Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Invito alla lettura
24/08/2011 - ore 15.00 Fede e cultura. Scritti scelti Presentazione del libro di S. Ecc. Mons. Luigi Negri (Ed. Jaca Book). Partecipano: l'Autore, Vescovo di San Marino-Montefeltro; Livio Melina, Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia; Stefano Zamagni, Presidente dell'Agenzia per il Terzo Settore. A seguire: Ministero della bellezza. Il sacerdozio cattolico Presentazione del libro di Francesco Ventorino (Ed. Marietti 1820). Partecipano: l'Autore, Professore Emerito di Ontologia e di Etica presso lo Studio Teologico San Paolo di Catania; S. Ecc. Mons. Luigi Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro.
Fede e cultura. Scritti scelti
Presentazione del libro di S. Ecc. Mons. Luigi Negri (Ed. Jaca Book). Partecipano: l’Autore, Vescovo di San Marino-Montefeltro; Livio Melina, Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia; Stefano Zamagni, Presidente dell’Agenzia per il Terzo Settore.
A seguire:
Ministero della bellezza. Il sacerdozio cattolico
Presentazione del libro di Francesco Ventorino (Ed. Marietti 1820). Partecipano: l’Autore, Professore Emerito di Ontologia e di Etica presso lo Studio Teologico San Paolo di Catania; S. Ecc. Mons. Luigi Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro.
CAMILLO FORNASIERI:
Do il benvenuto a tutti, incominciamo questo “Invito alla lettura”, abbiamo due proposte di libri e terremo lo schema annunciato e quindi al primo succederà poi il secondo. La prima proposta che il Meeting ha ricevuto e accoglie con grande onore è della Jaca Book ed è un volume molto importante di scritti scelti di Sua Eccellenza Luigi Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro, che salutiamo. E’ un libro molto interessante, non sarà mio compito entrare nel merito, grazie a Dio, ma da subito si capisce l’arco teso e grande degli interessi e dell’impegno culturale di Mons. Negri: la modernità, segnata dai primi studi su Tommaso Campanella, nel periodo della sua laurea in Teologia, i suoi incontri con Bontadini nell’università Cattolica, lo studio della filosofia, dell’apologetica e della metafisica fino al grande incontro, come lo chiama lui, con Giovanni Paolo II, cui segue lo studio e la divulgazione del pensiero di questo grande pontefice, che attraversa la fase successiva di una modernità vicina a noi e già piena di smarrimento, di fronte alla quale con forza Mons. Negri ripropone la presenza del fatto cristiano come novità per l’uomo contemporaneo. La dottrina sociale della Chiesa, infine, è vista come punto capace di leggere e soccorrere e incontrare la creatività dell’uomo di oggi. Ecco, un arco di studi, che con valorizzazione ma anche con dialettica forte, mostra come in Mons. Negri quell’ inizio grande, che la sua storia personale ha segnato nell’incontro con don Giussani al Berchet di Milano, ha fatto della cultura quella necessità, direi, della persona, di ognuno di noi, di rendere totale, di rendere personale, senza aggiungere nulla, quello che una esperienza nuova detta, quello che una creazione nuova, che accade in noi, spinge verso tutto il mondo e verso tutte le cose. Mons. Negri è un grande esempio, per me e per tutti noi, di questa necessità interna di vivere tutta l’estensione della fede secondo la dimensione della cultura. Sono a presentare questo libro, questa raccolta di scritti scelti, Livio Melina, che salutiamo, sacerdote. Mons. Livio Melina è Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su Matrimonio e Famiglia, anche Melina è persona legata al periodo abbracciato da questi scritti, infatti presiede questo Istituto nato proprio come modalità di rendere la fede cultura nel mondo, nei vari Paesi e in questo Istituto è Professore Ordinario di Teologia Morale. Interverrà per primo e poi abbiamo con noi il carissimo Stefano Zamagni, alla mia sinistra, che è riminese, ma poi milanese per gli studi all’Università Cattolica ed è un economo politico, Ordinario di Economia Politica nella Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Bologna ed è anche Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University, quindi uno dei punti più attivi e avanzati sul tema. Avrete capito, quindi, il collegamento della sua presenza rispetto a scritti di teologia, storia, filosofia e quindi anche economia, perché l’economia non è la finanza, come stiamo imparando bene a capire, poi l’impegno, le collaborazioni, i comitati, a cui Zamagni partecipa, ne fanno una figura di professore attivo dentro la dinamica della vita della società del nostro Paese e anche europea. Io partirei subito chiedendo a Melina il primo intervento, grazie.
LIVIO MELINA:
Credo che la presentazione del volume di scritti scelti, in una veramente elegante e pregiata edizione, scritti scelti di S. Ecc. Mons. Luigi Negri, trovi il suo contesto particolarmente conveniente all’interno di questo Meeting per l’Amicizia dei Popoli, che ha come tema: “E l’esistenza diventa una immensa certezza”. Mi sembra che questa convenienza si possa riscontrare, tanto a livello di contenuto quanto e soprattutto a livello di metodo. Come contenuto, il volume che ho il piacere e l’onore di presentare, raccoglie una serie di scritti fondamentali di filosofia e di teologia, opportunamente riuniti e articolati in due sezioni, la prima di confronto critico con alcuni pensatori dell’alba della modernità, come Tommaso Campanella e Thomas Hobbes o del pensiero cattolico contemporaneo, quali Romano Guardini, Jean Guitton e Józef Tischner, la seconda, invece, come riflessione sul magistero di Giovanni Paolo II, centrata sui temi della cultura e della dottrina sociale. La disparità e disomogeneità di autori e di tematiche è però solo apparente, perché il volume si presenta molto organico e l’organicità è assicurata dall’avere come tema un confronto con la questione antropologica e con la ricerca di senso da parte dell’uomo. E proprio qui emerge la prima profonda sintonia con il tema del Meeting, parlando della ricerca antropologica di Tischner, Negri cita alcune frasi che mi sembrano particolarmente adeguate ad esprimere anche il cuore della sua personale ricerca. Egli cita Tischner in queste parole che potrebbero essere sue personali: “io ho compiuto ogni sforzo possibile perché la mia filosofia non fosse un gioco verbale, ma un dialogo sincero. In questo dialogo ho sempre avuto davanti uomini concreti. Siamo stati e continuiamo qui ad essere partecipi di un unico e medesimo dramma, il dramma di un uomo che vuole restare se stesso in un mondo che è diventato nemico di questo desiderio, per questo mi sembra che prima di ogni filosofare sia necessario compiere una scelta sostanziale, occorre scegliere le cose su cui pensare. Ciò su cui è necessario pensare non arriva a noi dalle pagine di un libro ma dal volto di un uomo inquieto per il proprio destino”. Questo di Negri non è dunque un liber ex libris, cioè un libro che nasce da altri libri, ma è piuttosto un libro che nasce dalla passione vibrante per l’autenticità dell’esistenza e dall’incontro con altri uomini, come dialogo appassionato e talvolta anche scontro. Come metodo, l’opera di Negri dimostra come la certezza che nasce dall’esperienza cristiana, lungi dal chiudere la ricerca della ragione e dallo spegnere il desiderio, apra invece verso una avventura affascinante di incontro con la realtà e con ogni uomo interessato al mistero della vita. La fede è una sorgente di dinamismo culturale, che permette un confronto più vero e profondo con qualsiasi altro pensiero, perché prima di tutto la fede è un incontro vero con se stessi, con il cuore della propria vita, che non si spegne, anzi si accende sempre di più nell’incontro con Cristo. Per essere filosofi non bisogna smettere di essere cristiani, anzi l’essere cristiani fino in fondo offre le condizioni più favorevoli ad una ricerca, senza nessuna riserva, di quanto è autenticamente umano. Come non riconoscere qui, realizzato in maniera originale, quel metodo di lavoro culturale che Luigi Negri apprese alla scuola di don Giussani e che ha sviluppato sistematicamente lungo tutta la sua vita? Vorrei ora soffermarmi su tre idee che mi sembrano centrali in quest’opera, il tema di una nuova apologetica, il confronto con la modernità e l’idea di cultura.
Dunque, prima di tutto, una nuova apologetica. Una delle convinzioni implicite in questo volume e forse anche la chiave ermeneutica per comprenderne il genere letterario specifico, è quello dell’urgenza di una nuova apologetica. Fin dagli inizi del pensiero cristiano, patristico, con San Giustino, Sant’Ireneo, l’apologetica è stata lo sforzo per presentare la ragionevolezza dell’esperienza cristiana, rispondendo alle obiezioni che venivano sollevate contro di essa e mostrandone la profonda convenienza umana, in un dialogo serrato con la filosofia, più che con la religione pagana, come più volte ha sottolineato Papa Benedetto XVI. Durante l’epoca moderna e dopo il Concilio di Trento, tuttavia, essa aveva subito una riduzione in termini razionalistici, controversistici e difensivistici, così che, nel periodo seguito al Secondo Concilio del Vaticano, molti hanno pensato che fosse un genere non solo superato ma anche inopportuno, in nome di una malintesa apertura di dialogo col mondo contemporaneo. E così, nel deserto del pensiero cattolico dei nostri giorni, regnano da una parte il cherigmatismo, secondo cui basterebbe l’annuncio puro e semplice di una fede libera da qualsiasi pretesa razionale oppure il soggettivismo sentimentale di un rimando all’indicibilità di una esperienza meramente individuale e così la fede si ritira dal piano pubblico e diventa un affare privato, indifendibile ed improponibile, incapace di far fronte agli attacchi delle ideologie scientista e storicista, che rivendicano solamente per se stesse il carattere di un sapere universalmente accreditato e quindi valido a livello pubblico. Negri riprende e sviluppa invece un concetto rinnovato di apologetica, con le parole di Guardini: “l’apologetica come ripresentazione del cristianesimo quale soluzione del problema umano”, partendo dal confronto con la modernità, nel tentativo di superare la crisi antropologica della coscienza moderno-contemporanea. Come è chiaro a chiunque conosca l’autore e i suoi scritti, l’opera di Negri è espressione di un pensiero appassionato di battaglia, che affronta con coraggio e a faccia aperta gli ostacoli che si frappongono al riconoscimento della verità e all’accoglienza di Cristo come verità dell’uomo. Non si tratta perciò di una difesa nostalgica o risentita di un patrimonio dottrinale o di una tradizione del passato, si tratta di passione missionaria, che nasce dalla consapevolezza del carattere creativo dell’esperienza cristiana, del suo valore universale, del suo essere fattore di cultura autentica per l’uomo di oggi. L’apologetica di Negri non nasce da un timoroso difendersi, ma sgorga piuttosto dallo slancio di comunicare un’esperienza presente, carica di fascino sorprendente, un’esperienza che troppo spesso viene contrastata, o negata, trascurata o dimenticata, solo perché non la si conosce e la grande chiarezza espositiva di queste pagine, tanto più apprezzabile di fronte, anche in campo cattolico, a linguaggi involuti e complicati, è l’espressione di onestà intellettuale di chi si sottopone chiaramente alla prova del confronto ed invita la libertà dell’altro a mettersi in gioco, a verificare la proposta cristiana prima di metterla da parte.
Il secondo punto, un confronto serrato con la modernità. Il punto cruciale che, nei suoi studi, Negri individua per istituire un confronto serrato con la modernità, è la questione antropologica. Se a partire dal XVI secolo è diventata centrale la domanda su chi è l’uomo, il dramma di fronte a cui noi ci troviamo è che l’epoca moderna ha assolutizzato la capacità razionale dell’uomo in rottura con la dimensione religiosa. Come ha affermato l’epistemologo canadese Bernard Lonergan, “la scienza moderna si è costituita non come semplice impresa conoscitiva, ma come progetto complessivo di trasformazione radicale della realtà, sulla base della conoscenza empirico-matematica, acquisendo una credibilità indiscutibile, non solo sulla base dei suoi strabilianti risultati, ma ancor più in forza di una speranza salvifica in un progresso indefinito”. Guardini, nel suo saggio su La fine dell’epoca moderna, denuncia l’ipocrisia dell’impresa moderna e il fallimento delle sue ideologie immanentistiche. La pretesa di poter vivere i valori etici del cristianesimo, staccandoli dalla fede, si rivela come illusione fatale nelle tragedie del XX secolo e lascia senza riferimento l’agire tecnologico dell’uomo contemporaneo. Come affermava il poeta Thomas Eliot, “l’uomo contemporaneo si trova disperso con auto potentissime su strade secondarie”, per questo la domanda di senso dell’esistenza è ineludibile, e intorno ad essa si apre la questione capitale che i saggi di Negri mettono a fuoco. Proprio a partire dall’esperienza storica della modernità, si pone come ineludibile l’esigenza di una rigorosa fondazione del senso religioso. Nell’uomo c’è qualcosa che sfugge alla tematizzazione scientifica, c’è un mistero che lo apre all’infinito e che solo può giustificare la dignità unica della sua esistenza personale e il valore della sua libertà. La ragione umana deve allargare perciò l’orizzonte delle sue possibilità al di là della misura scientista e dello scetticismo metafisico, se vuole davvero illuminare il cammino dell’uomo e aiutarlo nelle sfide formidabili che gli si impongono. La lotta contro la chiusura dell’orizzonte della ragione a ciò che è misurabile scientificamente e tecnicamente manipolabile diventa dunque questione cruciale per l’antropologia. Ma l’affermazione del trascendente come condizione di verità e di salvezza dell’uomo, non è un appello fideistico ad un salto della libertà nell’oscurità dell’irrazionale, non è una difesa tradizionalista del passato; è invece un invito a ritrovare l’esperienza originaria in tutte le sue dimensioni, senza censure pregiudiziali. È l’esperienza colta nella sua verità originaria che suggerisce alla libertà l’affermazione del Mistero, al di là del visibile e del misurabile con i sensi. Come si vede la proposta teoretica che la riflessione di Negri avanza, lungi dal limitarsi alla riproposizione del pensiero metafisico classico, che pure è pienamente accolto, intende piuttosto riguadagnarne la verità, le verità fondamentali, a partire dall’esperienza del soggetto. La questione antropologica della modernità trova poi un momento di verifica particolarmente significativo nella tematica del potere. Suggestivo è qui il confronto con Hobbes, in cui si delinea la tentazione, una volta che gli uomini siano stati ridotti a mere particelle della natura, di affidare il compito di assicurare la pace sociale al potere dello stato assoluto, dotato di strumenti del terrore per disciplinare le volontà umane. E arrivo dunque all’ultimo punto: il tema della cultura e dell’educazione. Alla scuola di Giovanni Paolo II, la seconda parte del volume ci offre una meditazione sulla cultura e sull’educazione come vie di rigenerazione dell’umano. Si evidenzia in queste pagine quanto sia fecondo l’incontro tra la prospettiva del discepolo di don Giussani e il magistero del grande papa polacco. Si tratta di pagine che ci insegnano, prima ancora che contenuti, un metodo di riflessione e di lavoro. Superando le riduzioni intellettualistiche del concetto di cultura, essa è definita come ciò mediante cui l’uomo diventa più uomo, accede alla sua umanità. L’uomo è dunque non solo soggetto, ma anche oggetto e termine della cultura. Essa fiorisce laddove l’incontro della ragione e della libertà con la verità e il bene danno origine a sempre nuove forme di azione di vita e di socialità. A questo punto diventa centrale proprio il tema dell’educazione e si vede anche il nesso che si istituisce tra fede e cultura, che offre il titolo a questa raccolta di scritti, come chiave ermeneutica del pensiero di Negri. Mi pare che tale nesso tra fede e cultura si riassuma in due affermazioni convergenti, che esibiscono i contenuti di quella certezza che rende feconda l’impresa culturale e lieta la vita del credente: da un lato la convinzione che nella fede cristiana si manifesti quella verità che la ragione cerca, dall’altro il fatto che la ragione presupponga la fede come suo spazio vitale e realizzi in maniera eminente il suo scopo proprio mediante la fede cristiana. Per questo, come la stessa storia moderna documenta, la ragione, quando cerca di dissolvere la fede, distrugge i propri fondamenti. La causa dell’uomo e la causa di Cristo sono perciò intimamente connesse e la fecondità della fede si manifesta proprio nella sua capacità di dare origine ad una cultura autenticamente umana, corrispondente alle esigenze ed evidenze del cuore. Gli scritti di Monsignor Luigi Negri, che ora ci sono accessibili in questa nuova edizione, non solo testimoniano e documentano la fecondità di questa intuizione, il che sarebbe già un ottima ragione per affrontarne lo studio, ma anche e soprattutto ci introducono in una forma straordinariamente pedagogica ad un metodo per rendere nostro questo approccio alla fede come sorgente di una umanità nuova e lieta. Per questo la raccomando alla vostra lettura e sono molto grato per aver potuto presentarlo e dire e testimoniare la mia impressione nel leggere questi scritti.
STEFANO ZAMAGNI:
Conosco Monsignor Luigi Negri da esattamente 49 anni, quindi l’anno prossimo celebreremo qualcosa di simile alle nozze d’oro. Questo lo dico perché può darsi che questa antica amicizia faccia velo alla cosiddetta capacità critica, però devo dire onestamente che siamo di fronte ad un’opera importante ed intrigante come non poche a me è capitato di leggere. Dobbiamo dunque essere grati a lui in primis, ma anche agli amici che si sono fatti carico di curare l’edizione di questa raccolta di saggi. E’ un libro importante, perché tocca argomenti che anche nella letteratura specialistica più recente erano stati in qualche modo messi in disparte. Faccio riferimento soprattutto al lungo saggio, che in effetti è un libro, su Tommaso Campanella e su Hobbes, ma è soprattutto un libro intrigante perché obbliga tutti, almeno quelli intellettualmente onesti, a rivedere certe categorie di pensiero e certe sistematizzazioni. Ora, nei pochi minuti che ho a disposizione, mi limito a toccare tre soli punti, anche se la tentazione è forte di entrare nel vivo della sua tematizzazione. Ne tocco tre perché non è questo lo scopo, ci saranno altri luoghi, altri momenti. Il primo riguarda appunto la nozione di cultura. Monsignor Melina ne ha trattato poc’anzi dalla sua angolatura. Mi piace ricordare la metafora che Thomas Eliot ha usato a proposito della cultura. Dice Thomas Eliot ne I cori della rocca: la cultura è come un albero, l’albero non si può piantare, chiedo scusa, non si può costruire, lo si può solo piantare e attendere che con il tempo cresca robusto e forte; ma aggiunge, però lo si può annaffiare, come dire, lo si può coltivare per fare in modo che cresca più rapidamente e più robusto: così è la cultura, non si può costruire la cultura. Tutti coloro, anche nei tempi recenti, i cosiddetti costruttivisti, che è un termine che si usa in filosofia della scienza, che hanno pensato di costruire culture, abbiamo visto che fine hanno fatto. La cultura è come un seme che va piantato, però bisogna annaffiarlo e cos’è in questo caso, fuor di metafora? In cosa consiste l’annaffiatura? Consiste nella riproposizone del cosiddetto pensiero pensante. Nell’ultima parte della sua ultima enciclica, Benedetto XVI dice, cito a memoria: “Il mondo oggi soffre della mancanza di pensiero”, mica dice il mondo oggi soffre della mancanza delle risorse, ne abbiamo fin troppe, ma soffre della mancanza di pensiero e la precisazione è necessaria. Ci sono due tipi di pensiero, c’è il pensiero calcolante e il pensiero pensante. Il pensiero calcolante è utilissimo, è utilissimo, cioè ci aiuta a risolvere i problemi, nessuno potrà mai negare la rilevanza di questo. Il fatto è che negli ultimi decenni il pensiero calcolante è avanzato a spese del pensiero pensante e il pensiero pensante è quello che ci indica la direzione di marcia, il senso: la parola senso significa la direzione verso la quale si deve andare. Ebbene, l’invito di questo libro è quello di riproporzionare, non si tratta di negare l’importanza o la rilevanza del pensiero calcolante in tutte le sue diverse manifestazioni, da quella tecnico-scientifica a quella economica, a quella ingegneristica e così via, si tratta di bilanciare. Ebbene, questo libro di Monsignor Negri va in questa direzione. E’ un contributo forte, per quello che ho detto, intrigante, nella riproposizione dell’urgenza di avanzare verso un pensiero pensante, senza nulla togliere ovviamente al resto. La domanda diventa: a che cosa è dovuto, a cosa dobbiamo attribuire questo squilibrio tra le due forme di pensiero? Qui la risposta di Monsignor Negri è molto precisa e io la condivido appieno. E’ avvenuto questo squilibrio a seguito dell’affermazione di quella forma di pensiero debole che è il relativismo. Relativismo assiologico, ma anche il relativismo pratico. L’idea del relativismo è molto semplice: la verità non esiste. Ma se la verità non esiste, non vale la pena ricercarla, cioè diventa irrilevante, diventa indifferente. Uno può anche credere, se portiamo il discorso sul piano religioso, però è irrilevante. Come dire, tu continua pure a credere, tanto non fa differenza. Questo è direi il tarlo che in maniera sottile ha veicolato l’idea o della supremazia del pensiero calcolante, poiché è vero e quindi merita attenzione solo tutto ciò che può essere oggetto di calcolo e il calcolo può essere di diversi tipi. Ecco quindi il richiamo di don Luigi: bisogna rimettere le cose in equilibrio, senza demonizzazioni, ma senza accettare questa umiliante e defaticante distorsione che si è consumata negli ultimi decenni, soprattutto nel nostro mondo occidentale. Il secondo punto dei tre è quello che mi ha molto, ma molto colpito, il saggio su Hobbes – è ovvio, la disciplina che io professo, l’economia politica, ha molto a che fare con il pensiero hobbesiano. Hobbes, come appunto sappiamo, pubblica nel 1651, in inglese, la sua opera principale più nota, il Leviatano. Ma ancora più sottile, fa bene Monsignor Negri a sottolinearlo, è l’opera precedente di alcuni anni, prima cioè del 1642, il De Cive. Qual è l’idea di Hobbes? L’idea di Hobbes è quella di un’antropologia negativista. Hobbes, è la frase che è sulla bocca di tutti, crede che “homo homini lupus”, che l’uomo sia un lupo nei confronti degli altri uomini, perché se è un lupo, allora l’implicazione è: “mors tua vita mea”, la tua morte è la mia vita. Quindi io, per vivere, ho bisogno che tu muoia e infatti il concetto di uccidibilità è centrale in tutto il pensiero hobbesiano. L’unico modo per salvarsi un po’, dice Hobbes, è fare il contratto sociale, firmare il contratto sociale. Gli uomini sono cattivi come lupi affamati, però sono razionali, capiscono allora che è nel loro interesse personale firmare il contratto sociale. Qualcuno potrebbe dire: va beh, che male c’è? Il male è che questa idea hobbesiana, che io ho ovviamente ipersintetizzato, è filtrata nelle scienze sociali, in primis nella mia disciplina, l’economia. Molti economisti non lo sanno che tutto ciò che praticano, anche se non viene citato, ha un fondamento hobbesiano. L’homo oeconomicus ha la sua matrice in Hobbes. Chi è l’homo oeconomicus? E’ uno che agisce, fa economia, solo per il proprio interesse, perché solo così, come molti credono, si può avere avanzamento, progresso e così via. Ed è esattamente dall’impostazione hobbesiana che è derivata quell’altra stortura che pone lo stato in cima alla gerarchia dell’ordine sociale. Il Leviatano, il titolo del libro, il mostro di cui si parla nella Bibbia, nell’Antico Testamento, fa paura, deve far paura. Ebbene lo stato è un leviatano, cioè è un mostro che deve intimorire i cittadini, perché possano obbedire e quindi rispettare le leggi. Non ci vuol molto a capire che un ordine sociale basato su una premessa di questo tipo non può che portare i risultati nefasti che, direi, quasi quotidianamente notiamo. Non perché il contratto e quindi la legge non sia importante, ci mancherebbe altro, ma noi non possiamo fondare la convivenza umana solo sul contratto, perché fondarla sul contratto sociale vuol dire affermare il primato dello stato sulla società e poi il primato della società sulla persona, quindi la persona arriva per ultima. Nel suo saggio, che ho trovato veramente importante, c’è una critica serratissima, peccato che questo saggio non venga letto anche da chi non coltivi interessi né filosofici, né teologici, perché avrebbe molto da insegnare, soprattutto agli scienziati sociali: sociologia, economia, antropologia e così via. La centralità della persona, che non è uno slogan, vuol dire molto di più che dire che le persone sono importanti, vuol dire riorientarle. E per far vedere subito un’implicazione, provate voi a parlare di sussidiarietà tenendo l’impostazione hobbesiana, è impossibile. Eppure c’è gente, anche rispettabile, anche intellettualmente onesta, che vorrebbe sposare la sussidiarietà con l’impostazione hobbesiana. Disastri su disastri, perché parlare di sussidiarietà vuol dire negare quella gerarchia che vede appunto lo stato etico, come dirà poi Hegel. Infine, il terzo punto che mi piace sottolineare, sono gli ultimi due saggi dedicati a una rilettura della più recente dottrina sociale della chiesa. Sono saggi davvero importanti e interessanti. Monsignor Negri prende le mosse dai contributi, ovviamente, di Giovanni Paolo II, perché appunto… e la sua rilettura della Centesimus annus, della Laborem exercens sono degli autentici pezzi di bravura. Qui l’idea centrale, sostanzialmente, e quindi devo andare a concludere, è che è possibile applicare, dentro la sfera dell’economico, quello stesso paradosso di Böckenförde, che i giuristi costituzionalisti applicano nel contesto dei loro studi costituzionali. Böckenförde è un autore molto famoso anche in Italia, tedesco, costituzionalista che dice, il liberalismo vive di principi che esso stesso non è in grado di darsi, di qui il paradosso. Ebbene, possiamo trasferire lo stesso paradosso nell’ambito socio-economico. Il mercato vive di presupposti che il mercato stesso non è in grado di darsi, pensate alla fiducia, pensate alla reciprocità, pensiamo al dono come gratuità. Il mercato però, senza questi presupposti, non funziona. Il contributo di Monsignor Negri su questo è davvero rilevante. Chiudo allora con un auspicio, l’auspicio è che Monsignor Negri continui a studiare e scriva, deve scrivere, perché Rosmini ci ha insegnato, il grande Rosmini, che la forma più alta di carità è la carità intellettuale. Io sono profondamente convinto di questo, quindi grazie ancora don Luigi per il tuo sforzo e veramente cerca di trovare il tempo per continuare a produrre un libro tanto grosso come quello che oggi ho presentato.
CAMILLO FORNASIERI:
Monsignor Negri, vuole fare un saluto conclusivo?
S. ECC. MONS. LUIGI NEGRI:
Volevo fare semplicemente un ringraziamento, non solo a coloro che sono intervenuti, ma a coloro che sono presenti, alcuni autorevolissimi. Ho dovuto cercare di superare, lungo tutto questo incontro, la sensazione che si stesse parlando di qualcun altro e non di me, comunque. Nella pagina introduttiva che ho scritto, ho cercato di formulare la linea, la linea esistenziale e culturale di questo lavoro. Io ritengo che la cultura, se si pensa come fine a se stessa come si è pensata da qualche secolo, finisce inesorabilmente in ideologia, e l’ideologia finisce nella violenza. Se la causa della cultura è se stessa, è la fine, non crea, non costruisce, distrugge. Conquest diceva, parlando del ventesimo secolo, che è stato il secolo delle idee assassine. Io ho avuto chiaro fino dai primi anni della mia vita, con i miei genitori, con la mia famiglia, che la mia causa era la causa di Dio e dovevo vivere, fare tutto per la causa del Signore. La ricerca, la ricerca non fine a se stessa ma la ricerca per dare ragioni al cuore umano che cerca, o per dare ragioni al cuore umano che ha trovato, che è stato trovato da Cristo. Non si può separare la cultura dal popolo, io non ho mai concepito nessun momento della mia vita, diciamo di Pastore tra virgolette, separato dal popolo, ma neanche un momento della riflessione teorica separata dal popolo, perché è il popolo cristiano l’eterno di Dio nella storia, è il popolo cristiano, e la grandezza di un uomo, qualsiasi cosa faccia, è che si concepisca in funzione del popolo, esprima le istanze più profonde del popolo, educhi le istanze più profonde del popolo, giudichi se necessario gli errori del popolo, esalti le cose più positive che il popolo ha incontrato, sperimenta e vive. È un tentativo a cui necessariamente lo scorrere della natura porrà fine. Ma io credo che la questione fondamentale della chiesa e dell’umanità, in questo momento, sia il popolo, il popolo umano che si forma quando gli uomini cercano il senso della vita, perché è lì l’embrione del popolo, questa amicizia originaria fra uomo e uomo che cerca il mistero, come ci ha ricordato don Giussani in uno dei suoi libri più belli, Tracce di esperienza cristiana, il libretto rosso di tanti anni fa, il popolo umano che nasce dalla ricerca e quindi dall’attesa, perché non si ricerca mai senza attendere. Il vertice della ragione che cerca è la domanda, e la rivelazione è la grande ipotesi che si profila alla fine di ogni ricerca. Ma se il popolo è stato ritrovato da Cristo, nell’uno e nell’altro caso è questa la centralità delle questioni. Noi dobbiamo vivere in funzione della crescita del popolo umano e cercare di aiutare il popolo cristiano ad essere se stesso, facendo quello che si può fare, come dice la Bibbia: non andare mai in cerca di cose più grandi di te. Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Queste parole conclusive sono la spinta, il suggerimento con il quale guardare a questa raccolta, a questa opera così interessante, così importante anche per il nostro vivere nel nostro tempo. Qui alla libreria il libro è disponibile. Io saluto i nostri cari ospiti, Mons. Melina e il professor Zamagni, che ringrazio tantissimo per la loro acuta lettura e amicizia.
Passiamo ora a un altro libro, il libro di don Francesco Ventorino, Ministero della bellezza. Il sacerdozio cattolico. Questo libro è il frutto di un incontro vivo, recentemente avvenuto nella diocesi di Acireale, dove don Francesco Ventorino è stato chiamato a predicare gli Esercizi Spirituali ai seminaristi e dove – come lui accenna nella nota introduttiva – è stato costretto, a interrogarsi, a riguardare alla sua stessa esperienza di cristiano, di uomo, di sacerdote. E’ un libro molto vivo, molto bello, e che – io direi – riguarda tutti noi, perché pensare al ministero della bellezza immediatamente non ci fa pensare al ministero del sacerdozio: questa è già la prima spaccatura che noi tutti un po’ viviamo nel guardare, nel chiederci i motivi dell’esistenza di uomini così. E invece questa partenza sul tema della bellezza travolge, perché raduna tutto il nostro bisogno. E infatti il libro parte dal riaprire la questione umana, il problema dell’esistere. Pasolini diceva: “Tutte le mattine ricomincia la tragedia dell’esistenza (per lui era una tragedia)”. La domanda che invece pone Ventorino, è quella che di passo in passo nel libro diventa il tema dell’incontro, della chiamata, di un seguire, fino al riproporre il Cristianesimo oggi. E’ quindi un tema che spacca il nostro stesso esistere, e ci porta a sperimentare cos’è una nuova creatura. Bene, senza addentrarmi più oltre, abbiamo qui, insieme a Ventorino, Mons. Negri, che farà il primo intervento. Il libro ha la significativa prefazione di Julián Carrón, che tra l’altro riprende molte parti recenti della riflessione del Santo Padre in occasione dell’anno dedicato al sacerdozio, che ha mostrato a tutto il mondo la novità e anche l’umiltà di questa chiamata. Ma passiamo subito alla loro voce, che è più precisa.
S. ECC. MONS. LUIGI NEGRI:
Il libro si presenta con una tale chiarezza, con una tale organicità, con una tale completezza, che risulterebbe inutile una riproposizione analitica. Io vorrei raccogliere alcune suggestioni vivissime che ho avuto leggendo questo testo, che è un grande testo – si potrebbe dire banalmente – di spiritualità, se il termine spiritualità non fosse abusato e addirittura disintegrato dall’uso comune. Sant’Ambrogio di Milano, che è un grande Padre della Chiesa, non solo di Milano, di tutta la Chiesa, chiedeva in una sua omelia: “Dove troveremo il Regno di Dio, dove sorprenderemo il Regno di Dio? Nella vita di un presbitero credente”. Credo che sia l’unico punto della tradizione che dice con chiarezza quello che poi lo stesso Magistero ecclesiastico ha recuperato non senza gradualità e con qualche fatica. Vuol dire che il prete o è l’espressione piena della fede cristiana che è vissuta da un uomo oppure il prete perde qualsiasi giustificazione, prima ancora che ecclesiale, umana. Allora, occorre che ci sia un uomo. Se non c’è un uomo non ci sarà un prete, così come se non c’è un uomo non ci sarà un cristiano. E l’uomo è una domanda, l’uomo è una tensione, l’uomo è una inesorabile capacità di aprire continuamente la sua intelligenza e il suo cuore verso un Oltre di cui avverte la presenza e insieme la lontananza. Questo è il mistero della vita umana: avvertire inesorabile la presenza e non meno inesorabile la lontananza. Ecco, occorre riproporre il cammino della fede per capire il senso, il significato, la funzione, la posizione del presbitero, del prete nella Chiesa e per la società. Per questo la parte preponderante del volume dà spazio a questa analisi esistenziale, come la definisce don Giussani in alcune bellissime pagine de Il senso religioso. Dare spazio all’analisi esistenziale non semplicemente come qualche cosa che si descrive o di cui si parla, ma come la chiamata – io mi sono identificato e dicevo “speriamo che abbiano capito qualcosa”, mi sono identificato con i seminaristi che ti hanno ascoltato. Perché una delle due: o si mettevano in moto loro con la loro umanità, e allora qualche cosa avrebbero cavato; o se si mettevano di fronte a queste pagine come si mettono normalmente di fronte alle pagine della teologia o della filosofia, non sarebbe successo nulla, anzi sarebbe soltanto aumentata la presunzione che tu eri di destra, che eri di sinistra, che eri reazionario, eccetera. L’analisi esistenziale come un cammino: è inesorabile, inevitabile questo cammino; e poi lo stupore che questo cammino ha trovato il suo compimento, ha trovato la sua risposta, ed è una risposta che non chiude il cammino, la problematica del cammino, ma la riapre continuamente, per quella straordinaria valorizzazione di domanda e di risposta, di fede e di ragione, che è il Cristianesimo. Il prete è colui che deve fare il prete per essere cristiano sul serio, non c’è un’altra ragione, non può esserci una ragione ecclesiale separata da questa, non può esserci una valutazione di carattere socio-politico, non si può fare il prete per aiutare la gente – abbiamo sentito anche questo in questi decenni -, non si può fare il prete per tenere alta la coscienza critica dei problemi della società. Uno fa il prete perché se non fa il prete non è cristiano, è la sua modalità di assumere l’incontro che Cristo gli ha fatto fare, di assumerlo realmente. Questa è la vertiginosità ontologica del prete: il prete viene assunto da Cristo, come strumento inesorabile della prosecuzione della sua presenza fisica nel mondo (predicazione e sacramento) e della sua funzione educativa, perché il prete è il generatore, il rigeneratore del popolo e l’educatore, colui che deve portare l’incontro con Cristo alle conseguenze determinanti sul piano dell’intelligenza (cultura), sul piano dell’ethos (carità), sul piano della destinazione della vita (missione). Io che divento prete perché così posso essere veramente cristiano, esercito questa mia vocazione diventando uno strumento. Con una certa brutalità, ma era meglio la brutalità di San Tomaso d’Aquino che tante altre cose di questi ultimi secoli, con una certa brutalità San Tomaso d’Aquino diceva che il prete è uno strumento che il Signore congiungeva a sé per rendersi continuamente presente. Io credo che questa sia la grande liberazione che un libretto come questo porta nella vita di tanti che – tanti mica tanto – si preparano al sacerdozio, perché toglie ogni equivoco di tipo moralistico, di tipo sociologico, di tipo psicologistico. Il prete non deve fare lo psicanalista-fai-da-te, il prete non deve supplire a mancanze di carattere psicologico o affettivo della sua gente, invadendo a volte in maniera assolutamente indebita gli spazi della coscienza che sono sempre da adorare, perché è nella coscienza – come ci ha insegnato il Concilio Vaticano II – che Dio parla all’uomo. Ma il prete è un’altra cosa, è il capo della comunità, è colui che rappresenta Cristo nella comunità e lo rappresenta nella densità di una presenza. I padri del Concilio di Trento, che quasi non si cita più come se si fosse passati dal Lateranense secondo o terzo al Concilio Ecumenico Vaticano II, introdussero un semantema nuovo quando dovettero discutere dell’Eucaristia – ma discutendo dell’Eucaristia, discutevano della sacramentalità della Chiesa -, quando hanno detto che l’Eucaristia rappresenta Cristo, cioè rende presente Cristo. Il prete rappresenta il Signore, cioè lo rende presente e svolge tutta la forza misericordiosa della sua presenza e tutta l’azione educativa tesa alla formazione di un popolo, o meglio alla formazione di ogni singola persona in questo popolo. Per questo non si deve interessare della politica, della sociologia eccetera, perché se ha creato un popolo cristiano libero e intelligente, sarà il popolo che farà le sue scelte culturali, sociali e politiche. Quante volte ho detto alla Cei – guadagnandomi una stima che aumenta – quante volte ho domandato: ma cosa dobbiamo fare noi vescovi, dobbiamo dire se ci devono essere le moschee o non ci devono essere le moschee, se dobbiamo respingere quelli che vengono da…? Noi dobbiamo creare degli adulti laici, dei cristiani autentici, come ha detto il Papa ai cristiani del Montefeltro: presenti, coerenti e intraprendenti!
L’immagine di prete che esce da questo libro è questa. Siccome la pienezza della vita cristiana è l’unica cosa vera della vita umana e della storia e la verità è legata alla bellezza, allora il prete che fa nascere il popolo cristiano, che lo educa, che lo corregge, che lo perdona, eccetera, è un ministro della bellezza, perché la bellezza non è un’astrazione, la bellezza è Gesù Cristo, come diceva Gregorio di Nissa. E la bellezza di Gesù Cristo si riflette nella vita del popolo che di Cristo porta l’immagine e il segno.
Seconda e ultima notazione. Come me – siamo distanti di pochi anni, ma non tantissimi -, credo che anche don Ciccio stia facendo un’esperienza straordinaria, quella di recuperare la propria giovinezza non in modo nostalgico, di recuperare la propria giovinezza per tutti i tempi ed i passaggi e gli incontri e i valori che queste circostanze… per esempio lui parla del suo rettore di seminario, non so se vent’anni fa ne avrebbe parlato così. Io non scrivo del mio rettore di seminario, perché era evidentemente un po’ diverso dal tuo, ma io sto recuperando la provvidenzialità di certi momenti. A me sembra adesso di dover dire che la storia che è passata nella mia vita attraverso il seminario – anni duri – è stata un’esperienza provvidenziale. L’incontro solo con don Giussani, l’incontro solo con Giovanni Paolo II, che – come ho detto per il mio libro di prima – sono i due grandi incontri della mia vita, non sono separati da quella fitta, quotidiana esperienza di incontri che man mano che il tempo passa uno si trova addosso in modo pertinente e perentorio. Il suo rettore di seminario, che era più capace di affrontare i problemi della sessualità di questi para-psicanalisti che distruggono la vocazione dei preti, come distruggono le famiglie, il suo rettore, ma anche tutta la gente che hai incontrato tu, tutta la gente che ho incontrato io, non fanno parte della nostra vocazione? Non fanno parte del nostro sacerdozio? Non sono fattori di insegnamento che si è continuamente aperto nella nostra vita? Io ho conosciuto don Ciccio, quando ero studente universitario, a Costalunga, a delle vacanze di G.S. Eravamo nel ’59, nel ’60 o nel ’61… Sessanta! Ma la promessa di Costalunga si è realizzata nella nostra vita come Dio ha voluto, nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia, nella gioia e nel dolore – abbiamo fatto esperienza anche di questo, dolore non solo morale ma anche fisico. Ecco, io credo che leggere questo libro sia stato per me leggere un pezzo della mia storia, per questo ho detto subito che lo avrei presentato io. Forse lui, mentre lo scriveva, pensava a qualche pezzo della sua storia che sono io, ma è una cosa straordinaria.
Allora concludo tutto con questo pensiero: secondo me, quando uno dice con verità queste cose, deve prepararsi perché forse sta arrivando la fine. Pietro di Craon, che è stato una grande immagine della vocazione cristiana, nel libro di Claudel, dice: “Ho sempre pensato, certo, che la gioia era cosa buona, ma ora ho tutto, tutto possiedo sotto le mie mani, come chi, salito sulla scala, sull’albero carico di frutti, sente che al peso del suo corpo cedono i rami folti. Bisogna che io parli sotto l’albero, come il flauto che non è né basso né acuto. La gratitudine dissuggella la pietra del mio cuore. Oh così io viva, oh così io cresca, unito al mio Dio, come la vite e l’ulivo”. E io credo che sia la nostra esperienza quotidiana. Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Don Ciccio, raccontaci ancora un poco di questa bellezza che Monsignor Negri ha, così, riannodato attorno al senso della vita cristiana. Scusa, mi ha colpito quell’accenno che anche Carrón riprende, nella tua citazione, tra le tante bellissime e anche molto originali e nuove, di Péguy, quando mette in luce come siamo dentro in un tempo, in una educazione ricevuta dalla mentalità comune, per cui stacchiamo i pezzi di quell’unità cristiana che è il temporale, cioè la vita, e l’eterno; oppure quando cerchiamo di rendere eterno e staccato dal temporale, cioè spiritualistico tutto quanto. Come tutto questo è pertinente risposta al sacerdozio, al prete, e a tutti noi?
FRANCESCO VENTORINO:
Per sapere questo, dovete leggere il libro e quindi, compratelo. Invece, mentre parlava Monsignor Negri, con il quale abbiamo già celebrato le nozze d’oro, per stare alla metafora che ha fatto Zamagni prima – infatti lui parlava del ’60 e quindi sono 51 anni che ci conosciamo -, pensavo a quello che san Tommaso dice dell’amicizia. Tommaso d’Aquino dice che l’amicizia stabilisce una sorta di connaturalità tra le persone. Ecco, io ho sperimentato questa connaturalità mentre lui parlava di me e del mio libro. È una connaturalità per la quale lui sa parlare meglio di me, di me e del mio libro stesso. Tommaso dice che questa connaturalità nasce dalla capacità di compiacersi delle stesse cose, cioè piacciono le stesse cose, si è amici perché piacciono, nel senso forte della parola, come la usava Tommaso d’Aquino, come soddisfazione intera dell’umanità. Ecco, ho fatto questa esperienza di amicizia. Ma come si genera questa connaturalità, chi ha generata questa connaturalità fra di noi? Lui. Avere insieme lo stesso Padre. Lo stesso Padre che è Dio, ma che s’è fatto conoscere da noi attraverso il volto umano di un padre, don Luigi Giussani. Io non sarei me stesso senza questa figliolanza, non sarei me stesso senza questa paternità. E per questo, il sentir parlare di un amico generato dalla stessa relazione di figliolanza, fa risuonare dentro di me quella connaturalità che è gratitudine immensa a Dio, perché nel suo infinito disegno di amore – se leggete il libro saprete le ragioni di quello che dico – ha salvato me stesso, il mio ministero sacerdotale, proprio attraverso quest’uomo, che nel momento più critico della mia vita, ha saputo offrire, nella sua umanità, il metodo per proporre Cristo a me stesso e a tutti quelli che, dopo, Dio mi ha dato, creando, senza che io facessi quasi nulla, un popolo grande attorno a me e attorno a Lui. Ecco, di questo sono grato a Monsignor Negri, perché ha ridestato in me la memoria di queste cose. Infatti, qui vanno – ha ragione lui – come sedimentandosi, queste varie tappe della mia vita, con una coscienza ed una sapienza che qualche anno prima non avrei mai avuto, e forse questo è il segno che il compimento è vicino.
CAMILLO FORNASIERI:
Bene, grazie. Ringraziamo don Ciccio della generosità con cui continua a riflettere sulla sua esperienza e ce la racconta. Questa è un’altra occasione di cammino per tutti noi. Lo ringraziamo di questo. Grazie a Monsignor Negri per il suo prezioso contributo. Arrivederci.
(Trascrizione non rivista dai relatori)