Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
PADRE PINO PUGLISI BEATO. Profeta e martire
Presentazione del libro di S. Ecc. Mons. Vincenzo Bertolone, Arcivescovo di Catanzaro-Squillace (Ed. San Paolo). Partecipano: l’Autore; S. Ecc. Mons. Michele Pennisi, Arcivescovo di Monreale.
A seguire:
L’UOMO NUOVO
Presentazione del libro di Aleksandr Solženicyn (Ed. Jaca Book). Partecipano: Giovanna Parravicini, Fondazione Russia Cristiana; Sergio Rapetti, Traduttore letterario e Consulente editoriale.
INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Ore: 15.00 eni Caffè Letterario A3
PADRE PINO PUGLISI BEATO. Profeta e martire
Presentazione del libro di S. Ecc. Mons. Vincenzo Bertolone, Arcivescovo di Catanzaro-Squillace (Ed. San Paolo). Partecipano: l’Autore; S. Ecc. Mons. Michele Pennisi, Arcivescovo di Monreale.
A seguire:
L’UOMO NUOVO
Presentazione del libro di Aleksandr Solženicyn (Ed. Jaca Book). Partecipano: Giovanna Parravicini, Fondazione Russia Cristiana; Sergio Rapetti, Traduttore letterario e Consulente editoriale.
CAMILLO FORNASIERI:
Bene, un caro benvenuto a voi tutti, cominciamo questo momento di presentazioni, di letture che il Meeting ha fatto proprie e che intende condividere con voi. Due proposte oggi, la prima è un libro edito dalla San Paolo, di Vincenzo Bertolone, Padre Pino Puglisi beato. Profeta e martire. Abbiamo con noi due ospiti di eccezione: uno è l’autore, che salutiamo, Sua Eccellenza l’Arcivescovo di Catanzaro Vincenzo Bertolone, che ringraziamo molto per aver trovato un momento per raggiungerci; l’altro è sua Eccellenza Michele Pennisi, da poco Arcivescovo di Monreale. Prima di lasciare a loro il racconto – hanno conosciuto personalmente don Pino – e la riflessione che nasce dalla sua vita, dalla sua testimonianza, dal suo martirio, volevo connettere questo momento con il tema che in questi giorni ci siamo dati e anche con il messaggio del Santo Padre Papa Francesco, specie laddove ha detto che c’è bisogno di testimoni, o anche che il potere inizia a diventare più cattivo e influente, quando nota che qualcosa inizia a dialogare con qualcosa d’altro, quando l’uomo inizia ad essere legato a qualcosa che lo definisce nel profondo, che si attacca, che si aggancia direttamente al suo desiderio, al suo bisogno di vita profondo. La prefazione del Cardinale Romeo, Arcivescovo di Palermo, la leggo perché lo dice molto bene, mette in luce proprio questo aspetto. La figura di don Pugliesi viene spesso raccontata con schemi che non le corrispondono, e cioè quasi come uno sforzo etico, un essere contro qualcosa che non era giusto, contro la mafia, contro i poteri occulti. Il Cardinale Romeo dice invece che la testimonianza di Pugliesi non consiste nell’utilizzo di categorie presenti nella società civile, ma “mediante parole essenziali nell’orizzonte cristiano, come peccato, giudizio di Dio, conversione ed infine martirio, trova il vertice dentro quel punto di gratuità per cui don Pino è stato riconosciuto come scomodo, perché aveva incollato le persone, i ragazzi, i giovani a qualcosa di diverso, che non apparteneva a quella societas, a quel modo di vivere, che poi è anche il modo quieto di sopravvivere”. E questo è anche il punto decisivo del libro, che Bertolone ha accettato di scrivere su richiesta della San Paolo editore. Io do anzitutto la parola a Sua Eccellenza Michele Pennisi, che lo ha conosciuto, e che vive la sua testimonianza di Vescovo nelle varie città della Sicilia, oltre a ricoprire responsabilità nella Chiesa nazionale.
S. ECC. MONS. MICHELE PENNISI:
Buongiorno a tutti. Ecco, innanzitutto volevo parlare della mia conoscenza personale con don Pino Puglisi. Ho conosciuto don Pino Puglisi quando ero Rettore del seminario vescovile di Caltagirone e Direttore dell’ufficio diocesano vocazioni, mentre don Pino era Direttore dell’ufficio regionale vocazioni. Egli mi invitò una volta a tenere una conferenza, un incontro per tutti i responsabili su questo tema: la cresima sacramento delle vocazioni cristiane. Voglio iniziare da lontano, perché si pensa che Puglisi sia diventato santo solo nell’ultimi anni. La santità di Puglisi, invece, che è una santità ordinaria vissuta in modo straordinario, inizia dal suo essere sacerdote; quindi questo interesse per le vocazioni, questo interesse per promuovere le vocazioni di ogni cristiano, la vocazione alla santità. Poi ho avuto modo di approfondire questa amicizia nel 1984, perché quasi per un anno, ogni sabato, ho cenato con lui, mi recavo a Palermo per coordinare l’area culturale del convegno delle chiese di Sicilia e ho avuto modo di approfondire con lui l’amicizia. Quando è stato ucciso, io sono rimasto sconvolto, non credevo ai miei occhi perché lo conoscevo come un sacerdote coraggioso ma anche molto mite, con il sorriso sulle labbra. Ho ritrovato adesso il telegramma che io mandai, proprio il 16 settembre, al Cardinale Pappalardo, che delinea l’immagine che avevo di lui già all’indomani della morte. Scrivevo: “Unito in preghiera partecipo al dolore della Chiesa di Palermo per il vile assassinio di padre Giuseppe Puglisi, amico carissimo, annunciatore mite e coraggioso del Vangelo, perla del clero Palermitano, sperando che il suo sacrificio contribuisca all’incremento delle vocazioni ecclesiali, alla diffusione della civiltà dell’amore e alla sconfitta della barbarie mafiosa”. Quel giorno stesso il telegiornale diceva che c’erano varie piste che venivano seguite, una era quella che era stato ucciso da un balordo, da un tossicodipendente per una rapina, perché come risulta dagli atti del processo giudiziario, ma anche da quello canonico, la mafia aveva paura di far capire che era stata la mafia ad ucciderlo, allora aveva simulato questa falsa rapina per ucciderlo. Allora io debbo ringraziare veramente Monsignor Vincenzo Bertolone perché è stato uno zelante e appassionato postulatore, cioè colui che ha curato la causa nella tappa finale, perché la causa per la beatificazione per martirio si era bloccata, perché la Commissione dei Cardinali, dei Vescovi voleva sapere se si trattava veramente di martirio in odio alla fede oppure se si trattava di uno dei tanti preti antimafia che si opponeva alla mafia più per motivi civili che per motivi ecclesiali. Invece Mons. Bertolone ha ricostruito in questa opera, anche in un’opera precedente, con amore e impegno le opere e il ministero sacerdotale di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio. È un libro che non si limita a raccontare la storia di don Pino, ma è arricchito da profonde venature spirituali, da riflessioni bibliche, da riflessioni teologiche, sul senso del martirio, sul senso della lotta fra il bene e il male, sul ministero sacerdotale, sulla importanza del perdono per un cristiano. Ed è interessante come questo libro ci indica il beato Puglisi come martire e come profeta. Volevo insistere sulla parola Beato. La parola Beato ci fa dire che la santità coincide con la felicità, anche se è una felicità che si ottiene attraverso il sacrificio, nel caso del martirio attraverso la morte. Quindi è beato, felice, ha realizzato se stesso attraverso tutta una vita sacerdotale il cui epilogo è stato il martirio. Il libro si articola in vari capitoli. Innanzitutto si parla dell’attualità del martirio, dell’eterna lotta fra il bene e il male. E poi c’è una lunga trattazione che tratta del rapporto chiesa – mafia; certamente la chiesa ha trovato all’inizio difficoltà ad elaborare una risposta alla mafia, ed anche quando lo ha fatto, all’inizio si è messa al livello dell’etica civile, del comune rimando alla giustizia, alla condanna della violenza, che stanno alla base di una civiltà ordinata. Ma non emergeva l’originalità del messaggio cristiano; in realtà in seguito ad alcuni eventi, soprattutto il discorso di Giovanni Paolo II ad Agrigento e poi il martirio di Puglisi, la chiesa ha cominciato a capire, a prendere una chiara, esplicita, ferma convinzione dell’incompatibilità tra l’appartenenza mafiosa e la professione di fede cristiana, in quanto il mafioso, in forza della sua appartenenza alla cosca dedita al crimine, si pone oggettivamente fuori dalla comunione ecclesiale. Ricordo una volta il Cardinale Pappalardo che disse: la mafia si presenta come l’anticorpo mistico di Cristo, o un anticorpo mistico di Cristo. E quindi è stato fondamentale, e lo mette in evidenza il libro di Monsignor Bertolone, mettere in evidenza l’originalità dell’opposizione alla mafia che deriva dal Vangelo e dal messaggio cristiano. Ecco, viene spiegato il contesto storico in cui è maturato il martirio di don Puglisi. Qual è stato il contesto storico? Nel 1992, vi sono state le varie stragi che hanno portato le morti di Falcone e Borsellino, ma vi erano state altre stragi di poliziotti e di giudici precedentemente. Nel 1993, il 9 maggio c’è il discorso di Giovanni Paolo II ad Agrigento, in cui invita i mafiosi a convertirsi, perché un giorno arriverà il giudizio di Dio, quindi un discorso religioso, l’invito alla conversione con la categoria del giudizio di Dio. Alcuni mesi dopo, in estate, vi sono stati alcuni attentati ad alcune chiese, a San Giovanni in Laterano, che è sede della cattedrale del Papa, e a San Giorgio al Velabro e non stati a caso: la mafia in quel momento ha incominciato a capire come con la Chiesa non poteva più scendere a patti. La Chiesa era un nemico potente, per cui aveva paura di attaccarla frontalmente, però voleva darle dei segnali, e il terzo segnale è stato dato con l’uccisione, il giorno del suo compleanno, di don Pino Puglisi. E’ stata un’uccisione che la mafia ha cercato di mascherare, perché, come si dice nel libro, è stata usata una pistola di basso calibro, che solitamente non si usa negli omicidi mafiosi, gli è stato tolto il borsello, gli è stato detto che era una rapina, come risulta negli atti giudiziari. In realtà questo omicidio è scaturito in odio alla fede. perché don Puglisi, con il suo ministero sacerdotale di catechesi, di educazione dei bambini, di aggregazione della famiglie, costituiva nel quartiere un “contraltare alla mafia”, che dominava qual quartiere. Allora i mafiosi del quartiere Brancaccio, i Graviano, hanno capito che bisognava eliminarlo. Nel libro vengono presentate le virtù teologali, cardinali e i consigli evangelici, l’umiltà, la mitezza di don Pino. Ma il martirio viene presentato come una conseguenza non ricercata di un’umile volontà quotidiana di seguire il Signore, senza spettacolarità o protagonismo. Erano gli anni in cui a Palermo c’erano anche dei preti anti mafia, preti con la scorta, preti che partecipavano a trasmissioni televisive. Don Pino non partecipava a trasmissioni televisive, non aveva la scorta, non l’aveva neanche chiesta, era un prete che con l’educazione dei giovani toglieva alla mafia il terreno sotto i piedi, e quindi la mafia l’ha ucciso perché la logica mafiosa è incompatibile con quella del Vangelo. Il suo martirio è stato in quanto prete, questo è stato determinante per riprendere la causa di beatificazione che rischiava di arenarsi. Mi pare importante quello che diceva il predecessore di Monreale, Mons. Naro, che quello che Puglisi aveva fatto, lo aveva fatto per indirizzare un pastorale voluto e incoraggiato dal suo Vescovo e condiviso da altri sacerdoti. Spesso si è detto che la Chiesa l’ha abbandonato. Io in quegli anni frequentavo molto il Cardinale Pappalardo. Posso dirvi che il Cardinale Pappalardo aveva veramente un legame molto profondo con don Pino e don Pino aveva un legame molto profondo con il Cardinale Pappalardo. Mi pare interessante quello che scrisse Gianni Baget Bozzo: “Don Puglisi non è stato ucciso per ammonimento o per rappresentanza, è stato ucciso perché era lui, e per quel che faceva. E’ stato ucciso perché prete cattolico, perché sacerdote di Cristo. E in questa morte noi leggiamo la morte di un prete per il suo ministero”. Quindi mi pare che la testimonianza di don Puglisi, il suo coraggio, sia una testimonianza profetica, perché indica alla Chiesa, e quando parlo di Chiesa non mi riferisco soltanto ai sacerdoti ma ad ogni cristiano, una via, la via evangelica di testimoniare Cristo, di seguire Cristo, che comporta anche il rifiuto del male e quindi il rifiuto della mafia, il rifiuto della mafia come una forma pratica di ateismo. Don Pino diceva “noi abbiamo un Padre Nostro”, per questo ha intestato il suo centro al Padre Nostro, “non abbiamo bisogno di padrini”. Dire questo in quell’ambiente significava in qualche modo delegittimare i fratelli Graviano, delegittimare la mafia. E’ interessante come nel verbale degli interrogatori dei sui uccisori risulti come, colpendo don Pino, si volesse colpire la Chiesa. Si voleva colpire un prete scomodo, che invece di limitarsi soltanto a fare le processioni, magari facendole gestire al comitato di certi mafioso, invece educava alla fede, educava al Vangelo. Ad un certo punto un mafioso dice “questo prete predicava tutta ‘a iurnata”, cioè tutto il giorno. Questo dava fastidio. E poi mi sembra interessante in questo libro, il fatto che si insista sul perdono. Perché don Pino voleva parlare con i mafiosi, voleva che si confrontassero con lui. Don Pino, un momento prima che venisse ucciso, ha detto “me l’aspettavo” ed è morto con il sorriso sulle labbra, un sorriso che significa perdono ma significa anche speranza, significa che il cristiano, il prete che crede che l’amore di Dio è più forte della morte, sa che alla fine l’amore di Dio è vincitore. Possiamo ripetere per don Pino: “Se il granello di grano caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore produce molto frutto”. Il processo di beatificazione, la beatificazione che c’è stata lo scorso maggio, ci indica veramente don Pino Puglisi come un profeta. Quindi noi lo possiamo annoverare tra i profeti. Questa sua morte così tragica, così dolorosa, è un seme insuperabile di vitalità. Possiamo dire che don Pino Puglisi con il suo esempio, con tutta la sua vita sacerdotale, è stato un maestro di umanità. Il tema del Meeting è l’uomo, lui è stato veramente un maestro di umanità. Ma il santo non è altro che un uomo completo, il quale ha capito che il fine della sua vita è il desiderio di Dio e seguire Cristo e lo fa con tutte le sue forze. Vorrei concludere ricordando che Monsignor Naro insisteva dicendo che il migliore contrasto alla mafia è la santità. Don Pino Puglisi, attraverso la sua vita santa, è stato non solo colui che ha combattuto la mafia ma un segno di speranza per i siciliani e per tutti i credenti.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie a Sua Eccellenza Pennisi per la precisa e appassionata riflessione. Non avevamo mai sentito mettere in rapporto il discorso di Giovanni Paolo II del 9 maggio ad Agrigento così vibrato e gli eventi successivi, fino alla singolarità di questo uomo. Perché l’uomo è una cosa piccola, però è tutto. Tanto è vero che la violenza, quella più intelligente, è sempre rivolta al singolo, perché la vera risorsa è la persona. Adesso chiediamo a Vincenzo, sua Eccellenza Bertolone, di proseguire la sua riflessione. Lui che ha scritto questo libro citando Camus: “Colui che scrive non sarà mai all’altezza di colui che muore”. In questo atteggiamento di grande umiltà appassionata, vogliamo ascoltarlo. Grazie.
S. ECC. MONS. VINCENZO BERTOLONE:
L’aria condizionata mi ha fatto abbassare la voce, quindi dovete contentarvi di una voce che non è la mia. Innanzitutto ringrazio CL e il Meeting per avermi invitato, per avere voluto presentare questo volume, ma soprattutto la figura di don Pino, che, anche se brevemente, con passione Sua Eccellenza Monsignor Pennisi vi ha già offerto. Io mi ero preparato un pensiero collocandolo, incorniciandolo nel tema del Meeting di quest’anno. L’incontro inaugurale del Meeting 2013 ha vagheggiato un futuro in cui, realizzando i sogni dei primi europeisti, il nostro continente dall’Atlantico agli Urali diventi davvero un nuovo mondo, dove si globalizza non solo l’economia, la finanza, la produzione, ma soprattutto un nuovo umanesimo. Anche se a nessuno sfugge che il cammino è ancora lungo e pieno di ciò che viene definito “emergenza”. Il che non vuol dire che dobbiamo lasciarci prendere dallo sconforto della disperazione, ma ispirandoci al beato Puglisi attivarci, fare qualcosa e subito. Il poco di tutti, se condiviso, diventa molto. Se qualcuno, se ognuno di noi fa qualcosa, insieme possiamo fare molto. Io l’ho tradotto così: il poco di tutti, se condiviso, diventa molto, passando dai fatti miei, ai fatti nostri. Viene di pensare a quanto scriveva don Lorenzo Milani in Lettera ad una professoressa: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio, sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia. D’altronde, come crisi può rappresentare l’occasione, lo stimolo per iniziare la risalita, così emergere può indicare venir fuori, nel nostro caso, da una situazione di stallo”. L’essere umano, del resto, emerge dalla confluenza di due mondi: il cosmo bioastronomico, con le sue leggi e i suoi ritmi, e il cosmo divino, che si manifesta nel bisogno di scegliere e pensare, amare e fare, desiderare e realizzare, in una parola: di esistere. L’uomo dunque è cittadino di questi due mondi. In ogni caso deve superare gli ostacoli che gli si frappongono. Possiamo pure chiamarli emergenze, ovvero, ripeto, ostacoli, nell’inglese handicap. Quello che conta è averli individuati per trovare i rimedi giusti ed efficaci per batterli. Vediamo allora in più prospettive ma brevissimamente. Sul piano del rapporto tra gli Stati, persiste un clima di vera e propria guerra a causa di molti cruciali motivi di frizione, basti pensare in questo momento al Medio Oriente, e così, nonostante la buona volontà, non di tutti per la verità, i conflitti persistono e con essi le guerre tra comunità nazionali, tra etnie, tra nazioni che si ritengono lese. Sul piano della biosfere, tra il 2007 e il 2008 il nostro Presidente della Repubblica definì tragedia ed emergenza il nostro problema dei rifiuti, divenuto drammatico nelle nostre regioni meridionali, additando il rischio tipico di una cattiva gestione delle risorse ambientali, difficile da debellare, perché è uno dei business della criminalità organizzata. E visto che stiamo parlando di Puglisi, diciamo chiaro e tondo che la prima emergenza europea, mondiale, è la piovra delle mani sporche, del malaffare. È contro questo cancro che tutti dobbiamo agire, dovunque ci troviamo. Mi ripeto: ci sono esempi luminosi, ultimo dei quali quello di don Pino P uglisi. E sul piano ecclesiale, è stata individuata da Papa Benedetto l’emergenza educativa: educare però non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Si parla perciò di una grande emergenza educativa, a tutti i livelli. Scriveva Cicerone: omne malum nascens, facile opprimitur. Ogni male al suo insorgere, nel suo nascere, si può neutralizzare, meglio: si può prevenire. Anche perché gli scontri frontali sono onerosi e dolorosi, come hanno ben osservato coloro i quali hanno parlato, come ha fatto poc’anzi Monsignor Pennisi, di un padre Pino Puglisi uomo mite, coraggioso, con la corazza della fede. Cristo era tutto per lui. Ma lo ha fatto con la mitezza evangelica. Così si è comportato Pino Puglisi: ha cercato di neutralizzare, di attirare a Cristo fanciulli, giovani, adulti. Se voi pensate che di fronte alla chiesa di San Gaetano c’è un bar – c’era e c’è – e il barista era il portavoce, colui che informava i Graviano, il veder accorrere alla chiesa di San Gaetano a tutte le ore tanta gente, che non andava più dai Graviano, ma andava, tramite Puglisi, a Cristo, significava togliere l’erba sotto i piedi, significava togliere il prestigio, togliere il potere, togliere il comando di quella zona. Ecco perché ha scatenato un odio criminale, nei riguardi di un inerme sacerdote, quindi non un prete contro, ma un prete e basta, semplicemente prete. Fu ucciso dai mafiosi, ripeto, non in odio alla sua trincea contro di loro, bensì in odio alla fede cristiana che professava attraverso il suo ministero sacerdotale. E come è stato ben detto, non sono stati gli ultimi anni a farlo grande. Basta pensare a quello che avvenne a Godrano, la sua prima parrocchia. A Godrano incontrò due famiglie contrapposte di mafiosi, ad una delle quali era stato ucciso il figlio, quindi immaginate l’odio che c’era in quella mamma verso l’altra mamma, verso l’altra famiglia. Puglisi, quando andò a Godrano, come usava fare, portava sempre con sé la Bibbia, o sotto l’ascella, o nel cruscotto della macchina. Andando in famiglia leggeva sempre una pagina di Bibbia. Questa signora disse: “Senta, padre Puglisi, se lei viene qua perché mi vuole convertire e mi vuole fare perdonare chi mi ha ucciso mio figlio è meglio che lei non viene più”. Padre Puglisi rispose: “Io non vengo perché voglio convertirla, voglio leggere il Vangelo insieme a lei, se me lo permette”. “Allora può venire quando vuole”. Un giorno, dinanzi alla porta di quella signora, passò l’altra signora, cadde, si fece male, la signora che tante volte aveva ascoltato Puglisi, esce, la rialza, e si abbracciano. È la forza della fede, è la forza dell’amore: questo era Puglisi. Perciò, parlando della mafia, estesa ovunque, soltanto in termini di emergenza, si corre il rischio di correre dietro quando già i delitti sono stati perpetrati; allora si cerca di arginare, di tamponare, di lottare, ma non si risolve il problema. Meglio fare terra bruciata, perché i semi malavitosi non attecchiscano. Piuttosto dobbiamo far nascere tanti uomini nuovi, con una coscienza nuova, ad immagine di Cristo, con una fede vera; spesso diciamo “credenti credibili”, ci vuole un’altra c, da sole queste due c non sono sufficienti: “credenti coerenti credibili”. Il testimone è colui il quale professa ciò che crede, non ha paura di difendere le idee e la fede che ha in mezzo a chi è conformista, perché si adegua al sentire comune. È andato per la strada indicata da Cristo: coerente fino in fondo, quindi non solo credente, non solo credibile, ma credibile perché coerente. Ricordatele queste tre c: credenti, coerenti, credibili. Dobbiamo far nascere uomini nuovi, formare coscienze. Più Cristo al centro della nostra vita, vuol dire, se Cristo è al centro della mia vita – umanizzazione – prendiamo tutto il Vangelo, che è un insieme di fatti umanissimi di Gesù. Chi è nato in Sicilia ed ha ormai qualche primavera sulle spalle come me, si ricorda che una trentina di anni fa, proprio nella Sicilia, fiorì una stagione che fu chiamata primavera palermitana. Aveva una connotazione civile, politica, nonostante le tante emergenze negative. Anche la Chiesa fu lambita da questa primavera. Anzi, a volte, da quella stagione, grazie soprattutto all’Arcivescovo di Palermo il Cardinale Salvatore Pappalardo, con il culmine di questo bel fiore che è Padre Puglisi, quella che fino a non molti anni prima veniva definita la Chiesa del silenzio, di fronte all’emergenza criminale, diventò la Chiesa che parla, che interpella, che invita al rispetto delle leggi degli uomini e di Dio, che ascolta, e vede dove sta il male e dove sta il bene, e si sforza di formare coscienza, compie con eroismo una nuova evangelizzazione, che destituisce di senso un atteggiamento molto specifico e purtroppo diffuso nelle zone controllate da Cosa Nostra, che si chiama mafiosità. Gesti di mafiosità ne possiamo commettere tutti, compreso io. Ma la mafiosità può essere vinta, attuando, come avvenne in Pino Puglisi, quella che è la volontà del Signore, che vuole il rispetto della dignità dell’uomo e del cittadino, vuole il rispetto delle regole, delle leggi. Non il Dio dei mafiosi, ma il Dio dei Cristiani. La morte di Puglisi, come tutte le altre morti di uomini giusti, ci invita ad essere cristiani a pieno titolo, che, per citare il teologo Henri de Lubac, non usano la fede come un anestetico che ci lascia indifferenti e non ci dice nulla, ma al contrario si lasciano trasformare dalla parola di Dio. La Chiesa deve combattere l’indifferenza. Cosa ha detto Papa Francesco a Lampedusa? Abbiamo la globalizzazione dell’indifferenza. Dovremmo globalizzare l’amore che muove il Sole e le altre stelle. Allora, la strategia è assecondare e favorire la metamorfosi da un uomo vecchio a un uomo nuovo. L’uomo nuovo è Cristo, in Lui possiamo fare molto. Ecco perché il martirio di Puglisi è stato semplicemente la conseguenza non ricercata di un’umile volontà di quotidiana fedeltà al Signore e al compito da Lui affidato, anche di fronte alla prospettiva di una morte violenta inflitta da uomini dediti al male. Oggi quel prete ucciso vent’anni fa viene giustamente additato dalla Chiesa a tutti i fedeli ovunque vivano, come un martire della fede. Ci tengo a dire, non semplicemente per invocarlo, invochiamolo, ma per imitarlo! Voglio arrivare in cima, non solo per me stesso, ma per tutti i giovani, per chi non ha senso nella vita, per chi non crede in nulla, per chi vuole amare, per chi vuole vivere in semplicità e purezza, voglio farcela per chi mi aspetta a casa, voglio farlo perché credo nel Signore. A don Puglisi si addice molto bene un pensiero di Albert Camus: “Ho capito che non era sufficiente denunciare l’ingiustizia – fare l’antimafia a parole – bisognava dare la vita per combatterla”. E lui l’ha data. Facile il mestiere del riformatore, è uno che pensa che le cose da cambiare siano sempre fuori, negli altri, nella società, nelle leggi, e mai dentro l’uomo, dentro se stesso. È da noi che dobbiamo partire, non è facile s’intende, ma bisogna fare così. Questo vuole Gesù, questo ha fatto Puglisi. Il compendio della dottrina sociale della Chiesa sprona a riesaminare il Vangelo proprio laddove vi è l’emergenza maggiore, la verità stessa dell’essere, l’uomo. Vagheggiando l’utopia baconiana di comandare alla natura, nella prassi resta il pericolo, non tanto di non fare emergere la forma umana dalle forme primordiali inferiori, quanto di farla regredire fino ad un vuoto strumentalismo, la cui logica dell’eterno ritorno fonda un sapere troppo tecnicistico per far nascere il fiore della speranza. La Nova evangelizatio ad christianam fidem tradendam, come è stato detto nel Sinodo del 2012, questa nuova evangelizzazione, nella trasmissione della fede, sta nel fare ridiventare ordinaria la fede cristiana; anzi, la luce delle luci, quella che illumina il nostro cammino in tutti i momenti della vita, in noi e in tutti i nostri territori, è il cuore dell’enciclica di Papa Francesco. Se a pochi è concesso il martirio di sangue, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della Croce, durante le persecuzioni che non mancano mai nella Chiesa. Concludo: carissimi amici, la ricchezza di una vita data per il Vangelo è ancora capace di farci trasalire, di impegnarci per una sequela a Cristo più leale e gioiosa? Dico di sì, grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie Monsignor Bertolone, concludiamo guardando insieme alcune immagini di un documentario che sua Eccellenza Bertolone ha redatto insieme ai suoi collaboratori. È solo un pezzo finale.
“Video”
Bene, ringraziamo i nostri ospiti, le nostre Eccellenze. Grazie ancora. Passiamo ora ad un altro libro.
E’ un grande piacere poter essere di fronte nuovamente alla grande figura umana di artista e scrittore di Aleksandr Solženicyn, che tanto abbiamo potuto scoprire ed amare durante tutti questi anni e soprattutto con quella bellissima mostra che, al Meeting di qualche anno fa, ha segnato un grande punto di sintesi di verità e drammaticità. La Jaca Book, la casa editrice Jaca Book, con uno dei suoi storici collaboratori editoriali, Sergio Rapetti, all’interno della collana “Jaca letteraria”, ci propone l’incontro con tre racconti inediti di Solženicyn, tre racconti diciamo in forma breve rispetto alle colossali opere e alle grandi sillogi storiche che hanno reso noto il premio Nobel della letteratura. Sono scritti degli anni finali della sua permanenza in America, dopo l’esilio del 1974, quando se ne andò dall’Unione Sovietica, in cui l’autore ritorna sulla concezione dell’uomo, sul destino, sull’atteggiamento umano dentro la prova. Con noi, oltre a Sergio Rapetti, c’è Giovanna Parravicini della Fondazione Russia Cristiana che tutti conosciamo. Inizia Sergio Rapetti. Grazie.
SERGIO RAPETTI:
I racconti dei quali oggi ci occupiamo fanno parte di un ciclo composto tra il 1993 e il 1998 che costituisce l’ultima fatica di Solženicyn come narratore. Il ciclo presentato dalla rivista russa, che li pubblicò come racconti bipartiti o dittici, è costituito da otto titoli come otto erano stati tra il 1959 e il 1966 i racconti scritti e pubblicati in URSS che avevano segnato l’inizio della sua celebrità mondiale, coronata dal premio Nobel nel 1970. L’autore è ritornato, a più di 30 anni di distanza e dopo un forzato esilio all’estero di quasi 20 anni, a questa forma breve, rivelatasi tanto congegnale e feconda dopo i grandi romanzi come Il primo cerchio, Reparto cancro e i poderosi cicli narrativi dell’Arcipelago Gulag e de La ruota rossa. Per quanto riguarda le traduzioni italiane, L’uomo nuovo ne raccoglie tre e un altro volume con i rimanenti racconti è in preparazione presso Jaca Book. Inoltre due racconti sono stati pubblicati e recentemente rieditati presso Einaudi con il titolo in italiano Ego e Sul limitare. Al di là della simmetria dei numeri e delle circostanze, vedremo ciò che lega e differenzia i racconti di allora e quelli di oggi e questo ci aiuterà a chiarire qualche elemento come l’importante antefatto costituito dal romanzo giovanile Ama la rivoluzione! del 1958, uscito solo l’anno scorso in Italia sempre per meritoria iniziativa delle edizioni Jaca Book. Sorvolo sugli esordi del grande scrittore piuttosto noti, voglio soltanto sottolineare l’elemento della straordinaria e inaudita autorevolezza acquisita da Solženicyn dopo la pubblicazione autorizzata dal potere politico nel 1962 di Una giornata di Ivan Denisovič. Libri e archivi documentano ormai incontrovertibilmente questa circostanza. In particolare Solženicyn cominciò a ricevere testimonianze e interi memoriali dei sopravvissuti della repressione, divenne il catalizzatore depositario della memoria storica del Paese e prese corpo in sostanza quella sconvolgente cronaca, denuncia, perorazione e alta invettiva in nome dei milioni di vittime innocenti che sarà l’Arcipelago Gulag. Quando le circostanze lo permetteranno, Solženicyn renderà noti i nomi dei 227 protagonisti e testimoni che con le loro narrazioni avevano dato afflato e verità alla sua infaticabile pena. Il lavoro sul Gulag e le opere successive non più approvate dalla censura e anzi perseguitate, ma sempre più conosciute attraverso le pubblicazioni del Samizdat, nonché gli interventi pubblici dal 1967 in poi, determinarono, come detto, nel 1974, l’espulsione forzata dal suo Paese e l’esilio all’estero. Ma da dove era piovuto questo quarantenne esordiente, nelle patrie lettere del quale, dopo le prime prove, si era cominciato a parlare in patria e più confusamente e anche fantasiosamente in Occidente come autore di importanti romanzi man mano respinti dalla censura, di grandiosi progetti di opere storiche riguardanti la rivoluzione del ’17 e il Gulag e del quale si registravano man mano le tappe di una sua sempre più decisa contrapposizione al sistema? La pubblicazione a diffusione clandestina di numerosi e significativi saggi e documenti, Ama la rivoluzione! e le circostanze di quella stagione segreta dello scrittore in divenire ci hanno ormai rivelato ogni cosa riguardo a come egli è nato e si è formato e ha potuto ad un certo punto esordire con opere subito così mature. Il capitano pluridecorato Solženicyn, scagliato dal fronte direttamente nel primo cerchio dell’inferno concentrazionario in un istituto scientifico per ricercatori detenuti, comincia a scrivere nascostamente e su fogli di fortuna, nel 1948, il suo primo romanzo, appunto Ama la rivoluzione!. Il suo protagonista, Gleb Nerzin, è l’alter ego dello scrittore, è un giovane idealista, comunista convinto e devoto alla causa rivoluzionaria, che dal proditorio attacco dell’alleato tedesco all’URSS e dall’inizio della guerra che incendia il fronte orientale d’Europa viene sorpreso nel pieno dei suoi studi matematici e letterari. Ma ora che la guerra è scoppiata e la sua Patria, la sua stessa casa e i suoi valori sono in pericolo, Gleb, inizialmente esentato dal servizio militare, è divorato nelle retrovie dal senso di inutilità e impazienza, finché riesce finalmente a unirsi agli effettivi dell’esercito, e come soldato semplice addetto ai carriaggi viene poi inviato in missione speciale a Stalingrado, dove assiste ai grandiosi scenari delle migliaia di soldati, carri, animali in movimento e delle centinaia di migliaia di civili sradicati dalla guerra. L’epico cammino individuale, collettivo e corale costituisce un vero e proprio romanzo di formazione del protagonista e dell’autore. Da dove parte Gleb? E’ convinto, e lo ribadisce a più riprese, che la grande guerra patriottica sia solo un prolungamento dell’incompiuta Rivoluzione d’Ottobre e che l’intera loro generazione sia destinata a portare tutto il mondo, accettando per questo di perire. Nessun sacrificio era troppo grande se si trattava di contribuire alla realizzazione del vero progetto della storia, la felicità e la luce della verità per l’intero genere umano. Animato da questi propostiti, Gleb si mette per strada. Nello zaino due o tre libri, uno sulla Rivoluzione e controrivoluzione in Germania di Friedrich Engels, ma non ha il tempo di leggerli. L’apprendistato come carrettiere, cavallante, come recluta, come soldato in missione, come aspirante artigliere, segnato dall’urgenza del suo slancio verso la meta ideale, si avvicendano togliendo il respiro non meno delle tormente, il gelo e la fame che accompagnano il penoso trascinarsi di carovane, convogli e tradotti. Non più nei libri dei fondatori e nelle parole d’ordine ideologiche ma nell’incontro con gli altri, persone reali con concreti e spesso tragici fardelli, matura la consapevolezza dell’insufficienza del proprio bagaglio culturale e l’urgenza di quello che ora sente essere il suo vero dovere civico e morale. Ha già misurato la propria lontananza intellettualistica dalla realtà ed esclama: “Come avevo osato solo pensare di poter scrivere la storia di questo popolo?”. Ciò che gli ha impedito fino ad allora di sentire e vedere la vita reale, la propria ed altrui, sono i potenti filtri ideologici libreschi che, senza che se ne renda conto, o rendendosene conto solo a sprazzi, nell’irruzione di vicende, testimonianze, incontri umani, per un attimo incontrovertibili e subito soffocati per la paura di capire, distorcevano la visione delle cose e delle persone. E Gleb unisce stoicamente alla sua marcia tormentosa nella neve, in colonna, sballottato su un carro, sul carbone di una locomotiva, sul predellino di un vagone merci, un cammino di introspezione spirituale, di messa in discussione dei propri convincimenti che lo porterà davvero lontano. Il risultato è che dall’adolescente velleitario che era, è diventato un adulto, il quale si rimette in gioco più consapevolmente e con altri valori fondanti, ma sempre per cambiare il suo Paese e il mondo. Sfregatisi gli occhi, come rimettendo a fuoco la realtà dopo un sonno troppo profondo o ridestandosi con spavento da un incubo troppo pauroso o risvegliandosi di malavoglia da un sogno troppo bello, fatto sta che Gleb arriva a guardare dentro se stesso e a guardarsi attorno con crescente sagacia e lucidità di giudizio. Esigente, intransigente con se stesso e con gli altri, la sua è una cavalleresca disfida quotidiana – nobile e animosa, magari venata di donchisciottismo giovanile – ai giganti, ai mulini a vento della menzogna, dell’ipocrisia, della disonestà, della prevaricazione politica e burocratica, della fuga dalle proprie responsabilità e dai doveri, specialmente imperdonabile in tempi di crisi e di guerra. Il manoscritto su fogli di fortuna di Ama la rivoluzione! è il primo e l’ultimo di quella stagione. Lo scrittore, oramai avviato per l’infernale giostra di prigioni e lager di transito, carceri di sicurezza e campi di lavoro forzato, rinuncia alla scrittura. Per esercitare il suo segreto mestiere, a memoria, compone così, con l’unico strumento di un rosario, realizzato con grani di mollica indurita, il lungo poema La stradina, quasi ottomila versi e varie poesie. Questo tra il ’46 e il ’53. La poesia datata ’53, quando l’autore che si trova a scontare l’esilio perpetuo in Kazakistan e ha appena appreso che, a causa di un cancro metastatizzato, gli resterebbero tre settimane di vita, inizia con questi quattro versi: “La morte non come abisso ma crinale, erta per la quale si inerpica il cammino e contro il nero cielo estremo splende il bianco sole di Dio”. In cammino, sempre, fino all’ultimo. Poesia, poema e romanzo sono strettamente legati, complementari nell’allora recondito universo del grande scrittore che si stava formando e che, nonostante fosse alla mercé dei suoi carcerieri e da ultimo di una malattia ritenuta mortale, riusciva a comporre versi letteralmente in faccia alla morte, intesa non come abisso ma crinale da scendere comunque. Un critico russo che si è occupato di Ama la rivoluzione! e di altri scritti giovanili, rivela a proposito del poema: “Sgranando nel lager di Ekibastuz il rosario che si era fabbricato per mandare a mente i propri versi, Solženicyn in realtà trasceglieva quelli che sarebbero stati temi portanti della letteratura russa, di tutta la letteratura a venire, soprattutto della prosa. Non solo apriva nuovi temi e problemi ma ne dava anche la trattazione, oggi comunemente accettata”. Segue l’elenco: la collettivizzazione, la grande guerra patriottica e infine le vere responsabilità del potere comunista per la catastrofe storica della Russia. Solženicyn, fissati in tal modo i grani del suo rosario mentale ed artistico, ha definito i punti salienti, gli storici nodi sui quali si sono incardinati le sorti del suo Paese e del suo popolo. Consacrerà la vita, le opere dei grandi cicli romanzeschi e i racconti minimi, nonché la propria attività pubblica, al risveglio degli ambienti culturali e della società in Unione Sovietica, esortando i suoi connazionali a vivere non secondo la menzogna. E veniamo ai racconti de L’uomo nuovo. Degli anni ’20 e soprattutto ’30, Solženicyn è nato nel ’18, lo scrittore aveva un ricordo vivido e cocente. Nel suo libro di memorie del 1974-1994 sulla sua vita in Occidente, intitolato Il granello finito tra le macine, racconta che ad un certo punto, verso la metà degli anni ’80, aveva cominciato a rileggere le sue opere giovanili e in particolare il romanzo Ama la rivoluzione! ed ecco cosa scrive: “L’ho riletto e subito mi sono sentito alleggerire del peso degli anni e sono tornato quel giovinetto che ero, all’atmosfera degli anni ’30 e mi è venuto di nuovo il desiderio di scrivere nuovamente di essi. Ricordo col cuore, ricordo con la pelle quell’aria bruciante, oggi dissipata e anche occultata. Come avrei voluto renderlo accessibile ai lettori! E specialmente l’atmosfera di quella letteratura di allora, sotto le cui sudice coperte ci stavano levando”. E così tra il ’93 e il ’98, non appena ritornato in Russia dall’esilio americano, portò a termine otto racconti bipartiti. Gli ardori e le bruciature, ricordati a distanza di anni con la pelle e con il cuore, sono la temperie della sua gioventù e dell’uomo che si mette in gioco sempre e comunque, mentre la letteratura che occulta con le sue coperte sudice la verità e mortifica la crescita della persona che cerca, è quella degli intellettuali a servizio di progetti totalizzanti. Uno dei tre racconti, e forse il migliore, La marmellata di albicocche, scolpisce proprio un esemplare di questi ingegneri di anime senz’anima, ma la sorte di tutti gli altri protagonisti di questi tre racconti su otto è crudele. In altri racconti del ciclo, quelli di guerra, per quanto possa sembrare paradossale, si respira più liberamente, c’è un’aura di dignità e sobrio eroismo. Trent’anni dopo, nei racconti degli anni ’60, non si riuscirebbe a trovare una chiusa tanto lirica, fiduciosa nella durevole forza, direi stoica, della verità-giustizia. Se ne La ruota rossa Solženicyn costruisce per grandi squarci temporali le cause, i prodromi, dell’epocale rivolgimento dell’ottobre ’17, in questi tre racconti che presentiamo oggi, mostra il dopo di ciò che considera una vera catastrofe antropologica e i fili scompigliati che egli riannoda sono quelli delle esistenze parallele e che comunque si intersecano o si richiamano, magari per minimi elementi casuali o provvidenziali, comunque significativi, di concreti uomini e donne anonimi o famosi, che hanno subito tale catastrofe o hanno contribuito a renderla ineluttabile. E per lo scrittore è certo importante la ricostruzione del periodo storico condotta con puntigliosa e talora stupefacente veridicità, ma anche l’osservazione, la restituzione al lettore dei comportamenti delle persone, sia in circostanze estreme che obbligano a scelte cruciali sia nel tran tran di un’esistenza che può essere all’insegna del conformismo gregario, della resa agli interessi egoistici e al quieto vivere oppure di tutt’altro segno. Le scelte, in questo senso, che uomini e donne concreti sono chiamati a compiere non sono mai irrilevanti per la loro vita. E hanno importanza anche per la vita e il destino della propria comunità e del proprio Paese. L’esigenza di vivere secondo verità e coscienza l’avvertono molto meno i personaggi dei nostri tre racconti, ma è sempre presente anche se sottesa. Il dramma e la responsabilità della scelta in un senso o nell’altro o anche nel senso di non scegliere affatto, suggerisce in questi suoi ultimi annali quel poderoso cronachista del secolo russo che è Solženicyn, sono evidentemente quelli comuni a tutti gli uomini, a tutte le società.
Trentacinque anni fa, molti di voi non erano ancora nati, ho tradotto per “Litterae Communionis” il discorso pronunciato da Solženicyn all’università Harvard l’8 giugno 1978. Il titolo redazionale era Un mondo in frantumi e rispecchiava bene lo spirito del denso saggio. Si prendevano le mosse dalla divisione del mondo in due blocchi per parlare delle ben più numerose, profonde e gravi fratture che laceravano come crepe e piaghe la nostra madre terra. E per scongiurare la catastrofe si auspicava un’inversione di tendenza, affinché l’incontrollata espansione materiale ed economica non andasse a detrimento della vita interiore e della crescita spirituale dell’umanità e si concludeva: “Nessuno sulla Terra ha altra via d’uscita che questa, andare più in alto”. E oggi il mondo è forse meno lacerato di allora? Come per la Russia, anche per il mondo tutto senza un risanamento, una purificazione spirituale, ha detto nel 1995 Solženicyn, resteremo “lupi, lupi!, lupi! che si azzannano alla gola” e ancora: “Finché non si risveglierà in noi la coscienza non cambierà nulla e non ci salverà nessuna economia e non potremo organizzare nessuno Stato”. La coscienza: vivere e patire sulla propria pelle le contraddizioni e le sofferenze degli altri come proprie, imparare a riconoscere nel proprio cuore quella lotta che vi si combatte giorno dopo giorno tra il bene e il male. In ognuno di noi, non chissà dove, comunque altrove, tanto per deresponsabilizzarci. Ecco cosa suggerisce la vicenda dell’eroe in viaggio, in cerca della verità, di Ama la rivoluzione! e, in negativo, quello che ci dicono le sorti, quello che ci dicono le sorti degli uomini e le donne sotto scacco e parrebbe senza via d’uscita dei racconti de L’uomo nuovo.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie Rapetti! Giovanna, proseguiamo con un ultimo spunto per introdurci alla lettura di questo libro.
GIOVANNA PARRAVICINI:
Il titolo di questi racconti è molto significativo: un titolo relazionale L’uomo nuovo. Ma chi è l’uomo nuovo, l’uomo nuovo, che era il progetto del regime sovietico? L’idea di creare un uomo nuovo, l’uomo sovietico, un uomo determinato dall’ideologia? Un esperimento nuovo nella storia del mondo, in cui si schiacciava la millenaria, l’eterna natura umana per sostituirvi una natura nuova, indotta dal partito, oppure l’uomo nuovo che può rinascere dalle macerie, “da sotto le macerie”, come dice uno dei grandi titoli del Samizdat, da sotto le macerie dell’ideologia? Ecco, questo è il grande tema di Solženicyn, e io vorrei raccontarvi due flash per darvi l’idea di che cosa è stato, di che cos’è Solženicyn. Novembre 1962. Mosca è attraversata da un fremito, in tutti i chioschi dove si vendono quelle riviste che non interessano a nessuno perché tanto tutti sanno già che cosa c’è scritto, si vende il numero 11 di Novi Mir, prestigiosa rivista letteraria dove appare per la prima volta nella storia dell’Unione Sovietica un racconto in cui si parla di una giornata di un detenuto nei lager. Non è una denuncia contro il comunismo, ma è la descrizione di un uomo che, anche nel lager, riesce a vivere da uomo, che si mette a costruire un muretto bello, diritto, perché tale è la natura dell’uomo. Tutta Mosca corre ai chioschi, c’è il passaparola, e tutta Mosca si strappa questa rivista dalle mani. E a un certo punto arriva a un chiosco un tipo un po’ strampalato, strano, che dice all’edicolante: “Io voglio quella rivista dove c’è scritta tutta la verità”. E la cosa impressionante è che l’edicolante senza fare una piega tira fuori il Novi Mir e gliela dà. A raccontare questo fatto è un uomo che allora era un giovanotto, adesso è già morto, Sergej Averincev, che commenta: “Quel giorno non fu soltanto una grande pagina della storia della letteratura russa, quel giorno fu un grande fatto per l’umanità”. Un altro flash, invece, a cui ho assistito io: 5 marzo 2008, Solženicyn sarebbe morto nell’agosto del 2008, eravamo alla Casa della cultura russa e si presentava una grande biografia, che è uscita anche in italiano, dalla San Paolo, una grande biografia di Solženicyn. In una giornata abbastanza memorabile, perché il 5 marzo, tutti i russi lo sanno, è il giorno in cui è morto Stalin, esce la biografia di Solženicyn. Lui era ancora vivo, era una serata commemorativa, sul palco si sono succedute varie persone, hanno parlato di Solženicyn scrittore, Solženicyn storico, ecc. ecc.. A un certo punto, viene invitato sul palco un vecchietto, Victor Levenstein, che fa questo racconto: “Io sono figlio di persone che sono morte nei lager, mio padre è stato arrestato nel ’38, era un ingegnere, lavorava nel metrò, è stato arrestato e poi fucilato. Mia madre è stata arrestata come nemica del popolo, e ha fatto tanti anni di lager. Io ero giovane, sono andato in guerra e sono stato arrestato a mia volta durante gli anni della guerra. Poi è venuto il disgelo, sono stato rilasciato, io avevo in corpo un odio terribile contro il regime che mi aveva ucciso i genitori, che mi aveva avvelenato la giovinezza, ma avevo paura. Vivevo come un topo, anche dopo essere stato liberato, così pauroso di tutto, incapace di dire qualunque cosa, covavo quest’odio dentro di me ma ero legato, paralizzato. Poi viene il novembre 1962, arriva questo racconto, Una giornata di Ivan Denisovič, io riesco a procurami una copia di questa rivista e mi rendo conto che l’autore, questo Solženicyn, era stato mio compagno di lager, che io l’avevo conosciuto, l’avevo visto. Era uno come me, che aveva sofferto e vissuto le stesse cose che io avevo vissuto. E allora mi sono detto: se quest’uomo come me, che aveva attraversato tutte le mie vicissitudini, le mie peripezie, che aveva tutte le mie paure, quest’uomo ha saputo alzarsi in piedi e andare da solo a mani nude contro questo regime disumano, allora, mi sono detto, allora anch’io posso alzarmi in piedi, anch’io posso vivere da uomo. E allora, finalmente, mi sono alzato in piedi ed ho cominciato a vivere da uomo. Solženicyn è stato questo, è stato per milioni di persone l’esempio che tutto si gioca nell’io. Che veramente questo “uomo nuovo” è l’uomo che può risorgere, nonostante tutti i suoi limiti, dalla rovina in cui l’ha gettato la rivoluzione, in cui l’ha gettato l’ideologia. E badate bene che in Solženicyn non c’è nessuna superbia. Molto spesso viene accusato di essere superbo, di essere uno che vuole con la sua forza di volontà vincere, battere tutto; non è vero, Solženicyn stesso è passato attraverso tutte le contraddizioni che prima Sergio Rapetti ci raccontava parlando dei personaggi dei suoi libri, perché lo stesso Solženicyn era stato battezzato, aveva vissuto un’infanzia religiosa, poi lui stesso si era fatto prendere dalle mode socialiste, dalle mode ideologiche, lui stesso era diventato comunista. E sarà proprio l’arresto e il lager a fargli comprendere quella verità profonda sull’uomo di cui parla. E allora Solženicyn si dedica tutto a questo suo grande tema: l’uomo di fronte alla realtà. Perché, badate bene, cosa ridesta l’uomo non è innanzitutto la sua forza di volontà, non è una grandezza tale per cui possiamo dire che ci sono uomini grandi che possono tutto e poi ci siamo noi, uomini limitati, che possono fare quel che possono fare. Solženicyn si rende conto di una cosa, che esiste la realtà, che vivere senza menzogna, come lui dirà, significa vivere restando fedeli, restando aderenti alla realtà. Una prima tentazione è vivere come fanno tutti, andare secondo corrente: tanto io, di fronte a un regime così grande, così potente, così onnipotente, cosa posso fare? E badate bene che il tradimento non si consuma mai all’aperto, di fronte alle platee, il vero tradimento si consuma nel cuore dell’uomo, quando lui decide di fare quel passo piccolissimo, quasi inavvertito, per cui si passa dalla logica del vero, dalla logica del cuore, alla logica della convenienza, del così fan tutti. Il primo racconto di cui parlava Sergio Rapetti è la storia di un professore che si trova a fare l’esame a un giovane proletario. Il professore ingegnere si rende conto che lo studente non sa assolutamente niente, in un primo tempo si rifiuta di mettergli sufficiente, ma poi, di fronte alle insistenze, perché poi questo giovane proletario è del tutto sincero, candido, buono, un bravo ragazzo – quindi anche l’ideologia può essere ammantata di virtù etiche, di bonomia, di bontà – dice bèh, in fin dei conti, se quelli del partito hanno questo modo di pensare, ne sapranno più loro di me. E così per un millimetro si allontana dalla sua coscienza che gli fa dire che no, il lavoro va fatto, bisogna essere coscienziosi, responsabili nel proprio lavoro, e aderisce a una logica che è una logica vuota, una logica menzognera, la logica del bèh se lo dice il partito, la logica della irresponsabilità. E Solženicyn acutamente dice: “Questo professore poi va a casa, la figlia gli prepara il pranzo e lui non riesce come a levarsi un malessere: aveva come un sedimento sul cuore”. Solženicyn, quando comincia ad allontanarsi dalla fede dei suoi, si rende conto che a scuola i suoi compagni subiscono degli arresti e parlando di sé, della sua vita, dice: “In quegli anni non hanno messo dentro dei nostri professori?” “Già è vero, ne hanno messo dentro forse 2 o 3, ma erano sostituiti dagli assistenti”. “E di studenti non ne hanno messo dentro qualcuno?”. “Sì. Qualche studente dei corsi superiori, e allora?” e “allora niente, noi si ballava!”. “E dei vostri cari non fu toccato nessuno?”. “Nella nostra grande città ogni notte mettevano dentro qualcuno, ma io di notte non giravo per le strade e di giorno le famiglie degli arrestati non mettevano fuori la bandiera a lutto. E i miei compagni di scuola non dicevano nulla dei padri che gli avevano portato via”. Il regime ha bisogno di una cosa, il regime, non il regime comunista soltanto, l’ideologia ha bisogno solo di una cosa, ha bisogno della nostra connivenza. Una connivenza, ripeto, che inizialmente può essere quasi millesimale, può essere quasi insignificante ma che poi diventa una logica irresistibile, una logica per cui la vittima, perché in questo libro si parla di vittime, diventa a sua volta carnefice. Ma diventare carnefice o almeno complice dei carnefici implica una cosa, che tu perdi la realtà. Quando alla fine il professore viene messo in galera, anni dopo si trova davanti come inquirente quello stesso studente a cui aveva fatto tra virgolette del bene lasciandolo libero, dandogli sufficiente. Adesso l’inquirente vuol rendergli il favore e allora non escogita niente di meglio che fargli tradire, farlo diventare un informatore, per potergli salvare la vita. E’ chiaro, il bene è salvare la tua pelle. Il bene è poter salvare la pelle e nient’altro ma perdere te stesso, il tuo io, la tua persona. E alla fine, lui, segue quella stessa logica che adesso è diventata, da millesimale che era, abnorme. Solženicyn non lo dice neppure ma lo fa capire: “Ciò che le propongo è per il suo bene, pensi a sua figlia, pensi a…, ciò che le propongo è per il suo bene!”. E Solženicyn commenta: “Anatoli non sentiva più la sedia sotto di sé, e come se avesse perduto la vista, non vedeva più l’inquirente”. Capite, l’uomo si può salvare la pelle, ma a prezzo di non sentire più il mondo intorno a sé, a patto di perdere la realtà. Stessa cosa in queste due strazianti storie di due ragazze, si chiamano entrambe Nastya e Nastinka, due diminutivi diversi, due varianti del nome Anastasia, che vuol dire la Resurrezione, a indicare proprio il destino eterno che ha l’uomo. Ora, di questo destino eterno l’uomo cosa può fare? Nastya è nipote di un prete, pensate, ma questo vecchio prete, Padre Filaret, viene abbandonato dalle figlie perché si sa un prete … meglio che le figlie lo abiurino, e questa poveretta, che all’inizio è educata alla fede e porta con sé un santino che il nonno le aveva dato, viene sempre più sfruttata dagli uomini, in un primo tempo proprio violentata, e poi pian piano si adatta a questa situazione. Ad un certo punto Solženicyn dice una cosa terribile: Nastya viene a sapere che il nonno incarcerato in lager muore e, lei non soffre più neppure. Questo è il sedimento sul cuore. In un’altra opera Solženicyn dirà che questo sedimento è come il grasso del maiale, pian piano si incrosta sul cuore e rende il nostro cuore sempre più insensibile, sempre più morto. E questa Nastya finirà contenta che finalmente l’ennesimo amante le ha comprato un appartamento come si deve a Mosca, che ha questa cosa elettrica, con dentro i cibi che si mantengono freschi e lei tutte le volte che ha fame può aprire il frigorifero e mangiare. La seconda Nastya, invece, no, fa un’altra scelta. Era stata affascinata da una sua professoressa che le aveva fatto vedere la bellezza, la ricchezza, l’umanità della letturatura russa e decide di dedicare la propria vita ai suoi ragazzi, ai suoi studenti. E l’ideologia le taglia sempre più lo spazio intorno, questo non lo puoi più dire, Puskin non si può più leggere, quest’altro non ne parliamo, ecc. ecc. e lei riesce a ritrovare in questi spazi sempre più sacrificati, quel brandello di umanità, di verità che lei ritrova negli occhi splendenti dei suoi piccoli allievi quando lei, comunque, chissà in quale modo, riesce a comunicare loro quella umanità che ha incontrato e a cui non vuol rinunciare. E quando il suo ragazzo vuole da lei dei rapporti pre-matrimoniali senza sposarla, lei dice, no, e non sa neppure lei perché. Ma lo lascia andare. E la cosa interessante è che Solženicyn dice la stessa cosa di sé. Quando si era lasciato irretire un po’ dall’ideologia, quando da ragazzo era diventato comunista, a un certo punto gli offrono di diventare informatore. E lui dice, no! E leggo quello che Solženicyn dice di sé quando risponde di no: “Resisteva qualcosa che ci stava nel petto, non nella testa, potevano gridarci da ogni lato, devi, e anche la testa ti diceva, devi”. Ecco, questo è l’emergenza uomo, quest’umanità che non ha una briciola di superbia, di orgoglio, a differenza di un proverbio sovietico che diceva “uomo suona orgoglio”, invece questa è proprio l’umiltà di chi dice io non posso non essere fedele a questa umanità misteriosa che mi trovo nel cuore. E, l’ultimo Solženicyn, appunto, raccontando queste storie di vittime, fa vedere come in ogni situazione, anche nella più estrema, nel segreto del cuore, ma poi anche nella gigantesca dimensione della società, questa umanità nuova è possibile, anzi è la nostra speranza.
CAMILLO FORNASIERI:
Direi bellissimo, un anticipo nel ’93 del tema del Meeting da parte Solženicyn, perciò davvero prendiamoli e leggiamoli questi libri. Grazie a Giovanna Parravicini, grazie a Rapetti per la sua traduzione e per il suo contributo. Arrivederci.
Trascrizione non rivista dai relatori