Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA. UN FUOCO SEMPRE ACCESO
Presentazione del libro di Silvio Cattarina, Fondatore della Cooperativa Sociale L’Imprevisto (Ed. Itaca). Partecipano: l’Autore; alcuni ragazzi della comunità L’Imprevisto. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
CAMILLO FORNASIERI:
Buonasera a tutti, benvenuti. Siamo molto contenti come Meeting di presentare un nuovo libro di Silvio Cattarina, Un fuoco sempre acceso, che raccoglie riflessioni, come dicono l’introduzione di Mariella Carlotti e la postfazione dell’attore comico Paolo Cevoli, sul metodo che regge il lavoro di Silvio nella sua comunità. La prima parte dell’incontro la introduce Silvio, ma sono protagonisti Susanna, che interverrà per prima, poi Dario, Veronica e Federica. Loro racconteranno un po’ chi sono e la loro vita in comunità.
SILVIO CATTARINA:
Bene. Intanto ringrazio Mariella Carlotti per la prefazione e Paolo Cevoli per la postfazione, ringrazio Eugenio Dal Pane come editore e ringrazio tutto l’Imprevisto perché è vero che io ho dato il nome al libro, però in pratica, di tutta la nostra realtà, in un certo senso, mi sembra che la cosa più bella che si possa dire all’inizio, è che l’Imprevisto è un gruppo di persone, un gruppo di amici che lo sostiene e lo conduce. Mi sembra una delle caratteristiche tra le più belle della nostra esperienza: è un gruppo di responsabili, non è un uomo solo al comando. E già questo mi sembra uno dei grandi doni che abbiamo avuto in questi anni, di fronte al quale chiedo e spero di essere pronto a riceverlo in continuazione. La seconda cosa che desidero dire è questo stupore, questa meraviglia che sempre di più, andando avanti, abbiamo rispetto a tutta l’esperienza che ci sta scappando fuori, che sta nascendo, perché mai avremmo pensato a una grandiosità così, a una profondità, a un’esperienza sempre più grande e sempre nuova che ci nasce tra le mani, inaspettatamente, improvvisamente: un imprevisto. Questa esplosione di vita, questi giovani amici che rinascono, che ripartono, che risorgono a testa alta così gioiosi e così coraggiosi. Così come i loro genitori. Questa cosa che è così sacra su questa terra, come ci spiegavano a noi da piccoli, i genitori sono sacri, che anch’essi ricominciano, ripartono. Anche i genitori dei nostri ragazzi, li saluto, ce ne sono presenti tanti, mi sembrano uno dei doni e dei frutti più belli della nostra esperienza.
Ma anche noi, io stesso, la mia stessa persona, noi operatori. Mariella Carlotti l’anno scorso, commentando la nostra mostra, aveva detto: i ragazzi dell’Imprevisto parlano con autorità, perché hanno un maestro. E in un mondo così povero come quello in cui siamo, forse si è pensato che magari il maestro sono io oppure i miei colleghi, qualche operatore. E invece lei aveva subito pensato e aggiunto: parlano con autorità perché hanno un maestro e il maestro è l’esperienza, il cammino che fanno all’Imprevisto. Ecco, anche questo mi sembra che sia una cosa che sempre più va capita, va studiata, va approfondita, e questa è un’altra meraviglia. Ed è per questo che piano piano, dietro la sollecitazione di tanti amici, ho scritto questo nuovo libro per descrivere un po’ questo spirito, questo sguardo, come è stato detto. Un po’ l’ho scritto pensando anche al successo del primo libro, perché per non sapere né leggere né scrivere, insomma, ho detto: se il primo libro ha avuto un successo così grande, per altro penso si possa dire, che sarà tradotto anche in russo, non oso pensare al secondo. Quindi un invito veramente a comprarlo e a diffonderlo, a farlo conoscere etc.
CAMILLO FORNASIERI:
È il motivo per cui l’editore non cambia…
SILVIO CATTARINA:
Comunque, e al di là di questo, insomma, come facciamo le cose, per descrivere questo, anche Vittadini nel primo libro mi aveva sollevato molto, mi aveva confortato tanto. Mi aveva detto: non è l’eccezionalità di una persona, ma è un metodo. E quindi per descrivere questo, come dice Paolo Cevoli, i ragazzi dell’Imprevisto hanno una cosa in cui si assomigliano, gli occhi, affamati, aperti, sgranati. Per questo abbiamo descritto e raccontato tutte le cose che facciamo in comunità, i modi, le assemblee, gli incontri, le crisi i colloqui etc. e quello che desidero veramente – ma fa parte della nostra esperienza credo, è un punto saldo, poi ce lo diranno gli stessi ragazzi, ce lo faranno capire – è continuare a essere umile, rimanere attento, aperto, perché se abbiamo avuto così tanto fino a ora, quanto ancora potremo avere, quanta scoperta, quanta novità, quanti doni ancora, quanto impegno, quanta responsabilità possiamo sempre di più conoscere se rimarremo disponibili a tutto, alla vita che ci viene incontro. E così tutte le grandi cose che abbiamo scoperto in questi anni, questo dichiarare la nostra intenzione fin da subito appena incontriamo un ragazzo: non sei quello che hai fatto, non sei l’errore che hai compiuto, non sei il male che hai fatto, che hai ricevuto, un’altra cosa sei e desideriamo con te incominciare un’avventura veramente grande, veramente bella.
Desideriamo essere capaci di un’amicizia che dura per sempre, che veramente ci porti a delle cose grandi. Desideriamo lavorare sul tuo e sul nostro cuore, su tutta l’attesa del nostro cuore. I primi lunghi anni lavoravamo sul dolore e sulla malattia e sul fallimento, adesso lavoriamo su tutta l’attesa del nostro cuore, su tutto il desiderio, su tutto il bene. Non è il passato, come diciamo sempre, ciò che pesa, ciò che pesa è il presente se nel presente non c’è appunto una presenza, se nel presente non vediamo che c’è una chiamata, un compito. I nostri ragazzo hanno sempre detto quanta solitudine, quanta solitudine hanno vissuto, ma la vera solitudine è scoprire e accorgersi di essere al mondo inutilmente, “per senza niente” si dice a Pesaro. Una ragazza diceva: mi sono sempre sentita data come per scontata. Ecco, piano piano, ci è successo un cambiamento, un ribaltamento delle nostre persone, dei nostri cuori, abbiamo iniziato a lavorare sul bello, sul buono, sull’amore. Non è il dolore che non si accetta, perché il dolore una volta che succede, succede, una volta che è fatta è fatta, ciò che non si accetta è l’amore che accade e capita subito dopo, appena arriva il dolore. Non può essere che Dio ti dà un dolore e non ti dà subito un aiuto, una strada, una possibilità: è quella che non accettiamo, non il dolore che è appena successo. Quello che il tuo cuore ha sempre atteso, quello che il tuo cuore ha sempre cercato c’è. C’è sicuramente, è evidente, cerchiamolo insieme. C’è sicuramente: su questa terra qualcuno che ci ha sempre voluto, ci ha sempre atteso. Ha sempre atteso il mio arrivo, la mia persona.
Quindi anche questo fatto: noi chiediamo ai nostri ragazzi un coinvolgimento veramente serio, veramente impegnato, veramente preciso, siamo molto esigenti, non ne lasciamo passare una. Ci teniamo al linguaggio, al vestito, appunto all’impegno che si vogliano bene, che si comportino bene, che si aiutino. Chiediamo loro tanto, non vogliamo che sia un’esperienza trascurata e trasandata come tanti luoghi di questo nostro povero mondo. Desideriamo veramente una cosa che sia uno spettacolo agli occhi di Dio, agli occhi degli uomini, insomma. Tutte le nostre giornate, tutti i nostri luoghi così come sempre di più abbiamo chiesto, innanzitutto a noi stessi prima e poi ai ragazzi di poter vedere in noi e in loro, nei loro genitori molto di più di quello che i nostri poveri occhi riescono a vedere. Una volta ero lì, mi ricordo a chiedere: chi sono i vostri genitori, cosa pensate dei genitori? Avevano detto cose misere, così siamo fatti, non andiamo nel profondo delle cose e lì ho detto: no, i vostri genitori sono molto di più di quello che i nostri occhi riescono a vedere e le nostre parole riescono a descrivere. Il valore della persona è ciò che porta, non ciò che è, non ciò che riesce a fare, ma ciò che porta. Meglio, ciò di cui è portatrice: quello è il valore. Mi hanno chiamato a parlare nella mia prima vecchia comunità, dopo tanti anni. C’era una ricorrenza, una festa e rivolgendomi ai ragazzi presenti e agli operatori presenti ho detto: quando pensate ai vostri operatori e guardate i vostri operatori, se vedete che i vostri operatori vi danno solo la loro persona, mandateli via, è troppo poco. Non accontentatevi di questo, è troppo poco, ai nostri operatori chiedete molto di più della loro persona. La loro persona è una povera cosa, come siete una povera cosa voi e a voi operatori dico che quando guardate i vostri ragazzi dovete dire ai vostri ragazzi se ciò che fate qui dentro lo fate solo per voi o lo fate per tutto il mondo. Ecco a noi è capitato di avere questi doni, queste intuizioni, insomma. Nella vita c’è un trucco, un segreto, una chiave di volta che se la scopriamo insieme, se la chiediamo, se riusciamo a essere aperti, tutto poi si apre, tutto si spiana, tutto viene da solo. Non sono io innanzitutto che devo darmi le cose, che devo essere capace nel fare le cose: da un altro fuori da me deve venirmi tutta la forza. Il dramma della droga è che si cerca con l’intromissione nel nostro organismo un’esplosività tale da riuscire nelle prestazioni, ma i doni più belli è da fuori che ci devono venire. Io desidero che sia la vita, che sia Dio a portarmi ogni sorta di dono, ogni sorta di grazia, non sono io con le mie mani, la vita è troppo poco, troppo misera se la faccio io. E quindi molto succede nel presente, quando ci parliamo, quando ci guardiamo, quando ci richiamiamo, quando ci chiediamo le cose. È lì che scappa fuori, se tu attendi, se tu guardi, se tu stai un attimo zitto, una sorpresa, un’irruzione, qualcosa che irrompe, veramente inaspettato, come una conoscenza nuova, come un respiro nuovo, un cuore nuovo.
Una ragazza una volta si è alzata e ha detto: è tutto nuovo! Fino a ieri pensavo nella vecchia maniera, adesso mi accorgo, non so come, non so perché che è tutto nuovo, tutto diverso. Quindi non siamo più soli, non siamo più abbandonati, abbiamo trovato una strada perché c’è la certezza che un aiuto, una strada si farà sempre avanti, succederà sempre un appiglio, un aiuto. Siamo liberi dalla paura. Una volta, pensando sempre al passato e al male, eravamo sempre schiavi della paura. I ragazzi sono consegnati a noi, ma anche noi siamo consegnati ai nostri ragazzi. Cito, come si dice nelle grandi presentazioni: “I ragazzi ci sono affidati e consegnati. La loro responsabilità rimane grande e permane nel tempo, ma gradualmente inavvertitamente e sempre più fortemente noi pure in un certo senso ci affidiamo, veniamo affidati ai nostri ragazzi. Diventiamo nel tempo e con il tempo quasi i loro discepoli. Indissolubilmente legati a loro, abbiamo sempre imparato tantissimo, abbiamo sempre ricevuto più di quello che abbiamo dato”. Lo so, non è facile parlare così.
Insomma, comunque ho concluso, adesso la fatica la faranno i ragazzi. Spesso i nostri ragazzi ci dicono: quanto ci volete bene? Ed io gli dico: è un’osservazione misera quella che voi fate, chiedetevi piuttosto perché vi vogliamo così bene. Questo mobilita di più, questo è più grande e vogliamo sempre di più lavorare sulla libertà. Siamo un’occasione temporanea e dei poveri strumenti perché quello che desidero che arrivino a capire è che sono sempre stati amati, non è solo quando hanno conosciuto noi o nell’esperienza dell’Imprevisto. Ma l’esperienza dell’Imprevisto deve arrivare a loro per poter dire: è da sempre che siamo amati, anche nella prova, anche nel dolore, noi siamo sempre stati amati e lo saremo per sempre. Ecco, desidero che almeno questa consapevolezza e questa certezza porti la nostra esperienza e l’ultima cosa che voglio dire è anche emersa già da molto tempo, ma anche in questo Meeting, quando vedo che tutte le persone incontrano i nostri ragazzi che sono dei testimoni, diventano dei testimoni. E’ una cosa bellissima. È stata qui una ragazza, giorni fa, Delia, molto combattuta e combattiva e lei non conoscendo neanche il nostro linguaggio, la nostra storia, era da un pezzo che non ci vedevamo, lei ha detto: ma io mi accorgo veramente che la cosa più bella della vita è essere testimoni, che noi testimoniamo ciò che abbiamo incontrato. L’avventura di bene, non di dolore, perché non è il testimoniare il male, ma il bene, l’avventura di bene e di amore che noi abbiamo vissuto, perché anche tra di loro si aiutano tantissimo, non è solo noi che possiamo testimoniarla. Tant’è che per lunghi tempi dopo abbiamo litigato un po’ con Eugenio Dal Pane: il titolo del libro doveva essere, ma forse aveva ragione lui che diceva che suonava male, che era brutto, Testimoni del Fuoco. Per lunghi mesi è stato questo, ti ricordi? E invece dopo sembrava Thor, quei film tremebondi che vedono loro e allora l’abbiamo cambiato per perturbare il mondo attraverso il percorso dello sguardo, feriti dal bene, trafitti dall’amore che ci accade, che ci accende ogni giorno.
CAMILLO FORNASIERI:
Adesso ascoltiamo Susanna.
SUSANNA:
Ciao a tutti, mi chiamo Susanna e ho ventotto anni e sono arrivata Tingolo il 18 marzo del 2009 e praticamente da questi amici non me ne sono più andata. Qualche anno fa alla domanda cosa ti ha colpito della comunità avrei risposto: lo sguardo degli operatori che hanno su di noi. Ora non mi basta più. Come leggerete o avrete già letto nel libro, Silvio spiega il metodo, bello leggerlo, è utile, ma vi assicuro che viverlo è faticoso, ma fantastico. La fatica per me è stata nelle regole, nei no e nelle pretese alte su di me. Ma fantastico perché a mano a mano che i giorni, i mesi e gli anni passavano, stavo intuendo che io facevo parte della loro missione. Non riuscivo a dare il nome prima a chi mi aveva condotto qui, ma quando l’ho fatto ho amato tutti molto di più. Praticamente sono stata scelta e Gesù mi ha messo dentro questa realtà dell’Imprevisto e con i loro metodi mi hanno aiutata a ritrovarmi, insomma, più si fatica e più si ha. Per questo la mia gratitudine verso di loro è infinita, perché non hanno mai mollato la presa con me. Ho iniziato la mia tossicodipendenza con un grande senso di nostalgia, una nostalgia che non riuscivo a capire e che volevo far sparire. Ora non è sparita, ma guardando il mio cuore e al cielo piano piano la sto capendo. Comunque sono sempre più lieta di ciò che ho, mi sono sposata da quattro mesi e aspetto un bambino. Sono felice e ora voglio vivere la mia missione da moglie e da mamma. Grazie a tutti.
CAMILLO FORNASIERI:
Adesso la sorte cade su Dario.
DARIO:
Buonasera a tutti, sono Dario, ho ventiquattro anni e vengo da Ponte San Giorgio in provincia di Fermo. Allora, Silvio mi ha detto che venivo questa sera pochi giorni fa e comunque mi ha detto porta due, tre cose che ti hanno colpito della comunità. La prima, ecco Susanna diceva dello sguardo che adesso non le basta più, però adesso m’accontento di quello: lei sta un po’ più avanti. Lo sguardo è comunque una cosa che colpisce all’inizio. Io appena sono entrato, subito ho visto lo sguardo degli operatori, di Dicio, di Valeria, di Silvio, che comunque non mi guardavano per quello che ero stato, oppure per quello che avevo fatto, per tutti i macelli che avevo combinato, ma si sono soffermati sul fatto del presente, cioè, io adesso chi sono e cosa posso diventare, cioè sul mio desiderio. E comunque questa è una cosa che subito mi ha colpito. Questa è la mia terza esperienza di comunità, io ne ho fatte altre due, quindi quando sono entrato anche su questa avevo molti pregiudizi, sul rapporto con gli operatori, dei quali non avevo fiducia, proprio, no. Invece quando sono arrivato qua, subito ho sentito l’affetto di Dicio, di Valeria e comunque il bello è che penso che loro, ok lo fanno per lavoro, ma penso che certe persone sono portate per farlo. Io ho avuto varie occasioni per confermarmi su questa roba qua.
Ad esempio, mi ricordo il primo giorno che sono entrato, vedo in assemblea Silvio Cattarina e i responsabili e dico “ok questo omo se presenta oggi, primo giorno poi non lo rivedrò più, tra un mese, tra due mesi”, invece ogni giorno viene là la mattina, buongiorno… e quindi è cosa che colpisce. Oppure ho avuto la fortuna di fare con la dottoressa Valeria Ballerani il pellegrinaggio di Macerata, eppure là comunque ho visto che il rapporto è come tra madre e un figlio, bello; oppure con Dicio che ogni mercoledì sera mi porta a giocà a pallavolo e comunque è lo stesso Dicio che trovo in comunità, cioè vengo trattato sia in comunità sia e quando sto fuori in modo uguale e questo è una cosa che a me mi ha colpito tanto e mi è piaciuto.
Poi una domanda che m’avevano fatto molto spesso i genitori miei: Dario, che cos’è per te la comunità? Di solito porto due esempi, uno del Signore degli Anelli. Praticamente c’è Frodo e Sam. E praticamente a Frodo gli viene dato ’sto compito de portà ’st’anello per distruggerlo e viene accompagnato durante il percorso con le difficoltà che c’ha dal suo compagno Sam. A un certo punto, appena sono arrivati a questa montagna dove Frodo deve gettare l’anello per distruggerlo, quasi stremato, dice: “Sam, non ce la posso fare porta tu l’anello al posto mio”. E Sam gli dice una frase bellissima: “Io l’anello non te lo porto perché comunque è un compito che è stato dato a te” – ed io me ce vedo tanto, cioè, i miei problemi della tossicodipendenza non me li tolgono oppure li scarico su de loro – “però posso portare te sulle spalle fino a là e tu lo getti”. Riportato a me: sono loro che mi danno sempre sostegno ogni volta che sono in difficoltà. C’è anche un testo di Péguy che mi è piaciuto tanto dove c’è una frase che dice:, se tu vuoi insegnare a nuotare a un bambino piccolo, se lo sostieni troppo non impara mai, se lo sostieni poco va a fondo, quindi ci vuole sempre un equilibrio. E questo è quello che mi sta dando la comunità, perché fuori i miei genitori non hanno saputo educarmi e invece loro qua ce la stanno facendo. Ecco, queste sono le cose che mi hanno colpito di più dell’Imprevisto.Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Molto bella questa cosa che citava di Péguy. La Sapienza è proprio quella che viene dalla scoperta della vita, la scoperta delle cose che fai con il tuo cuore. C’è chi impedisce ai figli, magari per troppa tutela, di fare esperienza ma poi ci si accorge che nel farla uno deve avere un maestro. Il maestro non è qualcuno che non ti fa fare delle cose o te ne fa fare delle altre, perché questo qui potrebbe essere un ideologo, potrebbe essere un potente, potrebbe essere uno che ti vuole portare dove dice lui, ma è qualcuno che ti fa vedere come lui ha vissuto e quindi tu puoi scegliere, puoi veramente guardare che cosa puoi desiderare, se qualcosa di più grande che ti soddisfa nella vita o no. Dunque la vita non è lo scorrere di un metodo, di regole, ma è lasciare aperto l’imprevisto e domandarlo. Ecco, questa domanda di poter vivere, io credo che sia la domanda più forte che abbiamo, è anche il grido con cui uno forse viene con voi. Chiediamo adesso a Veronica un racconto.
VERONICA:
Allora, io sono Veronica. Silvio è da oggi che mi dice di parlare ad alta voce per cui farò del mio meglio. Ho 26 anni sono arrivata al Tingolo ormai 5 anni fa, ho fatto tutto il mio percorso, anche la casa di reinserimento e adesso vivo in un’altra casa. Quello che mi ha colpito dell’Imprevisto è che, per prima cosa, più che degli operatori, quando sono arrivata, davanti a me ho trovato delle persone con un grande cuore. Ma ho capito poi con il passare del tempo che avere un grande cuore non significa essere buoni e sempre indulgenti, ma a volte anche mantenere una posizione molto dura e molto decisa, quindi essere anche molto severi, come sono stati con me. Io sono entrata in comunità che credevo di essere pazza. Secondo me, ero matta e ne ero proprio convinta e una prima cosa che mi colpiva è che gli operatori non si fermavano a questa cosa, non si fermavano al fatto che io dicessi di essere pazza ma anzi, mi chiedevano tanto, tantissimo, come gli altri e in alcuni momenti sembrava anche che mi chiedessero più degli altri. Una seconda cosa è che anche nelle situazioni più drammatiche, come è potuta essere per me una morte improvvisa che è avvenuta in comunità, mi chiedevano tanto. Quando ad esempio ho avuto questa notizia, mi sentivo come se questa cosa non interessasse a nessuno, ma con il passare del tempo ho capito che invece anche in una situazione del genere, cioè in una situazione così drammatica e così dolorosa, mi veniva richiesta una presenza, cioè veniva richiesto che io fossi presente tutti i giorni, nonostante questo. Con questa cosa ho capito che c’era qualcosa che andava anche oltre la morte e che ti può essere chiesto di essere presente anche nelle situazioni più difficili e più drammatiche.
Un’altra cosa che mi ha molto colpita è che io, arrivata in comunità, avevo gli occhi totalmente chiusi, io non riuscivo a guardare nulla che non fosse una cosa negativa, io vedevo tutto negativo, non c’era niente per me di positivo; una cosa che mi ha colpita è che io a mano a mano ho cominciato a riaprire gli occhi, ho cominciato a guardare, ma ho cominciato a guardare non perché questi occhi improvvisamente si siano aperti, ma perché, appunto, mi è stato insegnato, piano piano e quindi ci vuole un maestro che ti insegna anche questa cosa. E mi ricordo in particolare Grazia, che è la persona che segue le ragazze della comunità femminile del Tingolo e della casa di reinserimento, che spesso mi diceva e che diceva a molte di noi ragazze: alza gli occhi! Alza gli occhi e guardati intorno, e per me alcune volte era molto difficile guardarmi intorno, perché io ero una molto chiusa in me stessa e l’unica cosa che vedevo erano i miei pensieri, le mie paure, le mie paranoie, le mie difficoltà, però adesso mi rendo conto che anche al lavoro, quando vivo dei momenti di difficoltà, provo ad alzare gli occhi e a guardarmi intorno, anche se alla fine davanti a me non ho delle persone che hanno la mia stessa storia e che hanno fatto il mio stesso percorso, provo comunque a guardare quello che ho intorno, perché comunque, davanti a me, ci sono delle persone che hanno un cuore. La cosa molto grande e molto bella che è avvenuta in comunità è che non sono cambiata soltanto io, con il mio percorso, ma è cambiata tutta la mia famiglia, mia madre, mia sorella e secondo me è cambiato anche mio padre. Anche avendo un padre che in fin dei conti non c’è mai stato e non c’è ora, ho sentito che anche lui con questa esperienza in qualche modo è cambiato.
L’ultima cosa che volevo dirvi, l’ultima cosa che mi ha colpito è che ho capito, l’altro giorno, parlando con la mia mamma, che grazie alla comunità ho potuto iniziare a dire Veronica, cioè “io sono Veronica”. Questo l’ho capito proprio con un esempio concreto che mi ha fatto la mia mamma l’altro giorno, perché la mia mamma mi raccontava di un fatto che è avvenuto un po’ di tempo fa. Vi spiego: in comunità ogni tot di tempo si torna a casa per i permessi, più o meno una volta al mese e inizialmente anche l’impatto con le persone fuori può essere difficoltoso, però… forse non è neanche una questione di vergogna, però dici: “C’è quella persona, piuttosto che quell’altra che mi guarda!” E un po’ di tempo fa è successo che una persona, molto sorpresa di vedermi, ha esclamato: “Ah! Mio Dio, ma è Veronica!”. Io in quel momento mi sono proprio resa conto di poter dire “sì sono Veronica”, perché proprio mi sono potuta alzare, girare a testa alta e dire: “Sì sono io, sono Veronica, come stai?”. E questa forse è la cosa più grande che è successa e che mi colpisce, di poter dire “io sono Veronica”.
CAMILLO FORNASIERI:
Adesso è la volta di Federico.
FEDERICO:
Buonasera a tutti, ho 17 anni e vengo da Aosta. Non posso dire d’aver capito tutto come loro, perché sono in comunità solamente da undici mesi e quindi ho ancora tanto da vedere e ancora tanto da imparare. È iniziato tutto con la mia adozione, quando ero molto piccolo, all’età di un anno e sette mesi. I miei genitori, che per sorpresa ho visto qua quando sono entrato e che saluto, ovviamente, sono laggiù, hanno sempre cercato di crescermi con le maggiori attenzioni possibili, senza farmi mancare niente, cercando di starmi il più vicino possibile; sia nello studio, sia nello sport cercavano di farmi entrare in qualcosa che potesse interessarmi, che mi piacesse. Ma andando avanti con l’età, quando iniziavo a capire un po’ la mia situazione o comunque la mia adozione, ho iniziato a respingerli. Purtroppo non li sentivo veri, non li sentivo i miei genitori e questa cosa mi ha fatto molto soffrire, tanto è che poi sono andato a cercarmi persone che pensavo fossero più forti di me, con carattere, esteriormente, ovviamente, da fuori, come si presentavano. Mi sono imbattuto in situazioni spiacevoli, con droga, casini, discoteche, e i miei che non sapevano mai se rientravo, quando rientravo, sempre preoccupati. Poi è successo che un giudice, vedendo la situazione com’era, ha pensato di mandarmi all’Imprevisto, sotto provvedimento, e adesso sono qui.
Sto facendo questo percorso che, devo dire la verità, è duro, è difficile: mi mettono davanti ogni giorno i miei limiti, tutte le difficoltà che possono esserci, che ho riscontrato e che sto ancora riscontrando. Le cose che colpiscono sono parecchie perché è un ambiente nuovo e di tutto fai esperienza, però una cosa grande è vedere che un posto con così tante regole, con così tante… è brutto chiamarle “fissazioni” però… non so, vedere che comunque ci sono i cancelli aperti uno dice: “Boh, è una comunità! Uno dovrebbe contenere i ragazzi, perché chissà cosa andrebbero a fare, chissà cosa, con i cancelli aperti”. E’ una cosa che io non mi sarei mai aspettato, è una cosa grande, penso, anche la fiducia che ci danno. Fiducia che ovviamente io, fuori, non avevo per nessuno, genitori compresi, amici. Tutte le persone che mi stavano intorno, cercavo sempre di metterle da parte e far prevalere comunque la mia persona o quello che ne era rimasto, diciamo. È bellissimo il rapporto che sto iniziando a scoprire con un compagno, l’operatore, il responsabile, ma anche con tutte le persone che mi circondano, all’interno dell’Imprevisto, perché penso che una cosa così non mi ricapiterà più, ecco! È da poco che ho scelto di rimanere un altro anno, perché fino ad un paio di mesi fa, la mia idea era: tempo due settimane da adesso, compio i 18 anni e me ne torno a casa, finito il provvedimento, ma poi ho pensato che non era la cosa giusta per me, ho pensato che ci potesse essere qualcosa di più grande, di migliore ovviamente e di ricominciare a prendere in mano la mia vita. Grazie
CAMILLO FORNASIERI:
Bello questo che ha detto Federico: finito il provvedimento, cioè finita la necessità più urgente, se vogliamo, che tutto ritorni come prima, nella normalità, ma c’è l’esigenza di qualcosa più grande, e allora io scelgo questo. Un po’ come la gente che un mese fa, due mesi fa, di fronte a chi gli chiedeva “la scelta è semplice, rinnega, dì di no a questa cosa altra che segui”, perché Silvio prima parlava che il trucco è qualcosa altro fuori di me; comunque, a della gente nel mondo è stato chiesto due mesi fa “lascia stare questo e tieniti la casa, tieniti il lavoro, cioè cambia fede, cambia la cosa che cerchi, non cercare, non desiderare la cosa che ti fa vivere, perché in fondo vivi lo stesso, il provvedimento è finito” e sono quelli dell’Iraq che stanno scappando, e della gente come voi, come noi, ha scelto per la vita, e di non semplicemente consumare l’esistenza nella normalità, perché quello che diceva ancora Silvio prima, la vita è troppo misera se fatta di quello che sappiamo fare, e questo mi colpisce perché dobbiamo essere, forse l’ha detto qualcuno di loro, dobbiamo amare questa gente, loro, questi qui che hanno lasciato tutto quello che avevano per tenere l’unica cosa che è il valore della vita, che è la vita stessa, che è il loro volto, che è il loro nome. E questo, insomma, ha riempito anche il mio tempo di una grande domanda, di una grande attesa.
Volevo chiedere a Silvio, una cosa che mi ha colpito: tu dicevi appunto che tutto viene da fuori ma come si fa a non confondere il fuori, come è successo a Federico, andare da qualcuno o da qualcun altro, da un fuori che è invece amico della vita, come fare a riconoscerlo? E poi l’altra cosa sul guardare che diceva la Veronica, il guardare che è come un gesto, lei ha detto una decisione: come si fa a guardare fuori, qualcosa d’altro?
SILVIO CATTARINA:
Si riesce, penso io, o almeno provo a rispondere. Insomma il cambiamento in me è avvenuto quando ho cominciato a pensare meno a tutto il loro bisogno e a quello dei loro genitori e ho cominciato a pensare al mio. A stare attento a tutto il bisogno del mio cuore, a tutto il bisogno di vita e di felicità che avevo io, insomma. Dell’ esplosione di gioia di cui avevo bisogno io e ho cominciato a parlare così apertamente ai ragazzi: cerchiamo se c’è qualcosa e qualcuno che veramente può rispondere a tutto questo bisogno. Noi diciamo spesso a loro “non guardate noi, innanzitutto noi, ma guardate dove noi guardiamo”, perché il punto è appunto questo, che ci sia qualcosa e qualcuno che possa venirti incontro, che possa risponderti, che possa portarti in dono tutto. Tutto il bene che c’è in cielo e in terra insomma.
Io penso che la vera e grande questione sia appunto questa, che con l’aiuto degli amici, con l’aiuto della comunità, con l’aiuto della Chiesa, della fede, con l’aiuto degli adulti, sia possibile gridare. Il compito dell’uomo è il grido, ho detto una volta, mentre i nostri ragazzi pensano che il compito della vita sia essere capaci in tutte le cose, alcuni dei nostri ragazzi sono arrivati a dire “la mia paranoia era quella di pensare di dover essere capace”, come diceva anche Veronica, “mi sentivo molto inadeguata”, ma appunto, più si è inadeguati e meglio è, se si pensa che invece la forza viene da altro, viene da fuori, perché il vero compito dell’uomo non è essere capace, ma è gridare, imparare a gridare, gridare sempre più forte, che l’aiuto ti venga dall’alto. Guardo il cielo e chiedo questo aiuto. Io penso che la vera testimonianza, essere testimoni come siamo chiamati anche in questo Meeting, anche l’esempio che hai portato tu di questi nostri fratelli lontani ma non tanto, non troppo lontani, è appunto questo grido, che sia possibile che Dio venga sempre a noi, che ci porti tutto, che ci porti sempre, che ci sia sempre, appunto. Una volta un nostro ragazzo diceva: “Ho perso tanti padri” e ad un certo punto ho detto: “No, basta! Non dire più così perché il vero punto è che tu non hai mai visto tutti gli altri che ti ha mandato Dio. Appena ti toglieva un padre te ne mandava tanti altri, eri tu che non volevi, eri tu che non volevi accorgerti, che non li vedevi insomma”. La vita è tutta questa esplosione di bene, il problema è di saperlo accogliere, è di saperlo prendere. Questo io penso.
EUGENIO DAL PANE:
Io sono stato molto colpito da questo libro, lo sento come una grande testimonianza di che cosa è la paternità. Io con Silvio ho detto questo, che mi sembra che questo libro sia molto importante, perché coglie esattamente il problema del nostro tempo. Come fa uno che è stato così ferito dalla vita a ritrovare uno sguardo positivo sulla vita? Com’è che gli occhi possono rinascere? Per questo è un libro che io considero paradigmatico, perché dice che l’uomo ritrova se incontra una paternità e io non so se Silvio si ritrovi in questa sottolineatura, però mi sembra che tutto il libro sia questa evidenza, anche quello che abbiamo sentito questa sera, che uno incontrando il padre possa ridire il proprio nome.
SILVIO CATTARINA:
Lo ha detto Veronica, “io ora riesco a dire io”, “riesco a dire Veronica” e tutto l’Imprevisto è un grande padre, tutte le persone. Perché il padre non è solo uno. Ad esempio io ho avuto tanti padri, io avevo il mio di sangue, ma poi c’era anche Giussani, ma poi c’erano anche i preti delle nostre comunità, gli adulti delle nostre comunità: i padri sono sempre tanti. E tutti fanno un unico grande padre, un’unica grande voce, un’unica grande armonia. La questione del padre è la questione della vita, di questa vita, di questo grido, di questa grande possibilità. Quindi io sono d’accordo insomma. È un libro che, speriamo, e credo, possa essere utile. Già tanti l’hanno letto e son venuti in tanti a testimoniarci questo, anche in questo stand che abbiamo quest’anno, a testimoniarci l’utilità di questo. Cioè questa strada, questa possibilità insomma. Questa vita che risorge, che rinasce, perché i primi ad essere stupiti siamo proprio noi, sono io: chi l’avrebbe mai detto che sarebbe venuta fuori tutta questa vita, tutta questa energia, questo entusiasmo? Entusiasmo, dal greco, vuol dire essere dentro Dio.
CAMILLO FORNASIERI:
Mi ero dimenticato una cosa che mi aveva colpito. Silvio all’inizio ci ha detto: ciò che non si accetta è l’amore, il vero scontro non è con quello che pensiamo noi, il vero scontro è con qualcosa che ci domanda di noi stessi, con l’amore, che viene in un punto e lì uno, forse perché deve scegliere, è chiamato fuori. È bello questo passaggio, perché è il passaggio del metodo, cioè da questo punto in poi, se si risponde a quella domanda, si può continuare a riguardare, prima è casuale penso. No?
SILVIO CATTARINA:
Ad un certo punto scrivo: “Perché l’essere viva, abbia a vibrare per avere, bere, mangiare ogni stilla dell’essere”. Sì, sono persuaso che al fondo, all’origine del malessere odierno dei giovani, al principio di tante malattie esistenziali vi sia questa avversione all’essere. All’essere delle cose, della vita, della realtà. Un odio sottile e profondo verso l’essere. Si può anche dire verso l’amore, verso il gratuito, verso ogni dono che inesorabilmente la vita porta con sé. Anche quella povera, sfortunata, provata. Ecco, io penso che è perché vorremmo crearla noi la vita, vorremmo essere noi capaci di darla e di farla e di deciderla, e di proporla e di decidere i tempi, i modi e le possibilità. Invece la vita è molto più grande di noi e quindi piano piano, soprattutto in questa epoca moderna, ci nasce questa avversione all’amore, al bello, al buono. I nostri ragazzi vorrebbero rimanere un po’ nell’ombra, un po’ nella polvere, non è che non stanno bene nel pulito, ma vorrebbero che le cose rimanessero sporche per avere una giustificazione sulla miseria della vita. Ma non è così, noi ci ribelliamo a questo.
CAMILLO FORNASIERI:
Rovesciamo questa cosa su noi adulti, perché quello a cui siamo chiamati è esattamente essere uomini così, a recuperare la posizione del bambino, con gli occhi sgranati e pieni di senso del dono. Io vi ringrazio tantissimo. Grazie a Susanna, auguri per i prossimi mesi, per custodire questo nuovo dono, auguri a Dario, a Veronica, Federico e al nostro Silvio per tutta l’opera e per il suo cammino e il libro raccontiamolo e diffondiamolo, perché le parole che nutrono un’esperienza sono un’esperienza che arriva ad altri. Grazie.