INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.

Invito alla lettura

21/08/2011 - ore 15.00_x000D_ Oscar Romero. «Ho udito il grido del mio popolo»_x000D_ Presentazione del libro di Anselmo Palini (Ed. AVE). Partecipano: l'Autore, Insegnante e Saggista; Chiara Finocchietti, Responsabile del Coordinamento Giovani del Forum Internazionale di Azione Cattolica._x000D_ A seguire:_x000D_ Il mio principe. Soffrire, crescere, sorridere con un figlio autistico_x000D_ Presentazione del libro di Gina Codovilli (Ed. Itaca). Partecipa l'Autrice, Insegnante.

Oscar Romero. «Ho udito il grido del mio popolo»
Presentazione del libro di Anselmo Palini (Ed. AVE). Partecipano: l’Autore, Insegnante e Saggista; Chiara Finocchietti, Responsabile del Coordinamento Giovani del Forum Internazionale di Azione Cattolica.
A seguire:
Il mio principe. Soffrire, crescere, sorridere con un figlio autistico
Presentazione del libro di Gina Codovilli (Ed. Itaca). Partecipa l’Autrice, Insegnante.

 

CAMILLO FORNASIERI:
Parte il Caffè letterario, che accompagnerà la settimana del Meeting con due appuntamenti quotidiani, alle ore 15 e alle ore 19. Sono molti i testi e i libri che verranno presentati dagli autori o anche da correlatori: con questa sezione, il Meeting intende raccogliere e segnalare alla lettura di tutti quelle esperienze significative, quelle riflessioni o quei saggi di arte e letteratura che possano rappresentare un reale avanzamento dell’esperienza personale di ciascuno di noi. I libri sono importanti: da quello che si legge si capisce anche che cosa si cerca e dove si desidera andare. Rappresentano sempre un incontro, come i due libri che presentiamo oggi partendo dal primo, che è della casa editrice AVE di Roma. Casa editrice storica, nata nell’esperienza dell’Azione Cattolica: ha come titolo Oscar Romero. Ho udito il grido del mio popolo, di Anselmo Palini che abbiamo qui alla mia sinistra e salutiamo. Con lui, che è l’autore, parla Chiara Finocchietti, alla mia destra, salutiamo anche lei.
Oscar Romero, grande figura di sacerdote, di Vescovo e di Arcivescovo del nostro tempo: qualcuno ricorderà l’eco dei fatti che in tutti i giornali del mondo raccontavano i due anni difficili di quella terra del Centro America, di quella piccola terra che collega le due Americhe che è El Salvador. Romero è stato Arcivescovo di quella città e ha subìto, nel 1979, il martirio che, come lui stesso raccontava, ha colpito tanti preti, tanti cristiani, persone scomparse, uccise in quel Paese segnato da contraddittori tentativi di democrazia, governo, cambiamento, instaurazione di potere aristocratici. Li chiamava martiri, non nel senso canonico ma nel senso popolare, del popolo. Come spesso il popolo, anche noi sappiamo riconoscere fin da subito quale sia il segno profondo che qualcuno lascia nella nostra storia, nella storia di tutti. Romero, nel ’79, cade sull’altare, colpito al momento dell’Offertorio: è una cosa che mi ha colpito, leggendo il libro di Palini, una cosa che non ricordavo, io avevo 18 anni e ho in mente quel periodo, ma ho avuto occasione adesso, in questi giorni, di guardare a questa figura con più attenzione, di incontrarla veramente. Un sacerdote nato nel 1917 e morto nel 1979, che ha attraversato, seppur dall’America Latina, tutta la vicenda della Chiesa nel ’900. Con le sue radici popolari, di famiglia bella e piena di cultura ma semplice, approda a Roma dove conosce la forza del carisma di Pietro, dell’istituzione Chiesa e se ne innamora, ne coglie la solidità, la centralità per un Paese che invia come tanti, negli anni ’30, ’40, ’50, i propri sacerdoti a maturare e crescere nella città eterna.
Poi, il ritorno nella sua terra da giovanissimo sacerdote, la presa di coscienza di un mondo che cambia, di una realtà economica in continua evoluzione, la guerra fredda, i poteri che si alternano e questa grande spaccatura tra il popolo, cioè la gente, e il potere, i poteri. Un fattore che nel ’900 ha generato i grandi tentativi utopici e sanguinari, violenti, ma che poi è proseguito nei tentativi di fare ordine nel mondo. Giustizia e utopia hanno sempre un ceppo comune, pur assumendo fisionomie diverse. Ma non è di questo che vogliamo parlare con Chiara Finocchietti, che adesso farà un primo intervento, e con l’autore, Anselmo Palini, quanto di ciò che nutriva Oscar Romero, che lo alimentava, del suo punto d’affetto. C’è una frase di san Tommaso che abbiamo imparato a ripetere spesso: “La vita di un uomo consiste nell’affetto che principalmente la sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione”. Ecco, di Romero sono state spesso dipinte dai media – che sono anch’essi fatti da uomini che cercano speranze e le tramutano spesso in stereotipi – immagini che non conoscono le radici, la visione, e a volte non ci dicono neanche i testi. Romero è una figura grande da riscoprire e da conoscere, fateci fare questo percorso. Chiara, la presento, è una donna di Roma che tra poco si sposerà, impegnata per un incontro personale nella vita dell’Azione Cattolica, rappresentante nazionale dei giovani di Azione Cattolica dal 2005. Ha vissuto anche l’esperienza dell’Azione Cattolica internazionale, spende tantissimo del suo tempo libero dal lavoro in questa attività, come penso molti dei presenti. Romero muore nel ’79: potrebbe sembrare un tempo lontano. Che cosa te lo ha portato vicino, e nello stesso tempo, che cosa senti, cosa scopri di così reale e attuale, perché segni anche il nostro cammino?

CHIARA FINOCCHIETTI:
Tu parlavi di nutrimento per l’anima, di parole che nutrono l’anima. Penso che questa lettura che ripercorre la vicenda umana e spirituale di Monsignor Romero, sia veramente nutrimento per l’anima, soprattutto di quei cristiani in ricerca, continuamente inquieti, che cercano parole che sappiano nutrire un cristianesimo nomade, potremmo definirlo così, un cristianesimo che non si accontenta di idee generiche, generali, ma che vuole sempre andare al cuore, all’essenziale della fede e del Vangelo. Ecco, questo volume dell’Ave è fra l’altro il secondo dedicato a Monsignor Romero, perché l’Ave fu l’editrice che per prima pubblicò un volume su Monsignor Romero, subito dopo la sua morte. Questo volume di Anselmo Palini ha il merito di tratteggiare in modo semplice e immediato gli elementi fondamentali della vita di questo Vescovo di un piccolissimo paese dell’America Latina, probabilmente sconosciuto ai più, quello di El Salvador. Provo a dire solo tre elementi, tre parole che nutrono l’anima, tre interrogativi aperti che emergono leggendo questo libro. La prima parola, la prima frase che ho trovato in questo libro e che ci aiuta un po’ a scuoterci dal torpore agostano, dalla pigrizia intellettuale e spirituale, è il motto “primero Dios”: Dio per primo, Dio al primo posto, che era una delle frasi che hanno accompagnato la parabola umana e spirituale di Monsignor Romero. “Primero Dios” ha significato, per Monsignor Romero, mettere Dio al centro, sempre, chiedersi sempre, in ogni momento della vita, nella sua formazione da seminarista, da sacerdote, e poi nel suo mandato da Vescovo, negli anni vissuti da Vescovo nella capitale di El Salvador, in che modo poteva essere in comunione con Dio. Questa domanda in qualche modo l’ha portato a quella radicalità di adesione al Vangelo che per molti è stata pietra di scandalo, che ha scosso moltissimi nel suo paese e fuori dal suo paese, e che poi l’ha portato alla morte. Ecco, “primero Dios” significa anche vedere in Monsignor Romero un cammino di santità: siamo abituati a vedere i santi come figure straordinarie, Romero è sicuramente una persona che si è fatta santa. Lo è diventato con fatica, con costanza, con sofferenza, quando ha cominciato a vedere i suoi amici, sacerdoti e laici, morire accanto a lui, torturati, uccisi, sequestrati dalle forze militari. In questi momenti di difficoltà, ha fatto un cammino di fortezza spirituale che l’ha portato a maturare quella straordinarietà di testimonianza di amore, di carità, che noi identifichiamo come santità. Quindi, la prima domanda che in qualche modo ci lascia questo libro, che ci inquieta, è proprio questa: in che modo mettere Dio al primo posto, che cosa significa vivere Dio, vivere il primato dello spirituale nella nostra vita?
Il secondo elemento è un’altra frase cara a Monsignor Romero: “sentir con la Iglesia”, sentire con la Chiesa, essere parte della comunità ecclesiale. E’ un motto sul quale si è scritto moltissimo, quindi non entro nella dimensione teologico-ecclesiologica, ma mi sembra che da giovane, da lettrice che si accosta alla figura di Monsignor Romero, che conosce questo compagno di strada, non fisicamente ma dai libri – noi abbiamo tanti amici, tanti compagni di strada, alcuni li abbiamo conosciuti fisicamente, altri li incontriamo nelle letture, sono come lanterne accese sul nostro cammino di crescita e di formazione -, “sentir con la Iglesia” per Monsignor Romero sia intanto cercare sempre di essere fedele alla Chiesa, sempre fedele al magistero e al Vangelo, e significa anche vivere quell’amicizia che è il segno bellissimo dell’essere chiesa, quell’amicizia fra laici e sacerdoti. C’è un episodio riportato nel libro che mi ha molto colpito, molto commosso, che è l’incontro di Monsignor Romero con Marianella Garcia Villas, cioè una dei tantissimi militanti per i diritti umani nell’America Latina e in El Salvador. In questo incontro con una donna che tanto ha lavorato per i diritti umani, che ha subito le brutalità e la violenza di quel regime, Monsignor Romero piange, si commuove e fa venire in mente Gesù che piange per i suoi amici nel Vangelo. In questo colloquio, in questo pianto di Monsignor Romero, si vede anche questa straordinaria capacità di vivere le sofferenze del suo popolo, del popolo che gli era stato affidato, e questo suo “sentir con la Iglesia” ci richiama alla mente anche le parole del cardinal Martini che ha definito Romero come un Vescovo educato dal suo popolo, che ha camminato insieme al suo popolo e che ha vissuto questo legame di amicizia e di compassione, nel senso di soffrire, di vivere insieme. E in questo “sentir con la Iglesia” c’è anche un altro elemento che è la dimensione, potremmo definirla internazionale, di Romero. Internazionale, per utilizzare un termine laico: se volessimo utilizzare un termine più nostro, ecclesiale, potremmo dire la dimensione universale. Romero è stata una figura che ha parlato al cuore di tanti laici, non credenti e credenti, tantissimi giornalisti – come Anselmo Palini scrive nel libro – tantissimi giornalisti sono andati ad incontrarlo negli anni in cui era Vescovo, ad ascoltare le sue omelie, ad ascoltare le sue denunce, perché alla fine di ogni omelia domenicale, con grande coraggio, diceva tutti i nomi dei desaparecidos e denunciava tutte le brutalità del regime. Ecco, la sua è stata una voce che si è levata e che ha raggiunto tanti angoli del pianeta, e in questa sua dimensione universale radicata a Roma, radicata nel cuore della Chiesa, nella sua fedeltà al Papa, sta un altro aspetto di questo “sentir con la Iglesia” che in qualche modo ha caratterizzato il suo mandato.
Quindi, “primero Dios”, “sentir con la Iglesia”, ecco il terzo e ultimo elemento che mi sembra una domanda aperta che ci colpisce e ci interroga, questo termine che ricorre molto spesso, anche nel libro di Anselmo Palini, “costruire la civiltà dell’amore”. Potremmo dire che Monsignor Romero è stato veramente un testimone, un costruttore: con la fatica delle sue mani, del suo cuore, della sua testa, dei suoi occhi che hanno visto tante violenze, è stato un costruttore della civiltà dell’amore. E in tutti i momenti, anche nei più difficili, ha sempre incitato all’amore, alla comprensione, al perdono, mai all’odio e alla divisione, anche in una società fortemente bipolare com’era quella di El Salvador di quegli anni, in cui c’era un regime militare molto forte, sostenuto da potenze internazionali e la gran massa dei contadini, dei poveri, del popolo che in qualche modo cercava di ribellarsi a queste violenze. Anche in questa realtà così polarizzata, pur mettendosi sempre a fianco degli ultimi, da pastore della Chiesa qual era, non ha mai però scelto l’ideologia ma sempre ricercato la verità del Vangelo, ha sempre cercato quelle soluzioni, anche civili, anche politiche, ha sempre accompagnato quelle soluzioni che in qualche modo rispondessero a costruire il regno di Dio in quel momento e in quella condizione concreta. Ecco, nel libro sono citati molti suoi discorsi su fede e politica, ma mi sembra che un tratto, un elemento, sia proprio questo, cercare sempre la verità, non scegliere mai le facili ideologie, non schierarsi ma fare sempre la fatica di ricercare la verità e la giustizia del Vangelo in ogni situazione.
E in questo, lui ha fatto un cammino, ha maturato un percorso. Nel primo volume edito dall’Ave, che si chiamava Romero… y lo mataron, “Romero… e lo uccisero”, sono stati raccolti le sue omelie, i suoi testi; subito dopo la sua morte, si erano mossi molti amici per cominciare a raccogliere tutti i suoi testi, tutte le sue omelie per pubblicarle, tramite l’UMOFC, fu quello il contatto, l’Unione Mondiale delle Donne Cattoliche. L’Azione Cattolica aveva saputo che c’era in programma la pubblicazione di questo libro e quindi il libro fu scritto insieme e uscì in spagnolo e in italiano, in italiano per i tipi dell’Ave, con tutte le omelie e i discorsi. Queste omelie, questi suoi interventi raccontano della forza di questo cammino e anche – uso una parola forte, probabilmente sbagliata dal punto di vista, dell’aderenza alla vita di Romero – della sua conversione dopo l’assassinio di padre Rutilio Grande. Sicuramente è comunque una svolta nel cammino: come nel nostro cammino di vita ci sono delle svolte e delle curve più forti, anche lui ha vissuto una curva, un punto di svolta importante, con l’assassinio di Padre Rutilio, e queste omelie raccontano proprio di questo suo cammino. Concluderei lasciandoci un po’ inquietare da queste tre domande, a partire dalla testimonianza di Romero sul come vivere il primato dello spirituale, su cosa significhi per noi laici oggi “sentir con la Iglesia”, essere sempre fedeli alla Chiesa, alla gerarchia, cercare sempre questo legame profondo con la comunità ecclesiale nella quale viviamo. E forse questa provocazione, come “costruire la civiltà dell’amore”. Vorrei concludere con una frase molto cara a Romero, perché per preparare la presentazione del libro ho chiesto aiuto al presidente dell’Azione Cattolica argentina. Ovviamente, in America Latina la figura di Romero è molto amata, molto tenuta in considerazione. Lui mi ha detto: “Mi raccomando, non dimenticare di dire quello che Monsignor Romero diceva sempre, e cioè: io sono la voce di chi non ha voce”. Allora, in questa piccola frase che sintetizza tutta la forza dirompente della vita e della testimonianza di Monsignor Romero, raccontata in modo così vivido e quasi inquietante, perché la lettura di questo libro è qualcosa che ti scuote in maniera così forte, così vivida, il senso della sua testimonianza e del suo messaggio.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie, Chiara, anche per questi tre punti di sintesi per entrare nella storia di Oscar Romero. Anselmo Palini che ci ha regalato questo libro è uno scrittore di libri importante, bresciano, docente di materie letterarie nelle scuole. E ha scritto anche per questa collana “I testimoni”, Piave, una biografia di don Primo Mazzolari, poi due libri: I testimoni della coscienza, da Socrate ai nostri giorni e Voci di pace e di libertà nei secoli delle guerre e dei genocidi. Ci sono alcune figure che abbiamo incontrato in alcune mostre, Florenskij, La rosa bianca ed altri, altre che leggerò. Ecco, un intervento sul lavoro che hai fatto per restituire interezza a Romero nel nostro tempo.

ANSELMO PALINI:
È veramente con piacere che parlo di Mons. Oscar Romero, anche perché siamo nell’anno del Congresso Eucaristico e parlare di un Vescovo che è stato assassinato mentre celebrava l’Eucarestia penso sia interessante. E’ il secondo Vescovo nella storia della Chiesa, il primo era stato Tommaso Becket, nel 1100. Oscar Romero: due notizie biografiche, perché non penso sia scontato che tutti lo conoscano. Salvador, il più piccolo Paese dell’America Centrale, un Paese cattolico perfino nel nome, il divino salvatore del mondo. Romero che studia a Roma sei anni, alla Gregoriana, dal ’37 al ’43, e matura un grande senso di appartenenza alla Chiesa: per lui Roma rappresenterà sempre un riferimento fondamentale, la cattedra di Pietro. Sono sei anni di formazione, non di studio teologico: Romero non è interessato a ricerche di teologia o quant’altro, ma ad aderire all’ortodossia della Chiesa. Poi c’è il lungo periodo in cui, tornato a Salvador, dal ’43 al ’70, per 17 lunghi anni lavora nella diocesi di San Miguel, la sua diocesi. Lì svolge tante attività, segretario del Vescovo, parroco, segue una serie di movimenti, di associazioni. E’ un Romero interessato alla liturgia, alla verità di fede, alla lotta al comunismo, al protestantesimo, è un Romero interessato al tema dei novissimi, alla pratica della carità. Un Romero – se possiamo sintetizzare – che in tutti questi lunghi anni non si rende conto fino in fondo di quanto sta accadendo nel proprio Paese: il Salvador era dal 1931 sotto una dittatura militare e vedrà dittature militari fino agli anni ’80. Lui non si rende ben conto di questa situazione di grave ingiustizia sociale: pochi ricchi, pochi immensamente ricchi e tantissima parte della popolazione poverissima. Svolge la sua attività dentro la tradizione, senza interrogarsi particolarmente. Sono gli anni, soprattutto i Sessanta, di feroci dittature militari in Brasile, in Argentina, in Uruguay, in Paraguay, in Cile, Salvador, ecc. Ma sono anche gli anni del Concilio, e Romero, che fa dell’adesione al concilio, cioè dell’adesione al ministero della Chiesa, un fatto fondamentale, continua a interrogarsi sul fatto che il concilio parla di poveri, parla di Vangelo che va incarnato. In quegli anni per lui è fondamentale il magistero di Paolo VI. In America Latina c’è la teologia della liberazione, che spesso ha connotati marxisti, ci sono le comunità di base, spesso molto politicizzate, e Romero si chiede il significato di questo e trova la risposta nell’esortazione di Paolo VI, Evangelii nuntiandi, dove dice: “La Chiesa ha a cuore la liberazione completa dell’uomo ma la liberazione va innestata sul Vangelo, non su altro”. E le comunità ecclesiali devono essere comunità ecclesiali di base.
Paolo VI per Romero è sempre stato un punto fondamentale di riferimento, è il Papa che ha saputo coniugare la tradizione e la modernità: grazie al magistero di Paolo VI, comincia a interrogarsi su quello che sta accadendo nel suo Paese. Nel 1970 viene ordinato Vescovo – aveva lavorato bene come Segretario della Conferenze Episcopale salvadoregna dell’America Centrale – Vescovo ausiliario di San Salvador e poi di una piccola diocesi, e continua quella pratica tradizionale. Poi accade un fatto che sconvolge la sua vita. Il 22 febbraio 1977 fa il suo ingresso come Arcivescovo di San Salvador: non viene nominato quello che sembrava il designato, cioè l’ausiliare del Vescovo, che per motivi di età aveva lasciato, cioè Arturo Rivera y Damas ma lui. Questo Arturo Rivera y Damas sembrava troppo critico nei confronti della dittatura militare del potere oligarchico, per cui non viene scelto ma, su pressioni dell’oligarchia, del Nunzio e anche delle forze politiche militari del Paese, viene scelto Oscar Romero, perché sembrava un Vescovo moderato, conservatore, tranquillo, che non avrebbe posto alcun problema. Per cui, il 22 febbraio del 1977 fa il suo ingresso a San Salvador come Arcivescovo, accolto gelidamente dal clero che era molto impegnato con la gente nella pastorale sociale: lo vedono come un Vescovo preconciliare, e comunque troppo accomodante nei confronti del potere politico ed economico. E il potere politico era una feroce dittatura militare, composta da generali che andavano a fare la comunione ma che il giorno dopo andavano a massacrare i contadini. Venti giorni dopo, un suo carissimo amico gesuita, padre Rutilio Grande, uno dei pochi preti con cui Romero andava d’accordo – perché aveva relazioni molto difficili con i sacerdoti – viene assassinato insieme ad altri due contadini mentre sta andando a celebrare la messa in un paese vicino. L’assassinio di questo sacerdote costringe Oscar Romero a interrogarsi su quanto sta avvenendo nel Paese, a chiedersi il perché di tanta violenza, di tanta pressione, di tanta ingiustizia sociale. Finalmente, come suggerisce il titolo del libro, “Ho udito il grido del mio popolo” dice il Monsignor Romero. Lui si rende conto che il suo popolo è oppresso da una oligarchia di poche famiglie che sfruttano tutto il Paese e dai militari che sono al servizio di quelle famiglie, per cui da quel momento diviene la voce del suo popolo e denuncia senza paura le ingiustizie, le violenze: perché – dice Romero – “se la gloria di Dio è l’uomo vivente, e se questa gloria di Dio viene deturpata dalla repressione, dall’ingiustizia sociale strutturale, dalle violenze, io devo denunciare tutto questo”.
Ecco allora che l’ultima parte delle sue omelie, la domenica in chiesa, diviene una denuncia puntuale di quanto accade nel Paese, dei contadini assassinati, degli altri cinque preti che gli vengono assassinati, dei preti che sono costretti a fuggire in esilio, dei delegati della parola, dei catechisti, dei leader sindacali che vengono assassinati. Questa è la realtà del Salvador, che Romero comincia a denunciare perché ritiene che la buona novella, il messaggio dell’amore, vada incarnato. Ci sono due parole del titolo del Meeting che mi sono piaciute molto: la certezza e l’esistenza. Romero diviene certo, a un dato punto, del fatto che il Vangelo deve essere incarnato dentro l’esistenza, cioè dentro la storia, non può restare teologia, filosofia, perché se resta teologia e filosofia, al limite diventa un bel volume che va a finire in uno scaffale, ma non cambia la vita della gente. Il Vangelo va annunciato, la buona novella va incarnata nella storia, e se la storia è una storia di violenza, di omicidi, di repressione, di assassini politici, ecco che la Chiesa, dice, deve farlo. E la Chiesa viene perseguitata per questo, gli uccidono i preti, i collaboratoti, gli fanno saltare la radio diocesana. Un giorno, in una basilica di San Salvador, trovano una valigetta con settantotto candelotti di dinamite, che solo per il timer difettoso non era saltata, non era esplosa, causando una devastazione.
Romero diventa la voce del suo popolo, perché annuncia un Vangelo di pace, un Vangelo di giustizia, la persona di Cristo che è dentro i poveri: devo annunciarla, si dice, devo difenderla, non posso fingere di non vedere. Questo gli crea non pochi problemi perché a un certo punto, su sei vescovi di San Salvador, quattro chiedono le sue dimissioni – anche il Nunzio chiede le dimissioni di Romero – perché lo ritengono troppo esposto, troppo politicizzato. Allora lui va a Roma, vuole essere confermato dal Papa perché, senza la conferma del Magistero, non avrebbe avuto la forza di andare avanti. Nel suo diario ci ha lasciato la descrizione dell’incontro che il 21 giugno del ’78 ha con Paolo VI, è straordinario. Paolo VI accoglie Romero e gli dice: “Guardi, io conosco la realtà di San Salvador”. Paolo VI era andato via da Brescia appena nominato sacerdote, per motivi di salute; dopo essere andato a Roma a studiare, sarebbe poi tornato a Brescia da Papa, passando per Milano. Andato a Roma per motivi di studio, vi sarebbe tornato nel ’23/’24 nella Segreteria di Stato, per cui conosce bene tutta questa realtà. E dice a Romero: “So che lei sta lavorando bene, al servizio della gente, per la pace e per la giustizia. Cerchi, se possibile, di convincere i suoi fratelli a camminare con lei, però la strada è giusta”.
Queste parole confortano Mons. Romero, per cui lui torna a Salvador, forte dell’appoggio del Papa. Non si incontreranno più, perché Paolo VI muore il 6 agosto del ’78, giorno della festa nazionale in Salvador, la festa del Divino Salvatore. Torna in Salvador e cerca di realizzare quello che Chiara Finocchietti ha ben precisato, cioè la civiltà dell’amore, altro termine di Paolo VI. In una situazione in cui, da una parte c’è una fortissima repressione operata dalle forze militari, dagli squadroni della morte, dai servizi segreti, e dall’altra parte c’è l’azione rivoluzionaria dei gruppi di sinistra, che spesso facevano più riferimento al Magistero della Chiesa che al marxismo, Romero indica una strada diversa, la strada della civiltà dell’amore, la strada della non violenza.
Noi siamo anche in questo contesto per una soluzione non violenta al grave conflitto sociale che attraversa il Salvador, dice attirandosi anche le ire dei gruppi rivoluzionari che lo volevano schierato sulle loro posizioni, cosa che lui non farà mai. Nel diario, Romero parla di colloqui con esponenti della guerriglia, dove lui cerca di convincerli a intraprendere una strada diversa. Questo è il Romero che ci ha lasciato prediche straordinarie: se le predicazioni non danno fastidio a nessuno, afferma, vuole dire che non sono né carne né pesce, che sono buone per tutto il mondo. La predicazione deve scuotere, deve interrogare, deve interpellare, e la sua predicazione e le sue omelie erano questo. Maurizio Chierici, che è un grande giornalista, ha fatto la prefazione di questo libro e ha seguito le omelie di Mons. Romero, dice che quando si entrava in chiesa, la domenica mattina, c’era chi temeva quelle omelie e c’erano le forze militari pronte a intervenire. E c’era anche chi le attendeva, ed era tutto il suo popolo. Perché questo è stato Mons. Romero, la voce del suo popolo. E per questo ha pagato di persona.
Abbiamo la registrazione della sua ultima omelia, quella del 23 marzo 1980. Lui, che abitava in un ospedale per malati terminali, quel giorno celebra l’omelia nell’ospedale e termina chiedendo alla forze armate di porre fine alla repressione. Abbiamo la registrazione dell’omelia in cui dice ai soldati: “Siete tenuti a disobbedire a leggi immorali, e le leggi che vi chiedono di uccidere la gente sono immorali, per cui dovete disobbedire”. Il giorno dopo, il 24 marzo 1980 alle 18.30, durante la celebrazione, prima dell’offertorio, Monsignor Romero viene assassinato da un sicario che era in chiesa. Probabilmente viene messo in atto un piano pronto da tempo, che prevedeva di assassinare l’Arcivescovo che era diventato una voce scomoda all’interno del Paese. Una voce scomoda, perché chiedeva solo una cosa, e cioè che il Vangelo potesse essere incarnato, che la Chiesa potesse svolgere il suo ministero con serietà e che la gente potesse vivere in pace e nella giustizia, e praticare la propria religione. Ecco, per questo viene assassinato.
Con la morte di Monsignor Romero, il Salvador precipita in una guerra civile che porterà, nell’arco di 10 anni, circa 80.000 morti in un Paese che aveva solo 4 milioni di abitanti. Andando a concludere, come possiamo ricordare Monsignor Romero? Sicuramente, come un martire, un testimone. La chiesa anglicana lo ha già ricordato in questi termini, perché l’abbazia di Westminster, sopra la porta del frontone ovest, ha dieci statue di martiri della Chiesa nel XX Secolo, e la statua di Monsignor Romero è vicina a quella di Martin Luther King. Ma come è stato ricordato anche da Giovanni Paolo II, il rapporto iniziale con Monsignor Romero è stato difficile, salvo poi sostenerlo pienamente. E quando nel 1983 Giovanni Paolo II va in visita pastorale in Salvador, e la giunta militare non vuole che visiti la cattedrale dove c’è il corpo di Monsignor Romero, lui fa deviare il corteo papale, si fa portare davanti alla cattedrale che è stata sprangata, li obbliga ad andare a prendere la chiave fino a che finalmente entra e prega sulla tomba del Vescovo. Nel 2000, in occasione del Giubileo, nella preghiera per i martiri del XX Secolo al Colosseo, Giovanni Paolo II dedica una preghiera a Monsignor Romero. E a Roma, nella basilica di San Bartolomeo sull’isola Tiberina, una basilica voluta proprio da Giovanni Paolo II come memoriale dei martiri del XX Secolo, dove c’è l’icona sull’altare maggiore che ricorda tutti questi drammi, c’è anche una scena che ricorda l’assassinio di Monsignor Romero. In un altare laterale, dedicato ai martiri dell’America Latina, c’è il messale che usava Monsignor Romero.
Ultime due osservazioni. Noi abbiamo il diario di Monsignor Romero, che racconta i suoi tre ultimi anni di vita. E’ un diario che lui non ha scritto, composto dalle registrazioni che poi sono state messe per iscritto. Nella traduzione italiana di questo diario, c’è la presentazione di Monsignor Luigi Bettazzi, la postfazione di padre Turoldo, e voglio sottolineare che la traduzione – qui ci sono alcuni bresciani, io sono bresciano – è stata fatta da Pierluigi Murgione, un sacerdote bresciano mandato da Paolo VI nel ’68 in America Latina, in Uruguay che, per la sola colpa di predicare il Vangelo al tempo in cui in Uruguay c’era la dittatura militare, si è fatto cinque anni di carcere duro e di tortura, dal ’72 al ’77. Poi viene espulso dal Paese grazie all’intervento della Chiesa italiana, del Vaticano, del Vescovo di Brescia di allora, Monsignor Luigi Morstabilini, che andò in Uruguay e, siccome non volevano fargli vedere il suo prete, disse: “Bene, io resto qui finché non me lo fate vedere, domani convoco la stampa internazionale”. E il giorno dopo lo ha visto. Murgione viene liberato per l’intervento della Santa Sede, della Chiesa bresciana, del Governo italiano. Torna in Italia, a Brescia, magrissimo, con il sorriso sulle labbra, convinto che la strada del Vangelo, della non violenza, sia percorribile anche in quella situazione. Morirà a 51 anni per le conseguenze del carcere duro e delle torture subite in Uruguay. Ma prima di morire, ci ha lasciato in regalo la traduzione del diario di Monsignor Romero. Concludo, Fornasieri, con un breve brano di Monsignor Romero, sono cinque righe. Scrive: “Tutti coloro che predicano la parola di Cristo sono voce, ma la voce passa, i predicatori muoiono, Giovanni Battista scompare, resta solo la parola. La parola rimane, e questa è la grande consolazione per chi predica. La mia voce scomparirà, ma la mia parola che è Cristo resterà nei cuori che hanno voluto accoglierla”. Grazie.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie, Anselmo, il racconto che ci ha fatto ci invita veramente a scoprire questa storia e questa figura che iniziamo a sentire cosi vicina, importante. Anche io volevo leggere un piccolo brano. Qualche giorno prima del martirio, diceva in una predica di due ore nella sua cattedrale: ”Dicono che facciamo politica, che la mia predicazione provochi la violenza, come se io fossi la causa di tutti i mali della Repubblica. Dimenticano che la parola della Chiesa non inventa i mali che già esistono nel mondo ma getta luce su di essi”. Ecco, è questa consapevolezza di popolo, cioè di un fatto cambiato nella storia, la Chiesa, che può mettere in luce veramente; in una prospettiva nuova, la realtà. Lo si capisce dalla sua adesione alla Dottrina Sociale della Chiesa, alla Rerum novarum, dalla ripresa di tutta la tradizione che noi conosciamo in Italia o in Europa: ed è la unitarietà del fatto cristiano che emerge attraverso questa testimonianza così certa di Cristo e del compito della Chiesa nel mondo. Grazie per averla riproposta. Vi salutiamo e chiamiamo Gina Codovilli per il secondo libro che si intitola Il mio principe. Soffrire, crescere, sorridere con un figlio autistico. La casa editrice è Itaca, che ha sede nella zona di Cesena. Voglio inquadrare questa storia e il senso di questo libro con poche parole, per dare poi a Gina il compito e l’impegno di un racconto. E’ una storia come potrebbe essere quella di tante famiglie – a pranzo, poco fa, ricordavamo un fatto sociale e medico piuttosto impressionante, vale a dire che ogni 150 nascite, un bambino ha questa caratteristica che è stata chiamata autismo e che un po’ conosciamo, se pur in maniera molto generica. Ma anche la medicina ne sa ben poco: solo negli anni recenti si è trovato qualcosa di più utile per la crescita. Se è una storia che può riguardare tanti, la differenza per Gina la fa questo titolo. Cosa può essere il tesoro della nostra vita? Non solamente l’affetto, che sgorga nell’umano vissuto con i mezzi che ognuno ha, attraverso gli incontri che ognuno fa nella sua storia. Può diventare un tesoro ciò che ci è dato, addirittura possono essere riconosciuti come dono la fatica, la dialettica con la diversità, la differenza, solamente se si impara qualcosa. E questa cosa che si impara è quella che alla fine si verifica come il punto che mi fa amare veramente me stesso e gli altri, perché per fare un’esperienza non si possono avere solamente gli ingredienti delle cose che capitano addosso, perché ognuno di noi potrebbe stare nella situazione fuggendo.
Invece, a Gina è capitato attraverso vari segni, dapprima il più difficile, quello della diversità, poi altri segni, quasi dei semi lasciati nella nostra storia. Come dice una bellissima pagina del libro, una preghiera, un dire: “Signore, aiutami!”, lei che al Signore non pensava più da tempo, come noi, per intere giornate, non ci pensiamo. Ed ecco che riaffiora questo punto che tiene insieme la vita. Per fare un’esperienza, occorre veramente capire qualcosa, occorre giudicare, occorre trattenere il senso. E i libri si scrivono solamente se si vuole comunicare questo tesoro che si trattiene. Ed è per questo che tanti libri oggi sono brutti, perché se ne pubblicano tanti e la percentuale è troppo alta perché siano tutti dei tesori. Il libro di Gina, che è stata insegnante fino al 1987, quando è nato Andrea – che è qui e possiamo anche salutare insieme a te -, è scritto bene, non è un diario, sono pensieri scaturiti in rapporto ai fatti, agli accorgimenti, alle ricerche, agli stati d’animo che determinano periodi interi della propria esperienza e che lei ha raccontato.
E i libri, appunto, raccontano sempre una speranza, raccontano qualcosa che rimane. Il libro non è la narrazione di un concatenarsi di cose, di osservazioni o delusioni mediche, non è la narrazione di un fatto ambientale, come dice nella sua bellissima prefazione Sua Eccellenza Monsignor Lambiasi, Vescovo di Rimini, che è qui presente e oggi ha celebrato la messa per noi. Non è solamente un fatto accaduto nelle nostre case ma qualcosa che vibra, come dice lui, dentro la giornata, la quotidianità, dentro il nostro tempo. Allora, Gina, ti chiederei il perché di questa scrittura, che cosa trattieni della tua esperienza, e dunque perché principe, dunque figlio di un re e di una regina: chi sei e che cosa hai scoperto? Prego.

GINA CODOVILLI:
Buon pomeriggio a tutti, vi ringrazio per essere qui, ringrazio in modo particolare il nostro vescovo Francesco con tutto il cuore, con tutta la mia gratitudine. Perché ho scritto questo libro: intanto, credo che sia veramente il mio omaggio ad Andrea. Ho voluto essere la voce di Andrea perché Andrea è un autistico non verbale, cioè non parla, e quindi non sarà mai in grado di raccontare la sua storia, per cui l’ho voluta raccontare io per lui. E questo della scrittura è stato un momento molto importante per me. Scrivendo, ho in un certo senso superato il dolore: mentre scrivevo rivivevo i momenti dolorosi passati, con tanto di batticuore, di lacrime. Scrivere mi ha aiutato a superare questo, infatti adesso riesco a parlarne, per esempio, senza piangere. Oltre ad essere stato un aiuto per me, mi sto accorgendo ogni giorno che è un aiuto per molti genitori che si trovano a vivere la mia situazione, la mia stessa esperienza, soprattutto per i genitori giovani che hanno i bimbi piccoli, ne ho conosciuto uno anche mezz’ora fa.
Andando in giro a parlare del mio libro, vedo questi genitori che mi guardano con gratitudine perché sono riuscita a parlare di questo problema, di cui non si parla molto. Parlare del dolore, insomma, non va molto di moda. E soprattutto l’argomento autismo ancora non viene discusso molto, perché l’autismo è un disturbo dello sviluppo che crea una difficoltà così complessa in chi ne è affetto, che rende questi bambini, questi ragazzi, così particolari, che a volte incutono anche un po’ di timore. Perché ti trovi di fronte a un bambino, ad un ragazzo che apparentemente è normalissimo e che però non parla, oppure ha atteggiamenti bizzarri, oppure si butta per terra e urla. Andrea per fortuna queste cose non le fa… Salutiamo il nostro vescovo Francesco che se ne va…

CAMILLO FORNASIERI:
Va ad accogliere anche lui il Presidente Napolitano, dopo ci recheremo anche noi in Auditorium, grazie.

GINA CODOVILLI:
E’ una patologia particolare che incute anche timore per chi si trova per la prima volta di fronte ad un ragazzo autistico, quindi bisogna parlarne perché la gente deve conoscere questo problema, così come dieci o venti anni fa era un tabù parlare dei ragazzi down. Adesso che sono stati fatti dei film, che li abbiamo visti in televisione, il down non incute più quella diffidenza, invece ancora accade per i ragazzi autistici. Io credo che anche loro abbiano il diritto di avere il loro posto nel mondo, e quindi bisogna parlarne, anche perché oggi nasce un bambino autistico ogni centocinquanta nati: è una cifra spaventosa, pensate, un bambino ogni centocinquanta bambini, è quasi un’epidemia. Bisogna veramente parlarne, bisogna che tutti vengano a conoscenza di questo problema.
Sono questi i motivi che mi hanno indotto a scrivere, ma soprattutto io ho voluto dare un giudizio su mio figlio. Credo che nel titolo, Il mio principe, ci sia proprio il giudizio, perché Andrea per me è davvero un principe, nel senso che è il principe del mio cuore. Andrea ha cambiato un po’ a tutti la vita – a noi genitori ma anche ai fratelli, qui c’è anche la mia nipotina, mia nuora – e sicuramente l’ha cambiata in meglio. Certo, all’inizio non è stato così, perché quando in una famiglia capita un figlio con queste problematiche, è uno tsunami che ti travolge, che non ti fa più vivere, che ti scombina, che ti sconvolge la vita. Poi io ho avuto la fortuna di fare incontri importanti, che mi hanno fatto capire tante cose, anche a proposito della fede e dell’incontro con Cristo per cui, piano piano, la mia vita è cambiata in meglio. E comunque Andrea è per noi veramente un grande dono.

CAMILLO FORNASIERI:
Seguendo questo tuo pensiero, ti volevo chiedere due cose. La storia inizia come un giudizio, non tanto come un fatto accaduto, di una mamma che ha un terzo figlio alla quale qualcuno dice: “Lui ha già dato tutto quello che poteva dare”. Se pensiamo che una frase del genere possa definire la vita tua o di un’altra persone, di tuo figlio, significa che è tutto finito: prima ancora di iniziare, è già tutto finito. Credo che questa sia l’esperienza più contraria alla certezza, perché se tutto è già dato, non c’è più niente che debba succedere, perché una cosa vale l’altra. Allora ti voglio chiedere che differenza sia emersa rispetto a questo nella tua esperienza e anche in quella di Andrea, perché non può essere che uno che ha già dato tutto quello che poteva dare, stia dando ancora.

GINA CODOVILLI:
Questa frase mi è stata detta dal primo neuropsichiatra che ha visto Andrea: “Vostro figlio è autistico, ha già dato tutto quello che poteva dare”. E chiaramente ci ha mandato KO, perché all’epoca Andrea aveva solo 10 mesi, non teneva neanche in mano il suo biberon, non camminava, non pronunciava sillabe, giusto qualche sillaba. E’ stata la frase che mi ha fatto più stare male, anche fisicamente. Poi per fortuna abbiamo scoperto che non era così, che c’era un cammino davanti, c’è stato e c’è tuttora. Andrea ha dato tanto, da quel momento, ma ha dato molto per se stesso, come persona, perché comunque Andrea ha imparato a fare tante cose nella vita: ha fatto un percorso scolastico normale fino alle superiori, va in bicicletta, va coi pattini, è capace di apparecchiare un tavolo: non è vero che aveva già dato tutto quello che poteva dare. Ma soprattutto, Andrea ha dato molto di più, perché ci ha fatto capire il valore vero della vita, il valore dell’amore, ci ha fatto ritrovare Cristo, la Chiesa, la fede. Quindi, Andrea ha dato veramente tantissimo e continua a dare sempre, ogni giorno, tanto, non solo a noi familiari ma a tutti quelli che lo conoscono. Io dico sempre che Andrea è un po’ come Zorro, lascia il segno dove passa, perché chi lo conosce non se ne dimentica. Credo sia stato un dono incredibile che Qualcuno ha voluto che accadesse proprio nella mia famiglia.

CAMILLO FORNASIERI:
Questo che abbiamo ascoltato è una cosa grandiosa: pensare che quello che noi diamo nella vita sia solamente quello che sappiamo fare, ci lascia completamente soli. Invece, il fatto che ciò che uno lascia e che dona è questo rapporto con Qualcuno che ha donato tutto, rende possibile la ricchezza dell’umano, la ricchezza di una famiglia, di una società, è veramente una cosa nuova. Vi leggo un pezzetto, anche perché la scrittura è bella ed è importante conoscere che esiste la possibilità di un’esperienza diversa: da questo punto di vista, Itaca è una casa editrice interessante, importante, perché sta raccontando storie di questo tipo. Lei parla della possibilità di rapporto nel cammino e a un certo punto dice: “Conosco una verità clamorosa: esistono gli angeli. Non alludo a quegli esseri immateriali che raffiguriamo come deliziose creatura con le ali o immaginiamo come eterei spiriti celesti che ci accompagnano nel difficile cammino della vita, sfiorandoci la spalla destra. Mi riferisco a uomini e donne terreni, esattamente simili a noi, che vivono tra la gente. Bisogna solo avere la fortuna di incontrarli e di saperli incontrare. Quando ciò accade, hanno il potere di darci un aiuto concreto e di assisterci anche nelle difficoltà più complicate e negli interrogativi più irrisolvibili. Lorenzo è uno dei primi”. Ma non voglio sapere di Lorenzo, volevo sapere di più: dei primi, dei secondi e dei terzi.

GINA CODOVILLI:
Sì, è vero, io li ho incontrati, questi angeli. Sono chiaramente persone normali che ho avuto la fortuna di incontrare e che mi hanno dato un aiuto concreto. In modo particolare, ne parlo anche nel libro, è stato per me fondamentale l’incontro con la comunità di Monte Tauro, gestita da suore e ragazze giovanissime che dedicano tutta la loro vita a ragazzi con handicap anche gravissimi. Per me è stato un incontro fondamentale: all’inizio non riuscivo a capire come fosse possibile che queste ragazze così giovani avessero scelto di dare tutta la vita a questi bambini, a questi ragazzi così devastati dall’handicap. Poi ho capito cosa che le muoveva, cosa faceva muovere il loro cuore: era il vedere in queste creature sofferenti l’immagine di Cristo sofferente, la passione di Cristo. E da quel momento ho anche iniziato a percepire cos’era quel senso di immenso che mi prendeva quando Andrea mi accarezzava il lobo dell’orecchio, perché Andrea ha questo modo di accarezzare, è il suo modo di dire “ti voglio bene”. Questo senso di immenso, di infinito, era che io, in piccolissima parte, per carità, non voglio paragonarmi alla suore di Monte Tauro, però anche io vedevo questa sofferenza di Cristo nella sofferenza di Andrea. Perché comunque io temo che anche lui abbia una sua sofferenza per il fatto di non potersi esprimere, di non poter parlare, di non poter decidere della sua vita, neanche nelle cose più semplici, quotidiane. E quindi, ecco, è un po’ come se Cristo fosse sempre presente nella mia vita. A volte, gli amici, i conoscenti, lo stesso vescovo Francesco, mi dicono: “Vedo nei tuoi occhi una luce particolare quando guardi tuo figlio”. E io rispondo: “Penso che tutti avrebbero una luce particolare se, guardando un altro, vedessero Cristo”. Ecco, credo di essere molto, molto fortunata, perché ogni mattina, quando aiuto Andrea a lavarsi i denti, a farsi la barba, in tutte le azioni quotidiane, io ho questo pensiero: “Sto facendo la barba a Gesù”. Lui ce l’aveva anche lunga, quindi era un bel fare la barba. Ho perso un po’ il filo, Camillo, ho risposto?

CAMILLO FORNASIERI:
Hai risposto, sì, anche delle dimensioni comunitarie.

GINA CODOVILLI:
Sì, in effetti mi viene in mente questo episodio. Alla fine della quinta elementare, quando abbiamo salutato gli amici della scuola, ricordo perfettamente un suo compagno che è venuto da me e mi ha detto: “Abbiamo avuto la fortuna di avere Andrea in classe con noi”. Questa frase non la dimenticherò mai, perché questo bambino di dieci anni aveva capito quello che io ho appena detto, la fortuna di avere Andrea vicino. Evidentemente, Benedetto, che è ancora un amico di Andrea, aveva già captato questo mistero e questa presenza attraverso Andrea. E questo accade sempre, lo vedo anche in spiaggia: Andrea crea questa energia, questo alone misterioso che comunque attira a lui. Io la vivo così, magari mi sarò montata la testa, non lo so.

CAMILLO FORNASIERI:
Beh, hai detto una cosa molto semplice e molto importante. Ognuno di noi si sente libero e pieno di sé quando trova qualcosa d’altro, di diverso, totalmente diverso. L’apparenza e la normalità non sono la nostra promessa. Per questo, i sofferenti sono già questa libertà, sono già questa realizzazione, per questo gli occhi cambiano in chi li guarda e il mistero grande rimane, dell’esser loro. Ma capita anche a noi, perché anche uno di noi può essere molto triste e anche molto giù, e non ci va bene, perché dovremmo star bene, no? È proprio questo il segno di qualcosa di diverso a cui aspiriamo. E infatti, concludendo, in un pellegrinaggio in Turchia che hanno fatto con la famiglia, alla preghiera dei fedeli, Gina dice: “Signore, ti preghiamo per tutti noi genitori a cui hai affidato il difficile compito di percorrere la vita con un figlio diversamente amabile. Donaci ogni giorno forza, tenacia, amore e provvedi affinché chi ci sarà dopo di noi ami del nostro stesso amore i nostri angeli”. Questo credo che possa essere il sigillo che lega la regina al principe e noi al desiderio. Davvero, ho iniziato a leggerlo ed è una cosa nuova: anche io ho un’esperienza simile in casa, una sorella, ma questa che hai scritto è una cosa totalmente nuova. Grazie.

GINA CODOVILLI:
Grazie, Camillo, grazie a tutti. Andrea, alzati, fatti vedere come sei bello. Non si vuole alzare. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

21 Agosto 2011

Ora

15:00

Edizione

2011

Luogo

eni Caffè Letterario D5
Categoria
Testi & Contesti