Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Invito alla lettura. Il libro di Mush
IL LIBRO DI MUSH
Presentazione del libro di Antonia Arslan, Scrittrice (Skira Editore). Partecipa l’Autrice.
INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Ore: 15.00 eni Caffè Letterario D5
CAMILLO FORNASIERI:
Un caro benvenuto a tutti. Abbiamo salutato Antonia Arslan, che siamo molto felici di aver potuto invitare al Meeting, dove è già stata qualche volta. l’abbiamo cercata perché nello spazio di presentazione dei libri abbiamo sempre a cuore anche di incontrare i veri scrittori. La scrittura mostra sempre questo bisogno dell’uomo di descrivere la sua esperienza, fino a riuscire a raccontare quel tratto di infinito che la muove, quel tratto di desiderio, di significato che rende le cose degne di essere sentite come eterne, come partecipi alla propria esperienza umana. Antonia Arslan è una nota scrittrice ma è stata anche una grande docente di Storia della Letteratura Moderna e Contemporanea all’Università di Padova. Da qualche anno ha smesso l’insegnamento e si dedica a quell’aspetto che ha sempre accompagnato la sua attività, cioè la narrativa, la scrittura, attraverso nuove edizioni ma anche conferenze e interventi.
Il libro che oggi è a tema è l’ultimo che ha scritto, uscito già da qualche mese, Il libro di Mush, edito da Skira Editore, una casa editrice molto nota di storia dell’arte contemporanea, che ha aperto una significativa collana di letteratura. Antonia Arslan viene da grandi incontri con il pubblico, da grandi punti di successo. Ricordiamo La masseria delle allodole, del 2004, e poi La strada di Smirne del 2009, mentre due anni fa è uscito un libro molto legato a un suo momento di vita particolare e anche doloroso – ricordo di avere avuto il piccolo onore di partecipare con la preghiera e con la vicinanza -, Ishtar, cronache del mio risveglio. Il libro di Mush non è solo il titolo di questa narrazione ma qualcosa che è esistito e che esiste, quindi, un libro su un libro, un libro importantissimo, mi pare scritto e composto nelle sue miniature nel mille, mille e venti, nel periodo della cultura armena nel suo massimo splendore ed espressione pubblica, attraverso i monasteri, le chiese, l’arte. Questo libro era custodito nel monastero dei Santi Apostoli, dove prende le mosse questa narrazione. Niente di questo libro è inquadrabile, se non nel grande dramma e tragedia che il popolo armeno ha vissuto nel periodo degli inizi del ’900: parlo del genocidio del popolo armeno, che non è avvenuto fino in fondo perché – mi sia permesso dire – un “resto di Israele”, un resto di Armenia è rimasto, oggi disperso in tante presenze significative di persone, comunità e luoghi nel mondo. Ma la sofferenza di questo popolo è antica forse tanto quanto la sua conversione al cristianesimo, che è intorno al 301, quindi proprio agli albori. Voi forse ricordate la storica e appassionata visita del Santo Padre Giovanni Paolo II al Metropolita armeno: per quei pochissimi credenti legati alla Chiesa, riuscì a visitare anche questo frammento così significativo di umanità. Un popolo identifica il volto di un io, è un noi che raccoglie, educa un io, una persona: e dunque, questo schiacciamento che c’è stato e che oggi continua in forme diverse di persecuzione, è avvenuto lì per la prima volta in una maniera che oggi ancora molti – con argomenti, con pretesti, con tattiche politiche negano essere avvenuto con questo preciso intento. Antonia Arslan riprende anche la propria storia passata, e questo accade a un certo punto del suo cammino, professionale e narrativo. Volevo chiederti, per inquadrare anche questa storia, a cui poi accennerò brevemente, quando è cominciata questa ripresa della storia armena, che a noi è molto cara, perché è gente che ovunque ha servito una grande fede, una grande resistenza verso l’ideale.
ANTONIA ARSLAN:
Bene. Prima di tutto voglio ringraziarti per l’invito e ringraziare tutti voi del Meeting, perché mi ha fatto molto piacere questa seconda occasione di venire qui. Poi parleremo de Il Libro di Mush, di come si inserisca come seguito della Masseria delle allodole, ma, per rispondere alla tua domanda, è stata una lenta, molto lenta presa di coscienza, una forza che cominciava a diffondersi dentro di me per cui, un po’ alla volta, diventava l’interesse primario, che non potevo fare a meno di seguire. Naturalmente, io ho sempre saputo della mia origine armena. Mio nonno paterno, che era venuto in Italia alla fine dell’Ottocento per studiare al famoso Collegio armeno di Venezia, questo liceo che è esistito a Venezia dal 1840 fino al 1998, quindi più di un secolo, era arrivato dall’Anatolia e poi rimase qui. Però, i racconti che mi fece quando ero molto piccola, otto, nove anni, si depositarono dentro di me. Per molti anni non ci avevo più ripensato. Ho fatto il liceo italiano, ho studiato lettere e sono finita ad insegnare letteratura italiana, quanto di più lontano dalla mia parte armena. La parte armena era come una piccola cosa familiare, chiusa dentro la mia esperienza di vita, una cosa che si ravvivava quando arrivavano i parenti, perché ogni famiglia armena ha un sacco di parenti in diaspora: come per gli ebrei, noi siamo dispersi in tutto il mondo. Io continuo a ritrovare parenti, e questo è divertente. Due, tre anni fa, hanno organizzato un incontro a Parigi in cui ho riscoperto cugini che non sapevo di avere. Ma all’epoca arrivavano questi zii, lo zio Zarè da Aleppo, un altro zio da Boston, la cugina Juliette: tutti parlavano francese (per le famiglie armene di origine anatolica, il francese è la lingua che va imparata il più presto possibile), tutti raccontavano, come una fiaba, la storia della loro sopravvivenza o della sopravvivenza dei loro genitori, dei loro nonni. Era una cosa proprio intima, familiare. Raccoglievo quello che trovavo riguardo agli armeni, raccoglievo articoli, qualche libro che avevo trovato nella biblioteca di mio nonno, ma non con l’idea di trasmetterlo all’esterno. Questo desiderio è maturato dentro di me un po’ alla volta, fino a quando ho scoperto il grande poeta armeno Daniel Varujan, che è stato ucciso durante il genocidio del 1915, e che aveva lasciato questa piccola raccolta di poesie di straordinaria intensità, che si intitola Il canto del pane. Quando finalmente ho scoperto Varujan, è stato per me, in qualche modo, come l’aprirsi di una scatola nel cuore, come il fiorire di qualcosa: ho capito che dovevo assolutamente dedicarmi a raccontare la storia, ma come un cantastorie. Io non sono una studiosa di storia, sono una letterata: potevo raccontare, attraverso la storia della mia famiglia distrutta nel giugno del 1915, la storia di tutti gli armeni.
CAMILLO FORNASIERI:
Ecco, Il libro di Mush è una scelta che avviene dopo La Masseria delle allodole, questo racconto che cerca di tradurre il portato di tante narrazioni orali, di leggende: cosa rappresenta questo libro e che cosa hai voluto collocare come vicenda umana attorno a questo ritrovamento?
ANTONIA ARSLAN:
E’ stato come quando nella vita qualcuno ti coinvolge in un progetto e poi ti accorgi che era il progetto giusto, ovvero che era quello che ti serviva. Io dico sempre che La masseria delle allodole, che è uscito nel 2004, è stato per me una straordinaria avventura: il libro è stato abbracciato dal pubblico italiano, ha avuto un sacco di edizioni, una dopo l’altra, la gente si è passata parola e adesso siamo alla XXXI edizione. E’ un libro che ha avuto l’adesione affettuosa e continua del pubblico italiano, delle scuole, degli insegnanti. Era la
storia del fratello di mio nonno ucciso, della sopravvivenza delle tre bambine e del maschietto vestito da donna, del modo come la madre, Shushanig, riesce a portare i figli fino alla salvezza, di come lo zio di Aleppo riesce poi a farli uscire dal campo. Lì c’è un piccolo dettaglio che io racconto sempre: non è inventato, è un dettaglio storico, anche se sembra quasi da romanzo popolare. I bambini furono fatti uscire dal campo, effettivamente, nel doppio fondo di una carrozza: sembra un po’ una invenzione invece era la verità. Naturalmente, essendo un romanzo, ho dovuto raccontare quello che sapevo, ma dopo ho sentito che dovevo ampliare la storia, che non era finita con il 1915, perché c’era quello che accade dopo. Immaginate che, in una terribile estate del 1915, vengono uccise circa 1 milione e mezzo di persone: gli uomini vengono uccisi subito, le donne, considerate meno importanti, considerate oggetti, vengono semplicemente spazzate via e avviate verso una deportazione che è una deportazione verso il nulla. In questa tragica epopea, muoiono circa un milione e mezzo di persone. Ma i sopravvissuti, i pochi sopravvissuti, nascosti come topi negli angoli, chi protetto da un amico turco – ce ne sono stati – chi lasciato in vita perché faceva un mestiere indispensabile, per esempio, gli orologiai, dove finiscono? Stanno nascosti come topi, negli angoli per un paio di anni fino a che, pian piano, la guerra si avvia alla conclusione. E cosa succede dopo, dal 1918 in poi? Ecco La strada di Smirne, il secondo libro, legato a La masseria delle allodole, proprio perché racconta il tentato ritorno degli armeni, dopo la fine della guerra, alle loro case ancestrali. I pochi sopravvissuti, quelli che non erano già scappati all’estero, hanno provato a tornare indietro, ma per loro non c’è stato ritorno. Piano piano, fra il 1918 e 1922, sono stati angariati, maltrattati, oppressi e alla fine cacciati via dalle loro case, dalle loro terre ancestrali: la patria, per loro, è perduta per sempre. Ne La strada di Smirne, io ho raccontato questo attraverso i personaggi sopravvissuti della Masseria, ho raccontato come i bambini sopravvissuti sono arrivati fino a Venezia, da mio nonno, e quale sia stato poi l’impatto fra i cugini educati all’italiana e quelli che erano sopravvissuti alla marcia nel deserto, dopo un anno passato chiusi in cantina, nella città di Aleppo, in Siria, da dove non potevano uscire perché altrimenti sarebbero stati mandati di nuovo in deportazione.
La strada di Smirne finisce col fuoco di Smirne, con questo terribile fuoco che accende la metropoli all’inizio del settembre 1922, e che segna la fine di tutte le minoranze cristiane
d’Anatolia: greci, assiri, armeni. Come è arrivato Il libro di Mush? Il libro di Mush è in parte dovuto a una sollecitazione della casa editrice che aveva questa piccola collana. Quando mi hanno chiesto di scrivere qualcosa, doveva avere qualche rapporto con un’opera d’arte, perché la Skira è una casa editrice che fa cataloghi d’arte. Ero incerta, avevo 2 o 3 idee: e poi, l’anno scorso, mentre ero in California dove c’è una grande comunità armena e stavo facendo delle presentazioni, durante una cena, la sera, mi sono detta che dovevo trovare un argomento che mi coinvolgesse. Per scrivere un romanzo, deve esserci qualcosa che ti brucia dentro, un argomento che improvvisamente ti sembri indispensabile, che ti bruci violentemente il cuore. Un’amica che era lì mi disse: “Perché non scrivi la storia del Libro di Mush?”. Improvvisamente ho capito che era la cosa giusta, perché del Libro di Mush avevo sentito il racconto come una leggenda, quando ero bambina, da uno zio. Allora ho incominciato a studiare, ho cominciato a dire sì, si potrebbe fare. A quella stessa cena, c’era un’altra signora che mi disse: “Sì, scrivi sul Libro di Mush, io sono la nipote di un sopravvissuto della valle di Mush”. Ha cominciato a mandarmi dei link su Internet in cui si sentivano le canzoni dei mushezì (10.48), gli abitanti di Mush e delle fotografie. Questo ha cominciato ad accendere la mia fantasia, ho capito che era la storia giusta perché, per un popolo che è stato così violentemente soppresso, nel primo grande genocidio del XX secolo, c’è qualche cosa che compie il genocidio e che viene dopo la distruzione degli esseri umani, ed è la distruzione della cultura. Dal 1915 fino al 1980 e più, tutti i monumenti della cultura, della civiltà e dell’arte armena, presenti in Anatolia, sono stati scientificamente distrutti, uno dopo l’altro. Nel 1915 c’erano in Anatolia circa 1.500 chiese armene di varie epoche, a partire dal VI secolo fino alla fine del 1800: secondo la famosa tipologia dell’arte armena, erano chiese a pianta centrale, con grandi cupole fatte a spicchi che sono anche antisismiche. Di queste 1.500 chiese, in Anatolia, ne sopravvivono non più di una ventina: e queste 20 sono in zone disagiate, in luoghi estremi del Paese o, come nel caso della Basilica della Santa Croce, sull’isola di Akdamar, nel lago di Van, di un tale splendore: è una chiesa dell’VIII secolo, benché sia stata trascurata per decine di anni, il fatto di essere su un’isola l’ha salvata. Ma tutto il resto è scomparso. Sono scomparse le chiese e sono scomparse le famose croci di pietra, caratteristica dell’arte armena. Croci di vari materiali, dal tufo a qualsiasi materiale di pietra locale, che gli armeni hanno sempre costruito, non solo per motivi di lutto ma anche per motivi di gioia. Sono croci in cui la croce di Cristo si erge, e dal fondo nascono fiori e frutti e racemi e uva e melograni, in modo da significare la vita che rinasce dalla morte. Piene di significato, ovviamente, anche religioso, visivamente sono molto simili: venivano erette nei campi, dove ne trovavi 300, 500. E ci sono ancora, nell’attuale piccola Armenia del Caucaso, che era la parte dell’Armenia che stava sotto i russi e che adesso è indipendente. Ma tutti i campi, in Anatolia, nell’odierna Turchia Orientale, nell’odierno Azerbaijan, nel Nakhchivan, in tutte le zone che non sono più armene, sono stati scientificamente distrutti. Allora, cosa è rimasto? Cosa potevano salvare questi poveri sopravvissuti? Quelli che scappavano lasciando tutto, lasciando dietro di sé, spesso, i cadaveri dei mariti, dei padri, dei figli, queste povere donne? Salvavano un libro. E il tema del libro si aggancia all’altra grande tradizione dell’arte armena, e cioè l’arte del libro e della miniatura. Sono libri miniati medievali, sono scuole della miniatura medievale che vanno dal VII secolo fino al 1600, che si esprimono in diversi modi, con diverse scuole, ma che hanno una base e cioè il culto del libro. Allora, nel momento in cui questa signora mi ha parlato e mi ha raccontato di Mush, io sono stata subito piena di entusiasmo ma non avevo capito come si agganciava. Anche perché, nei primi due libri, avevo raccontato la fine delle persone fisiche, le creature che vengono uccise, ma in questo libro terzo avrei raccontato la storia della sopravvivenza di quel poco di civiltà che si era potuta salvare, la salvezza dei libri. Mille e mille donne armene, scappando, riuscendo a sopravvivere in qualsiasi modo, hanno portato con sé i libri miniati medievali che oggi costituiscono il tesoro della grande biblioteca del Matenadaran, nella città di Yerevan. E il libro di Mush, tra questi, è il più grande. Fu fatto da un mercante medievale che voleva assolutamente mostrare che poteva permettersi un libro miniato, grandioso: era di argomento religioso ma non si trattava di Bibbia, né di Vangeli. Erano i sermoni che lui preferiva: infatti si chiama Omeliario di Mush, perché è una raccolta di omelie, di sermoni. Ma il pio mercante, quando gli venne consegnato il libro – che è alto quasi un metro e pesava più di 30 chili, era quindi enorme, è il più grande libro armeno sopravvissuto – non se lo godette a lungo perché venne ucciso da un’invasione mongola l’anno dopo. L’invasore, però, il guerriero mongolo che si impadronisce del libro, non è un idiota, sa che il libro vale e lo mette in vendita. E quindi la storia dice che i monaci del monastero dei Santi Apostoli, nell’alta valle di Mush, vengono a sapere che l’Omeliario di Mush è sopravvissuto ed è in vendita. Sono storie estremamente avventurose ma assolutamente vere. Nel 1204 cominciano a raccogliere i soldi. L’assassino del mercante voleva 50 bisanti d’oro, e in tre anni i monaci li raccolgono. Dal 1207 al 1915, questo maestoso libro illustrato sarà il tesoro del monastero dei Santi Apostoli. Mano a mano che studiavo, che leggevo sulla valle di Mush, capivo che era la storia giusta da raccontare, perché la valle di Mush è un’alta valle di montagna, a più di 1000 metri, ed è una piccola pianura fertilissima, irrorata da due fiumi che fanno sì che nella valle ci sia una perpetua nebbia rosata che aleggia. Fanno 2, 3 raccolti, è una valle circondata da alte montagne con due soli valichi. Quando la terza armata turca, sconfitta dai russi nel giugno del 1915, arriva nella valle di Mush, uccide tutti. Nel caso di Mush, sono stati uccisi uomini, donne e bambini, senza eccezioni, per cui i sopravvissuti furono pochissimi. Ma due donne, che avevano perso tutto, vedono il monastero sopra la città di Mush in fiamme, ci arrivano e trovano per terra, difeso dal corpo di un monaco che si è fatto uccidere per salvarlo, il libro di Mush, ancora quasi intatto. E allora decidono di tagliarlo in due, di caricarselo sulle spalle. Attraversano tutto il Caucaso con infinita fatica, infinite peripezie. Una delle due muore per strada. Seppelliscono la sua metà di libro e due anni dopo, un ufficiale dell’armata russa, avvertito, scava e la ritrova. Così la porta fino a Tbilisi, in Georgia, da dove verrà ricongiunta alla prima metà nel 1923. E questa è storia. Naturalmente, di fronte ad una storia così, tu devi però integrare con qualche cosa.
CAMILLO FORNASIERI:
Volevo leggere una cosa, poi riprendi questo tema: “Il popolo armeno ha imparato a chinare la testa quando viene la persecuzione, a chiudersi in un silenzio opaco, a cancellare anche i pensieri, e poi a risollevarsi piano piano come gli steli del grano dopo la tempesta che li ha schiacciati, ma non spezzati, e il giorno dopo già dondolano nella brezza”. Ma l’incendio del monastero ha qualcosa di definitivo e minaccioso. E’ la memoria di una condizione costante, di un popolo diverso, segnato da un’adesione, da una conversione che lo distingueva rispetto alle altre popolazioni. “Lentamente, Makarios”, che poi è un greco, che è ospite, è finito in questo paese della piana di Mush dove c’è questo monastero dei Santi Apostoli fondato da Gregorio, che è quello che ha fatto conoscere il cristianesimo agli armeni nel 301, “taglia in due dall’alto in basso il dorso spesso, rinforzato con stecche di legno. Una polverina sottile cade leggera per terra, e Ovseb va subito a toccarla con le mani. Sembra farina o un talco lieve impalpabile. Man mano che il coltello procede, a tutti sembra però di commettere una specie di sacrilegio”. Le due giovani donne a cui ha accennato Antonia “abbondano in segni di croce, ma si fanno forza e nessuno interviene a fermare il greco che lavora concentratissimo. Finalmente tutto è compiuto. Makarios, il greco, si raddrizza e mette via il coltello. Le donne si affrettano a pulire ancora una volta le due parti. Anche così divise sono enormi e pesantissime. Infine avvolgono attorno a ciascuna una stoffa, la più preziosa che hanno trovato, una veste cerimoniale di seta ricamata che hanno tagliato in due senza rimpianto e provano a caricarsela sulle spalle”. Ecco, questo è l’istante in cui decidono in fretta di scappare, di fronte a questo monumento a cui non possono dire di no, mi pare. Perché è come trovarsi di fronte a qualcosa a cui non possono dire di no. Ma prosegui, stavi raccontando di come hai tentato di raccontare la storia.
ANTONIA ARSLAN:
Io avevo questi dati generali, non si sa neanche il nome delle due donne. Io le ho chiamate Kohar e Anoush. Per Kohar, ho fatto un piccolo omaggio alla discendente di un sopravvissuto di Mush che me ne ha parlato a Los Angeles. Perché non si sa neanche il nome? Perché queste decine di donne sopravvissute ai loro uomini, con la fatica immensa di riuscire a salvare qualche cosa delle loro famiglie, hanno portato il libro fino alla cittadina di Echmiadzin che è la sede del catholikòs, il capo religioso di tutti gli armeni. Volevano semplicemente consegnare il libro, un libro che aveva un immenso valore, volevano semplicemente dare il libro all’autorità religiosa, fare che il libro salvato diventasse parte di un museo, di una raccolta che mostrasse la grande civiltà degli armeni. Queste donne regalano quello che hanno e i monaci, che ricevevano moltissimi libri, non segnavano neanche il nome perché non erano libri da restituire, erano doni fatti alla Chiesa armena, che poi li ha dati allo Stato per fare questa grandissima biblioteca. Oggi, chi va a Yerevan a vedere la biblioteca del Matenadaran, nella prima stanza vede il libro di Mush ricomposto.
Era una cosa fantastica, che il libro esistesse. C’era prima nel suo monastero e c’è adesso. Ha attraversato il Caucaso, portato a spalle, è una realtà esistente, simbolo del culto di questo popolo per il libro, per la parola scritta. Pensate che, per esempio – è una cosa che io racconto perché è stupenda -, l’inventore dell’alfabeto armeno, il famoso alfabeto di 39 lettere che questo san Mesrop Mashtots dice che una notte vide scritto, con un angelo che scriveva lettere d’oro su una parete nera, è stato fatto santo perché aveva inventato l’alfabeto. Credo che solo nella civiltà armena esista una festa chiamata dei “santi traduttori”. Una volta che ero in Armenia, ho partecipato a questa festa: c’è un bellissimo monumento dedicato ai santi, il cui nome è ignoto, che hanno tradotto i libri sacri, dopo l’invenzione dell’alfabeto nel V-VI secolo. Sono santi perché hanno tradotto i libri sacri: è una cosa curiosa, bellissima, no? Mi ricordo che c’era una bella cerimonia e poi un grande pranzo. Come sempre, in Armenia finisce tutto in un grande pranzo molto fraterno. La festa dei santi traduttori dice il rispetto che la civiltà armena ha per il libro: qualche cosa di meraviglioso. Ricordo sempre che in Italia abbiamo la terza più grande raccolta di manoscritti armeni – nell’isola di San Lazzaro, a Venezia -, molto più vicina e più facile da vedere di quella di Yerevan.
Questa missione dà un nuovo scopo alla vita di queste due donne che hanno perso tutto. Una ha perso il marito e i figli, l’altra ha perso il fidanzato, entrambe hanno perso ogni riferimento di civiltà e di vita, il loro villaggio. Racconto che erano andate a fare il bagno in uno dei fiumi: quando ci arrivano, il loro è un villaggio di morte, si sente solo l’odore del sangue. Trovano un bambino sopravvissuto a tutta la sua famiglia perché si è nascosto in un armadio: non c’è nessun altro. Le due donne prima di tutto scappano ma il giorno dopo, arrivando al monastero con la compagnia dei due greci che hanno trovato per la strada – questa piccola compagnia di cinque persone umili, semi-illetterate -, vedono il libro e lo guardano con l’ammirazione e la devozione che si porta ad una grande opera d’arte. E allora, queste cinque creature – non sono grandi letterati, ripeto, sono cinque povere creature che vorrebbero scappare -, non possono scappare senza salvare anche il libro. Infatti, nella figura del greco Makarios, ho cercato di mettere in evidenza uno che, di per sé, vorrebbe scappare e basta, ma che alla fine è coinvolto dalla semplice fede e dalla semplice passione degli altri del gruppo per il libro, e sacrificherà anche la sua vita.
CAMILLO FORNASIERI:
Volevo chiederti come vivi, a livello della tua immedesimazione, il rapporto tra la memoria e la letteratura. Quanto l’una si deve piegare all’altra o viceversa, proprio nel quotidiano gesto di trasmettere una storia che abbia un inizio e una consistenza? Spesso, la letteratura è un esercizio di invenzioni che stanno insieme per una loro vendibilità, per una loro raffinatezza, per una loro intelligenza e originalità. Ma qual è il cuore di questo collegamento con la vita, che non è peraltro garantito solo dal fatto che si parla di una storia, perché in qualche modo è un portato non di leggende ma di circostanze non tutte verificabili?
ANTONIA ARSLAN:
Per quanto riguarda la mia personale esperienza, tutto si è come fuso, approfondito con l’episodio del coma. Ho scritto i primi due libri che erano l’esperienza della storia familiare, quello che avevo sentito e quello che avevo letto perché, per parlare della tragedia dell’incendio di Smirne, sapevo che dovevo finire a Smirne. Ma dal sapere intuitivamente al poterlo scrivere, c’è una bella strada: negli anni 2006 e 2007 ho passato parecchio tempo a leggere tutto quello che ho trovato sull’incendio di Smirne, non in italiano perché in italiano non ne parla nessuno. C’è un bellissimo libro francese del 2006, intitolato proprio La fin de Smirne, che mi ha aiutato, ma in italiano non c’è niente. La strada di Smirne era uscito da un mese quando, inaspettatamente, come succedono queste cose, un’infezione renale mi ha portato a dover essere messa in coma farmacologico. Questo mese di coma mi ha dato una visione diversa, più profonda e anche più – posso dirlo? – infantile delle cose, come se tutte le esperienze fossero nuove. Quando ti svegliano da un coma, sei passivo, non puoi neanche muovere le mani, non puoi parlare perché hai il tubo in gola. E poi, pian piano, hai delle esperienze, capisci le cose, man mano vedi cose che hanno una forza potente, perché sono come nuove: infatti, io le ricordo in modo estremamente violento. Si tratta di convalescenze lunghe: alla fine del 2009, sono riuscita a scrivere quel piccolo libro che è Ishtar 2. E ho scritto “cronache”, perché sono cronache, non c’è niente di inventato. Ma in questo libro sono emersi anche ricordi: quando cominci a riprenderti da un coma, le cose ti si affastellano in mente, ti viene un ricordo, poi un altro, due si mescolano: a me vengono in mente brani di poesia, soprattutto. Alla fine, quando sono riuscita a scriverlo, è stato come se si fosse aperta la porta di tutti i ricordi infantili, il collegamento fra le esperienze infantili, adolescenziali della mia vita, delle persone che ho amato, della mia famiglia, tornava con una freschezza incredibile: tutto forzava per essere raccontato, come fosse necessario per non dimenticarlo. E allora, ho scritto piccole storie che ho raccolto in libro che si intitola Piccole, piccole storie. Tante piccole storie diverse che toccavano momenti della mia vita, della mia esperienza, tanti argomenti, tante realtà, canzoni, persone e poesie, frammenti di vita, cibi gustato, insomma, tutto ciò che compone quell’incredibile coacervo che è la nostra memoria. E lì ho capito che raccontare è una cosa che ormai devo fare: perché sono tante le cose da dire, tante le cose che devono essere raccontate, che non posso più fare altro, ecco. Però, naturalmente, con questo Libro di Mush, il desiderio di raccontare era legato alla volontà di scegliere cose che fossero esemplari di una volontà di vivere che non è passiva ma attiva. La storia di queste due donne, la storia del coraggio, non solo femminile, una volontà di portare queste antiche storie del 1915 a una presenza reale, attuale. La vita di adesso è, da un lato, infinitamente più facile, ma è anche infinitamente collegata con tutte le tragedie del passato che non dobbiamo ricordare una volta per tutte ma con la coscienza che sono il tessuto delle nostre vite attuali.
CAMILLO FORNASIERI:
Bello, anche perché quello che ho sempre notato in te, ma anche nei tuoi conterranei, lontani e vicini, è che raccontate storie, fatti che, purtroppo, per tanto tempo la nostra cultura ha censurato. Il racconto di questi aspetti tragici ha sempre dentro un aspetto di comunione, di stupore: è quello che diceva lei adesso, racconti le cose perché le rivedi per la prima volta. La memoria, o è un dovere, come spesso accade a tutti, oppure diventa qualcosa di nuovo nel presente, un istante prolungato di stupore.
ANTONIA ARSLAN:
Hai detto giusto: stupore. È vero è proprio stupore, in qualche modo, perché tu lo vedi come per la prima volta e poi, man mano, ne ricostruisci lo spessore.
CAMILLO FORNASIERI:
Però sai che la cosa che stai guardando già c’era: quindi, si tratta di un’esperienza totalmente nuova ma non magica. Accade in te e non c’è niente di magico se uno guarda se stesso. Due registri che ci sono anche nel libro e si alternano con grande leggerezza. Così inizia il paragrafo 22: “Questa è una storia a lieto fine, nonostante tutto. Il libro di Mush verrà portato in salvo. Ma molte traversie e molte avventure aspettano ancora gli umili eroi di questa storia, i cui destini però si separeranno una volta arrivati a Erzeroum. Il narratore, tuttavia, è stanco di raccontare questa infinita tragedia della patria perduta, il lamento che non dà requie dei sopravvissuti armeni scagliati qua e là per il vasto mondo, che sempre rimpiangono i dolci frutteti e il grano opulento, le danze e le sponde gentili, le loro valli alte e i fiumi lenti che le attraversano. Il narratore ha esaurito le lacrime, vorrebbe altre storie. La mattina dopo, Kohar la forte brucia di febbre improvvisa”. Ecco che passa al presente. Il narratore è tutt’uno con la storia e con il presente che accade. «Invano Eleni e Anoush cercano di aiutarla, bagnandole le labbra con una pezzuola imbevuta d’acqua e aceto. La febbre sale in fretta e presto Kohar incomincia a delirare. “Seppellitemi col libro – ripete – scavate una buca profonda, là non si sta stretti, là nessuno verrà a cercarmi, solo gli angeli del Signore che scenderanno dal cielo nel giorno della Risurrezione dai morti. Io mi stringerò al petto il libro, non farò più fatica a portarlo. Cristo lo vedrà e sarò salvata”». L’ho letto per indicare la positività ultima che c’è in tutte le vostre storie. Ma il libro poi non finisce qui, va molto avanti. Volevo chiederti che cosa hai pensato – quando hai saputo del tema che ci eravamo dati, La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito – di questo presente che viviamo insieme nella storia, nell’Italia, nella cultura, nella testimonianza.
ANTONIA ARSLAN:
Io credo che si dimentichi troppo spesso che questo è nella natura dell’uomo per cui, alla fine, vedi che la gente è scontenta, irrequieta, non riesce a stare tranquilla. La quiete ti viene dal fatto che tu sai che l’infinito esiste, lo accetti, vedi e senti che tutto intorno ti circonda. Senti che queste presenze ci sono e allora puoi stare tranquillo. La quiete è anche nell’orrore, anche in quella storia lì; a un certo punto, un pomeriggio, mi ero messa a scrivere, e in quel capitolo mi è venuto da scrivere “il narratore è stanco”, perché in realtà il narratore, che sono io, è stanco di raccontare questo ma nello stesso tempo bisogna continuare. Si può sorvolare su qualche dettaglio ma l’essenza è quella. L’essenza è che tutto questo ci circonda e che noi siamo così piccoli, così esigui e anche, se vogliamo, così poco importanti. Però anche importanti, ognuno di noi è importante. Io penso che anche raccontare del libro di Mush me lo abbia insegnato di nuovo, perché credo che lo scrittore impari da quello che scrive, se lo fa con gioia, con umiltà e con allegria, che è ancora più della gioia. La gioia è più profonda ma l’allegria è anche così, no? E allora può parlare delle verdure della greca Eleni, può parlare di quello che trovano, dell’acqua. Può scrivere, a volte, una mezza pagina solo esaltando l’acqua. Perché? Perché era una mia esperienza. Quando mi hanno tolto il tubo dalla gola, la prima cosa che ho chiesto alla dottoressa è stata: “Posso avere un sorso d’acqua?”. E quando lei ha detto: “Credo che possiamo dartelo”, ho bevuto due sorsi d’acqua ed è esplosa dentro di me una tale sinfonia di gioia che ho dovuto descriverla. Capisci? E’ stata completamente nuova, quell’esperienza! Tutti abbiamo bevuto milioni di bicchieri d’acqua, ma quella era l’acqua.
CAMILLO FORNASIERI:
Bene, ti ringraziamo. Invito quelli che non hanno ancora incontrato la scrittura della Arslan a iniziare da questo libro: chi invece è fermo a Smirne, di proseguire con questa bella lettura. Grazie ad Arslan per questo libro che tra poco sarà tradotto in russo: una grande lingua, un grande Paese. A Mosca e a San Pietroburgo, la Arslan si recherà nel prossimo periodo, mentre qui in Italia è nelle nomination per il Premio Viareggio. Quindi, auguri per tutte queste nuove avventure.
ANTONIA ARSLAN:
Grazie Camillo e grazie a tutti voi, veramente.