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INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Invito alla lettura. PORZUS. Violenza e resistenza sul confine orientale
Invito alla lettura. Dove la domanda si accende
PORZÛS. VIOLENZA E RESISTENZA SUL CONFINE ORIENTALE
Presentazione del libro a cura di Tommaso Piffer, Ricercatore all’Università degli Studi di Milano e all’Harvard University (Ed. Il Mulino). Partecipa il Curatore.
A seguire:
DOVE LA DOMANDA SI ACCENDE
Presentazione del libro di AA.VV. (Ed. Itaca). Partecipano: Letizia Bardazzi, Presidente dell’Associazione Italiana Centri Culturali; Massimo Borghesi, Docente di Filosofia Morale all’Università degli Studi di Perugia.
INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro culturale di Milano.
Ore: 19.00 eni Caffè Letterario D5
CAMILLO FORNASIERI:
Buonasera e benvenuti a questo secondo momento pomeridiano di presentazione di libri proposti dal Meeting alla lettura di noi tutti. Saranno due. Il primo è Porzûs. Violenza e Resistenza sul confine orientale, edito da Il Mulino, una casa editrice storica, legata moltissimo alla riflessione filosofica, letteraria e storica dei fatti del nostro Paese. E’ un libro curato da Tommaso Piffer, che salutiamo. È assegnista di ricerca di storia contemporanea presso l’università degli studi di Milano e anche presso la Harvard University. Porzûs, nel nostro ricordo, nel nostro sentire, è quell’episodio efferato, molto drammatico e tragico, avvenuto sul confine orientale del nostro paese, il Friuli, che ha evidenziato dinamiche correlate al fenomeno della Resistenza partigiana in Italia al fascismo e al nazismo. E’ un episodio utilizzato in modo anche ideologico, prima ancora che per una lettura autentica, leale e storica, negli anni immediatamente seguenti ai fatti, proprio per la sua forza, per la sua violenza e per la sua carica di diversità. Il libro curato da Tommaso Piffer vede una sua introduzione e un saggio, oltre a quello di altri colleghi che lui poi presenterà, riuniti in un convegno proprio per guardare più da vicino in quale contesto questo efferato delitto dei GAP garibaldini, cioè delle formazioni legate al comunismo, e poi al partito comunista italiano, si sia consumato verso quelli della brigata Osoppo, di ispirazione più cattolica e non comunista. È un momento interessante, un episodio in cui perse la vita, per esempio, il fratello di Pasolini, soprannominato Hermes, e costituisce una grande ferita nell’Italia degli anni ’50. In questo libro, è interessante anche il contesto politico e culturale internazionale, perché parliamo del fronte jugoslavo, della zona italiana e di quella dinamica ricostruttiva della società che, già nella Resistenza, si è giocata. La lotta antifascista in qualche modo era una lotta anche per l’affermazione di un’idea di democrazia successiva o di un’idea di Stato diversa. Ma lascio a lui la parola perché ci racconti, giovane com’è, come ha cercato di rimuovere l’incrostazione ideologica degli storici stessi. Perché gli storici non sono immuni da una posizione di ricerca leale e sincera del dato: allora chiedo come in questo dato entri il fattore umano, se i fatti siano meccaniche conseguenze o se ci sia sempre di mezzo anche la scelta della persona, l’eccezione o la conferma di una impostazione ideologica.
TOMMASO PIFFER:
Grazie. Il libro che presentiamo oggi e che ho firmato come curatore raccoglie gli atti di un convegno che si è svolto a Udine nel 2010 sul tema di Porzûs, ossia sul più grave scontro interno della Resistenza italiana. Scontro che vede cadere dei partigiani antifascisti, non per mano dei nazisti o dei fascisti ma di altri partigiani. In questo caso, vede cadere partigiani della formazione Osoppo, una formazione di ispirazione cattolica, per mano di partigiani dei GAP del partito comunista. I fatti penso siano noti, nella loro essenzialità. Lo scenario è quello del confine orientale: siamo all’inizio del 1945 e alle malghe di Porzûs è acquartierato il comando delle formazioni Osoppo, guidato da Francesco de Gregori, zio del noto cantautore. Il 7 febbraio del 1945, al culmine di mesi di incomprensione e di una violenta campagna anti-italiana condotta dagli sloveni nella zona del confine orientale, un commando dei GAP legato al partito comunista attacca il comando delle formazioni Osoppo uccidendo immediatamente il comandante e il commissario politico, e successivamente uccidendo gli altri 17 partigiani che erano stati catturati in quell’occasione.
Non si trattò dell’unico caso di scontro interno alla Resistenza italiana. Ci sono altri casi di partigiani uccisi da altri partigiani. Ma si tratta in assoluto del caso più grave per numero di vittime e anche per efferatezza e intensità delle modalità di uccisione. E naturalmente, le responsabilità dell’eccidio furono subito contestate. Si trattava innanzitutto di accertare le responsabilità personali degli esecutori e dei mandanti, e in particolare di capire se il commando dei GAP aveva ricevuto o no un ordine dalla federazione comunista di Udine per compiere l’eccidio. Ma l’evento poneva anche un problema dal punto di vista dell’interpretazione della storia del Pci che si presentava come il partito artefice dell’unità del fronte antifascista mentre il caso di Porzûs sembrava smentire clamorosamente questa affermazione. E qui si davano due ipotesi. La prima, che l’eccidio di Porzûs fosse solo un incidente dovuto ad una realtà locale, ad intemperanze di alcuni protagonisti, ma che non dicesse nulla della storia del Pci. E si potrebbe sostenere che in effetti quello che accadde a Porzûs non accadde in nessun’altra zona d’Italia.
L’altra ipotesi, diametralmente opposta, è che il caso di Porzûs svelasse la vera strategia del Pci, cioè una strategia volta a prendere il potere attuando una rivoluzione comunista in Italia attraverso l’eliminazione, anche fisica, degli avversari politici. Da quest’altro punto di vista, il caso Porzûs svelerebbe la vera anima del Pci, e quello che è avvenuto a Porzûs non sarebbe avvenuto nelle altre zone del Paese solamente perché le circostanze non lo avevano permesso. Tra questi due poli, si è giocata l’interpretazione nei decenni successivi. E non stupisce che il caso di Porzûs sia uno dei casi più dibattuti della storia della Resistenza italiana, che ha suscitato furibonde polemiche storiografiche e politiche che in parte continuano ancora adesso.
Sul dibattito pubblico dirò qualcosa in conclusione. Per quanto riguarda gli studi storici, il tentativo di gran parte della storiografia è stato sostanzialmente quello di minimizzare l’episodio, riconducendolo ad un evento di natura soltanto locale. Non solo, in alcuni casi si è tentato anche di addossare alle stesse formazioni Osoppo, quindi alle vittime dell’eccidio, la responsabilità della strage. L’operazione è stata quella di accusare i membri delle formazioni Osoppo di contatti con i fascisti, e quindi sostanzialmente di giustificare la reazione delle formazioni comuniste. Il tentativo di questo libro però non è quello di stigmatizzare le calunnie o il vergognoso silenzio di una storiografia che si è ormai in gran parte screditata da sola, quanto fare il punto sulla ricerca storiografica, inquadrando l’eccidio nelle sue dimensioni nazionali e internazionali e quindi suggerendo nuove ipotesi di ricerca. Il libro raccoglie contributi anche molto diversi tra loro e quindi io non tento neanche di riassumerli nella loro interezza. Vorrei soltanto suggerire due aspetti: uno sul contenuto e uno sul metodo che ha guidato il lavoro.
Il punto sul contenuto, che mi preme sottolineare perché dà l’idea di quelle che sono anche le acquisizioni che mi sembrano più interessanti in questo libro, è che per capire Porzûs, cioè un evento che accade in una zona dell’Italia molto specifica, con problemi molto particolari, è necessario capire la strategia del comunismo a livello internazionale, bisogna cioè allargare lo sguardo evitando quella che è una pecca tipica della storiografia italiana, soprattutto su questi temi, cioè l’accesa provincializzazione degli studi che tendono a focalizzarsi soltanto sul particolare senza inserirlo nel suo contesto generale. Per capire Porzûs, invece, si deve capire quello che succede nel resto d’Europa, quindi si deve allargare lo sguardo su una dimensione geograficamente maggiore e fare un salto indietro nel tempo. Perché la Resistenza comunista, che darà un contributo fondamentale alla sconfitta del nazismo, non inizia nel 1939 ma nel 1941. Nel 1939, infatti, i comunisti rimangono indifferenti o ostili ai movimenti di Resistenza che sorgono in tutta l’Europa occupata, perché l’Unione Sovietica è alleata con la Germania nazista dopo il patto Ribbentrop-Molotov. Nel 1941 cambia tutto perché l’Unione Sovietica viene invasa dalla Germania nazista. E i comunisti diventano i più accesi sostenitori dell’anti-fascismo, recuperando le parole d’ordine degli anni ’30. Noi abbiamo oggi la documentazione degli archivi sovietici, che in gran parte sono stati resi disponibili dopo la caduta del muro di Berlino. E questi archivi ci dicono che dopo il 1941, immediatamente dopo l’invasione dell’Unione Sovietica, vengono date direttive pressoché identiche a tutti i partiti comunisti d’Europa. E le direttive quali sono? Mettere da parte le parole d’ordine della rivoluzione, collaborare con le altre formazioni antifasciste e presentarsi come i più accesi sostenitori della democrazia contro l’aggressione tedesca. Quello che però è importante comprendere, per arrivare poi anche al nucleo di Porzûs e capire la strategia del Pci, è che non c’è un’opposizione tra l’obiettivo rivoluzionario e la collaborazione con le altre forze antifasciste, perché nelle intenzioni di Mosca tale collaborazione è proprio lo strumento che permette, in quelle circostanze storiche, di raggiungere sul lungo periodo l’obiettivo dell’esportazione della rivoluzione comunista. Questo perché la collaborazione con le altre forze antifasciste permette di rafforzare le posizioni dei partiti comunisti in vista della presa del potere e nello stesso tempo di non rompere con gli alleati occidentali dei quali l’URSS aveva disperato bisogno per sostenere lo sforzo bellico.
Se queste sono le direttive che vengono date, pressoché identiche a tutti i partiti comunisti dell’Europa occidentale, vengono applicate in modo diverso nei diversi Paesi. Per esempio, in Jugoslavia, Tito, prima in contrasto e poi con l’appoggio di Mosca, mentre combatte contro i fascisti e i nazisti scatena una guerra civile contro le altre formazioni della Resistenza non comuniste. E la guerra di Tito contro i suoi avversari interni ha un’intensità e una violenza pari a quella dello scontro con il nazismo e il fascismo. Sul lungo periodo, questa strategia permetterà a Tito non solo di sconfiggere fascisti e nazisti ma di eliminare completamente ogni opposizione interna. Quindi, si attua l’eliminazione sistematica dell’avversario politico anche all’interno del campo antifascista. In Italia succede qualcosa di diverso, perché il partito comunista segue le direttive di Mosca sulla collaborazione con le altre forze antifasciste. E quindi, da una parte, il partito comunista partecipa alle strutture unitarie senza rompere con le altre formazioni (spesso è anzi il più fiero sostenitore dei Comitati di Liberazione Nazionale, cioè delle strutture che vedono la partecipazione di tutti i partiti del fronte antifascista). E nello stesso tempo coltiva un preciso disegno di egemonia, espandendo il più possibile le proprie formazioni a discapito di quelle altrui, accusando tutti coloro che non seguono la sua politica di rappresaglie e contro-rappresaglie, di attendismo o di connivenza col nemico, e mantenendo le proprie strutture militari, che sono le formazioni GAP. Quindi, il Pci segue sostanzialmente l’idea di Mosca, rimanere all’interno delle strutture unitarie e tentare di egemonizzarle. Bisogna notare che questa competizione per l’egemonia spesso raggiunge e genera episodi di violenza perché in diversi casi assorbire formazioni altrui vuol dire eliminare con la forza i comandanti più recalcitranti. Ma questo non determina mai lo scoppio di una guerra civile generalizzata come avviene in Jugoslavia.
Quindi abbiamo, in Jugoslavia e in Italia, due strategie diverse. E questo ci porta a capire quello che accade sul confine orientale. Perché lì, e così ci avviciniamo anche geograficamente al luogo dell’eccidio di Porzûs, il Pci fa una scelta diversa da quella che compie nel resto dell’Italia. Innanzitutto, dopo il novembre 1944, si appiattisce completamente sulla richiesta jugoslava di annessione di quella parte d’Italia. Ma non solo. Lascia che prevalga anche in zona la logica della lotta politica jugoslava, che prevede la rottura del fronte antifascista e quindi lo scontro frontale con tutti quelli che si possono opporre, fossero anche membri dell’antifascismo. La situazione sarà particolarmente drammatica a Trieste, dove il CLN si spaccherà perché i comunisti andranno con gli jugoslavi e il resto del CLN si troverà isolato, attaccato sia dai comunisti italiani che dai nazisti e dai fascisti. In questo contesto, che quindi è molto più simile alla logica jugoslava che a quella italiana, si verifica l’eccidio di Porzûs, che quindi fa parte integrante di quella che è la logica di una delle varianti del comunismo internazionale, quella jugoslava.
Nel novembre del 1944, in seguito ad un accordo tra gli esponenti jugoslavi e Togliatti, il partito comunista aderisce alle richieste di annessione jugoslave. Le formazioni comuniste in zona si spostano sotto il comando delle formazioni jugoslave e le formazioni Osoppo rimangono le sole a presidio dell’italianità di quella zona. Inizia una feroce campagna, prima di attacco propagandistico, poi di attacco militare, contro tutti gli ostacoli sulla via del raggiungimento di questo obiettivo: l’annessione di questa parte dell’Italia alla Jugoslavia. Nel febbraio del 1945 si arriva all’eliminazione fisica da parte del commando delle formazioni GAP del comando delle formazioni Osoppo, che erano rimaste le sole in zona a difendere appunto l’italianità di questa parte del paese. Porzûs è quindi il risultato di una logica di eliminazione diretta dell’avversario politico che, anche se non rappresenta la scelta che il Pci fece in tutto il resto del Paese, rappresenta una delle varianti della logica del comunismo internazionale, del quale il partito comunista italiano era uno degli esponenti principali di quel periodo.
Naturalmente, ci sono molti elementi di complessità che si potrebbero aggiungere a questo quadro e alcuni sono analizzati nel volume. Lo stesso Pci si divise profondamente su questa scelta e ci fu una feroce lotta interna al partito su come rispondere alle richieste jugoslave. Inoltre, si deve aggiungere che, se è vero che quello che accade sul confine orientale è unico per intensità e numero di vittime, vi sono altre situazioni (penso all’Emilia, soprattutto nei primissimi anni del dopoguerra) in cui abbiamo casi di uso della violenza per l’eliminazione fisica di coloro che sono percepiti come avversari politici, sulla via di un obiettivo che è molto chiaro nei suoi connotati. Il punto che mi premeva sottolineare però è che, per capire Porzûs, bisogna allargare lo sguardo e quindi non è più possibile studiare la Resistenza italiana focalizzandosi sulla storia delle singole valli, senza assumere uno sguardo mondiale. E su questo spunto nel libro troverete molte provocazioni.
Il secondo aspetto che mi premeva sottolineare è di carattere metodologico, perché in una situazione di forte contrapposizione ideologica e di ricorrenti polemiche sulla Resistenza (penso che molti dei presenti sappiano qual è il tipo di violenza ideologica che si può raggiungere quando si discute di questi temi), il tentativo è stato quello di mettere a confronto studiosi anche di sensibilità diversa che avessero però a cuore un comune amore per la ricerca della verità. Da questo punto di vista, è stato un lavoro molto proficuo, perché da un parte non ha tolto la diversità di ipotesi interpretative che trovate all’interno del volume: chi avrà interesse a leggerlo, noterà che i diversi autori hanno accenti diversi e a volte contrapposti, questo lavoro cioè non ha tolto le diversità di interpretazioni. Dall’altro punto di vista, questo ha costretto me in particolare, che come curatore sono stato molto provocato da questo lavoro, a mettere in discussione quelle che erano le mie ipotesi di partenza con ipotesi differenti. Non fatico ad ammettere che la mia idea sull’eccidio di Porzûs, l’idea che avevo all’inizio di questo lavoro, è molto cambiata curando questo libro, proprio perché il confronto con ipotesi diverse permette un approfondimento e una ricchezza che altrimenti non ci sarebbero. Il libro quindi è il punto di arrivo di un lavoro di anni, spesi in primo luogo non a denunciare le storture della storiografia ma ad affrontare i contenuti specifici, tentando di verificare le ipotesi alternative. Per fare questo lavoro, è stato molto prezioso il sostegno dell’Associazione Osoppo, e anzi approfitto dell’occasione per ringraziare il dott. Roberto Volpetti, che è presente in platea e che è uno degli animatori principali di questa associazione. Culmine di questo lavoro è stata, prima di tutto, la dichiarazione delle malghe di Porzûs quale “sito di interesse storico-culturale”, che ha avuto nell’on. Renato Farina uno degli ispiratori principali e anzi il primo firmatario della mozione presentata dalla commissione cultura della Camera. Ma soprattutto la visita del Presidente della Repubblica, che il 29 maggio ha reso omaggio alle vittime di Porzûs nel corso della sua visita in Friuli. Si è trattato di un momento importantissimo, prima di tutto per il coraggio politico e personale che ha richiesto alla persona del presidente Napolitano. Basti pensare che nel 1992 il presidente Cossiga manifestò il desiderio di andare a Porzûs, ma gli fu impedito dalle violentissime polemiche politiche che si scatenarono. Questo avveniva nel 1992, non negli anni ’60, e vi dà l’idea di come le polemiche politiche siano state e siano tuttora infuocate, e quindi il coraggio che questa scelta ha richiesto. Ma si è trattato anche di un gesto molto importante dal punto di vista del significato politico perché, come abbiamo accennato, la storia di Porzûs non è solo la storia dell’eccidio ma anche la storia di 60 anni di calunnie e di menzogne volte a screditare i partigiani dell’Osoppo, accusandoli di connivenza con il fascismo, e quindi giustificando sostanzialmente l’eccidio. Con la sua visita, Napolitano ha posto fine a tutto questo, restituendo ai martiri di Porzûs il loro ruolo di caduti in difesa dell’integrità del Paese e quindi della libertà di tutti. Oggi noi possiamo finalmente ricordare i caduti di Porzûs come i caduti di un conflitto che non si riassume solo nel confronto tra fascismo e anti-fascismo, che è la chiave di lettura utilizzata in modo quasi esclusivo per leggere il Novecento, ma come i caduti di una triplice contrapposizione, la contrapposizione tra la democrazia, il fascismo e il comunismo. Un conflitto che nella sua natura reale è stato spesso oscurato ma che rappresenta la chiave interpretativa di gran parte di queste vicende e che in questa zona d’Italia emerge con una drammaticità che non emerge in altri contesti.
Da un certo punto di vista, Porzûs rappresenta la tragedia di tutto il ventesimo secolo, che ha visto la democrazia combattere contro nemici di diverso colore e spesso soccombere tragicamente in questo scontro. Resta naturalmente, e qui concludo, molto lavoro da fare, basti pensare che questo libro è soltanto un primo passo (manca ancora una storia complessiva di Porzûs, che metta in fila tutti i tasselli) ma sicuramente la visita di Napolitano è stato un momento molto importante, che sprona a proseguire nella ricerca appassionata della verità che è propriamente il mestiere dello storico. Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
A premio di Piffer, va la sinteticità ma anche la capacità di esporre la complessità. Mi ha colpito questo suo dire riguardo al lavoro comune con altri studiosi e la possibilità di cambiamento di una visione. Chiaramente, un’ipotesi di lettura era già presente in lui ma la ricerca della verità è qualcosa che ha come fattore decisivo la persona. Io credo che anche sul fenomeno della Resistenza, e su questi episodi di microstoria che però diventano simboli, sia decisivo quanto la cultura sia realmente libera e non segua il flusso di un’indicazione di posizione o di trincea, da mantenere per un clima generale. E quindi, secondo aspetto, questa possibilità di ricostruire la verità e anche le responsabilità, perché la verità non è solamente qualcosa di generale o generalista, ma è qualcosa che poi va a ricadere sulla libertà di scelta delle persone, degli attori grandi, piccoli, intermedi. Avete sentito parlare di ordini generali e poi di posizioni diverse prese da ognuno. La possibilità di riconnettere le persone e i territori e i soggetti – penso alle famiglie, alle persone di tutta quella vasta zona che è stata interessta da fenomeni anche di annessione territoriale – è offerta da un lavoro serio, che quindi invitiamo a considerare, soprattutto da chi è appassionato a questo versante della storia o da chi la deve studiare. Ma ha anche questo valore pubblico per noi tutti, come ha detto Piffer, rappresentato anche dalle iniziative del presidente Napolitano. Ringraziamo quindi anche l’associazione dei partigiani Osoppo-Friuli che ha favorito l’edizione del libro, perché la cultura si fa anche con la possibilità di far studiare le persone e di guardare alle cose. Ringrazio Tommaso, auguri per il suo lavoro sempre molto importante. Grazie.
Passiamo ai prossimi ospiti, ringraziando Tommaso Lanosa che è un giovanissimo neolaureato dell’università Cattolica che ha curato l’edizione di questi testi. Si tratta di un libro di autori vari, di un libro su esperienze che ben conoscete, che sono passate dal Meeting o comunque sulla scena pubblica. Questo volume è stato editato in occasione del trentennale del Centro culturale di Milano ed ha inteso suggerire la ricchezza di maestri possibili da incontrare e che si sono incontrati, ma nello stesso tempo il desiderio di approfondimento della propria esperienza attraverso qualcuno impegnato con la vita. Dunque, abbiamo dodici testi e sono sostanzialmente tutti inediti: coprono un arco di tempo molto diverso (dagli anni ’80 fino ai più recenti) e hanno una traccia finale che indica il contesto che ha motivato la scelta di questi autori, relatori, persone. Il Centro è come un Meeting snocciolato durante il corso dell’anno, però credo che una cosa si possa dire, sinteticamente, prima di ascoltare i nostri due ospiti che vado a presentare: è una esperienza che muove questo desiderio di incontro, un’esperienza intesa come bisogno, il bisogno strano di trovare corrispondenza in tutto, in tutti, di qualcosa che si è come intuito, di qualcosa che è dentro l’esperienza di tutti.
Mi ha colpito, oggi, vedendo la mostra sul monte Koya di Habukawa, come don Giussani avesse sintetizzato l’incontro con quella realtà così diversa e così lontana, anche come sensibilità, descrivendo la voce di ognuno: “C’è una voce in ognuno che parla e dice la stessa esigenza, la stessa cosa”. Ecco l’intento con cui nasce questo libro, il cui titolo è rubato da un verso di Luzi. “Dove la domanda si accende” vuole indicare dove intende stare questa curiosità, questa chiamata, questa ricerca di corrispondenza in altri. Ce ne parlano, in ordine di intervento, Letizia Bardazzi che salutiamo, una delle fondatrici del Centro culturale Crossroads di New York, e adesso anche in diverse città. Responsabile dell’ufficio romano della fondazione Sussidiarietà, è da alcuni mesi presidente dell’associazione italiana dei Centri Culturali. E poi Massimo Borghesi, salutiamo anche lui, molto noto qui al Meeting. Docente di filosofia all’università di Perugia, l’abbiamo chiamato per dare una chiave di lettura a questo proposta. Letizia Bardazzi, a te il compito, a voi il compito di introdurci.
LETIZIA BARDAZZI:
Grazie, buonasera. Grazie mille per questo invito. Io parto da questa espressione che vidi sul sito del Centro culturale di Milano: “Una storia scritta a Milano e vissuta nel mondo”. Ecco, vorrei che il mio breve intervento stasera fosse documentazione di questa espressione che sintetizza così bene l’esperienza che mi ha visto coinvolta da vicino, la nascita dei Centri culturali Crossroads Cultural Centre in America, e che mi vede adesso coinvolta con l’associazione dei Centri culturali italiani nati dall’esperienza di Comunione e Liberazione, che sono circa centotrenta. Questa espressione sintetizza quello che è toccato fare a me otto anni fa, quando ero a New York. Sappiamo tutti che il Centro culturale di Milano è stato un po’ l’esempio, il precursore di questo protagonismo di uno stile particolare di essere presenza, di quella particolare laicità, come dice Doninelli nella introduzione. Ricordo con nostalgia le serate trascorse con gli amici attorno ad una tavola imbandita quando, guardando il sito del Centro culturale di Milano, cercavamo di rintracciare i punti salienti, le frasi che potevamo tradurre per il nostro pubblico americano, la struttura della programmazione. Mi ricordo quella famosa frase: “La cultura nasce da un gusto del vivere”, oppure la vostra attenzione alla milanesità, al contesto in cui eravate immersi, oppure l’attenzione agli aspetti socio-culturali, politici della città di Milano, o la scuola di Flannery O’Connor.
Ho potuto trarre ispirazione e guida da tutto ciò che il Centro culturale di Milano faceva, ad esempio il cineforum, fino a quella famosa frase che ci travolse e che è diventata proprio nostra e che voi ci avete riproposto. La famosa frase di San Paolo, “Vagliate tutto e trattenete il vero”, ha fatto un po’ da filo rosso alla nostra attività. Quindi, il Centro culturale di Milano dice a tutto il mondo quel traboccare di vita, quell’esubero di vitalità che sente come necessario il dialogo, l’incontro, il racconto dei maestri che cominci a seguire, cominci a studiare, con cui rifletti, con cui approfondisci, proprio per far tua quella definizione di don Giussani che dice: “La cultura è la coscienza critica e sistematica dell’esperienza”. Ma questa espressione, per me così lontana all’inizio, diventa vera nel tempo per una amicizia, per un centro affettivo, per una condivisione, per un’amicizia operativa che, cogliendo le provocazioni dell’ambiente in cui sei, le circostanze che ti toccano da vicino, quel tuo pallino o anche il desiderio di erudizione di altri, ti mette in moto e ti fa scoppiare addosso la voglia di comunicare a tutti chi sei e cosa abbiamo ricevuto.
C’è un bellissimo testo di don Giussani del 1989, uno dei pochi dialoghi che lui fa con i Centri culturali, dove dice che “la cultura è co-estesa e inerente all’esperienza e che proprio l’esperienza cristiana è la sorgente e l’orizzonte della cultura”: per questo, a condurre un Centro culturale, a condurre quella vivacità che io e altri amici abbiamo potuto scorgere in voi, e che questo libro documenta, è proprio un centro affettivo. Io vorrei provare a dire come la lettura di questo libro, questi dodici bellissimi testi inediti hanno illuminato in me la consapevolezza che l’attività culturale, la produzione culturale è proprio come parte della avventura educativa del movimento di Comunione e Liberazione, e anche parte dell’apertura alla totalità propria dell’avvenimento cristiano. Appunto, illumina anche la consapevolezza che il Centro culturale e la nostra attività culturale sono una delle forme di vita per cui Giovanni Paolo II nel 1982, che da poco Emilia Guarnieri ha ricordato, ci chiese di soffrire, lavorare e pregare. Lui disse che quando la fede è vissuta in modo autentico, non è la fede coperchio, come chiusa in una scatola, come dice Doninelli nell’introduzione usando questa espressione, “un coperchio prezioso da apporre a quello che ci interessa”. Ecco, non quella fede lì ma la fede vissuta come certezza e domanda della presenza di Cristo in ogni occasione della vita, ecco, quella certezza dà origine a nuove forme di vita, ci rende desiderosi di valorizzare ogni cosa come degna di entrare in rapporto con la verità.
Mi sembra che l’attività dei Centri culturali portasse dentro queste tre definizioni: lavorare, pregare e soffrire per questo. Allora, brevemente dico che la lettura di questi testi mi ha fatto rintracciare tre punti che secondo me devono essere un po’ come il canovaccio, l’impegno da tenere presente anche nell’attività dei Centri culturali. Il primo punto è la missione. Vi leggo una cosa brevissima del testo di Testori, perché non siamo solo noi ad incontrare qualcuno, è anche qualcuno che incontra noi. Anche la nostra passione al vero mette in moto qualcosa in chi ci incontra, e mi ha commosso tantissimo quando Testori, dieci anni dopo Conversazioni con la morte, in uno dei primi scritti del libro dice: “Avendovi avuti vicini, sono stato sollecitato e spinto a non chiudermi… ne ho preso coscienza grazie alla vostra vicinanza, ma soprattutto siete voi che mi avete insegnato quella cosa per cui io vi amo e che è la capacità di carità, di amore. Tutto questo mi ha accentuato… ancora di più Lui”. E parla di questi ragazzini un po’ sprovveduti che lo incontrano, facendolo sentire abbracciato nell’intimo. Questo è solo un esempio.
Il secondo punto che ho rintracciato nel libro è il fatto che nel fare eventi, nell’incontrare persone, nel tenere viva un’attività culturale, noi testimoniamo l’intelligenza diversa nel reale, e questo si vede tantissimo in come sono fatte le domande. Le domande che avete fatto a Finkielkraut, a Potok: cioè, come cogliere quel punto sovversivo che rende diversa veramente la realtà, proprio come una originalità nuova, questa nuova identità che portiamo e che ci fa entrare, testimoniando un’intelligenza diversa, nel reale. E la terza cosa, su quel suggerimento che ci arrivò così prezioso quando il Papa nel 2008 parlò al collegio dei Bernardini agli uomini della cultura. Io ho risentito come sfida e anche come impegno forte, come una radicalità quasi scomoda, ho sentito proprio vero il “quaerere Deum”, il cercare Dio. Quando parlava dei monaci, diceva che non avevano il problema di creare una cultura o di ripristinarne una del passato o di conservare qualcosa, ma avevano una semplicissima, elementare dinamica: quella di cercare Dio. Ecco, questo aspetto l’ho visto per me come tensione, sia in noi che ci muovevamo sia in noi, le persone che loro incontravano. Sentirsi sfidati da questa radicalità nel nostro concetto di cultura è ciò che rende affascinante continuare a muoversi per l’attività culturale.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie a Letizia Bardazzi: molto vivace e così legata ad una sua esperienza personale, ha messo in luce i tratti della dinamica missionaria ed educativa di un’opera. Massimo Borghesi.
MASSIMO BORGHESI:
Due parole su questo libro, che è un bel libro. Ringrazio Camillo e Letizia di avermi chiamato a presentare questo testo, non possiamo naturalmente approfondire più di tanto, poi in questa Babele è sempre difficile esprimersi in maniera chiara. Dico subito che è un testo bello, che presenta questi contributi così significativi dei trent’anni del Centro culturale di Milano. E di incontri ne ha fatti, il CMC. Il centro sorge, lo diceva Fornasieri nel 1981, da persone, dice Doninelli, più vicine ai 20 che ai 30 anni, con un desiderio di incontro, di apertura con ciò che è di vivo e non omologato, proprio nel senso pasoliniano del termine. Ricordiamoci che il 1981 è l’anno del referendum sull’aborto, della legge sull’aborto in Italia, ed era facile cedere, da parte dei cattolici, a una tentazione reattiva, di opposizione pura e semplice alla cultura dominante. Il Sabato, il famoso settimanale, intitolò: "Si riparte da 33", che era la percentuale – qui c’è Alessandro Banfi e se ne ricorda bene – di coloro che avevano votato contro la legge sull’aborto. E ricordo bene che don Giussani disse: “No, si riparte da Uno”, che era tutta un’altra prospettiva. E uno era scritto con la lettera maiuscola. In quel periodo disse letteralmente: “Come sarebbe bello essere in dodici in tutto il mondo”.
Bene, questa prospettiva di Giussani è quella che sta dietro alla nascita del CMC, perché non cede alla tentazione della reazione, dell’antagonismo, della dialettica sterile, ma al contrario valorizza le poche o tante voci intelligenti e interessanti che c’erano nel panorama culturale Italiano ed estero. Alcuni di questi autori sono stati introdotti in Italia proprio dal CMC, Camillo è stato troppo umile, doveva valorizzare davvero di più l’opera che egli stesso ha contribuito così efficacemente a promuovere. Dice bene Doninelli, una particolare laicità ha caratterizzato il CMC, lo dice nel senso che la fede non era un coperchio da mettere sopra ma, al contrario, era ciò che muoveva dall’interno una passione, un desiderio di valorizzare l’umano nei suoi aspetti migliori. In questa apertura, gli interlocutori cercati e scoperti erano veri maestri. Doninelli lo dice bene, è stupefacente, se leggiamo l’elenco di questi contributi inediti che sono raccolti nel volume! Chiedo a Camillo: ma che avete aspettato a pubblicarli? Non c’è mica bisogno dei 30 anni per pubblicare queste pepite d’oro che bisogna diffondere realmente. Qui abbiamo Von Balthasar, abbiamo Finkielkraut, abbiamo Giussani, abbiamo Milosz, abbiamo Moravia, abbiamo Potok, abbiamo Riesner, abbiamo Testori, abbiamo Carrón, ma dico, questi sono nomi!
Ebbene, questa gente invitata da ragazzi di 20-30 anni, è l’aspetto stupefacente. Pensate se oggi sarebbe possibile: questa è la domanda che occorre porsi. Quella realtà che era così dinamica, così viva, così capace di incontro, può oggi ripetersi con la stessa passione e intelligenza? D’altra parte, il Meeting esiste per questo. Questo volume raccoglie dodici interventi, dieci, pubblicati per la prima volta, sono tesori nel cassetto. Vengo a sapere di Alain Finkielkraut, che è uno dei più grandi filosofi francesi, ebreo, che ha svolto ben sei incontri al CMC: questo è il secondo che ha tenuto, il primo che viene pubblicato. E chiedo a Camillo: ma pubblicate anche gli altri, fateci un libro, non tenete nel cassetto queste cose, ne abbiamo bisogno. Aggiungo che alcuni di questi interventi sono proprio belli, non tutti, perché non bisogna fare tutto uguale. Alcuni, a mio modesto avviso, due o tre, non sono un granché, ma almeno 8-9 sono veramente splendidi e, se posso dare un giudizio, non dal punto di vista teorico ma dal punto di vista della testimonianza umana e cristiana, la testimonianza di Padre Baravalle su Cesare Pavese e quella di Testori sono realmente le cose più belle del volume, che consiglierei a tutti di leggere, anche perché tutti le possono leggere tranquillamente, non ci vuole la laurea in filosofia. Tra questi interventi, cito proprio velocissimamente la bella intervista a Chaim Potok, che come sapete tutti è il rabbino di New York autore di il mio nome è Asher Lev. Ebbene, Potok lancia un’intervista molto bella, e verrà l’anno successivo. L’intervista è del ’98, nel ’99 Potok verrà proprio al Meeting di Rimini a parlare: “Si può raccontare il destino?”. Nella sua intervista, parla del segreto dei suoi romanzi, della sua narrativa che nasce dal contrasto tra la tradizione religiosa e la modernità. La modernità contiene il senso della soggettività, del se, dell’io, della libertà. Una tradizione religiosa deve confrontarsi con la libertà moderna, non deve avere paura di questo confronto. La narrativa nasce dalla tensione tra questi due poli, dice Potok in maniera molto efficace e molto interessante.
Interventi belli di Rainer Riesner sul libro del Papa, in cui mette a fuoco alcuni nodi cruciali. Una cosa che mi ha molto colpito, dice Riesner, è quando Gesù chiama Dio con il nome di padre, Abba: questo rileva la sua rottura, la sua trascendenza rispetto all’orizzonte ebraico, nessun pio ebreo avrebbe mai osato chiamare Yahweh con il nome di Abba. Questo è un segno, dice Riesner, di come Gesù introduce una novità assoluta nel rapporto con Dio. Sia Potok che Riesner sono interessanti, altri interventi sono interessanti e belli al tempo stesso: quello che mi ha colpito è che c’è una sorta di filo rosso tra alcuni di essi. Il filo rosso è il rapporto tra amore e conoscenza. Alcuni di questi interventi, senza che abbiano rapporto tra loro, sviluppano però questa tematica: cioè, che una conoscenza vera, umana, reale, presuppone una affezione, un legame di affetto. Ce lo dice il grande matematico francese Laurent Lafforgue, uno dei più grandi scienziati francesi, commentando i passi dell’Enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate, la carità nella verità: tra conoscenza e amore vi sono rapporti molto stretti. Ce lo dice in maniera profonda e, devo dire, molto interessante, l’intervento qui raccolto del 2006 di Julian Carrón, dal titolo non adeguato, a mio avviso, “l’urgenza della ragione”. I titoli non sono il nostro forte, mettiamo sempre titoli molto generici. Non c’entra niente l’urgenza della ragione, è proprio il rapporto tra amore e conoscenza, il contenuto. Non dico che l’intervento di Carrón è bello perché Carrón è Carrón, non ogni volta c’è la stessa chiarezza: questo è bello, interessante. Cosa dica Carrón, lo dico in due battute: si rifà al famoso discorso del Papa a Regensburg, sull’urgenza di allargare il nostro concetto di ragione. Permettetemi la franchezza, ma quante stupidaggini sono state dette su questo allargamento del concetto di ragione, ogni volta che lo sento, é veramente come se la ragione si allargasse, si tirasse. Carrón non indugia sull’allargare la ragione, si chiede quali siano le condizioni perché la ragione si ampi e non sia stretta. Ebbene, queste condizioni non sono semplicemente condizioni conoscitive, non si allarga la ragione mediante la ragione, la ragione si allarga mediante qualcosa d’altro: e non a caso, lui esordisce a partire dall’amicizia tra Wael Farouq, che è ospite qui al Meeting e forse sta parlando proprio in contemporanea con noi, e Paolo (di cui non so il cognome, so che è l’amico italiano che ha incontrato Farouq al Cairo, incontro da cui è nata la grande amicizia tra loro che poi è stata l’inizio del Meeting del Cairo, ora alla sua seconda sessione). Ebbene, l’amicizia tra Farouq e Paolo è la condizione di un’amicizia in cui nasce l’interesse di conoscersi meglio, di approfondire la conoscenza. Due estranei non hanno interesse a conoscersi: la conoscenza presuppone un accadimento, un evento, l’evento dell’amicizia, di un’affezione.
Carrón cita anche cose belle di Finkielkraut, il quale a sua volta citava Bart, il quale Bart è uno dei grandi distruttori francesi, per la morte della madre (il colpo che lo costringe a interrogarsi sulla vita e a iniziare un tipo di scrittura che favorisca il rapporto con l’altro, e non l’estraneità). E quello che dice testualmente Carrón, leggo almeno un passo, è questo: “Sono proprio l’affezione, l’amicizia, la simpatia con e verso l’altro, ciò che consente alla ragione di mantenere la sua apertura senza soccombere e diventare misura. Per questo la ragione non esiste senza affezione”. Molto bella, questa cosa! Il mancato rapporto con la realtà dovuto a una ragione intesa come separata dall’affezione conduce al nichilismo: il nichilismo è una ragione senza affezione. Qual è il segno del nichilismo vissuto? Il solipsismo: uno non ha rapporti, non ha legami. Uno che ama qualcuno non può essere nichilista! Il nichilismo è la solitudine, è il togliere alla ragione ogni legame affettivo come tale. E ancora, l’allargamento della ragione non avviene solo attraverso la pur giusta difesa di una corretta concezione della ragione ma nel vedere in atto un’umanità che vive e ragiona così.
Molte altre cose da dire, ma voglio dirne un’ultima: Finkielkraut dice cose bellissime, mi dispiace che non abbiamo tempo, cita Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu. Bellissimo! Per dire cosa? Per dire che è il rapporto con l’uomo nella sua particolarità che impedisce alla ragione di essere astratta. Emilio Lussu, questo scrittore sardo del partito d’Azione, dice: “Durante la Prima Guerra Mondiale io ero capitano; una sera ho superato la trincea nemica, volevo uccidere il nemico che ci stava bombardando, ci stava sparando contro…”. Si avvicina moltissimo alla trincea nemica, prende la mira, sta per uccidere il capitano austriaco ma questo si accende una sigaretta e lo vede in volto e scopre che è una persona! Non è l’Austriaco, il nemico, ma uno in carne ed ossa! Era un uomo – dice Lussu -: non poteva più ucciderlo. È l’affezione che nasce dalla particolarità e non dall’universale astratto che rende umano l’uomo e che permette di capire che l’universale vive nel particolare.
E in proposito, cita ancora Primo Levi, per il quale invece lui non è più uomo di fronte al dottor Pannwitz. E cita ancora Schindler’s List, il bel film di Spielberg dove, come tutti sapete, proprio il contatto fisico con gli ebrei, uno ad uno, fa sì che Schindler diventi umano. Mi ha colpito l’esempio di Schindler’s list perché – così faccio propaganda anche a me stesso – io l’avevo riportato proprio nel mio volume Il soggetto assente, edito sempre da Itaca, proprio con la stessa finalità, per mostrare come la conoscenza del particolare renda umani. Nel film di Spielberg, c’è la bambina dal cappotto rosso, quella che ci fa ricordare che non i milioni di morti ci rendono sensibili ma l’identificarsi almeno con una persona fa sì che il cuore possa commuoversi e diventare umano. L’ultima cosa che voglio citare, e mi dispiace che sia l’ultima, è la testimonianza di padre Baravalle, una testimonianza del ’90 – merito del Centro culturale averlo scoperto -, in cui padre Baravalle, il padre felice della casa in collina di Pavese, racconta per la prima volta il suo rapporto con Cesare Pavese. Pavese, dalla fine del ’43 alla metà del ’45 (un anno e mezzo), è ospite del collegio Tarvisio di Casale Monferrato, per sfuggire alla retata dei tedeschi che volevano prendere tutti i componenti della casa editrice Einaudi. E’ lì,
all’inizio molto chiuso: padre Baravalle gli apre la sua biblioteca, anzi, gliene apre tre. Pavese si avvicina ai testi di Romano Guardini, ai testi di Peter Yust, conosce con lui una realtà nuova e viene il momento conclusivo… Questo ve lo devo proprio leggere, perché è davvero stupenda, questa testimonianza del padre Baravalle che rovescia totalmente la biografia di Pavese, Il vizio assurdo di Davide Lajolo, che invece non dice nulla o passa sotto silenzio questa pagina fondamentale di Pavese.
Dice padre Baravalle, che lì era confessore: “La sera del 29 gennaio 1944 ero nella cappella del collegio. Erano le 5 del pomeriggio, stavo dicendo il breviario, la preghiera dei sacerdoti. Ero solo, sentii un piccolo rumore, qualcuno si stava avvicinando. Non mi mossi. Continuai a leggere il mio breviario come se non avessi sentito niente. I passi si avvicinarono sempre di più e una persona si sedette accanto a me. Con la coda dell’occhio sbirciai: era Pavese. Si era seduto, aveva messo la testa tra le mani e stava lì. “Quest’uomo vuole parlarmi”. Allora, feci presto a terminare il mio breviario e gli dissi: “Professore, che cos’ha?”. E lui mi rispose: “Padre, mi aiuti, ho bisogno di lei”. Io ero giovane, avevo 28 anni, ero prete da due anni. Lui mi disse: “Devo sfogarmi, devo narrarle tutto”. Incominciò a raccontare la sua vita per due ore, il bene e il male, tutto quello che poteva dire. Io gli facevo qualche domanda in più per capire esattamente le cose. Due ore! Alla fine mi disse: “Padre, cosa può fare per me?”. Gli risposi: “Professore, io sono un prete, se Lei ha dispiacere di quello che è accaduto contro la legge di Dio, io le posso dare l’assoluzione”. E lui: “Mi spiace se ho offeso Dio”. Non potevo capire che valore avessero queste parole. Gli dissi: “Va bene, io le do l’assoluzione”. L’avevo confessato, due ore di confessione! E ne aveva dette di cose, non si era più confessato da quando aveva fatto la prima comunione. Allora mi disse: “Ma lei potrebbe anche darmi la comunione?”. “Ma certo, non adesso, domani mattina alle sei e mezzo io celebro la Messa nella chiesa che sta dietro quella parete”. “Ma non so come fare, non so come comportarmi”. Allora io gli dissi: “Lei non deve fare niente, faccio tutto io”. Alle sette del giorno dopo, il 30 gennaio, gli diedi la comunione”.
Quel giorno, 29 gennaio 1944, fu una data terribile per Pavese. Se leggete Il mestiere di vivere”, il diario di Pavese, trovate una pagina che è stata giudicata meravigliosa per contenuto religioso. Scrive Pavese: “Ci si umilia nel chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del Regno di Dio. È questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio modo di essere fedele. Una rinuncia a tutto, una sommersione in un mare di amore, un mancamento al barlume di questa possibilità. Forse è tutto qui, in questo tremito del se fosse vero, se davvero fosse vero!”. E poi la testimonianza continua.
E allora, nei cinque minuti che abbiamo ancora, due cose su Giovanni Testori, perché anche la testimonianza di Testori è davvero bellissima e merita due righe almeno. Dice: “Dieci anni fa” – è dell’ ’89, la testimonianza di Testori – “non si trattò quindi di conversione. Fu una precisazione del mio povero modo di essere cristiano, alla quale fui indotto dalla morte di mia madre. Quando scrissi quegli articoli sul Corriere della sera, nessun vescovo, nessun cardinale, nessun uomo politico della Dc mi contattò. Mi telefonarono invece quattro ragazzi: “Siamo di Comunione e Liberazione, vorremmo parlarle. Non mi hanno mai chiesto niente, né come fosse la mia povera vita, né quali fossero i miei errori, ma mi hanno accolto e io credo di averli accolti come amici. E sono vicino a Cl per una cosa sola: perché hanno questo senso dell’amicizia”. Qui Testori raccontava di come aveva capito la verità: “Come mi diceva continuamente Giussani, l’integrità, la solidità, anche la fede sono niente senza carità, senza amore. La fede è esattamente questo amore, questo amore prima di tutto. Io devo ringraziare questi ragazzi, devo ringraziarli di questa capacità di amore”. E poi, più avanti:” Il mio cammino non è stato una conversione, è stato un di più, ossia una presa di coscienza di qualcosa che c’è sempre stato. Ne ho preso coscienza grazie alla vostra vicinanza. Ma soprattutto voi mi avete anche insegnato la cosa per cui vi amo: la capacità di carità, di amore. Tutto questo mi ha accentuato ancor di più Lui, cioè Cristo! Me lo ha reso ancor più sanguinante. Forse non è più un inseguimento da parte mia, come avveniva prima. Lo sento certo, qui in me, nel mondo terribile, turpe, c’è Lui”.
E ancora: “Imparate da Giussani a sentirvi sempre aperti, a stupirvi di chi viene, anche delle cattiverie e delle ingiustizie. Bisogna saperle combattere perché è giusto, ma al fondo, che bello se qualcuno riuscisse a pregare per chi vi e ci colpisce! Non perché non ci colpisca più, ma perché trovi un po’ di serenità, un momento di quiete in cui riconosca se stesso. Quindi polemizzare e insieme pregare per chi ci colpisce, stare sulla barricata, ma sempre con quella carità, quell’amicizia, quell’affetto che fa stare lì pronti, quell’affetto grazie al quale, quando veniste da me, ho capito che c’era in voi qualcosa che conoscevo nei miei fratelli, nelle mie sorelle, ma che non conoscevo al di fuori di essi. Vi ringrazio di quest’incontro, di questi dieci anni. Speriamo che il Signore ce ne dia altri tre, quattro, dieci, quel che saranno! Riprendetemi, quando sarò da riprendere, non scandalizzatevi del mio stare tra i perduti; e però riprendetemi sempre con quell’amore che non vi ha permesso di riprendermi quand’era giusto che mi tiraste le orecchie”.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie, Borghesi, è proprio vero che il fil rouge è quello che ha intuito e saputo leggere lui: amore e conoscenza. E questo porta due aspetti: uno è la fedeltà a queste persone, il rapporto personale di amicizia che continua nel tempo, che c’è dietro un desiderio di conoscenza, di contributo. E poi, la conoscenza, cioè qualcosa che possa dare un ulteriore spunto di discorso – don Giussani lo chiamava l’avanzamento del discorso -, non il discorso dietro cui ci si para ma l’avanzamento di un messaggio, di una consapevolezza più puntuale del presente che è il motore di questo. Abbiamo deciso, facendo questo primo libro, di continuare a farli, raccogliendo anno per anno i contributi anche attuali. C’è allegato al libro un bellissimo video, fatto di reportage presi dalla RAI, di interviste nuove a Carrón, ad Appelfeld, a Vittadini, a tantissimi di noi che raccontano questa storia in 37 minuti molto belli. Grazie, Letizia Bardazzi, grazie a Borghesi, grazie a voi della presenza.