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INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Invito alla lettura
24/08/2011 - ore 19.00 In viaggio con un Santo Presentazione del libro di Filippo Anastasi (Ed. Il Messaggero di Padova). Partecipano: l'Autore, Vice Direttore e Responsabile Informazione Religiosa GR RAI; Ugo Sartorio, Direttore Messaggero di Sant'Antonio.
In viaggio con un Santo
Presentazione del libro di Filippo Anastasi (Ed. Il Messaggero di Padova). Partecipano: l’Autore, Vice Direttore e Responsabile Informazione Religiosa GR RAI; Ugo Sartorio, Direttore Messaggero di Sant’Antonio.
CAMILLO FORNASIERI:
Bene, un caro benvenuto a voi tutti, prego magari di avanzare, il fresco non manca. Questa sera abbiamo l’ultimo appuntamento di oggi di “Invito alla lettura” e abbiamo una proposta che il Meeting ha ricevuto da il Messaggero di Sant’Antonio, le edizioni Il Messaggero di Padova ed è il libro di Filippo Inastasi, In viaggio con un Santo. Lo vedete, il Santo a cui ci si riferisce è il nostro caro Giovanni Paolo II e Filippo Anastasi è qui con noi, lo salutiamo, l’autore, un volto, una voce e dapprima anche una penna storica del nostro giornalismo italiano. E’ stato caporedattore al gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, poi inviato del Messaggero e proprio, mi pare, in un racconto di questo libro, ci dice il suo passaggio dalla cronaca del Messaggero, che è il quotidiano di Roma, alla televisione, proprio nel momento in cui, nel 1978, accade un cambiamento di epoca, storico. Morto Paolo VI, c’è un nuovo Conclave e viene chiamato, se non sbaglio, Anastasi a occuparsi, a livello televisivo, di questo. Questo fa parte del suo lavoro, del suo mestiere che è molto ampio, lui oggi è vice-direttore del Giornale Radio Rai e responsabile dell’informazione religiosa di Radio Rai ed è anche autore e conduttore di Oggi 2000, il settimanale di attualità religiosa del GR1, giusto? Ecco, poi è stato anche insignito del “Premio Saint Vincent” e del “Premio Padre Pio” per il giornalismo. L’anno scorso con lui abbiamo presentato il libro appunto dedicato a san Padre Pio. Ecco, è con noi, per raccontarci del libro, dell’idea avuta, anche il direttore del Messaggero di Sant’Antonio, Ugo Sartorio, salutiamo, che è un francescano conventuale e teologo; ha insegnato teologia, quindi una persona colta ma attiva, trasmettitrice del fatto cristiano del nostro tempo. Infatti conduce questa esperienza editoriale così viva ed efficace, anche molto coraggiosa, riuscendo a captare e ad arrivare a grandi autori, sapendo essere intraprendente, un po’ come il Meeting di Rimini, che cerca dappertutto frammenti che ci possano raccontare e re-insegnare la vita. Ma veniamo a questo libro, che ha la prefazione di padre Federico Lombardi, l’attuale capo Ufficio Stampa della Sala Vaticana. Il libro racconta l’esperienza di Filippo Inastasi, quindi un libro personale, di racconto, che ci dice due cose che non sappiamo: la sua esperienza anzitutto, perché lui è un giornalista vero, racconta i fatti anche attraverso se stesso. Avendo potuto partecipare ai grandi viaggi di Papa Giovanni Paolo II, dalle sue parole si capisce che è rimasto toccato, è rimasto toccato non solo dalla vicinanza con un uomo eccezionale, ma è rimasto toccato nella sua esperienza personale e questo io credo perché possiede anche quella grande dote, o meglio virtù, dell’umiltà, che in fondo è poi anche la dote dei giornalisti che dovrebbero far parlare la realtà invece che parlare di sé, come purtroppo decadentemente accade nei media, nella maggioranza dei media odierni. La seconda cosa è quello che racconta, dal didentro, le parti non viste, che solo lui e i suoi colleghi, sempre una quarantina o cinquantina – mi pare venga citato questo numero – su questi aerei delle compagnie di bandiera di ogni Paese, hanno potuto sperimentare nella vicinanza quasi quotidiana con Giovanni Paolo II. Ma io lascio a loro le parti di racconto, voglio solo concludere questa breve introduzione in questo modo: è impressionante ricordare, forse l’abbiamo già sentito ma rimane impressionante lo stesso, ricordare che Giovanni Paolo II ha percorso il mondo per un numero di chilometri che è pari tre volte alla distanza che c’è tra la terra e la luna, dunque tre volte tanto e mezzo 330 mila chilometri. Il Vaticano è troppo stretto per questo annuncio,- diceva Giovanni Paolo II – e per questo mio cuore, che vuole seguire questo destino. E dunque, leggendo questo libro, ripercorriamo nella nostra mente questo grande abbraccio, che alcuni di noi hanno, come dire, visto nella loro età, nel loro tempo e che comunque è una testimonianza indelebile, di cui pochi giorni fa abbiamo avuto un’ennesima prova con la GMG a Madrid e se notate quasi nessuno ne ha parlato in modo esteso o corrispondente all’avvenimento che è stato. Poco fa mi parlavano appunto di un taxista che raccontava…, no ecco lo diceva Garcia all’incontro… forse i testimoni più autentici sono le persone semplici. Ma io chiedo a Ugo Sartorio di partire per raccontare questo lavoro di Filippo Anastasi. Grazie.
UGO SARTORIO:
Grazie Camillo per queste gentili e briose parole. Ecco, prima che ci mettiamo tutti in ascolto delle parole calde e magnetiche di Filippo Anastasi, ecco mi prendo due, tre minuti per introdurre questo libro, soprattutto nel suo spirito. Prima si è accennato a Giovanni Paolo II, Globe-trotter della fede, un uomo che ha portato, che è andato nel mondo con il Vangelo nel cuore. Pensate, un suo grande amico, Joseph Ratzinger, nel 1988, quindi dieci anni dopo l’elezione, scriveva sull’Osservatore Romano queste parole: “è forse l’uomo al mondo che ha incontrato più persone e stretto più mani”. Ecco, pensiamo, questo solo dieci anni dalla sua elezione a pontefice. C’è un’espressione che mi ha colpito, l’ho letta su un giornale dove si diceva – io condivido questa lettura – “Giovanni Paolo II è un papa che non ci ha mai lasciati”. Certamente questo è un paradosso, però è un paradosso che ci riempie gli occhi di immagini stupende: spianate piene di giovani, piazze gremite di gente, file di pellegrini; una cosa che forse tutti non sanno: quando ancora il corpo di Giovanni Paolo II era nelle Grotte Vaticane, qualcuno scherzando diceva che San Pietro era diventato il santuario di Giovanni Paolo II. Dalle dieci alle tredicimila persone ogni giorno passavano e si inginocchiavano davanti a quella tomba. Io sono andato alcune volte, tutte le volte che andavo a Roma, adesso bisognerà andare nella Basilica, nella parte superiore, non più nelle Grotte Vaticane, e, vi assicuro, una fila devotissima di gente. Bigliettini infilati, messaggi lasciati, perché da tutti Giovanni Paolo II è già oggi considerato un santo. Ma santo perché? Mah, io credo, ha saputo incontrare la gente, ecco, oggi la Chiesa è cambiata: non più una Chiesa che dice “Venite dentro”, ma una Chiesa che dice “Andiamo verso, andiamo ad incontrare”. E questo era lo spirito di Giovanni Paolo II, un uomo – io lavoro da alcuni anni nei media, e mi sorprende sempre la sua figura mediatica – che non diceva Joaqui Navarro Valls “cosa dicono i giornali del papa?”, ma “Cosa vogliamo che i giornali dicano di noi?”. Quindi aveva capito tutto della comunicazione mediatica, e in qualche maniera sapeva condizionare i media. Quindi, quest’uomo che va verso la storia, va dentro il mondo. Prima, ricordavamo con Camillo, che i primi passi di questo papa, soprattutto all’interno della Chiesa italiana, non sono stati facili, perché sono stati passi dibattuti e combattuti: la sua proposta di verità era forte, era lucida, ed era chiara. E poi si è fatto amare come grande uomo, come atleta di Dio, come, dicevamo, globe-trotter della fede. Ma veniamo a questo libro: dico due cose brevi ma poi ce ne parlerà l’autore. È un libro vero, e per questo è un libro che commuove. Ecco, io mi sono commosso, e ho pianto, non soltanto nella parte finale, che direi, è un colpo d’ala, è una pagina davvero poetica. La seconda cosa: Giovanni Paolo II, credo, con questo titolo, In viaggio con un santo, ci porta oltre questo titolo, perché? Perché il suo pontificato ha davvero trasformato, capovolto e reinterpretato il concetto di santità. In ventisette anni, anzi, in meno di ventisette anni, ha fatto 482 santi e 1338 beati. Nei quattrocento anni prima di lui, quindi 450 prima di lui, dal Concilio di Trento i santi fatti erano la metà della metà della metà di questo numero. Quindi ha riconosciuto che la santità è davvero la misura alta e normale della vita cristiana. Io direi, interpretando il Concilio Vaticano II, papa Giovanni Paolo II ha democratizzato – che non significa svilito – il concetto di santità, ed è questo concetto di santità che veramente abbiamo messo nel titolo, perché “in viaggio con un santo” vuol dire non soltanto un uomo che ha vissuto la santità, ma un uomo che l’ha promossa. Noi siamo santi perché santifichiamo il mondo, perché contagiamo la santità alle persone che incontriamo; e credo che questo aspetto è stato messo in bella vista da Filippo Anastasi, che è un cronista. E la parola cronista nel giornalismo è la parola più nobile: noi in genere apprezziamo gli opinionisti, quelli che ci dicono, le cose stanno così, dovrebbero stare in quest’altra maniera. No! Il cronista è colui che vede la realtà, colui che la comunica e colui che la sa raccontare muovendo il cuore. Allora io credo che stasera abbiamo davvero con noi, e ve ne renderete conto, un grande testimone, una persona che ha seguito molti dei 104 viaggi nel mondo di Giovanni Paolo II e ci dà un resoconto di questo essere pellegrini della fede sulle strade del mondo. Ecco, Filippo, io ho detto quello che potevo e ti lascio la parola perché chi parla in radio, siccome non lo vedono, deve avere dentro una passione unica, che comunica, e sentire la sua voce mi affascina, non so perché, ma è così.
FILIPPO ANASTASI:
Grazie, grazie a tutti cari amici di essere qui, ho un filo di emozione a essere anche quest’anno al Meeting, questa è un po’ la mia casa, per i miei libri, è la terza volta che presento un libro, ma tutte le volte sono un po’ teso, anche perché aspetto il vostro giudizio, e il vostro giudizio è quello che in Italia conta più di tutti, almeno per me, grazie.
Io non credo di aver fatto uno di quei libri che diventano dei pilastri nella storia; è un libro agile, è un libro piccolo. Di libri su Giovanni Paolo II, sul papa, di biografie e di saggi ce ne sono a decine, e in quest’ultimo anno, in occasione della beatificazione, ne sono usciti parecchie decine, solo negli ultimi giorni. Ho fatto un libro agile, e mi è stato detto: ma è corto! Sì, corto, perché questo è un libro di emozioni, e le emozioni non si possono allungare. Il cuore non s’allunga, i sentimenti non si sbrodolano, si devono raccontare, e il racconto deve avere un limite. Ecco, il limite, io ringrazio padre Sartorio che ha detto quello che ha detto, che io sono un cronista, ma io aggiungerei un aggettivo: sono un cronista privilegiato; pensate, stare vicino al papa in prima fila su avvenimenti che hanno coinvolto tutta la storia del Pianeta Terra: questo è un grande privilegio. Come il più grande privilegio che mi è stato concesso è stato quello di avere una certa, chiamiamola così, confidenza filiale col papa. Vi racconto prima una cosa che non è nel libro; io l’ho incontrato per la prima volta nel ’95, no, questa c’è nel libro, però non c’è quello che sto per dirvi. Del ’95 è il primo viaggio in Camerun e Kenya: ero seduto come uno scolaretto nell’aereo papale, al seguito; all’epoca Giovanni Paolo II veniva, sulla parte posteriore dell’aereo, stava in buona salute, e noi stavamo tutti seduti e lui si faceva intervistare da tutti. Per ognuno aveva una buona parola, aveva un gesto affettuoso. Ebbene, quando arrivò il mio turno – io ero lì seduto e il papa incombeva in piedi su di me, ero quasi in imbarazzo a stare seduto – Navarro gli disse: “Santità, questo è Filippo Anastasi, ed è la prima volta che viene in viaggio con noi”. E lui mi diede una piccola pacca sulla spalla e mi disse: “Che famiglia hai?” “Ho una moglie, una figlia” “e come si chiamano?”, gli dissi i nomi … beh, anche quando era ammalato, e l’ho incontrato qualche decina di volte, lui mi chiedeva sempre: “Ma come sta Daniela?” – nome di mia moglie – “Ma come sta Gaia?” – il nome di mia figlia. Sapere che il papa, l’uomo più importante del mondo, come l’ha chiamato il Washington Post quando arrivò in America, sapeva i nomi – non tanto il mio -ma di mia moglie, dei miei affetti più cari, è una cosa che ti lascia il segno, anche nella corteccia più dura. Ed io, che ero un credente distratto, grazie a questo papa sono diventato, con un percorso lungo, come dire, un credente più attento.
Ho voluto raccontare cose che nessuno ha mai potuto raccontare, dividendo questo libro di emozioni e sensazioni in capitoli, perché ogni viaggio non è uguale a se stesso, ogni viaggio è stato diverso. Ci sono stati i grandi viaggi del successo, i cosiddetti “bagni di folla”, in Polonia, in Sud America, in Africa, ci sono stati i viaggi che hanno inciso fortemente nella politica, come Cuba, come Sarajevo, dove la tensione era altissima, ma ci sono stati viaggi cosiddetti – che io ho voluto chiamare, ma che tutti hanno coperto – i viaggi della solitudine in cui il papa era da solo, soltanto col suo seguito e noi, pochi giornalisti. In India, ad esempio. Voi pensate al pianeta India, oltre un miliardo di abitanti: il papa da solo a Nuova Delhi, e nessuno l’ha mai detto e raccontato, se non io in quei giorni alla radio e adesso in questo libro. Allora è giusto chiamarlo il viaggio della solitudine: ma perché non c’era nessuno? Perché anche la grande diplomazia vaticana, che è grande davvero, ogni tanto fa dei piccoli errori. Pensate, per un infelice errore di calcolo, il viaggio a Nuova Delhi coincideva con il capodanno indù, la più grande festa induista, per cui tutti gli indiani erano in festa, e in gran parte erano andati via, in campagna, fuori da Nuova Delhi. Poi, Nuova Delhi non è una città indiana dove c’è una forte comunità cattolica, per cui, se poi si possono vedere alcune diapositive, possiamo vedere lo stadio di Nuova Delhi totalmente deserto. Vedete, questo è lo stadio di Nuova Delhi, il papa disse messa qui, c’erano soltanto diaconi, sacerdoti e noi del seguito, vedete che lo stadio è vuoto! Ed era la messa solenne. Il giorno dopo, andò in cattedrale, e quando arrivammo noi la cattedrale era chiusa e sprangata! E così rimase, perché dentro la cattedrale c’eravamo solo noi giornalisti e una decina di suorine di Calcutta, che erano venute faticosamente a Nuova Delhi – non mancano mai le suore di Calcutta quando c’è il papa.
Però, questo viaggio della solitudine ebbe un grande risvolto sulla vita di Wojtyła; ebbe a raccontarmelo Navarro qualche tempo dopo. Il papa, mentre andava allo stadio, mentre girava, ad esempio c’è un’altra foto, successiva, al Mausoleo del Mahatma Gandhi, non trovò nessuno per strada, non trovò gli abituali cordoni di folla che gli impediscono di capire che cosa c’è oltre la gente. E allora, mi raccontò Navarro, che il papa poté vedere con i suoi occhi il popolo dei marciapiedi di Nuova Delhi. Beh, per chi non è stato a Nuova Delhi o in India, vi devo raccontare che cos’è il popolo dei marciapiedi: sono decine di migliaia di persone che vivono, amoreggiano, figliano, mangiano e muoiono nello stesso metro di terra, di marciapiede. Quella è la loro casa. Non hanno acqua e bevono l’acqua dello scolo, lì a fianco; non sanno dove fare i loro bisogni e li fanno lì; non sanno come accendere il fuoco per cucinare, e l’unico combustibile è il loro sterco: questi sono gli uomini del popolo dei marciapiedi, i miseri più miseri del mondo. E allora, Navarro mi disse: “Il papa ha pianto, ha pianto, perché ha visto chi sono gli umili più umili, ha potuto vedere, mancando la folla plaudente, come vivono veramente i poveri”. Poi ci sono altri viaggi della solitudine, ad esempio in Tunisia. In Tunisia, il viaggio in Tunisia non servì a nulla, ci fu una messa per il corpo diplomatico, che era presente, dei Paesi cattolici, e noi giornalisti del seguito; e poi non c’era nessun altro. Il viaggio in Kazakistan, pensate: dodicimila km per andare a incontrare settanta cattolici che vivono in Kazakistan, ai confini con l’ex Unione Sovietica, ai confini con la Mongolia e con la Cina. E allora, al ritorno da questo viaggio, mentre dal Kazakistan tornavamo in Armenia, io dormicchiavo e sentii bussare alla mia spalla, e Navarro mi disse – se facciamo vedere quella foto che c’è in aereo, la prima -: “Vieni, il papa ti vuole parlare”. Io, un po’ dormivo, un po’ ero stupito, e lì per lì dissi: “che cosa avrò mai combinato che il papa mi vuole parlare!”. Invece Navarro amichevolmente mi disse: “stai tranquillo, vuole solo un po’ di compagnia”. E io mi ritrovai nella parte anteriore dell’aereo, come vedete, il papa mi fece un cenno, mi disse: “siediti qui”. Seduto a fianco a lui, mi chiese: “ma Filippo, ma questa volta, quante ore di trasmissione hai fatto, in Kazakistan, che ci sono soltanto un pugno di missionari, settanta, ottanta cattolici?”. E io dico: “Padre Santo, ho raccontato proprio della difficoltà di essere cattolici qui, ai confini con la Cina, con la Mongolia, ai confini dell’ex comunismo, dell’ex Unione Sovietica; ho raccontato di come queste terre erano dei Gulag” – lo sapete che facevano in Kazakistan i Tedeschi? Eh, i Russi soprattutto, non i Tedeschi, scusate, durante la guerra coi nazisti? Deportavano prigionieri, italiani, polacchi, tedeschi, e li sbarcavano dalla ferrovia in Kazakistan, li facevano scendere in questo deserto, e dopo di che li lasciavano lì, non c’era mica bisogno di prigione, morivano come le mosche, decine di milioni di persone sono morte in Kazakistan, pare venti milioni di persone. E qualcuno s’è salvato, e infatti ci sono colonie di italiani che sono piccoli sopravvissuti. E io dissi: “Padre Santo, questo ho raccontato. Queste storie ho raccontato”. E lui mi disse – e questo è l’incipit di questo libro di emozioni, è il primo capitolo -: “Io non ti ho mai potuto ascoltare – ed è chiaro, io parlavo di lui mentre lui parlava o agiva, non mi poteva ascoltare – non ti ho mai potuto ascoltare, ma ho sentito tante belle cose di te, grazie”. Capite, sentirsi dire grazie dal papa che significa? Anche a un uomo maturo le lacrime sono scese come quelle di un bambino. E lui mi consolava, poi mi ha fatto una benedizione, mi ha toccato la testa, m’ha dato i soliti saluti alla famiglia, e mi ha rimandato di là, commosso come un bambino. Questo era Wojtyła, ma Wojtyła era anche un uomo molto spiritoso, un uomo col quale ho degli incontri gradevolissimi; ad esempio, una volta alla Nunziatura di Nairobi, mi beccò che fumavo dopo il caffè insieme a padre Giulio Albanese, nel cortile, e allora io e padre Albanese eravamo imbarazzatissimi, con questa sigaretta in mano, e lui venne verso di noi e padre Albanese ebbe la prontezza di spirito di dirgli: “Padre Santo, dopo il caffè non fumare una sigaretta sarebbe peccato mortale”. E lui ci guardò e disse: “Anche io la fumerei, ma il medico m’ha detto che non posso”. Ma ci sono dei viaggi in cui aver visto questo papa e aver detto “è più vicino a Dio del solito” veniva spontaneo. Sarajevo: Sarajevo usciva da una guerra con centinaia di migliaia di morti, e il papa voleva andare a tutti i costi a Sarajevo, e quando fu possibile per le condizioni, diciamo, di sicurezza, il papa un anno dopo la fine delle ostilità, ci andò. Ebbene, due ore prima dell’arrivo del papa a Sarajevo, viene trovata una gigantesca bomba, un ordigno che doveva far esplodere tutta l’autostrada che dall’aeroporto avrebbe portato il papa alla Nunziatura. È una specie di delitto Falcone: saltava in aria l’autostrada. Fortunatamente questa bomba fu trovata, e il papa entrò in Sarajevo. Beh, sapete che significano trecentomila morti in un Paese che ne ha cinquecentomila viventi? Significa che non c’è più spazio per le tombe, da nessuna parte, che i cimiteri traboccano, e che i morti sono seppelliti addirittura nei fazzoletti d’erba a fianco alle rotaie del tram, sul viale principale di Sarajevo. Questo vide il papa. Ma quello che lo lasciò senza parole, e dico che era ancora più vicino a Dio quel giorno di quanto lo fosse normalmente, è la messa allo stadio di Sarajevo. Lo stadio di Sarajevo fino a tre settimane prima era stato una gigantesca fossa comune: c’erano trentamila persone sepolte casualmente dentro lo stadio; nelle tre settimane precedenti avevano spostato questi cadaveri sulle colline intorno, e noi ne abbiamo anche la foto, eccole: questo è lo stadio di Sarajevo, tutto intorno tombe. E la gente, per entrare allo stadio – la foto successiva – passava in mezzo a un cimitero improvvisato. Il papa era addolorato da questa situazione, chiamava Sarajevo città della guerra, e mentre diceva questo – la foto successiva – nevicava. Ma quando disse: “Mai più la guerra! Che Sarajevo da città della guerra diventi capitale della pace”, beh, come per uno strano fenomeno meteorologico, è qui che dico che Dio era ancora più vicino al papa, smise di nevicare e uscì il sole. Poi il papa parlò di tutti quei morti un’altra volta, e parlò della guerra che aveva falcidiato tutto un territorio, e ricominciò a nevicare. Poi ancora ripeté “mai più la guerra” e riuscì il sole. Ecco perché vi dico: Dio era sempre vicino a Wojtyła, ma quel giorno lo era veramente di più, perché quel papa, quel santo, riusciva addirittura a manovrare i fenomeni meteorologici secondo le sue parole e secondo i suoi sentimenti. Guerra era neve e cielo plumbeo, pace era sole.
UGO SARTORIO:
Ti interrompo Filippo, ti ho ascoltato veramente con il cuore, sentendo tutta la tua passione. Io direi che questo ci mostra un altro volto e un altro aspetto non conosciuto dei viaggi di Giovanni Paolo II. Naturalmente noi siamo abituati, fin dall’inizio, anche ai viaggi, diciamo, dove ci sono i bagni di folla, dove incontra veramente il popolo, quando torna ad esempio nel settantanove, un anno dopo l’elezione, nella sua Polonia. È chiaro che li è a casa, è chiaro che lì conosce tutti, lì viene da tutti acclamato, e poi ci sarà anche quel grido che lancia a Nowa Huta, proprio a un anno, a meno di un anno dall’elezione, che è il grido della nuova evangelizzazione. Questo secondo me è un dato bellissimo da rilevare, perché pensate, trentatre anni dopo la sua elezione a pontefice, dopo questo grido, nel 2012, ci sarà nella chiesa cattolica un Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione. Cioè bisogna diventare evangelizzatori, bisogna ridare alla chiesa una primavera d’annuncio, e questo credo, che questo grido non sia rimasto inascoltato, ed è stato Benedetto XVI, io lo chiamo il Giosuè di Giovanni Paolo II, a istituire un dicastero per questo annuncio e ci sarà un Sinodo proprio per questo. Credo sarà proprio una cosa bella per tutta la chiesa, tornare ad annunciare significa ritornare ad essere cristiani credenti e credibili. Però, questo viaggio tu l’hai visto e l’hai visto…
FILIPPO ANASTASI:
Non l’ho fatto, non sono stato cronista, perché io ho cominciato a seguire il papa negli anno novanta, non c’ero allora, e solo di questo io racconto, delle cose che ho potuto vedere. Ma sono stato in Polonia cinque volte poi con il papa, beh impressionante, cioè è impressionante vedere un Paese che tiene il fiato, che si blocca, che si paralizza. Vedere che per le ventiquattrore prima che il papa vada in un posto, il posto circostante è già pieno di gente. Tutti salgono su scale improvvisate, sui tetti delle macchine parcheggiate, sui pali della luce, sulle gru, sui capanni, il giorno prima, perché il giorno dopo, a un chilometro di distanza, devono vedere, dovevano, con il presente storico, devono vedere il loro papa, perché è uno di loro, sentirne l’odore, sentire il fiato di Wojtyla. La Polonia era un Paese che si bloccava. Pensate a un Paese di grandi bevitori che per ventiquattrore, dove c’era il papa, vietava qualsiasi alcolico, non bevevano, non vodka né birra né vino, niente, per rispetto al papa, un Paese in cui, a Cracovia in particolare, poi il papa faceva le biricchinate, scappava dalla Nunziatura e dopo cena, alle nove e mezza, si presentava in piazza e se lo vedevano presentare davanti che stava seduto a bere il caffè, e a chi l’aveva conosciuto, e a chi non l’aveva conosciuto, lui si fermava per dire: “ah, ma io conosco tuo fratello”, “ma come sta tua madre?”. Era un paesano che tornava, non in Patria, tornava al paese. E che dire poi dei grandi bagni di folla del sud America? La stessa cosa, anche se non era la Polonia, succedeva in Messico. Io in Messico ho visto dieci milioni di persone intorno alla Cattedrale dell’Amore e vita. Ma allora, ci rendiamo conto che dieci milioni di persone non lo possono incontrare il papa, che cosa possono vedere? Eppure erano arrivati da ogni dove con i muli, taxi collettivi, camioncini aperti, a piedi, per vedere solamente passare, magari a distanza, la macchina di Giovanni Paolo II e poi i più fortunati, due trecentomila, erano intorno alla Cattedrale per vederlo scendere dalla macchina ed uscire. Questo era il Messico, per non parlarvi del Brasile, il papa chiamato carioca, Wojtyla carioca, è una delle cose più belle che io abbia mai sentito dire, cioè era come dire sei uno di noi. Il carioca è un abitante di Rio, in senso affettuoso. “El papa carioca” era il cartello che lo festeggiava ovunque, insieme allo slogan che voi tutti avrete sentito centinaia di volte, “Juan Pablo II, te quiere todo el mundo”. Questo era il sud America. No, io non lo potevo gridare, perché quando succedeva questo ero in diretta, però lo facevo sentire, perché i microfoni della Radio Rai erano sempre aperti, per cui l’ha potuto sentire tutto il mondo, l’ha potuto sentire. Però, e questo lo racconto, ci sono viaggi in cui Wojtyla non esce vittorioso, almeno per un momento, almeno per il primo momento. Voi lo sapete che quando Wojtyla andò al monastero di Santa Caterina in Sinai, forse qualcuno di voi c’è stato andando a Sharm el Sheikh o in Egitto, insomma è un luogo di pellegrinaggio e di visita il monastero di Santa Caterina; ebbene, il papa andando al Cairo aveva espresso il desiderio di visitare il monastero di Santa Caterina. Certo per vedere il monastero, per vedere il roveto ardente, per vedere le radici della Bibbia, del cristianesimo, che al monastero ci sono tutte, ma anche perché aveva un idea politico-diplomatica, tentare di accattivarsi i monaci ortodossi, greco-ortodossi del monastero, per lanciare un messaggio di pace ai greco-ortodossi greci di Atene. Che cosa successe? Eravamo il papa e uno sparuto gruppetto di giornalisti, perché eravamo lontani dal Cairo (con un aereo militare arrivammo al Sinai), in tutto una quindicina di persone. I monaci sono greco-ortodossi ma autocefali, che vuol dire che il loro vescovo, il loro abate che si chiama “ecumeno”, comanda sulla comunità e non riceve ordini da nessuno. Allora in questa, come dire, voglia di essere autonomo, questo ecumeno fece fare una rapidissima visita al papa, ma proprio rapida, del tipo di quella dei giapponesi, con quattro foto, e poi lo accompagno all’uscita del monastero, insieme a Navarro, e a Monsignor Stanislao, a padre Borgomeo e a padre Lombardi della Radio Vaticana, quasi spingendolo fuori. Allora siccome era prevista – c’era una foto, forse a seguire – una preghiera congiunta con i monaci del monastero su questo muro, che era l’orto degli ulivi, appena fuori dal monastero, il papa e tutto il seguito pensarono “è l’ora della preghiera”, e quindi tutti ci affrettammo ad uscire dal monastero. Appena uscito il papa, si chiuse il portone del monastero e non si apriva più, si erano chiusi dentro, e il papa si trovò a dire la preghiera congiunta con il suo seguito e con il vescovo coopto di Alessandria d’Egitto che lo aveva seguito. Ma questa sconfitta, data dalla cialtronaggine di questi monaci di Santa Caterina, perché erano veramente dei cialtroni che tentavano di impedire un avvicinamento storico tra Oriente o Occidente, questa sconfitta si tramutò ben presto in una vittoria, perché il papa che non riusciva a stringere la mano al Patriarca di Atene, Atenagora, e che aveva pensato di passare attraverso questi monaci cialtroni del Sinai per abbreviare i tempo, si ritrovò, pochi giorni dopo, l’invito ufficiale del Patriarca di Atene a recarsi ad Atene e tutti i tempi dell’avvicinamento, della fine di questo schiaffo scismatico che durava da secoli e secoli, si abbreviarono a dismisura. Questi erano i miracoli dei viaggi di Wojtyla, che diceva, a chi lo criticava di essere sempre in viaggio, “non tutti possono venire in Vaticano”, “quindi io devo andare”, e lui è andato nei posti più lontani, più sconosciuti, più disperati della terra. Vuoi farmi una domanda?
CAMILLO FORNASIERI:
L’ultimo viaggio
FILIPPO ANASTASI:
Io vi racconto, vi leggo le ultime poche righe del finale. Parlo dell’ultimo viaggio, ma l’ultimo viaggio io non intendo quello a Lourdes, che fu il vero ultimo viaggio internazionale di Wojtyla. L’ultimo viaggio è un viaggio nei miei ricordi, che io ho consumato la notte prima dei funerali, dove ho rivissuto tutta la mia vita con Wojtyla, e guardavo per tre giorni e tre notti la gente che mi passava sotto la redazione della Rai, io ce l’ho a borgo Sant’Angelo e da lì passava in via della Conciliazione a rendere omaggio a piazza San Pietro al papa. E finisco così: “Quando il giorno dopo – cioè il giorno dei funerali -, una folata di vento birichino sfogliò il Vangelo posto sulla bara, ci vidi la sua mano, si divertiva, sembrava come quando davanti alle masse, soprattutto nei raduni dei giovani, aveva sventolato fazzoletti e bandierine. Stavolta non potendo usare le mani soffiava e agitava il libro del Signore”. Grazie, grazie davvero a tutti voi, che siete stati pazienti per quest’ora. Al prossimo anno.
CAMILLO FORNASIERI:
Abbiamo concluso con l’applauso, non c’è nulla da aggiungere. Solo un pensiero, Anastasi racconta che è un problema di sguardo, la vita come il giornalismo. Anastasi sa raccontare quello che si vede, vale a dire il significato dei fatti, mentre i fatti prendono corpo, prendono forma. Noi spesso possiamo anche non vedere, pensate nel Vangelo quando Lazzaro esce alcuni vanno a denunciarlo, altri si inginocchiano e dicono: questo è veramente il figlio di Dio. Il problema di raccontare la realtà è il problema di saper vedere, saper vedere è una decisione dello sguardo e quindi di saper cogliere quale è il significato delle cose mentre accadono. Io credo che la sua maestria sia congiunta all’eccezionalità a cui ha partecipato e forse anche per questo il papa lo ha ringraziato e lo ringraziamo anche noi. Grazie ancora, il libro è qui in libreria, è molto bello e ha anche questa forma di scrittura che abbiamo ascoltato. Grazie.
(Trascrizione non rivista dai relatori)