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INVITO ALLA LETTURA I CARI ESTINTI. Faccia a faccia con quarant’anni di politica italiana
Presentazione del libro di Giampaolo Pansa, Giornalista e Scrittore (Ed. Rizzoli). Partecipa l’Autore. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.
GIAMPAOLO PANSA:
Vedo un sacco di gente sono emozionato, se vi deludo prendetevela con lui.
ALBERTO SAVORANA:
Non ho aperto bocca. Faceva tutto lui. Facciamo così: fatti le domande e datti le risposte. No, io sono felicissimo che Giampaolo Pansa abbia accettato anche quest’anno di venire nella sauna del Meeting di Rimini, perché lo sentiamo come un compagno di strada e anche quest’ultimo libro, che è ormai vecchio perché sta già per pubblicarne un altro, bisognerebbe fare due Meeting all’anno per stargli dietro, è l’offerta di una testimonianza di un uomo che per mestiere ha frequentato, attraversato, condiviso fatti, circostanze, episodi, tragedie di cinquanta anni della nostra storia e lo ha fatto con lo strumento che gli è più congeniale, la scrittura. Questo libro è il racconto, il racconto in prima persona di un pezzo molto importante di storia patria da un punto di vista molto particolare che è il mondo della politica, in particolare quel momento della vita politica italiana che va sotto il nome di prima Repubblica. E’ curioso leggere questo libro perché lui sembra parte di questa vicenda, parla di personaggi, di situazioni, di eventi, lui dice che non è vero, lo dice qui nel libro, però parla come un protagonista di questa vicenda, addirittura ha scritto così tanto di questa nostra storia, in particolare della politica, dei partiti che tangentopoli ha fatto crollare, ha messo al tappeto, “che strada facendo mi sono accorto di un fatto sorprendente: quei personaggi erano ormai i miei vicini di scrivania, i compagni della mia vita professionale, più li osservavo e più mi stavano accanto, più per ricordarmi che senza di loro (e lui è molto ironico lo sappiamo), il mio mestiere non avrebbe avuto significato”. Scorrendo le pagine di questo libro a me ha colpito, la prima cosa Giampaolo che ti volevo chiedere, è il tratto di umanità che emerge nel modo in cui tu tratteggi, dipingi le figure dei grandi politici che hanno fatto la storia della prima Repubblica, siano essi democristiani, socialisti, comunisti o repubblicani con una attenzione che cerca di grattare oltre il velo delle apparenze, della lettura solita del personaggio, così che in certi momenti è sorprendente che la descrizione delle grandi responsabilità e dei grandi atti politici vada a braccetto con l’indicazione discretissima, quasi in punta di penna, di alcuni aspetti della loro umanità che in qualche modo, da opposti versanti ideologici, da opposte appartenenze, anche molto diverse da quelle che tu dichiari, hai dichiarato, hai frequentato, ti suscitano, ti hanno suscitato una forma di simpatia, di simpatia umana. Questa è la prima cosa che vorrei tu ci raccontassi, come è potuto accadere questo, che un cronista non fosse semplicemente uno spettatore distaccato ma in qualche modo partecipasse alle vicende umane di coloro dei quali era chiamato a scrivere.
GIAMPAOLO PANSA:
Provo a rispondere, prima di tutto vorrei dire che tantissima gente questa sera mi conferma che avevo visto giusto nel mio primo tentativo di dire a chi mi aveva contattato per venire al Meeting, forse a Luigi o allo stesso Savorana, di non volerci venire. Adesso ho scoperto, leggendo il giornale del Meeting, che ero stato al Meeting già nel 1986, comunque, le due presenze che mi sono rimaste incancellabili nella memoria sono quelle dell’anno scorso e dell’anno precedente, cioè 2009 e 2008. L’emozione di venire qui, il piacere sono stati talmente grandi che quando sono stato chiamato a venire la terza volta ho detto no, mi avete già invitato due volte, sempre il solito Pansa e mi chiedevano perché non volessi venire e io risposi che l’emozione che avevo provato io la volevo regalare ad altri, ad altre persone. Venire al Meeting, anche se la temperatura è diversa, è come ricevere il regalo di Natale. Io quando ero bambino aspettavo, la nostra famiglia era una come tante altre, non era che si sprecassero tanti soldi nei regali, ma il Natale era la festa non soltanto perché si faceva il presepe, poi si doveva mettere il Gesù bambino nella capanna, mia madre c’è lo metteva all’alba, ma soprattutto perché c’era il regalo, il regalo di Natale, era un segno di generosità. Invecchiando a volte le strade sono soltanto due: o diventi molto arido e avaro oppure diventi più umano e più generoso, io non sono mai stato un avaro, però grazie a Dio invecchiando sono diventato più generoso, seguo il cuore. Mi piace molto quella parola che avete messo in grande, in verde e quindi ho detto: perché non regalare questa cosa a chi non è mai venuto al Meeting? Invece poi hanno insistito, mi hanno rotto le scatole e vengo, vengo con questo rompiballe di Savorana che mi fa queste domande difficili, però questa domanda mi piace e provo a rispondere in questo modo: io sono sempre stato, anche da ragazzino, un ragazzo scrupoloso, perché mia madre e mio padre, in particolare mia madre, che faceva la modista, era una piccola artigiana che faceva la sarta per le signore, mi insegnava che il lavoro va fatto bene. Il travai va fatto bene dicono i piemontesi, (io sono piemontese del sud, nato a Casale Monferrato sul Po), quindi, quando ho cominciato a fare il giornalista ho sempre avuto una passione per la politica, non so da dove veniva: mio padre aveva fatto la quarta elementare ed era il quinto di sei bambini orfani di un bracciante, mia madre aveva fatto la quinta elementare, sono stato allevato da una nonna, la nonna paterna che era analfabeta. Mi ricordo nel dopoguerra, quando mia nonna guardava Bolero film o Grand Hotel e io dicevo: come fai a leggerli se sei analfabeta? Mia nonna diceva: vedi che sei cretino? Io questi segni neri nelle nuvolette bianche non so cosa significano, però basta guardare le facce e capisco tutto. Ecco, questa storia di mia nonna, guardo le facce, i fotoromanzi, o dei romanzi disegnati e capisco tutto, mi è rimasta nella testa, per cui quando ho cominciato a fare il giornalista e a seguire la politica, ho detto forse bisogna vedere qualcosa al di là di quella funzione che quel politico ha. Adesso teorizzo un po’, ma allora ero solo spinto dalla mia curiosità. Io sono curioso, al mio Paese si dice “sei curioso come la cacca”, non so perché si dica questo. Io se incontro una persona che minimamente mi interessa, comincio a fare delle domande che sono domande indiscrete; Adele mi tira sempre per la giacca, perché devi chiedere ad una signora quanti anni ha, che mestiere fa, dove va? Ma io sono più curioso degli altri, per cui ho sempre battuto i miei colleghi, concorrenti, perché avevo più curiosità degli altri. Per cui dei personaggi che scrivevamo se ne vorremo parlare, se ne vorrà parlare Savorana, avevo cominciato a tenere un archivio: questo è fare il giornalista vero, adesso non si usa più, adesso uno va su Wikipedia, vede delle stronzate pazzesche, solo perché le legge sul computer pensa siano vere, quindi le pubblica, errori infiniti, una roba folle, allora bisogna stare molto attenti. Perché chi ha fatto il mestiere negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, diciamo questo trentennio, sa che prendere una rettifica era più da criminale, più criminogeno che prendere una querela, perché la querela era una cosa soggettiva ma se invece che Mariano Rumor tu scrivevi Marino Rumor, mica potevi dire che era colpa del copista perché il tuo manoscritto diceva Marino Rumor, eri tu che avevi sbagliato. Quindi da questo punto di vista, una cosa che mi ha molto avvantaggiato è quella di essere politicamente un figlio di nessuno, quindi il politico che io intervistavo, interrogavo, descrivevo, a volte anche in un modo un po’ sarcastico – che è sempre stato il mio stile, un po’ ironico, anche questo l’ho imparato da mia madre, a vedere il lato comico delle persone – si abbandonava di più. Non ero un giornalista fazioso, non avevo tessere di partito, non si capiva bene per chi votavo, in realtà votavo sempre a sinistra per i socialisti o per i radicali, anche a volte per i comunisti, ora scheda bianca. Quando ti candiderai verrò ad iscrivermi al tuo collegio e ti voterò, ecco qui vedo Guazzaloca, se fossi un elettore di Bologna avrei votato per Guazzaloca, vi rendete conto che avete Guazzaloca? Il Sindaco che ha strappato Bologna al partitone rosso, quindi bisogna applaudire. Ecco, Guazzaloca è un personaggio bello, lo trovo pure abbronzato, mi ricordo che con Adele abbiamo fatto una cena a Bologna, era ancora Sindaco o no? Ecco, io su Guazzaloca ho una busta piena così del mio archivio dell’Italia; ma su Guazzaloca, a parte un articolo di Antonino Ramelli, tutti gli altri dicono poco, poco, perché vuol dire che l’umanità di Guazzaloca non è stata afferrata e così bisogna afferrare l’umanità di Mariano Rumor, l’umanità di Fanfani. Fanfani è stato un gigante, Fanfani era un libro aperto, Fanfani non ci mettevi nulla a capire che tipo era perché era lui che sembrava dicesse “Pansa, guarda, io sono fatto, così, così”. Moro era un personaggio terribile, sembrava consapevole di quella cosa orrenda che gli sarebbe capitata. Devo dire che i personaggi democristiani erano più piacevoli da raccontare, perché la DC è sempre stata un partito, oggi si dice che la politica deve essere aperta, la Democrazia Cristiana era un Partito apertissimo, fare i pezzi sulla DC era un piacere. Intanto per cominciare perché nessuno veniva a dirti: chissà cosa scriverai domani; e l’indomani: ho visto cosa hai scritto ieri. Per esempio uno che mi diceva sempre così era Craxi, oltretutto eravamo amici, c’eravamo conosciuti, c’era un anno di differenza, Bettino era del ’34, io ero del ’35, poi nel ’36 viene Berlusconi, lasciamo perdere! La filiera è questa. La prima volta in cui avevo visto Bettino, lui aveva 20 anni e io 19, io ero matricola di Scienze Politiche a Torino, ero appena iscritto, lui invece era allievo di Giurisprudenza a Milano, poi è andato fuori corso, non si è laureato; io invece avevo mio padre, operaio di tipografia che aveva un libricino nero su cui segnava gli esami che davo, che voto prendevo. Io ho visto la prima volta Bettino, aveva i capelli in testa e i pantaloni alla zuava, c’è ancora qualcuno che sa cosa erano i pantaloni alla zuava? Si! Lo sapete! Io ho portato i pantaloni alla zuava, mi sono reso conto di essere diventato maggiorenne un po’ prima di ventuno anni, quando mia madre mi ha detto “Basta con i pantaloni alla zuava, ora porti i pantaloni lunghi”. Bettino era un personaggio anche quello, non che i politici italiani sono dei marziani, son degli esseri come gli altri, hanno anche tanti difetti, hanno anche delle qualità, invecchiando. C’è una cosa che disse una volta Enzo Biagi, con il quale peraltro ho litigato anche spesso, lui diceva una frase, le signore mi perdonino, diceva: “Il passato è sempre il culo più rosa”. Ed è vero, il passato è sempre più bello, specie quando lo guardi, specie il tuo passato personale. Ecco quando lo guardi, in questo ho preso molto da mio padre e da mia madre, non mi sono inacidito, il passato della politica italiana, che è anche il mio passato, in fondo, se metto a fuoco il passato della politica italiana rispetto a quella di oggi mi sembra l’Olimpo degli dei. Questa è una cosa terribile. Quante volte ho fatto incazzare Andreotti, ne parlo dopo di Andreotti!
ALBERTO SAVORANA:
Senti una cosa: tuoi coetanei, colleghi e firme illustri …
GIAMPAOLO PANSA:
Non ci sono più, sono morti!!
ALBERTO SAVORANA:
No, no, ci sono ancora.
GIAMPAOLO PANSA:
Ma non scrivono.
ALBERTO SAVORANA:
Ma no, scrivono anche! Però hanno un tratto che li accomuna, che è un cinismo disperato, hanno vissuto quello che hai vissuto tu, hanno scritto quello che hai scritto tu, come mai tu oggi non sei cinico?
GIAMPAOLO PANSA:
Ma io son più bravo!! Sennò non mi metteresti al Meeting davanti ad una sala così! Ma se io fossi una ciula veneranda, come avrebbe detto mia nonna, mi faresti invitare al Meeting per poi farti tirare le scarpe? Ma chi cavolo hai invitato? Io il primo ottobre farò sette-cinque anni, seven five, sennò non si capisce. Come sia rimasto sulla breccia, grazie al Padre Eterno, ancora non sono riuscito a capire, avrà da pensare ad un miliardo di persone, speriamo si consulti con San Pietro: “vabbé, teniamolo ancora un po’ in vita, facciamolo scrivere, che si diverta. Io mi diverto molto. Faccio una confessione che Adele non vuole che faccia, giustamente essendo di Reggio Emilia è pratica, qui lo dico, qui lo nego, lo farei gratis. Quando mi alzo la mattina, dopo aver fatto tutto quello che c’è da fare, aspettando che Adele faccia colazione e la colazione la preparo io, l’unica cosa che faccio in casa, accendo il computer e scrivo. Io non riuscirei a scrivere un libro avendo un rapporto cinico non solo con i personaggi ma anche con i fatti. Se sono cinico con un personaggio, importante o non importante che sia, perché devo dedicargli una parte della mia giornata? Io penso che ogni essere umano abbia il cuore, abbia degli aspetti che comunque possano essere positivi, perché dobbiamo sempre vedere che tutto è negativo? In questo mi sono sempre un po’ distinto rispetto al giornalismo che praticavano i miei colleghi e che veniva praticato anche nei giornali in cui lavoravo. Io non ho lavorato in testate che erano abbastanza agnostiche, mi sono ciucciato due volte La Stampa, poi ho lavorato al Giorno, poi ho lavorato con Ottone al Corriere, poi sono stato 14 anni a servizio di barbapapà Scalfari, poi sono stato diciasette anni all’Espresso, quindi nelle botteghe del diavolo. Però io ero diverso dagli altri, senza rendermene conto, applicavo una regola che un giorno mi ha confermato un grande agente letterario, io non ho mai avuto un agente letterario, pur avendo scritto moltissimi libri, più di cinquanta, mi sono sempre rifiutato di avere l’agente letterario. Un giorno ho incontrato il più grande agente letterario italiano, Erich Linden, l’avevo incontrato a casa di Mario Formenton che in quel momento era l’amministratore delegato della Mondadori e ha detto: io ho letto i suoi libri e lei è un autore promettente, anche per il suo agente e io ho risposto non ho nessun agente, allora lui ha detto, ma lei è bravo, non prenda mai nessun agente. Tanto per cominciare l’agente le fregherà il 10 per cento di quello che guadagna, non le servirà assolutamente a niente, sia l’agente di se stesso. Io poi ho trovato un agente, mi costa un po’ caro, mi corregge sempre i libri che scrivo, gli articoli che faccio, per cui, perché devo essere cinico? Io, nella mia testa sono rimasto un ragazzo che ascoltava affascinato i racconti che mi faceva mia nonna; faceva dei racconti di banditi, di rapinatori, di maghi, di streghe, le streghe che volavano come pipistrelli. Era una cosa sanguinaria mia nonna, è vero che era rimasta vedova a 33 anni con sei bambini, la più grande era mia zia Carolina, aveva dodici anni, il penultimo era mio padre che aveva due anni e mezzo, poi c’era mio zio Francesco che aveva sei mesi, quindi ha fatto l’impossibile. Aveva quindi una visione della vita e letteraria, noi avremmo detto, per cui i suoi racconti erano quelli. Mia sorella diceva, nonna, smetti di farmi paura!! Se io facevo il teatro dei burattini e facevo comparire in scena il diavolo, mia sorella si alzava dalla panchetta su cui era seduta accanto ai miei cugini e diceva: questo teatro mi fa paura, cambialo. Faceva il giro della panca e io in quei trenta secondi dovevo aver già inventato una trama nuova. Mia nonna non cambiava la trama dei racconti, l’avrebbe mandata a quel paese, la sua famosa zoccola di legno l’avrebbe fatta finire in testa a me, invece finiva in testa a mia sorella. Io non sono un signore che ama le trame truculente, grazie a Dio ho una visione dove prevale l’ironia; a volte qualcuno mi dice tu sei indignato, delle volte sono un po’ incazzato, questo sì. Penso sia un buon suggerimento, qui ci sono tanti giovani, ma anche qualcuno che ha il pelo grigio in testa: invecchiando cercate di essere allegri, la vita non è sempre facile, però se guardate il mondo che vi sta attorno, specie con gli occhiali dell’ironia, dell’ironia bonaria, non dell’ironia cattiva, vivrete meglio. Io quando leggo gli articoli di Scalfari penso, ma come fa questo poveraccio? Ha ottantasei anni! Guardate che sto parlando di un grande, di un genio, come direttore, come editore, come fabbricatore di giornali, come inventore. Però oggi lo vedo così inasprito, chi glielo fa fare? Ma prendi un po’ le cose sorridendo.
ALBERTO SAVORANA:
Senti, nel libro,
GIAMPAOLO PANSA:
adesso trova subito la carogna.
ALBERTO SAVORANA:
Ma no, nel libro tu attualizzi le cronache di allora, che descrivevano di volta in volta le vicende di questo o di quel partito, di questo o di quel governo. Stabilisci degli inevitabili paragoni con il presente e una cosa che emerge è che il presente della politica non ti entusiasma, non vi scorgi i tratti di umanità o di serietà che trovavi nella prima Repubblica. Che cosa non ti convince dell’oggi?
GIAMPAOLO PANSA:
Posso cavarmela dicendo quasi tutto. Non mi convince dell’oggi prima di tutto, ma questo non è solo colpa dei politici, è colpa della società di oggi, questa corsa sfrenata, favorita dal sistema dei media, sia dei media stampati, sia dei media televisivi, ad apparire. Bisogna sempre apparire, bisogna sempre mostrarsi belli, bisogna sempre mostrarsi adorabili, bisogna sempre essere eleganti, bisogna farsi fare il peeling anche se hai cent’anni, se ti cadono i capelli bisogna farseli ricrescere. Prima cosa non mi convince questo. Fino ad adesso ho fatto la parte del vecchio giornalista un po’ disincantato, che guarda le cose con ironia, ma spesso ho paura, non è la paura personale, sai avendo l’età che ho, l’unico che può decidere come e quando devo finire è il Padre Eterno, ammesso che abbia interesse ad occuparsi del sottoscritto. C’è troppa disinvoltura, troppo cinismo, uso una parola troppo complicata che non metterei mai in un articolo, autoreferenzialità che significa convinzione, che significa essere il sale della terra. C’è troppa manovra. Soprattutto non c’è la franchezza di poter dire, avendo anche come credito la storia personale, di dire agli italiani, non solo a quelli che vanno ancora a votare che sono sempre meno: guardate che la festa è finita! Questo è un Paese che se non lo teniamo insieme facendo tutti i sacrifici e i primi che devono farlo sono i politici, questo è un Paese che muore, questo è un Paese finito, questo è un Paese che rischia la guerra civile. Quindi quello che mi fa più paura è che ci sia una incoscienza generalizzata a scherzare col fuoco. Questo io lo scrivo nei giornali in cui collaboro, uno è Libero, l’altro è il Riformista, lo scrivo anche nei miei libri. Debbo dire che quando mi sono deciso a scrivere I cari estinti, Adele mi ha detto: davvero hai voglia di scrivere un libro così lungo? Lei ha sempre paura che mi stanchi troppo! Io avevo dentro di me una risposta che forse non le ho dato per non allarmarla troppo. Ho l’impressione di scrivere una cosa, passata la quale, una volta scritto questo libro, mi sentirò un po’ più tranquillo, perché qualunque strada possa prendere questa nostra Italia, io un tempo tutto sommato felice l’ho raccontato. L’ho raccontato nei miei libri, nei miei articoli, io ho un archivio in casa impressionante, di una grande star del giornalismo degli anni Quaranta-Cinquanta e inizio Sessanta, di Vittorio Gorresio, forse qualche vecchio lettore della Stampa se lo ricorda. Mi fece vedere il suo archivio, io ero un giovane praticante, avevo 23 anni e mezzo, 24. Il Direttore della Stampa mi aveva mandato a Roma, attenzione, perché conoscessi, guardate come era diversa l’Italia, era il 1961, perché conoscessi le due star del giornale di politica interna ed erano Vittorio Gorresio e Paolo Monelli. Vittorio Gorresio era cuneese, figlio di un generale, Paolo Monelli, modenese. Forse qualcuno ha letto Roma 1943, Le scarpe al sole, era uno che aveva fatto la Grande guerra, io invece ero più giovane. Gorresio mi ha fatto vedere il suo archivio di politica interna, poi siamo andati a vedere l’archivio di Monelli: era enorme, quattro stanze in questo grande appartamento. Monelli in quel momento era sposato, si era sposato da poco con la regina dei quadri, che era una studiosa di storia dell’arte, quella che aveva fondato la galleria di arte moderna a Roma, voleva che lei gli tenesse l’archivio e lei gli ha detto: Monelli, tu sei scemo, io devo fondare la Galleria di arte moderna. Mi sono reso conto che dietro quelle buste d’archivio c’erano soprattutto le vite delle persone, allora i giornalisti alla Pansa non c’erano, ce n’erano di molto bravi, ma allora guardavano i documenti, guardavano le posizioni politiche, raramente parlavano delle persone e Gorresio mi ha detto una cosa: tu quando parli con il Presidente del Consiglio, certo la cosa fondamentale è quello che lui fa come capo del Governo, ma cerca di capire anche che tipo di uomo è, cosa fa, come si muove. Ricordati dei miei articoli con Fanfani, Fanfani era sempre incavolato, perché nella corsa al Quirinale, sperava di diventare Presidente della Repubblica, Gorresio si era messo di traverso, non di traverso, allora non c’era un giornalismo militante, c’erano dei grandi giornalisti liberali che facevano un po’ di testa loro ma con dei Direttori che li lasciavano fare. Quando ho scritto I cari estinti ho fatto prestissimo, da una parte ho saccheggiato un autore che mi è molto caro, cioè Giampaolo Pansa, dopodiché ho messo insieme queste storie che lette poi una accanto all’altra, persino Adele quando ha letto il libro, il manoscritto, meravigliata, quante volte ti avevo sentito parlare di questi personaggi, però, messi in fila così, tutti uno accanto all’altro acquistano un sapore del tutto diverso. Quindi questo è un mio libro che è anche nostalgico, una mezza mia autobiografia.
ALBERTO SAVORANA:
Due domande insieme: di tutti i personaggi che hai raccontato, di tutti i fatti che ha hai descritto, quale è il fatto, la vicenda che senti ti ha più segnato e il personaggio nei confronti del quale, in qualche modo, ti senti debitore?
GIAMPAOLO PANSA:
In questo libro mancano alcuni personaggi, manca Cossiga per esempio.
ALBERTO SAVORANA:
No, questo è la domanda dopo.
GIAMPAOLO PANSA:
Lo diciamo dopo. Ma il personaggio che mi sembra in qualche modo di avere tradito è stato Moro. Allora faccio un passo indietro. Io sono stato tra i giornalisti italiani, dico una cosa molto osé che può tornare a mio svantaggio, forse il primo, se non uno dei primissimi a capire che in Italia, ed eravamo alla fine del ’69, quindi dopo Piazza Fontana, stava nascendo una cosa che, dopo la volante rossa (eravamo nel ’46-’47), stava nascendo il partito armato della sinistra, stavano nascendo i terroristi di sinistra. La mia fortuna è stata quella di lavorare in un giornale come la Stampa, che in quel momento era diretto da Alberto Ronchey, grande giornalista, esperto internazionale, che era stato corrispondente a Mosca, repubblicano nel senso di amico di La Malfa, che mi ha dato fiducia, perché non tutti i capi della Stampa di quel momento mi davano fiducia, pensavano che prendessi lucciole per lanterne, quindi ho visto nascere il terrorismo di sinistra. L’ho visto progredire, l’ho visto ingrandirsi, l’ho visto diventare sempre più forte, l’ho visto avere troppi complici, specie nei partiti di sinistra, l’ho visto prendere piede. Quando è accaduta la storia di Moro, io in qualche modo ero preparato a quello che sarebbe accaduto. Io allora stavo a Repubblica e debbo dire che il giornale scelse quella che venne poi chiamata linea della fermezza. Fu una scelta personale di Scalfari, fatta con molta sofferenza, può sembrare strano, ma era così. Disse ai due Vice Direttori, Gianni Rocca ed io, ma anche al vertice professionale del giornale: chi non la pensa così può scriverlo. Nessuno lo fece. Quando Moro fu trovato nella Renault rossa, ammazzato come una bestia da abbattere, vedi lo strazio della famiglia, io ho seguito tutti i famosi 55 giorni, ho scritto un articolo al giorno, quella è una storia che mi ha… Poi i politici che avevano delle responsabilità di governo a cominciare da Andreotti che era Presidente del Consiglio, a Cossiga, Ministro dell’interno dovettero poi prendere questa decisione, che per chi lavorava in un giornale non era così pesante. Io penso una cosa che forse non è mai stata detta, penso alla solidità della Democrazia Cristiana e quando dico solidità non parlo solo del gruppo dirigente, ma anche della sua base elettorale, dei militanti, di chi credeva nella balena bianca, come l’ho chiamata io. Io credo di avere avuto la prova del nove nelle vicende di Moro, perché io non ho mai visto un democristiano che si rallegrasse di quello che era accaduto a Moro e li ho sempre visti tutti, importanti, oppure delle ultime file che fossero, angosciati per la decisione che avevano preso. E’ stata ancora oggi una difficile decisione da valutare. Qualche settimana fa è mancata la signora Moro, che era uno dei personaggi delle nostre cronache, anche se in realtà non voleva ricevere nessun giornalista. Io non so se la classe dirigente della politica di oggi, se la classe dirigente di oggi, sia del centro destra, sia del centro sinistra, riuscirebbe a superare quella prova come ha fatto la Democrazia Cristiana di allora. Certo, non tutto il vertice della DC amava Moro, ma succede sempre in tutte le famiglie numerose, ma se non avesse avuto un rapporto vero con la società italiana e quindi, se la famosa balena bianca non avesse avuto i piedi, che le balene non hanno, ben piantati per terra, dentro la realtà italiana sia al Nord, sia al centro, sia al Sud, la prova di quei 55 giorni non l’avrebbe superata. Anzi, io credo una cosa in più che non ho mai scritta e non credo possa essere supportata dalle prove, io credo che il vero obiettivo delle Brigate Rosse e di chi stava alle spalle di questa operazione, perché poi erano venute a galla tante ipotesi di intrighi internazionali a Est come a Ovest, il vero obiettivo di quell’operazione terribile fosse scardinare la DC. Quindi da questo punto di vista, quando si parla di uno schema segreto e non indagato che sta alle spalle del delitto Moro, se si pensa a soggetti istituzionali di altri Paesi, secondo me bisogna partire da un punto di vista preciso: negli altri Paesi che Moro fosse vivo o fosse morto non poteva importargliene di meno, ma quello che importava era la tenuta dell’Italia grazie alla Democrazia Cristiana. Poi ci siamo infognati nella storia del finanziamento pubblico dei partiti, i magistrati hanno graziato il Partito Comunista, hanno pensato di distruggere la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista, poi è successo quello che è successo. Nel ’94 è cominciato un nuovo ciclo politico, che però dal punto di vista dei partiti presenta solo delle caricature di quelli, dei partiti della prima Repubblica, sia sul versante del centro-destra che sul versante del centro-sinistra e qui mi fermo perché ho già detto tutto.
ALBERTO SAVORANA:
Per tornare sulla faccenda, io ho una curiosità ed è questa: evidentemente le pagine che tu dedichi alla vicenda Moro sono, a mio parere, le più drammatiche di questo libro, anche perché ti si vede impegnato, cioè tu in qualche modo lo accusi, nel libro, sei un giornalista militante, hai parlato della linea della fermezza, e ci sono pagine in cui tu racconti anche di una certa vivace dialettica che hai all’epoca con Craxi, che invece era per una linea volta a esperire tutti i mezzi e le strade per la liberazione di Moro. I tuoi colleghi di allora come hanno vissuto, quel momento di impegno giornalistico, la vicenda con cui cinquanta e rotti articoli che martellatamente ogni giorno davano conto dell’avanzare di quella che poi fu la tragedia del ritrovamento del corpo di Moro?
GIAMPAOLO PANSA:
Ma sai è una domanda con una risposta impossibile, sai caro amico, caro Alberto. Perché il lavoro dei giornali spesso, quando noi li leggiamo al mattino, e giustamente li critichiamo perché li paghiamo un euro, un euro e venti, un euro e cinquanta per comprare un quotidiano – ci mancherebbe altro che non potessi dire la mia su come è fatto, su come sono gli articoli – però bisogna tenere conto anche di che cosa, di che cosa è un quotidiano. Un quotidiano è macchina tritasassi terribile che ti obbliga, tutti i giorni, a ricominciare da capo, a rifare lo stesso prodotto, ma non nel giro di ventiquattro ore, nel giro di poche ore. Specialmente quando poi ci sono fatti come questi del sequestro e poi alla fine, purtroppo, della fine di Moro, con le lettere che arrivano, i comunicati, molto difficile poter ragionare e riflettere. Ecco, io se devo parlare un attimo del Pansa di quei giorni, io sono sempre stato per la linea della fermezza, però mi sono sempre domandato che cosa, che diritto avevamo di condannare a morte un altro essere umano. Io sono contrario alla pena di morte, come immagino la grandissima maggioranza delle persone che sono in questa sala, però la linea della fermezza condannava a morte fatalmente Moro. Poi se qualcuno al vertice della DC abbia preso alla leggera una decisione del genere io credo di no. Credo di no, credo di no perché anche chi non amava Moro poi Moro parlandone dal vivo, parlando da leader politico era uno schiacciasassi anche lui. Mica era, mica era… la politica all’interno della DC con la lotta delle correnti, quello ti imponeva. Io ho riprodotto, ne I cari estinti, la prima riunione della direzione democristiana, cioè il giorno successivo al sequestro, e lì un giornalista attento, che non avesse le fette di salame sugli occhi o sul cervello, avrebbe capito subito che la linea della fermezza non sarebbe cambiata. Tu dici che sono stato anche polemico con Bettino; con Craxi, noi ci chiamavamo Bettino, oppure Craxi o Pansa o Gianpaolo, ci siamo conosciuti tempi prima. Io non credo che sia stata solo strumentale la posizione di Craxi, certo c’era anche quello, visto che i comunisti e i democristiani o meglio democristiani e comunisti avevano preso la linea della fermezza. Tra l’altro vorrei ricordare anche le date, perché le date sono importanti. Moro è stato rapito nel Marzo ’78, Craxi era diventato segretario del PSI alla fine di Luglio del ’76, quindi non è nemmeno due anni che era stato al governo, in qualche modo la sua politica era quella di introdurre il bastone, un bastoncino tra queste due tenaglie che erano colossali, che erano la DC e il PCI. Quindi c’era anche questa presenza, questa attenzione nella necessità di distinguersi dagli altri due. Io, quando sono diventato vice-direttore di Repubblica, nell’ottobre tra l’altro del ’78, dopo il caso Moro, siccome io abitavo a Milano, il giornale mi pagava l’albergo a Roma. Guarda a caso quest’albergo era il Rafael, che era l’albergo dove abitava Bettino. Bettino abitava lì, viveva lì e al sabato, molte volte, tornava a Milano, dove aveva poi il cuore della sua corrente, ma durante la settimana stava lì. Quindi cosa mi succedeva allora? Sia durante il caso Moro che poi dopo, io scrivevo il mio pezzo, quando facevo l’inviato, oppure con Gianni Rocca chiudevo alle undici di sera, in condizioni inenarrabili, perché allora Repubblica non era la macchina di oggi, eravamo pochi, stavamo tutti in un appartamento sopra il Corriere dello Sport, la nostra linea di chiusura era sempre incerta, allora non c’erano tutte le tecnologie di oggi a cominciare dai computer, quindi si rischiava di perdere i treni, insomma ogni chiusura, ogni giorno era un calvario, lo dico con rispetto verso il vero calvario di Gesù Cristo, poi dopo tutti ce ne andavamo a casa, e io cosa facevo? Tornavo al Rafael. E lì chi trovavo tutte le sere? Craxi che mi aspettava nell’atrio dell’albergo e mi diceva: ah sei finalmente tornato. Come se fosse il mio padrone di casa. Io gli dicevo scusa Bettino guarda che non ho mangiato. Vai, vai scendi sotto a mangiare, lo dico al cuoco. Perché lui era praticamente poi di fatto il cliente più importante del Rafael e, quindi, amico del proprietario, che è stato suo consigliere politico, Spartaco signore di grande intelligenza e prudenza. Vai, vai a mangiare che io ti tengo compagnia. Dico no. Se io vado a mangiare preferisco mangiare da solo. Ma come da solo? E allora lì continuavamo in queste conversazioni che capitavano, fatalmente, tutte le sere. Guardate che è terribile per uno che ha passato la giornata non andando al cinema o andando a vedere il Meeting di Rimini, ma cercando soprattutto di far lavorare gli altri che non avevano voglia di farlo, che è la cosa peggiore per un capo, è terribile doversi sorbire quest’altra razione di problemi. Ebbene io, in quelle poi tante conversazioni che abbiamo avuto sia durante il caso Moro che dopo, ho capito che farei un torto a Craxi, poi sappiamo tutti com’è finito, farei un torto se pensassi che la sua posizione per la trattativa fosse solo strumentale. Non era così. Forse la mia unica mia vera caratteristica, e penso di averla ancora conservata in parte, dovrebbe esserci in questo libro, è che io non sono sempre disposto a riconoscere nell’interlocutore che non la pensa come me solo colpe e mai, anche, qualche ragione, perché è impossibile che un essere umano, che tu debba avere sempre ragione su tutto e che quelli che ti contraddicono e non la pensano come te, debbano sbagliare su tutto. No, forse sbagliano, magari non tanto, ma sbagliano, ma però hanno alle spalle delle buone ragioni e anche tu non pensare sempre di avere ragione, dai un po’ di credito anche al prossimo. Ecco io penso che se gli italiani, io immagino che le persone che ho di fronte adesso in questo Meeting bellissimo abbiano anche loro questa… perché devo pensare che il mio vicino di casa sia sempre un rompi coglioni? No. Forse il motivo per cui suona il trombone a mezzanotte ce l’avrà. Per fortuna io sono fortunato, non l’ho di fronte.
ALBERTO SAVORANA:
Lo hai accennato ed era una domanda che, sinceramente, volevo farti. Cossiga, anche perché all’indomani del ritrovamento di Moro, Cossiga lascia il ministero degli interni e in qualche modo è un assente, anche se tu ne accenni e ne fai riferimenti. Cossiga è mancato da poco ed è stato un grande amico del Meeting, è venuto e lo ha sempre seguito con amicizia, interesse, simpatia. Che ricordo hai di lui?
GIAMPAOLO PANSA:
Mah, guarda, io ho un ricordo molto preciso. Perché non c’è in questo libro? Perché Cossiga ai miei occhi è diventato importante negli ultimi due anni del settennato, che poi lui non ha finito del tutto, si è dimesso con qualche mese di anticipo. Quindi la sua vicenda è al di là del limite temporale che io mi ero dato, cioè arrivare all’89. Però io di lui ho un ricordo, ho tanti ricordi, dunque prima di tutto, secondo me, Cossiga non è stato mai un vero democristiano, Cossiga è stato un anarchico liberale cattolico, anzi un anarchico cattolico-liberale, perché era troppo un genio balzano, la famosa lepre marzolina, a cui lui si paragonava, era un uomo curioso, era un uomo a se stante. È stato così anche quando era ministro dell’Interno, a maggior ragione poi quando è diventato Presidente del Consiglio e poi Presidente della Repubblica. Allora Cossiga si è trovato in mezzo al caso Moro e ne è uscito distrutto, soprattutto fisicamente. Tanto per cominciare, è una cosa che è nota ma, forse giova ripeterla, nel momento in cui è stato sequestrato Moro, Cossiga era Ministro dell’Interno, al Viminale ha firmato una lettera di dimissioni, dicendo in questa lettera, mandata credo al Capo dello Stato, al Presidente pro tempore che poi era il Presidente del Consiglio Andreotti, dicendo che avrebbe dato le dimissione subito dopo la conclusione della vicenda Moro, comunque si fosse concluse con la salvezza o la morte dello statista democristiano. La prima cosa che ha ferito Cossiga non è tanto la morte di Moro, naturalmente anche lui era in quelli che speravano di salvarlo prima di tutto attraverso un operazione di polizia. Forse gli investigatori fossero stati più attenti, forse lo avrebbero potuto forse salvare, poi poteva essere salvato in mille altri modi diversi ma giustamente il governo aveva scelto la linea, cosiddetta, della fermezza. E’ questa cosa che lo ha distrutto e si è ammalato, perché forse chi non lo aveva conosciuto prima può non ricordare. Ma io lo ricordo bene. Perché immediatamente dopo l’assassinio di Moro, Cossiga ha lasciato come aveva già previsto in quella lettera l’incarico di Ministro dell’interno e gli è comparsa la vitiligine, che è una malattia della pelle per cui la pelle si squama e diventa come quella dei serpenti, cioè a macchie scure e bianche. Di fatto sembri un serpente, che è una malattia psicosomatica, che poi può avere, sotto l’ombrello dello psicosomatismo, un sacco di ragioni. Io lo ho incontrato qualche mese dopo e mi ha detto: vedi Pansa, anzi come tutti voi piemontesi anche i sardi non ti chiamano mai per nome, sempre per cognome, vedi Pansa, vedi come sono ridotto? Io sto soffrendo come Dio ha voluto, le stesse pene, gli stessi dolori che ha sofferto Moro nel carcere del popolo. Quindi da questo punto di vista, l’uomo. Poi questo dramma, questa vicenda che lo ha distrutto fisicamente, negli ultimi anni della sua vita, è diventata anche una forma di sarcasmo verso il mondo. Ma io poi posso dire una cosa personale? Quando io sono uscito nel 2003 con il Sangue dei vinti, che era questo primo libro su quanto era accaduto in Italia dopo il 25 aprile, cioè la mattanza, gli assassini di massa fatti dai partigiani comunisti nei confronti non solo dei reduci della Repubblica Sociale prigionieri, ma anche dei preti, dei cattolici, dei partigiani bianchi, dei sindaci socialisti riformisti, dei giornalisti non graditi, uno dei pochi dell’establishment che mi ha difeso è stato Cossiga, intervenendo proprio su Libero. Quindi da questo punto di vista, uomo coraggioso. Adele, mi ha ricordato, l’altro giorno, quando stavamo guardando in televisione la vicenda di Cossiga che era appena mancato, che voleva a tutti i costi che io andassi in Sardegna a Forte Village per ritirare un premio per il mio libro. Io sono sempre stato uno che non ha mai amato essere premiato, e mi sono rifiutato e Cossiga si è pure incazzato.
ALBERTO SAVORANA:
Sai che a conferma di questa descrizione che mi hai fatto, di cosa rappresentò per Cossiga la vicenda Moro, Cossiga raccontò qualche anno fa, dopo la morte di don Giussani, che la vicenda Moro gli aveva fatto prendere la decisione di lasciare la politica, non solo il Ministero degli Interni e ha ricordato che fu solo un colloquio con don Giussani che lo fece convincere che, forse, poteva dare ancora come cattolico democristiano un contributo al paese.
GIAMPAOLO PANSA:
Guarda, io non conoscevo questa vicenda di Cossiga e il suo rapporto con don Giussani.
ALBERTO SAVORANA:
Glielo ha dato per un suggerimento di Moro, che gli aveva dato un bigliettino dicendo: devi andare a conoscere questi qui a Milano. Comunque per il convegno del ’73, organizzato dagli universitari di Comunione e Liberazione al Palalido di Milano, Moro, invitato da alcuni suoi studenti dell’università della Sapienza di Roma, aveva partecipato.
GIAMPAOLO PANSA:
Comunque debbo dirti che lui, la vicenda di Moro, lo ha distrutto. Lo ha distrutto. Cossiga ha scritto molto e ha rilasciato anche molte interviste non so se abbia lasciato un diario. Io ho letto molti quotidiani, le cronache della sua morte, della sua scomparsa. Non si parla di questo. Poi aveva questa storia famigliare drammatica alle spalle. Questa separazione dalla moglie che lo aveva molto colpito, confesso che pur avendo la presunzione di sapere un sacco di cose sul conto dei democristiani importanti non ho mai saputo perché questa coppia fosse scoppiata. Comunque certamente Cossiga, anche nei suoi difetti, è stato un grande e io credo che questa seconda Repubblica, dal punto di vista della statura morale e politica, presenti soltanto dei personaggi da poco.
ALBERTO SAVORANA:
Cari estinti, un altro titolo del libro potrebbe essere I vincitori sconfitti, perché le figure che descrivi sono figure che hanno tenuto in piedi l’Italia, eppure è passata la gloria anche per loro. Sinteticamente quale è stata secondo te la causa?
GIAMPAOLO PANSA:
Dunque. Prima faccio una parentesi. Quando mi dici vincitori sconfitti, ti ricordi Adele che era uno dei titoli che avevamo inventato per questo libro, poi abbiamo scelto I cari estinti” perché era più sintetico? Metteva proprio insieme la storia dei vincitori della guerra civile che poi si fottono da soli. Qual è stata la causa? La causa è stata che la politica era diventata troppo grossa, troppo larga più che grossa, era diventata troppo spettacolare, era diventata un’occasione di arricchimento anche personale. Evidentemente penso che, curiosamente, la DC è sopravissuta all’attacco del terrorismo, a questa cosa terribile, e non è sopravvissuta al cambiamento in peggio della società italiana. Il che significa che quello che può accadere ai partiti, la cosa più grave, non sono le tragedie che dall’esterno possono arrivare addosso, ma sono i mali della società che si trasmettono alla politica senza trovare nel personale dirigente della politica la forza per fermarlo e per arginarlo. Parliamoci chiaro, i partiti di oggi, lo dico in modo molto familiare, mi fanno tutti un po’ senso. Però se guardo alla società italiana, al di là degli schemi, non soltanto schemi politici destra, sinistra, centro, vedo che noi, come società italiana, siamo meglio complessivamente della politica. Un vecchio detto diceva, non mi ricordo più chi lo disse, che se guardi i politici per il 10% sono meglio della società che li esprime, per il 10% sono peggio, e l’80% sono assolutamente uguali. Mi viene in mente un altro detto, forse può aiutarci a chiudere questo incontro, di un signore che si chiamava Winston Churchill, che disse: la democrazia parlamentare è il peggior sistema politico del mondo. Purtroppo non abbiamo ancora inventato nulla di meglio che possa sostituirlo. Ragazzi miei, coraggio.
ALBERTO SAVORANA:
No. No. Io ho l’ultima domanda. L’ultima domanda è questa: quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore, il titolo del Meeting di quest’anno. Pansa, sulla soglia della maturità, promessa del giornalismo italiano, oggi nel 2010 cosa desidera?
GIAMPAOLO PANSA:
Da che cosa? Dal giornalismo italiano?
ALBERTO SAVORANA:
Da Pansa. Tu sei tutto sei…
GIAMPAOLO PANSA:
No mi piacerebbe… intanto allora immaginiamo che il Padre eterno ci sia, come c’è sicuramente, immaginiamo che abbia un occhio su questa sala e immaginiamo che può essersi congratulato dicendo: guarda quelli del Meeting come sono bravi e quanta gente hanno portato a sentire quel fesso di Pansa. Vediamo un po’ se Pansa abbia qualche desiderio da esprimere. Quindi quello che io, parlando con il Padre eterno, gli direi è: mi lasci campare ancora qualche anno, non tanti, me ne bastano 4 o 5, mi lasci campare sano di corpo, o per lo meno più o meno sano di corpo e anche di testa, mi faccia scrivere ancora un paio di libri, mi faccia avere il piacere di vivere accanto ad Adele, che è il mio regalo che il Padre eterno mi manda tutte le sere e tutte le mattine e di questo Lo ringrazio e dopo mi faccia morire. Se possibile mi faccia morire di colpo. Perché non vorrei dare problemi ad Adele e alle persone che mi vogliono bene – in questo ho in mente mio padre. Mio padre è mancato che aveva quasi 79 anni, aveva sempre fatto l’operaio del telegrafo, era il capo della squadra di emergenza dei guardafili di Alessandria, era un signore, anche fisicamente, io lo ricordo molto diverso da me, magro, piccolo, uno scoiattolo, si arrampicava sui pali del telegrafo in un baleno con l’aiuto dei ramponi, aveva 79 anni, è andato a trovare mia sorella che aveva chiuso il negozio di moda che era stato di mia madre, poi suo, perché nessuno delle due gemelle aveva deciso di fare il mestiere della mamma e della nonna e è andato a trovarla, ha mangiato pochissimo come ormai mangiava poco, perché una delle cose che ho scoperto invecchiando è meglio mangiar poco, ha bevuto mezzo bicchiere di vino, è andato a riposare verso la una di pomeriggio e non si è più svegliato. Non si è più svegliato. Io vorrei svegliarmi solo un momento prima per poter dire ad Adele che la ringrazio pubblicamente per tutte le grandi ricchezze che mi ha donato e per l’aiuto che mi ha dato, non tanto nello scrivere ma nel cercare di essere, come dicono gli spagnoli, un hombre vertical, una persona dignitosa.
ALBERTO SAVORANA:
Così anticipiamo, siccome ad ottobre non possiamo essere qui, anticipiamo gli auguri, con l’augurio che fece don Giussani in una lettera alla sorella che compì gli anni, e le scrisse: ti auguro ancora settantaquattro di questi anni. Noi ne aggiungiamo uno. Io ti ringrazio. C’è un’espressione che a don Giussani piaceva molto e che in qualche modo attribuiva a se stesso non per vana gloria ma per descrivere a noi ragazzetti che lo seguivano in che cosa consisteva la maturità di un uomo. Disse: che la giovinezza è un atteggiamento del cuore, cioè quella capacità continua di stupirsi della realtà perché c’è. Oggi il card. Scola, nella sua relazione al Meeting lo ha detto in altre parole. Ha detto che una delle cifre della figura di don Giussani è l’interesse per. Cioè questa apertura senza confini verso tutto ciò che in qualche modo di umano c’è in chiunque, anche nel peggior avversario, anche nel peggior nemico. Perché il cuore ce lo abbiamo tutti e resiste sotto qualunque montagna di macerie e detriti. Per chiudere, io ti leggo una frase che da quando l’ho scoperta, quando incontro qualche giornalista, gliela leggo sempre. L’ho letta anche questa mattina all’incontro con Calabresi e tre giornalisti stranieri, è una frase che Giussani disse nel ’96, incontrando un gruppo di giornalisti. Nel corso di una domanda su qual era secondo lui la missione del giornalista, disse: “lo scopo specifico, la missione per un giornalista deve essere quella di aprire tra parola e parola, o dentro le sillabe della stessa parola, aprire il più possibile uno spazio come quando si aprono le finestre, uno spazio per un aria vera, per un senso vero, creare lo spazio che renda più riconoscibile ed accettabile il senso vero. Il giornalista crea spazi per una registrazione più vera del presente”.
Noi ti ringraziamo Giampaolo perché ogni volta che vieni qui tu apri la finestra, ci aiuti a spalancare la finestra per poter primo respirare di più, per vincere la paura e per inoltrarci un po’ di più dentro uno spazio vero. Grazie e auguri.
(Trascrizione non rivista dai relatori)