Chi siamo
“Io mostro la profondità dell’animo umano”: Dostoevskij profeta dell’età moderna
Hanno partecipato: Vittorio Strada, Ordinario di Lingua e Letteratura Russa all’Università di Venezia; Jury F. Karjakin, Scrittore.
Strada: Vogliamo in questo incontro parlare di Dostoevskij, non come se ne parla nei convegni scientifici, tra studiosi e specialisti, o in un’aula universitaria dove si fanno dei corsi su questo scrittore, ma come figura che ha per tutti noi – come dimostra la scelta del titolo del Meeting – un ruolo emblematico e centrale. Dostoevskij infatti non è per noi una contemporaneità, ma una presenza, per via della sua vitalità nella vita spirituale e storica del nostro tempo.
Perché è stato scelto questo scrittore piuttosto di un altro? Perché ha un’importanza particolare, come nessun altro scrittore. Se cerchiamo di caratterizzarlo, di localizzarlo, in una “famiglia di grandi spiriti” in cui possa trovare un sito adeguato, i nomi che ci vengono in mente spontaneamente sono quelli del mondo classico: Omero, Dante, Shakespeare, Goethe… questi nomi danno già la dimensione, l’altezza, il senso che noi abbiamo della sua eccezionalità e della genialità; ma quello che c’é di più vivo e di vitale in Dostoevskij è ancora oltre, è il fatto che ci parla come se avesse già vissuto a suo modo i problemi fondamentali del nostro momento storico di transizione di fine secolo e di fine millennio. È chiaro che i problemi oggettivi ognuno di noi ed ogni grande spirito li vive a suo modo, all’interno di un suo orizzonte: ma Dostoevskij rispetto a tutti i grandi scrittori – anche l’altro grandissimo russo, Tolstoj – ha resistito più di ogni altro, con i suoi romanzi, alla prova del tempo.
Si parla spesso della profeticità di Dostoevskij; penso che sia opportuno mantenere l’uso di un termine così impegnativo per gli autentici profeti. Direi piuttosto che Dostoevskij è stato un veggente, un pre-veggente, un uomo che ha scritto la storia (in senso convenzionale, simbolico) del nostro secolo in anticipo, che ha visto dove si sarebbe evoluta la società europea e quella russa in particolare, vivendo a Pietroburgo e a Mosca tra il 1821 e il 1881. Nessun altro scrittore né russo né europeo occidentale ha avuto questa capacità di visione, che non è una capacità di cronaca o di anticipazione degli avvenimenti, ma che è stata la capacità di vedere le forze in collisione, i sistemi di valore che si sarebbero scontrati e distrutti a vicenda, distruggendo o comunque trasformando in modo catastrofico la civiltà europea cristiana.
Il punto di vista di Dostoevskij è questo: egli guarda tutto tramite la sua veggenza, la sua lucidità, la sua profondità. È il punto di vista cristiano. Possiamo certamente partecipare alla polemica intra-cristiana tra le varie confessioni, ortodossa e cattolica: sappiamo quanto fosse vivace e addirittura astioso a volte l’anticattolicesimo di Dostoevskij, ma lo consideriamo come una sua debolezza. Troviamo in lui anche un’altra debolezza (queste debolezze ci invitano a non santificarlo!): il suo antisemitismo. Queste debolezze che troviamo in Dostoevskij pensatore, come altre che troviamo anche nel Dostoevskij uomo, non scalfiscono minimamente la forza, l’integrità, la superiorità della sua personalità e della sua creatività, e questo conferma che siamo di fronte ad un fenomeno eccezionale.
Attraverso la lettura di Dostoevskij, che universo conosciamo? Come possiamo definire il mondo di Dostoevskij? Come lo conosciamo attraverso i romanzi? Non dimentichiamo che Dostoevskij è anzitutto un romanziere: ha scritto anche dei saggi di carattere politico, ma prima di tutto è un grande, il più grande romanziere dell’Ottocento e forse di tutti i tempi. Ci troviamo di fronte un universo enorme, smisurato, addirittura eccessivo. È un’eccessività, una grandezza, qualche cosa che ci sfugge, che non possiamo dominare. Ci sono grandi, grandissimi scrittori, come Tolstoj, Balzac, Dickens, scrittori ottocenteschi straordinari; tuttavia, essi hanno creato degli universi che noi percorriamo con più sicurezza. In Dostoevskij invece ci smarriamo.
Il primo paradosso che Dostoevskij ci dà – era uno scrittore paradossale che pensava per paradossi geniali – è questo: egli è uno scrittore labirintico. Nel labirinto delle opere del suo universo romanzesco è facile perdersi. Questo universo però ci aiuta in qualche misura ad orientarci nel labirinto in cui viviamo nel nostro secolo, dove è così difficile orientarsi. Abbiamo la luce della fede, che è l’orientamento superiore: ma come possiamo da questo abisso di luce che ci dà la fede concretamente orientarci nel mondo storico, nel mondo quotidiano, in questa selva di contraddizioni e di oscurità, di ingiustizie e di malefici che quotidianamente ci circonda, attraverso la stampa, il video, i mass-media… A tutto questo noi ci abituiamo, e questa assuefazione al male è la cosa peggiore che ci possa accadere. Anche se siamo illuminati dalla luce della fede, come possiamo poi portare questa luce così sublime al livello della quotidianità? Come dirimere il bene dal male, nel concreto, come impegnarci in questo mondo? Credo – e lo dico quasi con presunzione – che la lettura dei romanzi di Dostoevskij possa aiutarci in questo difficile compito di orientamento nel mondo in cui viviamo, sempre più complesso e intricato, opaco e difficile, arduo e breve: orientarci nel senso di una analisi responsabile e di una collocazione della nostra energia morale. Questo perché Dostoevskij, e anche questo può sembrare un paradosso, non è uno scrittore edificante o didattico, non è un predicatore che ci dice di volta in volta cosa è bene e cosa è male, cosa si deve e cosa non si deve fare. Se noi leggiamo ad esempio Delitto e Castigo come una predicazione o una illustrazione del fatto che non si deve uccidere, precetto evidentemente sacrosanto, non possiamo non dirci: sappiamo che questo precetto esiste, perché scrivere un romanzo? Se non ho appreso quel precetto prima della lettura del romanzo, non sarà certo il romanzo a convincermene!
Dostoevskij ci insegna invece che nel concreto della vita il confine tra bene e male certamente esiste – e come cristiano Dostoevskij non poteva certo ipotizzare con un nichilismo facile che questo confine fosse evanescente o inesistente –, ma non si traccia con un righello. Ci sono situazioni, e sono le situazioni decisive esistenziali nelle quali avviene la scelta della nostra vita, in cui il confine tra bene e male è arduo. Tutti i suoi personaggi ce lo dicono, pur senza mai venir meno all’esigenza, alla volontà, all’impegno di cercare di tracciare questo confine.
Come dicevo prima, Dostoevskij è antididattico, però è al tempo stesso altamente, sublimamente didattico, perché ci insegna la difficoltà di vivere e la necessità dell’impegno in questa vita, contro il facile nichilismo o il facile relativismo di chi si adagia nell’indifferenza mortifera dell’accettazione dell’impossibilità di discernere il bene dal male, di chi afferma che i valori cambiano nel tempo e nello spazio, e che quindi l’importante è solo sopravvivere abbastanza comodamente in un mondo di consumi. L’insegnamento che si trae da colui che non dava e non voleva dare insegnamenti, è l’insegnamento alla ricerca, alla complessità morale della vita, alla difficoltà esistenziale illuminata costantemente dalla luce della fede. L’universo di Dostoevskij è infatti un universo “cristo-centrico”; la presenza di Cristo nel mondo romanzesco, letterario, e creativo di Dostoevskij, è una presenza forte, come in nessun’altro scrittore moderno.
Da Dostoevskij può arrivare anche – lo richiamo con un altro eccesso di presunzione – un nuovo precetto, proprio dall’espressione che è stata trovata dagli organizzatori del Meeting: “Davvero tutto è splendido perché tutto è verità”. Cerchiamo di capire il contesto da cui è stata tratta questa frase: sono le parole dello starets Zosima, sono le parole di un santo; le parole di san Francesco potrebbero essere altrettanto vive, profonde, e provocanti. Sono provocanti perché il mondo in cui viviamo sembra smentire queste parole, ed anche il mondo di Dostoevskij, un mondo di delitti, un mondo di sottosuolo, un mondo di demoni.
Ma allora, questa espressione così radiosa, luminosa, gioiosa, abbagliante e sconcertante, che significato ha? Anzitutto, una frase così la può dire solo un santo, come lo starets: noi, che santi non siamo, siamo come illuminati di riverbero da questa luce di santità che non è nostra, e il precetto di amare il tuo prossimo come te stesso diventa quello di amare il creato come te stesso, il creato e le sue creature (quindi anche il tuo prossimo che è creatura per eccellenza). Si tratta dunque di un precetto che ha un’attualità sbalorditiva: l’amore per il mondo va al di là di tutte le banali, o anche importanti, ecologie, diventa piuttosto una “ecosofia”, una saggezza nuova illuminata dalla fede, saggezza che l’ecologia non ha, in quanto basata sullo stesso principio egoistico e utilitaristico che ha portato alla distruzione dell’ambiente.
Abbiamo dunque da una parte questo abisso di luce, questo richiamo all’amore per il creato, dall’altro una fenomenologia del male che non c’é in nessun’altro scrittore, neanche in Sartre; sono i fiori del male quelli che Dostoevskij ci presenta, che vanno al di là anche dei baudelairiani fiori del male.
Gli scrittori che possono essere accostati a Dostoevskij sono Nietzsche (che non era cristiano ma la cui ribellione atea può essere compresa appieno soltanto all’interno di una cultura cristiana), Kierkegaard, Pascal (e infatti nella splendida monografia su Pascal scritta dal grande teologo cattolico Romano Guardini vi sono continui riferimenti a Dostoevskij), Kafka… tra gli scrittori del ‘900, Dostoevskij ha agito su tutti, tutti gli hanno tributato il loro riconoscimento o hanno polemizzato con lui. Il Dostoevskij del ’900 è uno scrittore che meno di tutti gli assomiglia, Kafka, anch’egli tormentato dalla domanda del male, sebbene nel contesto religioso e mistico ebraico, non, come Dostoevskij, in quello della mistica cristiana e della tradizione greco-ortodossa.
Karjakin: L’idea dominante la produzione di Dostoevskij è l’idea della morte che minaccia tutta l’umanità: una morte, la mia morte, la tua morte, la morte personale. Tutta la vita dell’uomo è minacciata da questo, ed ogni nazione lo sa, o lo saprà ben presto; ma mai è esistito il fatto che l’umanità abbia raggiunto la morte pratica. Nessuno ha scritto così profondamente della paura davanti alla morte individuale come Tolstoj, ma nessuno ha scritto della paura dell’umanità davanti alla morte come Dostoevskij. Non soltanto l’uomo ma l’umanità intera è venuta alla luce come un essere che, a differenza di tutti gli altri, non rischia l’omicidio ma il suicidio.
Possiamo aggiungere alla definizione dell’uomo come homo sapiens il fatto che questo homo sapiens con la sua sapienza è destinato ad uccidere gli altri e ad uccidere se stesso. A noi sembra che soltanto dopo Hiroshima e l’uso delle armi atomiche o soltanto quando si sono scoperti gli orrori della crisi biologica, tutta l’umanità ha rischiato la morte: ma non è così, fin dall’inizio questo era in qualche modo programmato nella natura umana. L’inventiva degli uomini si è manifestata in questo continuo perfezionamento delle armi per uccidere; questo è il progresso più grande che si è arrivati a raggiungere. Inoltre, l’uomo compie delle torture con questi strumenti, torture fisiche e spirituali; le belve possono fare delle risse ma non si torturano l’un l’altra, non si umiliano l’un l’altra.
L’uomo ha paura soprattutto dello specchio, di un vero e onesto, spirituale specchio. A noi piacciono molto gli specchi che trasformano le cose, che ci mostrano così come vorremmo essere: invece continuiamo a rompere gli specchi onesti, oppure non li guardiamo. E Dostoevskij è esattamente uno di questi specchi onesti. Si ha paura di Dostoevskij se si è spiritualmente vili. A differenza di Kierkegaard che ha detto che il mondo perirà tra le ovazioni, Dostoevskij invece è un uomo, un artista e uno scrittore che non ha mai perso la speranza – magari anche solo un centesimo – anche nelle situazioni più tremende. L’uomo ha sempre una ultimissima chance, e di questo Dostoevskij era convinto: l’umanità ha delle speranze di salvarsi ma soltanto e unicamente attraverso un eroismo spirituale.
In questo senso penso che tutta l’arte, innanzitutto la nostra, – Leonardo, Michelangelo… – è un’arte che può definire e rappresentare una traduzione laica, in una lingua mondana, delle verità di salvezza, salvifiche, della Bibbia e del vangelo.
Tutta l’arte europea è per questo un po’ cristiana, soprattutto Dostoevskij. Tolstoj dice: “Più a fondo vai nell’uomo, in te stesso, e più viene fuori quello che abbiamo in comune”. Sembrerebbe l’opposto, la profondità dell’animo umano sembrerebbe farmi andare profondamente in me e allontanare da tutti gli altri, ma è il contrario: più vado a fondo in me e più mi avvicino e mi apparento con gli altri, perché nella profondità di ciascuno c’é un principio comune spirituale. Nessuno più di Dostoevskij è stato così malato e minacciato dal pericolo del suicidio dell’umanità e nessuno ha trovato, come lui, delle forze interiori e spirituali all’interno dell’uomo.
Strada: L’unico fondamentale valore, radice di ogni altro, per l’uomo cristiano e per Dostoevskij, è la libertà spirituale. Il cuore umano è il campo di battaglia in cui si scontrano forze opposte, ed è campo di battaglia anche la società umana, la famiglia, la vita economica, la vita tra gli Stati. C’é una continua serie di sempre più ampie aree: la cultura, la ricerca religiosa stessa, in cui questo conflitto si presenta in forme varie e sotto vesti diverse.
Questa lotta è descritta in maniera esemplare nei romanzi dostoevskijani: la rappresentazione di questo senso del conflitto e dell’insoddisfazione, della ricerca e della volontà di trascendimento, rende Dostoevskij uno scrittore russo ma anche occidentale. Questo perché il senso della ricerca dolorosa, dell’aspirazione a qualche cosa che ci deve essere ma che quotidianamente non è dato o non è dato a tutti, è tipico della cultura europea cristiana.
Alla base di questo senso del conflitto c’è quella libertà cristiana di cui Dostoevskij è stato il più grande difensore e la coscienza più profonda: è una libertà che egli ha sentito in tutte le sue antinomie e culmina in due momenti diversi della sua produzione, i romanzi Memorie del sottosuolo e I demoni da una parte, e dall’altra la figura di quel Cristo enigmatico ne La leggenda del grande inquisitore, all’interno de I fratelli Karamazov. Da una parte abbiamo l’uomo del sottosuolo e il demonismo dei demoni: la rivoluzione, il progetto utopico di un paradiso in terra, l’autoritarismo totalitario, conditio sine qua non per poter creare uno pseudo paradiso di felicità universale. Dall’altra parte invece troviamo la santità – che ha pur sempre una parte di demonismo – dello starets, di Alesa, che è anche la santità ambigua e catastrofica di Myskin, personaggio di un altro romanzo, L’idiota. La libertà in questi romanzi non è vista da Dostoevskij in termini retorici o addirittura banali, bensì è vista in tutte le sue antinomie e le sue lacerazioni.
Ma al di là della libertà c’è un altro principio che caratterizza l’universo di Dostoevskij, la grazia.
Libertà e grazia sono le due forze, le due energie, che l’uomo ha ricevuto dall’incontro del trascendentale con l’immanente (la venuta di Gesù sulla terra). La grazia infatti non è altro che la salvezza che può colpire anche il grande peccatore, lo può riscattare in questa luce che gli si apre nell’oscurità della coscienza, luce che lo porta non ad un pentimento esteriore ma ad un trascendimento di se stesso, al senso della propria finitudine accompagnato dal senso di un infinito che lo trascende infinitamente come ricerca, ansia e ispirazione.
L’uomo del sottosuolo non è un mostro negativo che Dostoesvkij voleva raffigurare e condannare: l’uomo del sottosuolo siamo noi, e la luce che ci salva è la luce del Vangelo, della libertà e della grazia. Non ci sono altre forze che possono far sperare, altrimenti la speranza diventa una speranza povera, una speranza soltanto illusoria. Non dobbiamo infatti confondere la speranza con l’illusione: spesso, quando siamo in una situazione difficile, ci creiamo delle illusioni o dei miti sul domani migliore. Questa non è la speranza: la speranza vera, cristiana, è piuttosto una energia spirituale che nasce dalla libertà a contatto con la grazia, e che fa vivere anche nella disperazione. Anche quando la situazione è disperata, gli eroi dostoesvkijani continuamente ci danno questa lezione di vita perché pur vivendo nell’inferno più lacerato e lacerante, hanno costantemente la possibilità di esercitare la loro libertà responsabile, di riaprirsi al dono – che solo alcuni ricevono – della grazia.
Scavando nel profondo dell’animo umano, Dostoevskij arriva ad una radice comune: non è una fratellanza facile e garantita, perché è nella profondità dell’animo che l’umanità stessa è messa in crisi. La domanda su questa radice comune è impegnativa, perché ci costringe a rivedere tutto il nostro mondo di civiltà, e che ci costringe anche a una purificazione costante della nostra fede. Di fronte alla sfida del mondo non possiamo rinserrarci in una fede sicura, tranquilla: dobbiamo piuttosto continuamente mettere alla prova la nostra fede.
I romanzi di Dostoevskij sono un esercizio costante nell’arena del mondo, su come si può arrivare alla salvezza o alla perdizione. Anche in opere minime riecheggia questa domanda, come ne La mite. Perdendosi ci si può salvare: la mite che si suicida si è salvata, non il marito usuraio che spenderà la sua vita a riflettere su cosa l’ha portata a quel gesto. Lui non si salverà, lei ha avuto paradossalmente la grazia, anche se sembra un’empietà dire che la grazia è arrivata nel suicidio, ma è il suicidio abbracciato all’icona.
Tutte queste paradossalità, contraddittorietà, sono la verità della libertà dell’uomo dostoevskijano.
Karjakin: L’arte è il paradosso di Dostoevskij, perché l’arte è in qualche modo un peccato, ma soltanto attraverso di essa noi peccatori possiamo venire fuori dal peccato. Solo attraverso di essa, perché in ogni uomo vive un artista. Noi lo uccidiamo spesso: vive la bellezza in noi, ma noi la uccidiamo, dimentichiamo che esiste. L’artista riesce a ricostituirla, risolvendo nella sua sostanza, in modo cosciente o forse anche incosciente, il compito religioso.
L’intolleranza di Dostoevskij verso il Cattolicesimo – per tornare a quanto diceva il professor Strada – è essa stessa paradossale: infatti la prima volta che Dostoevskij si recò a Dresda, dove c’è la la Madonna Sistina di Raffaello, salì su una sedia per vedere più da vicino questa Madonna. I disciplinati tedeschi, vedendo un russo che faceva una cosa del genere, si sono riempiti d’orrore… Questo stesso Dostoevskij che aveva cattive parole verso il Cattolicesimo pregava davanti alla Madonna Sistina. E infatti una copia della Madonna Sistina era appesa proprio sopra il divano sul quale è morto. In mano aveva una icona ortodossa, una icona russa della madre di Dio, che gli era stata regalata da un sacerdote. È dunque morto sotto una Madonna cattolica, con in mano una Madonna ortodossa. La sua contraddizione interna sembra quasi che con questa coincidenza sia stata risolta.
Strada: Per Dostoevskij l’uomo è un enigma, in quanto crea quell’enigma secondo che è la bellezza. Quando parla di bellezza, Dostoevskij ha sempre un senso problematico di questo concetto, non un senso estetistico. L’estetismo è totalmente assente da Dostoevskij: quando parla di bellezza, c’é sempre in lui il momento decisivo di carattere spirituale. Quando qualcuno dei suoi protagonisti individua la bellezza in qualcosa di spiritualmente assente o povero, o di antispirituale, vive sempre una perversione. Una perversione psicologica, un estetismo demoniaco o demonistico. La bellezza della società futura, perfetta, razionale, geometrica: sembrerebbe il trionfo della bellezza razionale, della bellezza che non lascia più zona d’ombra, della bellezza trasparente. Eppure è una bellezza demoniaca, luciferina, catastrofica, omicida. Il concetto di bellezza è dunque molto complesso in Dostoevskij, polivalente: anche la bellezza è un campo di battaglia.
Nell’opera d’arte c’è la stessa abissalità oscura che c’è nella psiche umana; infatti l’arte non è che una forma, forse la più alta, di creatività, come lo è la scienza, la filosofia, la vita sociale stessa, l’azione storica… È il momento della creatività in cui l’uomo manifesta la sua libertà. L’arte dunque rifletta l’ambivalenza umana, quei confini labili – ma che pur ci sono – tra il bene e il male.
Lo stesso vale per il Cristianesimo, basta pensare a quanto lo starets dice – e sono parole decisive – ad Alesa: “vai nel mondo”. È questa l’espressione di un Cristianesimo ecumenico: ortodosso, orientale, greco, russo… ma anche cattolico e protestante. Devi essere nel mondo: andare nel mondo, nel mondo delle passioni, nel mondo delle oscurità e delle ingiustizie, delle iniquità in cui l’umile è umiliato nuovamente. Lì devi vivere il tuo Cristianesimo, non nel monastero. Questo non è antimonastico.
Questo consiglio così toccante e profondo, ed anche poco capito, che dà lo starets ad Alesa, potrebbe diventare quasi l’ammonimento del movimento di Comunione e Liberazione, che vive nel mondo e porta il messaggio cristiano nella realtà, nel contatto col mondo. Occorre amare il mondo e capirlo: è facile amarlo costruendo – come fanno i rivoluzionari – un progetto di mondo pulito, limpido, trasparente, razionale, geometrico. Ma il mondo così costruito sarebbe tremendo, satanico. Non è questa la bellezza che salverà il mondo, ma quella che ha tentato di distruggerlo. La genialità di Dostoesvkij veggente e visionario è stata quella di aver visto in Russia, nel 1870, quello che poi è avvenuto alla fine del 1900 e che si non si è ancora concluso. È una veggenza, perché Dostoesvkij ha capito che la bellezza è ambivalente come qualsiasi azione o parola.
Quando parliamo di Dostoesvkij, non possiamo trasformarlo in frasi generiche, ma dobbiamo guardare fino in fondo alle sue contraddizioni geniali, ai suoi paradossi straordinari, alle sue parabole, barlumi di verità razionale e fantastica. Barlumi di verità che ci arrivano da una sfera misteriosa e che ci danno dell’energia di vita che è una energia spirituale e morale, e in quanto morale anche estetica: è una energia di bellezza in cui traluce, sia pure un lampo, di verità.
Karjakin: Tutti conoscono la frase “La bellezza salverà il mondo”, ma forse pochi sanno un’altra frase di Dostoesvkij “La bruttezza, la non bellezza, uccide”. E anche questa che scrive per sé, parlando di Delitto e Castigo: “Distruggere l’indeterminato: così, in un modo o nell’altro, si spiega ogni omicidio”. Tradurrei così queste parole: l’uomo sente l’impulso a distruggere l’indeterminato, altrimenti l’indeterminato lo ucciderà. Questa indeterminatezza, nelle domande importanti, decisive, è suicida, è mortalmente omicida e suicida.
La incarnazione reale della bellezza che salva il mondo, di questa bellezza che salva il mondo, è Cristo. Dostoesvkij si chiede continuamente: cosa sarebbe successo se Cristo si fosse comportato come l’inquisitore? Il male può vincere soltanto prendendo le forme del bene, soltanto mascherandosi. Il male non può presentarsi dicendo: “io sono il male, sono vile, sono brutto”. Tutti andrebbero via, non lo seguirebbero. Il male è brutto, è persino ridicolo, e non ha altra aspirazione se non quella di presentarsi davanti a noi demonizzandosi. Non c’é cosa più terribile di questa demonizzazione del male, che non è semplicemente brutta ma anche ridicola.