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INVITO ALLA LETTURA. PIETRO SAMBI. NUNZIO DI DIO
Invito alla lettura: Pietro Sambi. Nunzio di Dio
Presentazione del libro di Valerio Lessi, Giornalista (Ed. Cantagalli)
Partecipano: l’Autore; S. Ecc. Mons. Luigi Negri, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio e Abate di Pomposa; S. Ecc. Mons. Silvano Maria Tomasi, Osservatore permanente della Santa Sede per le Nazioni Unite. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie Lucchini, rimaniamo per la prossima proposta di invito alla lettura che andiamo ad iniziare.
Si tratta della biografia, del racconto di una personalità, quella di Pietro Sambi: Nunzio di Dio, questo è il titolo, edito da Cantagalli e scritto da Valerio Lessi che è qui con noi insieme agli altri nostri due ospiti che velocemente presento: Sua Eccellenza Mons. Negri, che salutiamo, Arcivescovo di Ferrara e Comacchio, e Abate di Pomposa, e Mons. Tomasi Silvano Maria, che è Nunzio e Osservatore della Santa Sede presso le Nazioni Unite. Valerio Lessi, che è un giornalista e ha al suo attivo già altre biografie di figure a noi care, anche qui al Meeting, ad esempio una bellissima biografia di don Oreste Benzi, per la San Paolo, L’infaticabile apostolo della carità”, o di Enrico Bartoletti, Vescovo del Concilio, o alcune biografie di beati come Raffaella e Bruna Pellesi, sempre per la San Paolo. Lui è qui di Rimini, quindi, oltre che l’autore, incontriamo una figura che forse i presenti conoscono di più, ma per chi non lo conosce, è stato un grande pastore, un grande missionario, come dice la presentazione agile nel retro del libro Pietro Sambi, Nunzio Apostolico, quindi rappresentante della Chiesa presso i più diversi Paesi nel mondo. Mi sembra di poter dire dalla sua peregrinazione, presenza e lavoro nel mondo, che ha toccato quasi tutti i continenti, diverse situazioni e realtà che formano la complessità delle comunità ecclesiali nel mondo, la loro ricchezza, la loro originalità, ma anche grandi problemi di convivenza, di minaccia, di difficoltà che la comunità cristiana vive nel mondo. Ma Sambi è stato anzitutto testimone dell’amore all’uomo che il fatto cristiano, che la fede vissuta, sa portare in tutte le situazioni, non affidando mai – forse anticipo una delle corde che ci saranno negli interventi -, non anteponendo mai la soluzione dei problemi allo scavo di essi, alla comprensione reale.
Io ricordo una frase di don Giussani che mi ha sempre molto colpito. Diceva che tutta la vita è un problema, di fatto è tutta un tessuto di problemi, che la soluzione di un problema sta nel vedere, nel cogliere tutti i fattori di quel problema. Cioè non è un’aggiunta, non è qualcosa che interviene. Questo mostra come in questi anni, non solo in questo recente momento vissuto dalla Chiesa, persone come lui hanno vissuto questa testimonianza della fede come possibilità reale per la convivenza umana, che altrimenti sarebbe impossibile. Io ho avuto occasione di incontrarlo a Gerusalemme, quando con l’amico Vignali andammo a fondare, a generare un nucleo di Compagnia delle Opere in quella città. E ci accolse esattamente con lo stile, con la curiosità, con l’apertura e anche con la dedizione alle relazioni che sono state veramente la chiave della sua attività nel mondo. Anche lui è di qui, è di Sogliano, nella diocesi di Rimini, e questo libro, che chiedo adesso a Valerio Lessi di presentarci brevemente, è stato realizzato con il sostegno della Fondazione internazionale Giovanni Paolo II per il Magistero Sociale della Chiesa, che è stata fondata da Mons. Negri. Questo è un legame, una possibilità di trasmissione delle storie recenti che fanno la nostra Chiesa. Lessi, dall’inizio.
VALERIO LESSI:
Sì, buonasera a tutti. Dunque, il libro tratteggia la figura di Mons. Sambi seguendo due filoni di fonte principale: chi lo ha conosciuto nelle diverse parti del mondo in cui ha prestato il proprio servizio e basandosi sugli scritti. Ma più che gli scritti, parliamo delle interviste, degli interventi fatti nel corso della sua decennale missione. Sambi è nato nel 1938 ed è morto nel 2011, quindi sono appena tre anni dalla sua scomparsa. Come ricordava Camillo, è un romagnolo, di Sogliano sul Rubicone, un paese qui alle spalle, sulle colline fra Rimini e Cesena. Vale la pena ricordarlo perché è un uomo che aveva un amore sviscerato per la propria terra, per il proprio paese, per la propria cultura, per la propria tradizione. Amava il suo paese, lo ha fatto conoscere in giro nel mondo, tornava felicemente ai suoi amici, ai suoi affetti, al suo ambiente, durante le vacanze. Il suo essere romagnolo lo rendeva un uomo esuberante, schietto, e la fede, la sua profonda fede, si è innestata su questa umanità, valorizzandola e potenziandola.
Nei vari incontri che in questi mesi ho fatto per presentare il libro, ho sempre detto che il modo migliore per accostare la figura di Sambi è la definizione che lui stesso ha dato di sé. Lui di sé diceva di essere sacerdote per vocazione, storico per formazione e diplomatico per obbedienza. Sacerdote per vocazione: Sambi è stato innanzitutto un prete, un sacerdote, un pastore della Chiesa. Lo stesso Cardinale Sodano, nel contributo dato per il libro, lo definisce un grande pastore della Chiesa e un grande missionario del Vangelo di Cristo. Diciamo pure che non aveva nulla del funzionario o del burocrate ecclesiastico, nonostante il mestiere che faceva. Nelle situazioni in cui è stato mandato, ha avuto sempre a cuore innanzitutto la vita della Chiesa, delle comunità cristiane presso le quali lui si sentiva effettivamente di rappresentare il Papa, il pastore supremo della Chiesa. Che sia stato un pastore lo si vede anche dalle testimonianze relative ai primi incarichi: si immergeva totalmente nella vita del luogo, dei rapporti, e quando lo si andava a trovare ad essi rimandava. E in queste situazioni, non dimenticava mai di essere sacerdote. Chiunque incontrava, questa persona entrava definitivamente nella sua vita. Lui, da quel momento, cominciava a condividere gioie e dolori, tutte le circostanze. Il libro è ricco delle testimonianze di questi rapporti che sono nati in diverse parti del mondo e che sono continuati durante tutta la sua vita. Era un uomo dalla fede certa, rocciosa, verrebbe da dire.
A me piace sempre raccontare ciò che lui stesso raccontò, di cosa significò per lui il suo primo incarico a Gerusalemme all’inizio degli anni ’70. Lui diceva: “Fino a quel momento, Gesù Cristo per me rischiava di essere un fantasma, qualcosa di evanescente, che stava sulle nubi. Incontrare i luoghi fisici dove ha vissuto, mi ha aiutato a recuperare che è una presenza viva, reale, concreta, storica, nella mia vita”. Ed è questa una certezza che lo ha accompagnato durante tutta la sua vita. Storico per formazione, la seconda definizione che dava per sé. Amava gli studi storici, probabilmente vi si sarebbe dedicato più a lungo se non fosse stato chiamato ad un altro servizio. Resta la sua tesi di laurea, fondamentale, sul Vescovo Sormani, attuatore del Concilio di Trento nella diocesi di San Marino-Montefeltro. Ma questa sua formazione storica lo rendeva un uomo con una particolare sensibilità, e cioè con l’attaccamento, l’attenzione alla terra, agli uomini di una terra, alla loro cultura, alle loro tradizioni, al loro modo di vivere. Un esempio di una testimonianza riportata nel libro. Quando era a Gerusalemme, durante l’ultimo mandato, andava da un barbiere musulmano che a lungo, dopo che partì per gli Stati Uniti, continuava a chiedere come stava Pietro. Questo percorso dalla nunziatura al barbiere lo faceva a piedi, per respirare l’aria, per sentire cosa c’era a Gerusalemme in quel momento, proprio per questa immersione nel luogo e nella terra, per meglio capirla e meglio servirla. In qualsiasi situazione sia stato – lui ha toccato tutti i continenti fuorché l’Australia – non ha mai avuto il problema dell’occidentale che rischia di leggere la situazione con gli occhi deformanti della sua cultura, della sua mentalità.
Lo sforzo che ha sempre fatto, fin dall’imparare la lingua, è stato quello di immergersi nelle situazioni che incontrava, a cui era mandato. Diplomatico per obbedienza: giovane sacerdote, una volta ordinato era tornato in diocesi, ma presto fu richiamato. Frequentò l’accademia ecclesiastica a Roma perché la Santa Sede lo voleva appunto nel proprio servizio diplomatico. Dopo la sua morte, un importante vaticanista americano ha detto che è uno che ha meglio interpretato la parte migliore della tradizione diplomatica vaticana. Aveva avuto dei maestri importanti. Durante il suo primo incarico a Gerusalemme, negli anni ’70, Nunzio era Mons. Pio Laghi, che è stato appunto un altro grande diplomatico della Santa Sede nel secolo scorso. Prima come addetto di nunziatura e poi come Nunzio, è sempre stato immerso in situazioni calde, di frontiera. Non in situazioni facili ma situazioni in cui c’erano molti rischi, molte situazioni pesanti da affrontare. Il primo incarico da Nunzio è stato in Burundi, in Africa, dove si è trovato a fare i conti con i contrasti tra Utu e Tutzi, e dove, quando c’era un regime ostile alla Chiesa che limitava pesantemente la libertà religiosa, si è trovato con coraggio a difendere la libertà religiosa, la libertà di culto dei cristiani di quel luogo.
Ci sono nel libro, anche in questo senso, importanti testimonianze. Lui è stato lì nel 1985, dal 1985 al 1991, e ancora oggi lo ricordano come un padre, un pastore che ha lasciato un segno profondo nella loro vita. Oppure, altra situazione calda, nell’Indonesia di Suharto dove, pochi mesi dopo che era arrivato, si era trovato ad affrontare il problema di Timor Est – vi ricordate, no? -, della crisi di quella parte dell’isola. Finché nel ’98 non è stato nominato Nunzio a Gerusalemme. Non c’è bisogno che entri nei dettagli per spiegare cosa poteva essere allora, come ancora è oggi, pesantemente oggi, essere Nunzio in quella terra, coi contrasti, le guerre e così via. Lui si faceva forza, lo sottolineava spesso, nel fatto di essere l’unico diplomatico accreditato contemporaneamente presso lo Stato di Israele e presso l’autorità Palestinese. Diceva: “Questo mi da forza, libertà di giudicare ciascuno di loro, di dire la verità a ciascuno di loro senza timore, senza bisogno di compiacerli e senza neanche il rischio di entrare in urto”. Alcuni fatti di quel periodo meritano di essere ricordati. Innanzitutto, il viaggio di Giovanni Paolo II nel 2000, nell’anno del Giubileo. Sambi è stato un grande organizzatore di viaggi papali, durante la sua carriera ne ha organizzati tre. Il primo in Burundi, il secondo appunto a Gerusalemme, il terzo negli Stati Uniti con Benedetto XVI. Diede un contributo decisivo alla risoluzione della crisi della Basilica della Natività nel 2002, quando – come ricorderete – un gruppo di palestinesi armati entrò nella Basilica tenendola occupata per 55 giorni. La difesa dei luoghi santi non come difesa di mura morte senza significato. Lui diceva: “L’importate non è conservarli, di conservare delle pietre, dei sassi, ma quello che occorre conservare è la presenza dei cristiani in questo luogo, perché senza i cristiani diventano muri senza voce”. E vediamo quanto oggi questa sia una drammatica realtà, se non in Palestina, comunque in Medio Oriente.
L’abilità di negoziatore con la Santa Sede, l’accoglienza dei pellegrini: non c’era pellegrinaggio che venisse dall’Italia che lui la sera non andasse a incontrare in albergo, per spiegare il senso del pellegrinaggio in Terrasanta e quella situazione. Ultima situazione affrontata, quella degli Stati Uniti, su cui dico poco perché poi Mons. Tomasi, che lì lo ha conosciuto potrà dirci qualcosa di più. Però anche lì la sua presenza è stata fondamentale per due cose: per aiutare la Chiesa e la società americana a superare lo shock traumatico degli scandali per gli abusi sessuali del clero e per rinnovare l’episcopato americano. Durante il suo mandato, è stato rinnovato quasi un terzo dei vescovi americani. Dovete sapere che uno dei compiti del Nunzio è quello di istruire le pratiche, le terne dei candidati all’episcopato da sottoporre poi alla Santa Sede. E in questo senso, lui ha svolto negli Stati Uniti un lavoro molto prezioso. Probabilmente, se la morte non lo avesse colto all’improvviso nel 2011, lo avremmo avuto fra i Cardinali che hanno eletto l’ultimo Pontefice. Quando gli si prospettava questa possibilità, lui diceva: “Di fronte a Gesù Cristo non importa come mi presenterò, se con l’abito rosso o viola”. Diceva anche che andava dal Papa per assicurarsi che era lui che veramente lo voleva a quell’incarico: “Questo è l’ultimo sì che dirò alla Chiesa, il prossimo lo dirò direttamente a Gesù Cristo”. E così è stato.
CAMILLO FORNASIERI:
Un applauso, oltre che a Valerio, questo instancabile biografo e scavatore, a questa figura che inizia a delinearsi di fronte ai nostri occhi, che ci rende anche chiaro questo legame fraterno tra Santa Sede e tutte le comunità del mondo, che si incarna a sua volta appunto in persone, come Sambi ci ha mostrato con la sua vita e la sua pastorale. Adesso, Mons. Tomasi: anche lui è sacerdote missionario come nascita e vocazione. Si è formato a New York, più che storico è sociologo, anche impegnato nell’università, ha sempre lavorato moltissimo nel campo delle migrazioni, dei rifugiati nei diversi Paesi del mondo, su temi dunque che da sempre sono vivi dentro il tessuto della Chiesa locale e universale. E’ oggi in un punto di osservazione, quello per le Nazioni Unite, che gli permette di vedere lo stato di salute dell’uomo, dei poteri del mondo di fronte all’uomo, questa cosa di fronte alla quale Sambi si è sempre, come dire, inchinato, con quella riverenza che Cristo ha e porta nel mondo. A lei un breve, ulteriore passaggio per raccontarci di lui.
S. ECC. MONS. SILVANO MARIA TOMASI:
Grazie, vorrei sottolineare soltanto alcuni aspetti essenziali della figura di Pietro Sambi, mi fa piacere come Nunzio di parlare di un altro Nunzio, che ha segnato il cammino con il suo esempio e con la capacità che ha avuto di costruire rapporti veramente importanti, non solo con governi ma anche con persone singole e di creare quindi un senso di fiducia nel servizio della missione che lui aveva di Nunzio, di rappresentante del Papa presso Chiese locali. Anzitutto, direi che c’è un aspetto personale in Pietro Sambi che qualifica e condiziona tutta la sua attività: porta l’immediatezza nell’ambiente da dove viene della Romagna, e quella schiettezza che sprigionava parlando con lui era un po’ contagiosa, perché riusciva a mettere a suo agio la persona davanti a lui, anche se parlava molto chiaro. Aveva una capacità di comunicazione efficace, con il suo sorriso senza astio ma semplicemente con una forma di comunicazione diretta, che ingaggiava l’interlocutore in maniera molto personale. Ci siamo trovati varie volte perché, quando andavo a Washington, era sempre un mio punto fisso ritrovarmi con lui e discutere della Chiesa negli Stati Uniti.
Io avevo lavorato per vari anni nella Conferenza Episcopale americana, e parlavamo delle sue esperienze confrontandole con le mie, quando ero Nunzio in Africa o quando ero passato alla nunziatura presso le Nazioni Unite a Ginevra. Sempre il tema dominante era come la chiesa oggi può rispondere alle situazioni complicate, difficili, con cui viene a trovarsi la comunità cristiana. Per esempio, in Israele il conflitto sempre aperto o sotterraneo tra israeliani e palestinesi diventava un momento importante della sua missione quando era a Gerusalemme, però lui faceva da ponte, come è stato detto, tra una parte e l’altra, cercando di costruire un dialogo che fosse costruttivo, che fosse positivo e smorzasse il senso di odio che portava alla violenza. Quindi, l’aspetto della sua personalità era quello di un uomo molto sincero, molto immediato, di una grande intelligenza e intuizione, perché si preparava sui vari dossier che doveva trattare, non aspettava l’ultimo momento. Era un uomo che aveva il senso della responsabilità anche per quanto riguarda la preparazione della comunicazione di posizioni, di idee. Ma c’è un aspetto poi istituzionale che lui ha portato avanti con grande saggezza. E’ stato ricordato che ha servito la Santa Sede in maniera egregia preparando per esempio i viaggi del Papa nei Paesi in cui era Nunzio. Mi ricordo che era particolarmente orgoglioso anche dell’ultima visita che aveva preparato, quello di Papa Benedetto XVI negli Stati Uniti: era riuscito a ristabilire un ponte, dopo la tensione tra la Santa Sede e l’Iraq, di serenità e di comunicazione efficace, appunto durante la visita di Papa Benedetto.
Come Nunzio negli Stati Uniti, doveva affrontare l’esplosione dello scandalo della pedofilia che è stata una macina di mulino al collo dell’episcopato americano. Però ha saputo farlo in maniera intelligente, prima di tutto mettendo in chiaro le responsabilità senza nascondere niente e cominciando a incoraggiare i Vescovi, a prendere quelle misure che erano assolutamente necessarie, per ridare credibilità alla chiesa e pulire un po’ il marcio che c’era stato. Secondo, ha dovuto lavorare con molta prudenza per la nomina dei Vescovi. Sapete che uno dei compiti importanti dei Nunzi nei vari Paesi è di preparare le nomine dei Vescovi nelle varie diocesi: lui portava avanti con responsabilità questo lavoro, con il gruppo di sacerdoti che lo coadiuvavano in maniera molta meticolosa e attenta. Non era legato a personalismi ma voleva il bene della Chiesa e puntava diretto su quello che era il meglio per un servizio pastorale attento. E anche come Nunzio non perdeva mai il gusto dell’amicizia, il gusto per i contatti personali. Abbiamo passato tante serate allegre assieme in casa di amici comuni: non gli mancava il senso del buon umore, raccontando qualche bella barzelletta teneva allegra tutta la compagnia. L’immediatezza, la spontaneità di Monsignor Sambi rappresentavano una forma di vita cristiana senza angosce, responsabile, cosciente dei problemi, impegnato com’era a risolverli, ma sapendo che c’era qualcuno più grande di noi che guida la Chiesa, che guida la soluzione dei problemi. E mi pare che alla radice della sua serenità e della sua forza ci fosse una fede semplice e chiara e forte che lo sosteneva. Quando noi Nunzi spariamo di circolazione, avendo condotto una vita un po’ girovaga da un Paese all’altro, rischiamo di essere molto velocemente dimenticati. Ma è bene che si ricordi la figura di Pietro Sambi, perché non è stato soltanto un servitore fedele attento e intelligente della Santa Sede ma ha lasciato un esempio che altri Nunzi possono seguire con sicurezza. E in questo cammino il suo ricordo rimane luminoso e caro a tutti noi.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie a Monsignor Tomasi che ci ha ben chiarito qual è il senso di questo bellissimo libro, di questa preziosa offerta per noi di lettura. Adesso Monsignor Negri, che lo ha conosciuto di persona e, oltre a essergli vicino negli ultimi anni, ha collaborato a volere farci conoscere questa storia.
S. ECC. MONS. LUIGI NEGRI:
Ma io credo che la ragione per cui ho approvato e sostenuto l’idea di Marco Ferrini, Direttore della Fondazione Giovanni Paolo II, di pubblicare questo libro in memoria di Monsignor Sambi, si riconduca a una parola strana e rara nel mondo cattolico e anche non cattolico, la parola gratitudine. Io ho una grande gratitudine per Monsignor Sambi e dopo dirò velocemente, oltre a quello che hanno già detto loro, il perché, ma ho anche una grande gratitudine per il mondo ecclesiale di cui Monsignor Sambi è stato espressione. Egli era un figlio forte e generoso del Montefeltro e in lui si esprimeva la caratteristica fondamentale di questo clero con cui ho vissuto otto anni della mia vita, l’immediatezza della forza che poi fa supplire a tante altre difficoltà o limiti che sono sempre dentro l’esperienza di un uomo. Sambi ha significativamente testimoniato che la fede diventa valorizzatrice dell’umano, valorizzatrice dell’esperienza umana, e se l’esperienza umana come nel suo caso, come ha già detto Monsignor Tomasi, è l’esperienza di una grande vivacità intellettuale, di una forza morale, di una capacità di comunicazione immediata, quello che accade è qualcosa di grande, di significativo dal punto di vista cristiano e umano.
Don Giussani ha insegnato a molti di noi che nel primo incontro c’è già tutto. Allora io vorrei ricordare ad anni di distanza quel momento terribile e bellissimo del primo incontro con Monsignor Sambi, allora Nunzio in Israele. Dopo la mia elezione a Vescovo di San Marino Montefeltro, in attesa dell’ordinazione, sarà passato un paio di mesi, ho detto al Nunzio in Italia Paolo Romeo, poi felicemente Cardinale a Palermo: “Senta io non vado a fare gli esercizi per sentire il solito gesuita o il solito conventuale, io devo andare a guidare un pellegrinaggio in Terra Santa: me lo fa passare come esercizi?”. Infatti, i miei esercizi per l’ordinazione episcopale sono stati questo pellegrinaggio. Forse, se fossi andato a fare gli esercizi normali, non sarei andato all’ordinazione. Arrivo a Gerusalemme, vediamo un po’ della città e a un certo punto mi dicono: “Nell’auditorium della Custodia di Terra Santa c’è un convegno ecclesiastico”. “Se c’è un convegno ecclesiastico, io non c’entro”. “No, c’è un convegno e c’è anche il Nunzio”. “C’è il Nunzio? Allora vado”. Io ero sempre, don Pino lo sa, rigoroso come gestione dell’abito, anche se non avevo sempre il colletto perché mi dava fastidio: questa è la penitenza dell’episcopato. Però ero vestito come si fa nel pellegrinaggio. Entro e mi metto sul fondo. Monsignor Sambi sta parlando, sta facendo la relazione. Si ferma davanti almeno a trecento persone. Mi indica e fa: “E’ entrato il mio Vescovo, perciò devo andare a salutarlo”. Ha attraversato tutto l’auditorium, è venuto davanti a me che avevo solo un pulloverino, si è inginocchiato e fa “Eccellenza, mi benedica“. E io ho capito che era vero, non c’era neanche un minimo d’affettazione – mi spiego? – perché il nesso con la realtà ecclesiale per Monsignor Sambi era costitutivo, era un uomo di Chiesa che nell’essere uomo di Chiesa amava la Chiesa in modo incondizionato.
Questo mi introduce alla parola più significativa che tornava nel dialogo. Lui è sempre venuto una volta all’anno, quando tornava per le sue vacanze a Sogliano, e ci siamo sempre trovati in quel periodo, fino a quando venne l’ultima volta per la visita di Benedetto XVI a San Marino Montefeltro. Morì quindici giorni dopo negli Stati Uniti. Mi disse: “Vedi, il problema di noi ecclesiastici è la parola obbedienza. Guarda, io sono uscito dal seminario e mi hanno detto: «Fai il vicerettore e intanto insegni Storia della Chiesa». Dovete sapere che allora Pennabilli aveva centinaia e centinaia di chierici. Lui aveva fatto una tesi straordinaria su Mons. Sormani, il milanese che era stato ai tempi di San Carlo Vescovo a Montefeltro, non a San Marino, perché allora San Marino non c’era, c’era il Montefeltro di cui San Marino faceva parte, e una parte trascurabile. Voleva proseguire gli studi, aveva studiato con padre Macarone, uno dei più grandi storici, che gli aveva trovato una borsa di studio perché non c’erano i soldi, allora. Andò dal mio predecessore, che si chiamava Bergamaschi, era un piacentino, e gli disse: “Eccellenza, guardi che bello! Mi ha scritto padre Macarone, che mi ha trovato una borsa di studio, posso fare il suo assistente e così fare il dottorato in Storia della Chiesa, mi lasci andare!”. Mons. Bergamaschi, ricorda lui, lo guardò e gli disse: “No!”. Tirò fuori da un cassettino una lettera e gli disse: “Proprio oggi ho ricevuto una lettera della Segreteria di Stato, vogliono un prete nostro che entri nel servizio diplomatico della Santa Sede. E allora tu, che mi hai promesso qualche anno fa obbedienza, non vai a fare la cosa che ti piace ma vai a fare quello che io ti dico di fare”. Sia chiaro che oggi non si può più fare così, se oggi un Vescovo fa così, va a casa, va a casa lui, non l’altro. Lui accettò, portando sempre dentro questa predilezione per i suoi studi. Negli Stati Uniti, Nunzio, trovò il tempo di mettere a posto la tesi che fu pubblicata qualche mese prima che morisse, tanto gli studi di Storia della Chiesa gli era connaturali: insomma, non c’è fede senza obbedienza.
Non c’è fede senza obbedienza. E non c’è valorizzazione dell’umano se non come esito di una sequela, cioè di un abbandono di sé a una misura più grande di sé, ma la misura più grande di sé non frulla nella testa in nessuno, neanche dei più alti ecclesiastici. La volontà di Dio, la presenza del mistero di Dio nella nostra vita è legata alla concretezza del suo corpo che è la Chiesa e si esprime attraverso la presenza e la testimonianza di coloro cui è stato connesso l’onere di guidare quella comunità, che è cristiana se è una comunità guidata al destino. Se non è una comunità guidata al destino, è un setta, e una setta può anche illudersi di avere grandi capacità di intervento ma l’esito è finire, mentre l’esito della comunità cristiana è incrementare il progetto di Dio nel mondo. Sambi è stato così un grande pastore, mi raccontava che quando era in Medio Oriente, a Gerusalemme dovevano mettere d’accordo gli ortodossi coi copti. Ogni tanto si sprangavano nel Santo Sepolcro fra ortodossi e cattolici per la distribuzione dei ceri. Doveva correre di notte a dividere i contendenti. Questi sono stati gli inizi del vero dialogo ecumenico, non le sottigliezze sulle formulazioni di Aquisgrana, che cinquecento anni dopo si dice: “ Aveva ragione Lutero”. Allora, se aveva ragione Lutero, abbiamo avuto torto noi per questi cinquecento anni. Un uomo che ha sacrificato la vita materialmente: quando un parroco veniva introdotto in una parrocchia cattolica o ortodossa o copta, il Nunzio c’era. Un uomo che ha amato la Chiesa non per modo di dire, non l’immagine di Chiesa che lui aveva, la Chiesa reale. Quando venne lì per la visita del Papa a San Marino e Montefeltro, e poi dopo andai da lui a mangiare giù a Sogliano, lì alla fine mi abbracciò in un modo… Certe cose si sentono prima, mi ha abbracciato come se fosse l’ultima volta che ci vedevamo, vi giuro che ho avuto una percezione stranissima, mi ha abbracciato, piangeva come un ragazzino, mi ha detto: “Lei passerà alla storia”, gli ho detto: “Oh beh!”. E lui: “Passerà alla storia perché ha portato qui il Papa, in questi territori che sono stati sempre umiliati dal potere, qualche volta anche dal potere ecclesiastico. Lei ha portato il Papa qui, non se lo potranno più dimenticare, non potranno più dimenticarselo, non solo i vecchi, ma anche i giovani”.
È vero, per settimane e mesi la sensazione che ho avuto è che avesse veramente colto nel segno, che il popolo cristiano, nell’incontro col Papa, ha come ritrovato la sua radice buona e la sua direzione giusta. Io penso che per generazioni, anche prossime, quell’ultimo straordinario invito di Benedetto: “Siate laici vivi, attivi e intraprendenti!” abbia segnato la storia di queste popolazioni, al di là dell’immediatezza. Era anche un uomo che aveva il senso del suo valore, perché egli aveva un accesso particolarissimo a Giovanni Paolo II, non faceva la trafila che i Nunzi devono fare per arrivare a Giovanni Paolo II. Aveva combinato in modo tale le cose che faceva una telefona a Dziwisz e arrivava sotto l’ascensore. A tutto il resto, compresa la Segreteria di Stato, non piaceva molto che questo Nunzio andasse dal Papa quando voleva e come voleva. Invece credo che sia Giovanni Paolo II sia Benedetto abbiano avuto un grande affetto per lui. Insomma, perché lui fosse fatto Nunzio a Washington, si mosse direttamente il Presidente Bush, alla fine dell’incontro con Giovanni Paolo II, mi raccontò lui. Chiese che partecipasse alla visita che doveva fare in Vaticano anche Sambi, che allora era ancora solo Nunzio a Gerusalemme. E alla fine, nel vano di una finestra, Bush disse a Giovanni Paolo II: “Mi faccia questa grazia, anche se io non sono cattolico, ci mandi Nunzio Mons. Sambi”. Quindi aveva il senso del suo valore e del suo limite, aveva anche un senso acuto della difficoltà che la Chiesa viveva. Mi disse quando ci salutammo per l’ultima volta: “Adesso vado a Roma perché lui mi ha detto di venire a Roma per un’altra responsabilità”. “Ma io di lui non mi fido, perciò vado dall’altro di cui mi fido. Gli dico: «Santità, se è lei che mi vuol qui, vengo, se sono gli altri non vengo». Poi il Signore ha pensato ad altro svolgimento.
Insomma, quando si incontra un uomo di fede che vive la sua fede nelle circostanze, Mons. Tomasi ve l’ha detto cosa accade. Ha cambiato un terzo dell’episcopato statunitense, non solo quantitativamente, questo terzo che è cambiato, diversamente da quello italiano, ha sostenuto una battaglia con il potere sulle grandi questioni etiche della libertà di coscienza, della libertà di professione religiosa, la libertà di fare obiezione alle leggi ingiuste. Questo episcopato cambiato in questo modo è adesso la punta avanzata, secondo me, dell’episcopato cattolico nel mondo, e questo si deve a Sambi. Ecco, quando si incontra un uomo di fede si capisce che tutte le circostanze della vita, quelle più banali di cui è fatta la nostra vita quotidiana, anche quella di un Arcivescovo o di un Nunzio, e le circostanze straordinarie, tutte servono ad esprimere la novità di Dio. Quando l’ho salutato l’ultima volta gli ho detto: “Eccellenza, sappia che per me nella vita lei è la testimonianza di una grande frase che Giovanni Paolo II ha detto ricordando San Benedetto: «Era necessario che l’eroico diventasse quotidiano perché il quotidiano potesse divenire eroico». Lei per me è la testimonianza di questo”. Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Bene, abbiamo tanti motivi per leggere questo libro, per cui facciamo questa lettura. Soprattutto vorrei chiudere su questo tema bellissimo dell’obbedienza, della docilità, che è il punto di fedeltà a Pietro, a Roma, che ha messo insieme in lui i fattori che diceva Mons. Tomasi, e poi anche Negri, del personale e dell’istituzionale. Mi ero annotato: “Vivere senza angoscia, con responsabilità”. Spesso in noi la responsabilità crea angoscia, oppure toglie la coscienza dei problemi che invece si è acuita in lui, perché c’è qualcuno più grande di noi. Questa è la valorizzazione di tutto l’umano che la fede è nel mondo. Grazie davvero tantissimo della presenza di Tomasi qui al Meeting, per questo secondo suo intervento. Grazie a Mons. Negri e a Valerio Lessi. Il libro è là in fondo. Arrivederci.