a sentire il nostro dolore, a sentire i problemi che stiamo vivendo. E quando sentite tutto questo, ecco che siete in grado di sviluppare un senso che è compatibile con quello che abbiamo anche noi. Questo è quanto manca in alcuni dei documenti costituzionali: sta poi alle Magistrature dei vari Paesi, che sono gli ultimi arbitri della decisione finale, dire se ci sia un’esperienza di Costituzione di successo o valida, ma è importante non concentrarsi solo ed esclusivamente sul testo. E in questo senso, la lotta continua in quei Paesi. Apparentemente ci sono moltissime difficoltà ma tutto quello che si è ottenuto è stato raggiunto dalle persone, ci sono stati progressi. E forse non possiamo sapere cosa ci riserva il futuro, però abbiamo delle aspettative, delle speranze per un futuro migliore. Le persone oggi non sono più quelle che erano ieri, che erano un tempo. Una volta erano molto negative, adesso sono lì pronte a pretendere i loro diritti di libertà, riescono a fare emergere i punti positivi che hanno e che le porteranno sicuramente ad avere accesso ad un futuro migliore. Vorrei concludere il mio intervento a questo punto, sono molto grato a tutti voi e sarò lieto anche di rispondere alle vostre domande. Grazie.
ANDREA SIMONCINI:
Visto il tempo che è trascorso, sottolineo solo un punto che però mi sembra centrale rispetto alla discussione che abbiamo fatto. Tutte le volte che proviamo a dare un giudizio concreto e non astratto, partendo dalla situazione, ci si rende conto che la realtà non sopporta le semplificazioni, che la realtà è sempre molto più complessa di quello che noi riusciamo a immaginare. Stasera abbiamo ascoltato che tre Paesi, che spesso mettiamo insieme nella stessa definizione – Tunisia, Egitto e Turchia – hanno storie diverse, tre culture diverse, tre tradizioni istituzionali diverse. Abbiamo sentito che non basta avere una Costituzione in cui c’è scritto di tutto e di più sui diritti per avere quei diritti, abbiamo ascoltato che quello che è decisivo è quello che c’è sotto la Costituzione, cioè che la società condivida, viva quei valori che poi i testi costituzionali scrivono e che questo è il futuro di questi popoli. Però c’è una cosa ancora più importante, che abbiamo visto: cosa vuol dire non semplicemente parlare di un argomento ma vedere persone che vivono dentro queste situazioni, che dialogano tra di loro e che esprimono la loro posizione su quello che sta succedendo. Ecco, io penso che questo sia l’auspicio e la possibilità più interessante che parte da luoghi come Rimini, la possibilità non semplicemente di soffermarsi all’apparenza dei problemi ma di scendere dentro e rendersi conto che in futuro è decisivo che questi Paesi sviluppino, come abbiamo ascoltato adesso, le potenzialità che hanno. Tutti gli interlocutori che sono qui stasera soffrono personalmente le conseguenze dell’affermazione di libertà che stanno facendo, vi assicuro di questo. Perciò li ringrazierei ancora tutti con un applauso per la partecipazione e il contributo che ci hanno dato. L’unica cosa, prima di lasciarvi andare di corsa a mangiare: ricordo che prosegue la campagna di fundraising che fa il Meeting di Rimini. Sapete che la situazione economica per nessuno è semplice, e quindi anche per un’istituzione come il Meeting ci sono dei punti in cui si può donare nella fiera, nel padiglione C1, A1, A3 e C5, la possibilità di donare un supporto per il Meeting, perché vada avanti indipendente. Grazie ancora, buon Meeting a tutti.