Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
La casa, la terra, gli amici: la Chiesa nel terzo millennio
Presentazione del libro di Massimo Camisasca (Ed. San Paolo). Partecipano: l’Autore, Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo; Aldo Cazzullo, Giornalista e Scrittore.
A seguire:
VIVA L’ITALIA! Risorgimento e Resistenza: perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione
Presentazione del libro di Aldo Cazzullo (Ed. Mondadori). Partecipano: l’Autore, Giornalista e Scrittore; Marianna Dal Collo, Attrice; Michele Ghionna, Attore; Paolo Valerio, Attore. Accompagnamento di Michele Fontanaal Pianoforte.
CAMILLO FORNASIERI:
Benvenuti a questo appuntamento pomeridiano di Invito alla lettura. Abbiamo due proposte, la prima della casa editrice San Paolo, è un libro di Monsignor Massimo Camisasca, La casa, la terra, gli amici, della collana La Chiesa nel terzo millennio. Ecco, è qui tra noi, lo salutiamo con un applauso. Abbiamo con noi, per presentarlo, il giornalista Aldo Cazzullo del Corriere della Sera, volto noto e amico da un paio di anni qui al Meeting, ormai sparring partner del pugile Camisasca. Due brevissime parole: il libro, che ha questi tre termini, la casa, la terra, gli amici, potrebbe sembrare riandare a parole antiche per il gusto di una riscoperta umanistica. In realtà, don Massimo parte dalla constatazione di vivere in un tempo di grande dispersione, dove la coscienza di sé potrebbe essere la cosa più difficile da ritrovare, ma soprattutto ci accorgiamo che è la cosa su cui si è incerti nella capacità di educare. Dice: «Tutto ci è consegnato nella misura del troppo: troppe immagini, troppe notizie, troppi suoni, troppe sollecitazioni. Occorre perciò una riscoperta del centro, di ciò che non può mancare, che costituisce la salvezza della nostra vita nel tempo e nell’eterno». Ecco, questo riassume un po’ il desiderio costante nei suoi libri e anche nella sua azione educativa, che svolge nella Fraternità San Carlo Borromeo, di indicare quello che lui ha visto, suggerire quello che lui ha incontrato, la salvezza nella nostra vita e anche la passione nel comunicare quali punti fermi senza cui è impossibile vivere e scoprire radicalmente tutto questo. Anche nel libro, c’è una bellissima traiettoria di considerazioni storiche, o comunque di giudizi, su dove affonda le radici la crisi, l’incertezza del nostro tempo. Ad esempio, nell’avere troncato il legame con la tradizione, con l’autorità, e come invece la riscoperta della necessità di un padre sia decisiva. Ecco, tutto questo porta a dei punti di metodo, ma forse è una parola che con più lievità incontriamo nel libro, proprio perché la casa, la terra, gli amici sono presentati nella loro verità storica e nella sua esperienza. Lascio ad Aldo il compito di dirci che cosa lo abbia colpito di questo libro.
ALDO CAZZULLO:
Grazie, Camillo. Grazie a tutti quanti voi. Ogni volta che mi invitano al Meeting a presentare un mio libro, io pongo come condizione di presentare prima il libro di Massimo Camisasca, così poi mi trovo la sala piena, un migliaio di persone, e quindi faccio pesca a strascico, godo di un traino eccellente, come si dice in gergo televisivo. È ovvio che questo poi vi vincola a restare, se qualcuno di voi se ne va lo considero come un affronto personale, naturalmente. È inutile che vi presenti don Massimo perché lo conoscete benissimo, è l’uomo che ha scritto la storia di Comunione e Liberazione, sia nel senso tecnico, perché i suoi tre volumi, fino all’84, rappresentano un punto di riferimento per chiunque anche in futuro dovrà affrontare la storia di questo movimento, e anche perché, in qualche modo, la storia di CL don Massimo ha contribuito a farla. Fin da quando accompagnò don Giussani allo storico primo incontro con Giovanni Paolo II, da cui Giussani, come don Massimo testimonia personalmente nei suoi libri, perché c’era, esce dicendo: “E’ un leone, è un leone”. E in qualche modo intuisce già quello che sarebbe successo nei decenni a venire.
Oggi don Massimo ci propone questo nuovo libro che è stato pubblicato dall’editore San Paolo e si intitola La casa, la terra, gli amici. Più che presentare il libro, io vorrei, come di consueto, fargli un intervista, vorrei cercare di provocarlo, di fargli uscire quello che ha dentro e magari qualche parola in più, rispetto a quelle che ha già scritto nel libro. Comincerei dal titolo: La casa, la terra, gli amici, sono tre parole molto importanti, ma che è difficile associare le une alle altre. Perché ha scelto questo titolo? Cominciamo dalla prima parola, dalla casa: cosa intendi per casa?
MASSIMO CAMISASCA:
Casa è una parola, o meglio una esperienza, che sintetizza un po’ tutto quanto il libro. Io penso che noi oggi viviamo in un’epoca di sentimenti che vanno e che vengono e che rendono molto instabile la vita delle persone. Viviamo – come è stato detto – in una società liquida. Allora c’è bisogno di dare un luogo ai nostri sentimenti, non di cancellarli ma di dare un luogo ai nostri sentimenti, ai nostri pensieri, ai nostri ideali, di mettere in rapporto ciò che è soggettivo e ciò che è oggettivo. Quando nasce un amore, si desidera vivere assieme, questo è per me il significato della parola casa. Quando nasce un amore, si desidera vivere assieme, si desidera avere delle mura, si desidera avere dei mobili in comune, una libreria in comune, qualcosa da leggere assieme, e poi infine dei figli. Non è che tutto ciò non creerà difficoltà, ci saranno anche le difficoltà del vivere assieme, ma nessun sentimento vero che si apre all’altro rimane se non crea un luogo di stabilità. Questo mi sembra essere il compito della Chiesa oggi: dare stabilità alla vita, dare forza ai sentimenti, dare stabilità agli ideali, permettere all’uomo di vedere che gli ideali non sono illusioni, fantasie e alla fine muoiono, ma che gli ideali possono avere un futuro e hanno un futuro, soltanto se trovano la stabilità di un luogo in cui ancorarsi, l’oggettività di un luogo in cui essere continuamente alimentati. Ecco perché parlo di casa. Ho trovato una frase di Ratzinger quando era teologo, l’ho trovata in don Giussani che la cita in un libro degli anni ’70. Questa frase dice così: “L’amore in astratto non avrà mai forza nel mondo, un ideale, anche se immenso come l’amore, il più alto, non avrà mai forza nel mondo se non affonda le sue radici in comunità concrete, costruite sull’amore fraterno”. La frase finale: “Si deve cominciare dal particolare per arrivare all’universale”. Per me questo è la casa. Sì deve iniziare dal particolare per arrivare all’universale: io non posso amare la gente, io devo cominciare ad amare qualcuno. Ho trovato recentemente, in un articolo di Avvenire, questa frase di Jean Vianney: “Non dire, per favore, Dio mi ama, dì piuttosto tu mi ami e attraverso di te io scoprirò l’amore di Dio”. Ecco, mi sembra questo il senso del mio accento sul tema della casa, un tema che ho imparato da don Giussani e precisamente dai primi anni del suo insegnamento ai Memores Domini, ma che poi è diventato anche il tema centrale dell’educazione che do ai giovani che entrano nella Fraternità San Carlo. Io desidero che tutte le potenzialità ideali della loro personalità trovino il loro sviluppo e la loro forza, ma possono svilupparsi ed avere un futuro soltanto se riconoscono un luogo umano in cui radicarsi, concretamente una fraternità ed una autorità.
ALDO CAZZULLO:
Massimo, prima di proseguire con le altre due parole, aiutami a capire meglio quello che hai detto, che mi sembra molto importante. Citi questa frase di Ratzinger, ripresa da Giussani: l’amore in astratto non ha radici in questo mondo, nel libro scrivi che l’affettività è un po’ rimossa nella Chiesa, come se diventare sacerdote significasse rinunciare all’affettività. Tu sostieni che non è così, che ci si può innamorare: in quali forme? E allora, è un innamoramento che è condannato a non trovare le forme consuete, che sono poi una donna, una famiglia, dei figli?
MASSIMO CAMISASCA:
Sì, l’innamoramento è soltanto un aspetto dell’affettività, che è un fenomeno più generale. Quello che ho voluto mettere in luce in questo libro, ma di cui in realtà avevo parlato più diffusamente nel libro Padre, é che, girando molto spesso nei seminari e invitato a parlare nelle diocesi, ai preti, ho trovato che il tema dell’amicizia è un tema spinoso, più o meno lo supponevo. Penso che sia un tema, soprattutto una esperienza positiva, anche se rischiosa, che le persone devono essere invitate a vivere, di cui non avere paura, non aver paura dell’amicizia, non aver paura dell’affezione. Perché non possiamo andare alla verità se non attraverso l’affezione, non possiamo mai disgiungere la verità dall’amore e l’amore dalla verità. Quindi, il nostro sarà sempre un amore sacrificato, se vuol essere un amore vero, ma deve essere un amore che si esprime in tutte le sue potenzialità. Poi tu toccavi un tema particolare, e cioè il tema dell’affezione e dell’affettività nella vita sacerdotale. Io sono convinto che il celibato sia una strada possibile per lo sviluppo della nostra affettività e della nostra affezione, altrimenti la Chiesa ci chiederebbe una diminuzione, una castrazione. Perché non è una diminuzione? Perché la sessualità non si riduce all’aspetto genitale, la sessualità coinvolge tutta la nostra personalità, e il sacerdote non solo è libero ma è chiamato ad avere amicizie sia maschili che femminili. Nel libro, dico che è possibile che si innamori, certamente, però se egli ha già scelto e affermato la strada della verginità attraverso la sua ordinazione sacerdotale, saprà convertire quel suo innamoramento in una strada sacrificata che lo porterà ad amare di più gli altri. D’altra parte, è vero anche per chi si sposa, perché anche chi si sposa si può innamorare di un altro uomo o di un’altra donna, non ci sono differenze.
ALDO CAZZULLO:
E invece, la terra?
MASSIMO CAMISASCA:
Devo dire che questa seconda parola, la terra, è venuta alla fine, all’inizio pensavo di intitolare il libro La casa e gli amici, ma poi ho detto: “Non sarò troppo intimistico?”. E allora ho inserito questa parola che, d’altra parte, richiama molti aspetti del libro, soprattutto due aspetti che mi stanno a cuore. Il primo è la vocazione universale che c’è nel cristianesimo, l’ultima parola di Gesù: “Andate in tutto il mondo”. Tutta la terra è destinata ad incontrare Cristo, tutta la terra è destinata ad incontrare la salvezza, tutti gli uomini sono destinati a vedere e sperimentare, in modi diversi, l’inizio della gloria già su questa terra, in frammenti, in bagliori, in piccoli istanti o in lunghe esperienze. Questo è il primo aspetto della parola terra che ho voluto sottolineare, quasi per dare un corrispettivo alla parola casa. Parlare di casa non vuol dire parlare di un chiudersi in se stessi, vuol dire anzi parlare di un partire per aprirsi a tutto il mondo. La casa è il luogo che mi apre all’universo.
E poi c’è un altro tema nel libro, che mi sta molto a cuore, su cui sto scrivendo altre cose che appariranno nei prossimi anni: è il tema dell’ecologia cristiana, un tema che sta molto a cuore a Benedetto XVI e anche a me. La natura è una delle forme più potenti per andare a Dio, la bellezza della natura è una strada a Dio, è una strada alla verità degli uomini: chi nasconde o uccide questa bellezza, nasconde o uccide una strada a Dio. Sono stato recentemente in Sicilia, dopo tanti anni, mio nonno era siciliano. Ho visto la cementificazione sui greti dei fiumi, sulle colline, ho visto delle cose terribili, ero stato tanti anni prima a lungo in Sicilia, poi, sempre mordi e fuggi, e non avevo potuto vedere. Mi si è spezzato il cuore: se noi uccidiamo la bellezza, se noi uccidiamo la bellezza nel cuore dei ragazzi, uccidiamo anche la strada verso la verità per loro. Se uno non sa più che cosa è bello, non sa più neanche cosa è bene e cosa è male, la bellezza è la strada più potente verso la verità, verso Dio. Perciò, quando parliamo di una ecologia vera ed autentica, parliamo di una strada a Dio. Certo, ci sono anche delle ecologie malate, ne parlerò in un prossimo libro, cioè ecologie che vedono la natura come un luogo indifferenziato di beni, che nascondono la gerarchia che esiste nella natura fra l’uomo, gli animali, le piante, ecc. Quando si uccide questa gerarchia, si uccide anche la vera ecologia. Però rimane che oggi, laddove si uccide la bellezza, si uccide il cammino futuro dei ragazzi verso la verità.
ALDO CAZZULLO:
Ma tu non credi, don Massimo, che però la Chiesa ogni tanto, sembra quasi avere paura della bellezza, averla rimossa? Per secoli la Chiesa è stata committente dei più grandi artisti del tempo e ha creato bellezza. Lo spettacolo che vedremo dopo finisce con le immagini dei grandi quadri dipinti da italiani che sono oggi all’estero, al Prado, al Louvre. Sono tutti quadri a soggetto religioso: La sepoltura di Cristo di Tiziano, il Battesimo di Gesù di Piero della Francesca, Il Cristo alla colonna di Antonello da Messina. Oggi, la Chiesa sembra quasi temere la bellezza, penso anche agli eccessi pauperistici di una certa interpretazione del Concilio, gli anni ’70, con la Chiesa che doveva restare quasi nascosta nella comunità, quasi invisibile. Sono stato l’altro giorno a Longarone, che è una città ricostruita alla fine degli anni ’60: la Chiesa c’è ma non si vede, perché è stata costruita, pensata come un garage, una cosa nascosta, quasi invisibile. Dall’altra parte, sembra quasi che la Chiesa abbia paura della bellezza femminile, del corpo della donna, sembra quasi un’ossessione. E’ così o è un giudizio superficiale?
MASSIMO CAMISASCA:
Che ci siano uomini di Chiesa che hanno paura del corpo, è vero, ci sono uomini in genere che hanno paura del corpo. Oggi l’esaltazione del corpo si accompagna ad una grande paura della corporalità. Direi che ci sono state stagioni diverse, non posso dilungarmi, ma certamente, laddove il cristianesimo è stato vissuto, la bellezza è fiorita, pensiamo al Medioevo. Pensiamo anche all’umanesimo, la bellezza è stata vissuta piuttosto come committenza, i grandi Papi del ’500 e del ’600, poi c’è stata una rottura. La Rivoluzione Francese ha segnato una rottura, non tanto della Chiesa con la bellezza quanto della Chiesa con la modernità: bisognava distinguere che cosa nella modernità voleva sopprimere il cristianesimo e che cosa nella modernità, invece, fosse semplicemente contraria ad una espressione storica del cristianesimo. Direi che il grande incontro nuovo con la bellezza è avvenuto con Paolo VI. L’incontro di Paolo VI con gli artisti ha segnato una stagione nuova, la capacità che ha avuto Monsignor Macchi, accanto a Paolo VI, di tessere rapporti, di creare il museo di arte contemporanea in Vaticano. Così, Giovanni Paolo II, e così questo Papa: oggi c’è un grande desiderio della Chiesa di riprendere il dialogo con l’arte, però è un dialogo che si riprende dopo 200, 300 anni di interruzione. Quindi, direbbero i francesi, ci sono ancora dei tatonnements, dell’andare un po’ a tastoni. Però sono convinto che, soprattutto dopo la teologia del corpo di Giovanni Paolo II, questo incontro con la bellezza sarà molto fecondo.
ALDO CAZZULLO:
Ecco, hai citato Benedetto XVI: che impressione hai avuto del viaggio del Papa a Madrid, della Giornata Mondiale della Gioventù e, più in generale, qual è la tua valutazione di questo papato? Tu sai che nelle interpretazioni superficiali dei laici, dopo il gigante Giovanni Paolo II, si sono fatte valutazioni anche severe nei confronti dello stile e dell’approccio di Benedetto XVI: qual è il tuo punto di vista e la tua visione al riguardo?
MASSIMO CAMISASCA:
Valutazioni severe ci sono sempre, soprattutto sui Papi viventi: poi, quando un Papa muore, le valutazioni severe un po’ diminuiscono e si fanno più obiettivi i giudizi. Però, è chiaro che, per uno che veniva dopo Giovanni Paolo II, e per di più che veniva dopo essere stato Prefetto della Dottrina della Fede, le valutazioni severe erano quasi lì, a portata di mano. Però mi sembra che adesso stiamo entrando in una valutazione più obiettiva. Innanzitutto, io ammiro in Benedetto XVI il coraggio di non voler essere Giovanni Paolo II, ma di voler essere se stesso: non era facile. E che cos’è, lui? Lui innanzitutto è un grande pedagogo della fede. Quello che rimarrà di lui – gli auguro un lungo pontificato, quindi si vedrà poi, ma se dovessi dire oggi quello che rimarrà di lui – è quello che è rimasto di Leone Magno, cioè la grande mistagogia della fede che egli realizza soprattutto attraverso la sua predicazione, in particolare la predicazione durante la liturgia: è ciò che stupisce, commuove, impressiona di lui. Poi, si sta vedendo che non è tanto vero quel che si diceva: certamente non ha il carisma di comunicazione con le folle che aveva Giovanni Paolo II. Leggevo oggi, proprio sul Corriere, mi sembra, che di Giovanni Paolo II hanno detto che parlava attraverso ciò che faceva, e lui parla attraverso ciò che dice. Ma parla anche attraverso ciò che fa. Il coraggio che ha avuto, ad esempio, di continuare le Giornate Mondiali della Gioventù, non tutti penso l’avrebbero avuto. Era un po’ come il coraggio di Paolo VI di continuare il Concilio. Giovanni Paolo II radunava intorno a sé centinaia di migliaia di giovani e li sapeva gestire con la sua presenza. Benedetto XVI ha avuto il coraggio di continuare queste giornate con un suo stile, e si è visto che i giovani vanno. Ecco, allora, mi chiedi un giudizio, che cosa significa questo fatto? Per me significa due cose. Significa la grande potenzialità che c’è in questa generazione di giovani, che cercano e che molto spesso non trovano. Quindi, cercano laicamente, in Benedetto XVI, un maestro per la loro vita, cercano dei maestri e vedono che nelle parole di Benedetto XVI c’è una autenticità che li affascina. Poi resteranno, non resteranno, troveranno a loro volta – ecco il grande problema – dei maestri, là dove vivono? Questo è importante e non è detto, però sta a dire, questo grande afflusso di giovani a Madrid, certamente anche da un punto di vista negativo, la grande assenza di maestri intermedi nella nostra società. Per cui brillano questi punti di luce, ma poi i giovani hanno bisogno di essere accompagnati per mano nelle loro case. E quindi c’è, nella nostra società di oggi, nella nostra Chiesa di oggi, un grande bisogno di maestri intermedi.
ALDO CAZZULLO:
Ecco, ma i sacerdoti quindi non fanno abbastanza bene il loro mestiere?
MASSIMO CAMISASCA:
No, lo fanno, però forse c’è bisogno di più sacerdoti che, lasciandosi abbeverare dal Padre, diventano padri a loro volta, e torna il tema affettivo di cui parlavamo prima.
ALDO CAZZULLO:
Ecco, tu hai cercato di dare una risposta a questo tema dell’affettività, facendo sì che i sacerdoti potessero vivere insieme, potessero avere una casa, una casa comune, hai fondato la Fraternità San Carlo Borromeo che ora esiste su tutti i cinque continenti.
MASSIMO CAMISASCA:
Tranne l’Australia.
ALDO CAZZULLO:
Gli altri quattro continenti principali. Don Massimo non cerca la ribalta, non è interessato a diventare famoso, non va in TV, però ha una rete internazionale impressionante, siamo andati a pranzo qualche giorno prima di che partisse per la Spagna, quando Zapatero vinse le elezioni, e lui mi disse: “Potresti andare a parlare con Canizares, il primate di Spagna”, che allora stava ancora a Toledo. E lunedì mattina, con i risultati elettorali ancora freschi, ero a Toledo, nel palazzo arcivescovile a parlare con Canizares, che tutti chiamano don Antonio, perché là non c’è eccellenza, eminenza, lo chiamano don Antonio…
MASSIMO CAMISASCA:
Sarebbe ora di toglierli anche in Italia. Chiusa parentesi.
ALDO CAZZULLO:
E disse a Zapatero quello che aveva detto.
MASSIMO CAMISASCA:
Qui c’è un vescovo che si fa chiamare don Giovanni, giusto? Bene. Ce n’è un altro, don Paolo.
ALDO CAZZULLO:
Mi ricordo quando mi disse – parlavamo del celibato, la domanda sul celibato e sul sacerdozio femminile l’avevo fatta già l’anno scorso e quindi la risparmio al pubblico -: “Se un Papa domani mattina decidesse di togliere il celibato dei sacerdoti potrebbe farlo, se decidesse di fare le donne prete, no, perché sarebbe eretico, sarebbe contro il diritto divino”. Io tuttora non ho capito il perché, ma sto a quello che tu hai detto. Ecco, però mi ricordo che tu mi dicesti: “Se ad esempio vai a parlare con Claudio Hummes, vedrai che ti dirà delle cose interessanti sul celibato dei preti”. Io quella volta lasciai cadere il tuo invito e qualche settimana dopo lessi quello che Hummes aveva detto, che era favorevole a togliere il celibato dei preti. Poi mi mandasti da quello che era stato il tuo vice, Monsignor Pezzi, che nel frattempo è diventato Arcivescovo di Mosca.
MASSIMO CAMISASCA:
Che è qua!
ALDO CAZZULLO:
E’ qua? Andrea, dove sei? Mi disse delle cose non banali sul rapporto tra cattolici ed ortodossi, che forse non sono mai stati tanto vicini come adesso. Come dire, don Massimo ha attivato una rete intercontinentale, non tutti fanno parte della Fraternità San Carlo, però in qualche modo tu hai saputo fondare una cosa che non c’era, prima non c’era ed adesso c’è. Come ti è venuta questa idea, questo progetto, questa ambizione di dare una casa a sacerdoti che magari prima vivevano ognuno per conto proprio?
MASSIMO CAMISASCA:
Non è stato assolutamente un progetto e neppure un’ambizione, è stato realmente un fatto accaduto. Eravamo a Roma, nel 1984, un gruppo di sacerdoti incardinati nella diocesi di Bergamo; si trattava, per varie ragioni, di trovare un nuovo statuto canonico, parlai soprattutto io con don Giussani e si vide assieme. “Ma perché non fondare un’associazione sacerdotale missionaria?”. Ne parlammo con il Cardinal Poletti che fu d’accordo e lì iniziò la cosa. Poi la cosa è andata avanti giorno dopo giorno, realmente senza progetti fatti a tavolino, ma spinti da quello che, se mi è permesso dire, lo Spirito suscitava giorno dopo giorno, certo non avventatamente, non sventatamente, ma senza precorrere noi i tempi. E questo forse è stata la cosa migliore di questi 25 anni.
ALDO CAZZULLO:
Ma perché le donne non possono fare il sacerdote? Perché Gesù ha solo scelto apostoli maschi e non…
MASSIMO CAMISASCA:
Perché Gesù ha pensato – non è qui, non so veramente le ragioni – che le donne avessero qualcosa di più importante da fare!
ALDO CAZZULLO:
Senti, l’anno scorso è venuto al Meeting il Patriarca di Venezia, che non aveva il problema di Eminenza, Eccellenza, don Angelo, perché Patriarca suona bene. Mi ricordo che fece questo incontro davanti a 10mila ragazzi, impostandolo sui film che aveva visto quell’estate e poi disse: “A volte dicono che io parlo difficile, chi dice che parlo difficile è perché vuole ascoltare le cose che già sa”. Anche questa è una frase che non è male. Nel frattempo, il Patriarca è diventato Arcivescovo di Milano. Tu a Roma hai vissuto con don Angelo Scola, in questa casa: se non ricordo male eravate ospiti delle suore vicine a Santa Maria Maggiore.
MASSIMO CAMISASCA:
Sì, ma non dalle Suore, era un pensionato universitario che poi era la sede della nostra Fraternità, 11 anni assieme, sì!
ALDO CAZZULLO:
Dove ogni tanto venivano a cena don Giussani e l’allora Cardinale Ratzinger, un posto che ha portato fortuna a chi lo frequentava. Ci racconti, ora che non è qui e non ci ascolta, chi è don Angelo Scola?
MASSIMO CAMISASCA:
Don Angelo Scola è un uomo che guarda avanti. E’ un uomo che guarda al futuro, secondo me, per tre ragioni: la fede di sua madre, il socialismo di suo padre e l’incontro con don Giussani. Non ha in sé neppure una goccia di sangue reazionario. E’ invece un uomo che guarda al futuro e che vuole coniugare la tradizione con la post-modernità. Questa secondo me è la sintesi di quello che ho letto di lui negli anni di Venezia: vuole dare forma nuova, vuole aiutare meglio il cristianesimo ad assumere forma nuova senza rinnegare, neppure per un istante, il suo radicamento nella tradizione, dando risposte alle attese di oggi. Quindi, un uomo proiettato in avanti. In questo senso, lo vedo nella tradizione di Carlo Borromeo, perché Carlo Borromeo è stato un grande riformatore, per nulla reazionario, come poi invece si è tentato di farlo passare, un uomo che ha avuto il coraggio di mettersi di fronte, di combattere contro la Spagna, che allora dominava Milano, un uomo che ha avuto il coraggio di mettersi contro i potenti, un uomo che ha avuto nello stesso tempo il coraggio di combattere contro tutte le deviazioni che trovava nella vita religiosa del suo tempo, un uomo che ha dato forma al cristianesimo di quel momento, un uomo che, dopo aver presieduto per breve tempo il Concilio di Trento come legato papale, soprattutto è stato colui che ha attuato il Concilio di Trento nella diocesi di Milano e, attraverso quella diocesi, si può dire, in tutto il mondo. Per dire che cosa ha fatto san Carlo: ha fatto il messale, ha fatto il breviario, ha fatto i seminari, ha fatto non poco. Io penso che Scola si ponga in questa tradizione. Non sappiamo che cosa voglia dire questo che sto dicendo e se sia vero, io lo ritengo vero, conoscendolo. E’ un uomo che guarda avanti, non è un uomo del passato.
ALDO CAZZULLO:
Che cosa cambierà, secondo te, con Angelo Scola alla curia di Milano? Tieni conto che Scola non c’è ma Tettamanzi sì, perché l’ho incrociato prima. Naturalmente non ti devi censurare in nessun modo.
MASSIMO CAMISASCA:
No, no, invece mi censuro: non so che cosa cambierà nella curia di Milano, questo lo deve dire lui, non io.
ALDO CAZZULLO:
Senti, siccome qua ci sono molti milanesi, tu sei cresciuto in riva al lago, però poi sei un milanese, fra l’altro anche Scola è nato in riva al lago, anche il Cardinale Borromeo. Non c’entra nulla ma mi racconti l’incontro tra Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi, come hai fatto l’ultima volta quando sei venuto a cena con me?
MASSIMO CAMISASCA:
Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi abitavano a 300 metri di distanza. Avevano tutte e due un grande desiderio di vedersi ma, come accade spesso a persone di quel tipo, per esempio Simenon e Gide, che si sono scritti valanghe di lettere e non si sono mai incontrati – comunque, caro Simenon, ci vediamo domani; caro Gide, ci vediamo dopodomani, ma non si sono mai visti -, anche Manzoni e Verdi avevano le loro nevrosi e quindi facevano fatica ad incontrarsi veramente. In realtà, abitavano vicino e avevano un desiderio autentico di trovarsi. Insomma, alla fine combinarono così: Verdi sarebbe venuto nella casa di Manzoni ma avrebbe incontrato la moglie. E il primo incontro avvenne con la moglie di Manzoni, che era la testimone della grandezza del marito e che lasciò a Verdi una foto del marito con una dedica in cui Manzoni aveva scritto più o meno questa parole: “Al più grande maestro dell’Italia, uno che non osa neppure firmarsi”. E non si firmò, però è chiaro che era lui perché era la sua foto. Verdi rimase molto commosso di questa cosa, scrisse delle lettere a Manzoni, che arrivavano molto in fretta, allora la posta funzionava, 500 metri, ci si metteva poco più di un giorno o meno ancora di un giorno, ma alla fine i due si incontrarono. Manzoni ricevette Verdi e Verdi scrisse poi alla moglie una lettera dicendo: “Ho incontrato un santo, io sono un anticlericale però secondo me Manzoni è più santo di tutti i santi che voi clericali mettete nelle vostre Chiese”. Così è andato, più o meno, l’incontro.
ALDO CAZZULLO:
Così capite perché – lo so, ve lo dico tutti gli anni – io ogni anno intervisto Capi di Stato, calciatori, attori. Però persone affascinanti ed interessanti come don Massimo Camisasca, non ne incontro quasi mai.
MASSIMO CAMISASCA:
Abbiamo ancora un minuto e allora lasciatemi dire…
ALDO CAZZULLO:
No, un po’ più di un minuto, dai, Camillo!
MASSIMO CAMISASCA:
Voglio dire una frase di don Giussani sull’amicizia, perché abbiamo parlato della casa, della terra ed anche degli amici, parlando dell’affettività. Ma voglio dire soltanto una frase sull’amicizia per farvi capire quanto questo tema sia nato in me da lui, dal rapporto con lui. Lui lo ha tematizzato soltanto in una fase finale della sua vita, ma lo viveva potentemente ed anche drammaticamente. E’ una frase del 1969: “Non boicottiamo questo termine, alterandolo nel suo valore autentico, non riduciamolo quindi a qualcosa di sentimentale. Essa” e qui dice una frase complessa, come erano complesse certe sue frasi per la densità, ma magari, se la annotate, capirete “è il rapporto che ti richiama alla presenza che ti è venuta dentro, è il rapporto, l’amicizia è un rapporto che costituisce un richiamo con qualcosa che sta fuori e che è accaduto nella vita. Questo richiamo” conclude Giussani parlando di sé “essenziale, totalitario, invadente, energetico, come se si fosse sprigionata tutta l’energia atomica dell’universo, questa è per me l’amicizia”.
ALDO CAZZULLO:
Io direi ancora che, tra qualche mese, il tuo prossimo libro?
MASSIMO CAMISASCA:
Ah sì!
ALDO CAZZULLO:
Uscirà invece dalla edizione Messaggero di Sant’Antonio e si intitolerà Amare ancora. Genitori e figli nell’Italia di oggi.
MASSIMO CAMISASCA:
Si, una frase soltanto, la famiglia non è un istituto del passato da difendere ma un’ opportunità del futuro da riscoprire. Questo è il senso del libro.
ALDO CAZZULLO:
Grazie, don Massimo.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie.
MUSICA
Momenti di dolore, giornate di passione,
ti scrivo cara mamma, domani c’è l’azione
e la brigata nera noi la farem morire.
Dai monti di Sarzana un dì discenderemo
allerta partigiani del Battaglion Lucetti,
il battaglion Lucetti son libertari e nulla più!
Coraggio e sempre avanti, la morte e nulla più!
Coraggio e sempre avanti, la morte e nulla più!
Bombardano i cannoni dai monti sarzanesi
allerta partigiani del Battaglion Lucetti,
più forte sarà il grido che salirà lassù!
Fedeli a Petro Gori noi scenderemo giu!
Fedeli a Petro Gori noi scenderemo giu!.
Fratelli d’Italia,
l’Italia s’è desta;
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma;
ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Noi siamo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci;
l’unione e l’amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore.
Giuriamo far libero
il suolo natio:
uniti, per Dio,
chi vincer ci può?
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Dall’Alpe a Sicilia,
dovunque è Legnano;
ogn’uom di Ferruccio
ha il core e la mano;
i bimbi d’Italia
si chiaman Balilla;
il suon d’ogni squilla
i Vespri suonò.
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Son giunchi che piegano
le spade vendute;
già l’aquila d’Austria
le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia
e il sangue Polacco
bevé col Cosacco, ma il cor le bruciò.
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò. Sì.
SPETTACOLO
«Il presidente rivolto agli accusati dice: “Avete nulla da aggiungere in vostra difesa?”.
Il generale Perotti si alza: “Se il capitano Balbis e il tenente Geuna hanno responsabilità, essi lo debbono esclusivamente all’obbedienza prestatami. Chiedo che se ne tenga conto”. Il tenente Geuna si alza e dice: “Voglio dire che quello che ho fatto l’ho fatto di mia spontanea volontà e non per istigazione del generale Perotti, e siccome io sono scapolo mentre il generale Perotti è padre di tre figli, chiedo al tribunale di voler dare al generale la pena dell’ergastolo che è stata chiesta per me, e a me la morte”. Il generale Perotti si alza e dice: “Signori ufficiali, in piedi!”. Gli ufficiali si alzano in piedi. Il generale Perotti grida: ”Viva l’Italia!”. Gli imputati rispondono: “Viva l’Italia!”. Il tribunale si ritira».
ALDO CAZZULLO:
Il libro comincia così, con una pagina tratta da un altro libro che è stato appena ripubblicato, si intitola Fiori rossi al Martinetto. Il Martinetto era il poligono di tiro di Torino, divenuto durante l’occupazione nazista il luogo delle esecuzioni. Il libro fu scritto da un cattolico, da un avvocato democristiano che si chiamava Valdo Fusi, e racconta la condanna e la cattura, prima la condanna, poi la morte e l’ergastolo dei capi del Comitato di Liberazione Militare del Piemonte, sorpresi dai nazisti mentre erano riuniti non a Mirafiori, non in una fabbrica, non in una sezione del Partito Comunista, ma nella sagrestia del Duomo, con il consenso dell’Arcivescovo. Tra di loro c’era un comunista, uno solo, un operaio, un amico di Gramsci. Si chiamava Eusebio Giamone, anche lui si alza in piedi a gridare “Viva l’Italia!” con gli altri. E gli altri sono avvocati, tant’è che alla fine gli uscieri del tribunale di Torino si stringono a loro per confortarli dopo la condanna, sfidando anch’essi i giudici di Salò, e sono militari: il tenente Geuna, l’unico di cui abbiamo visto l’immagine da vecchio, perché sarà condannato all’ergastolo e ovviamente liberato dopo il 25 Aprile. Gli altri, il capitano Balbis, il colonnello Braccini e il generale Perotti saranno fucilati. E quando il generale vede che i suoi uomini – al contrario di quanto accade a volte oggi nei tribunali in cui ci si accusa a vicenda, anche il padre con la figlia – vogliono accusare se stessi per non accusare lui, lui che non vuole essere salvato, invita tutti ad alzarsi in piedi e a gridare: “Viva l’Italia!”.
Ho scelto di cominciare il libro così perché oggi la resistenza è denigrata, sotto accusa, è considerata al più una cosa di sinistra, una cosa da comunisti, ma non è andata così. La resistenza fu fatta in primo luogo dai militari, dai 5mila fucilati di Cefalonia, dagli internati nei lager che preferiscono restare nei lager nazisti a patire la fame, le botte, la morte, piuttosto che andare a Salò a combattere altri italiani. La resistenza fu fatta dai carabinieri come Salvo D’acquisto, che si fa uccidere con un gesto nobilissimo per evitare la rappresaglia per un attentato che lui non ha commesso. La resistenza fu fatta dagli alpini come Nuto Revelli, Maggiorino Marcellin, che era un sergente degli alpini, un istruttore di sci, e quando uccideva un alpenjager, restituiva il corpo con un biglietto: “Da un alpino italiano a un alpino tedesco”. E i nazisti non facevano altrettanto con i corpi degli uomini di Marcellin, di cui facevano scempio. La resistenza fu fatta da sacerdoti come don Ferrante Bugiardi, che quando vede che stanno per fucilare 82 suoi parrocchiani, sceglie di morire con loro dicendo: “Vi accompagno io davanti al Signore”. La resistenza fu fatta dalle donne come Irma Bandiera: per strapparle i nomi dei compagni la portarono davanti alla casa dove c’erano i suoi figli e le dissero: “Se non parli non li vedrai più”. Lei non parlò e i fascisti le cavarono gli occhi. La resistenza fu fatta dai cattolici, da Teresio Olivelli, ribelle per amore, da Ignazio Vian, che è lo zio di Gian Maria Vian, Direttore de L’Osservatore Romano, e fu il primo a salire in montagna sopra Boves. Lui era un tenente dell’esercito ed era un militante della F.U.C.I., Federazione Universitaria Cattolici Italiani, era un amico di Moro e Andreotti. Arrivano le SS, occupano Boves, il parroco e l’industriale del paese cercano di mediare, vengono fucilati, i loro corpi bruciati col lanciafiamme, E Ignazio Vian porta i giovani del paese in montagna, sarà anche lui preso e impiccato a Torino a un lampione. La resistenza fu fatta da aristocratici, monarchici come il colonnello Montezemolo, Capo di Stato Maggiore di Badoglio: non fugge da Roma, resta a difendere la città, i nazisti lo prendono, lo portano a Via Tasso, gli strappano le unghie, i denti ma non un solo nome dei compagni, prima di portarlo con gli altri alle Ardeatine. La resistenza fu fatta dagli scrittori, tra cui uno che mi è particolarmente caro perché è nato nella mia cittadina, ad Alba, uno scrittore che, parlando di sé in terza persona, così motivò la scelta di non andare a Salò. Scrisse: “Salì verso le somme colline, verso il mondo ancestrale che l’avrebbe protetto nel vortice del vento nero. E mentre saliva si sentiva investito, in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo. Era inebriante una tale somma di potere, ma ancora più inebriante era la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra”. Sto parlando di Beppe Fenoglio. La resistenza quindi dovrebbe essere considerata un patrimonio dell’intera nazione e non di una fazione, neanche della fazione che se ne è impossessata nel dopoguerra. Ma il motivo per cui era giusto, non soltanto politicamente, moralmente, ma anche proprio sul piano giuridico, legittimo, avrebbe detto Fenoglio, combattere i nazisti, lo spiega al processo di Torino il capitano Balbis.
SPETTACOLO
Al poligono di tiro del Martinetto cade anche il capitano Balbis, decorato a El Alamein, che lascia scritto alla famiglia di far celebrare ogni anno una messa il 9 Novembre, anniversario della battaglia. “Per tutti i miei compagni d’arme che in terra d’Africa hanno dato la vita per la nostra indimenticabile Italia”. Il giudice di Salò che lo interroga nel processo-farsa gli rinfaccia: "Capitano, voi siete un valoroso, voi avete avuto un’alta onorificenza germanica, voi dovevate dare tutto per salvare la patria". E lui: "Io ho dato tutto per la mia patria. Ho camminato sempre sulla linea dell’onore, non ho mai dimenticato l’ideale del soldato e perciò del mio giuramento".
ALDO CAZZULLO:
Il giuramento che il capitano Balbis, come altri milioni di italiani mobilitati durante la Seconda Guerra Mondiale, aveva prestato, era un giuramento fatto al Re. Il Re era il Capo dello Stato e dell’esercito, al Re si doveva obbedienza, e quindi anche quando l’Italia era divisa in due, tra il Nord ancora occupato e il Sud già liberato, anche allora l’Italia era una sola. Eppure oggi non soltanto la resistenza, ma anche il Risorgimento, da cui tutto ebbe inizio, è denigrato, sotto accusa. Il Risorgimento è considerato una cosa da liberali, quattro gatti, ma non è così. Non è il Risorgimento a fare l’Italia, sono gli italiani a fare il Risorgimento in un Paese molto diverso da quello di oggi, diviso in sette Stati, le cui polizie perseguitano i patrioti, li mandano sulla forca, come Ciro Menotti o i martini di Belfiore, tra cui c’erano molto sacerdoti, o li mandano allo Spielberg, come Silvio Pellico. Beh, in un Paese così nasce un grande movimento politico e culturale, che infiamma scrittori come Manzoni, come Nievo, musicisti come Verdi, che fa discutere politici e pensatori del calibro di Cavour, Mazzini, Cattaneo e poi cattolici come Rosmini, come Balbo. E non è vero che non ci sia il popolo, nel Risorgimento. Nel 1848 insorgono tutte le grandi città italiane: Messina, Palermo, Napoli, Roma, le grandi città del Veneto, Brescia, Genova, Milano. E non sarebbero bastati gli sciuri, gli aristocratici, a cacciare gli austriaci da Milano. Dopo le 5 Giornate, Carlo Cattaneo, che fu uno dei capi della rivolta, andò all’obitorio per cercare di capire chi fossero i 400 milanesi caduti, chiese ai loro parenti che mestiere facessero, esaminò le loro mani e vide che erano mani callose, mani di operai, di artigiani, e vide anche il cadavere di Gennaro, lo sciancato, che chiedeva l’elemosina, che fu quello che si offrì volontario per andare ad accendere la fascina per appiccare il fuoco al Palazzo del Genio, e costringere gli austriaci alla resa. E lo stesso accadde a Venezia. A Venezia tutte le classi sociali contribuiscono a restaurare la Repubblica Veneta: gli aristocratici, i borghesi come Daniele Manin, ma anche gli operai e i contadini. Venezia aveva la più grande fabbrica del tempo, l’Arsenale, 800 operai, comandati da un croato, un uomo cattivo, Marinovich. Ogni volta che gli operai gli chiedevano un aumento dei loro magri salari, lui rispondeva: “Forse la prossima settimana”. Venezia era tenuta da una guarnigione di 9mila uomini, per metà croati e per metà contadini veneti, che non amavano i veneziani che li avevano tenuti sotto il tallone per secoli. L’Arsenale insorge, gli operai fanno prigioniero Marinovich, lui cerca di fuggire, lo pugnalano a morte, lui chiede un prete, gli operai gli rispondono: “Forse la prossima settimana”. A quel punto, la guarnigione ha l’ordine di sparare. E qui accade il prodigio: i contadini veneti rifiutano di sparare su altri italiani. E Daniele Manin non sceglie per la risorta Repubblica Veneta il Gonfalone di San Marco, sceglie il tricolore con un leoncino nell’angolo, segno che le due bandiere possono stare insieme e l’attaccamento giusto, sacrosanto, che ognuno di noi ha per il suo campanile, per la sua piccola patria, per il dialetto, per il territorio, può convivere con l’amore per la patria comune che ci comprende tutti, l’Italia. E il Sud, la Sicilia in particolare, non fu conquistata dai piemontesi, ma a ben vedere non fu neanche liberata da Garibaldi e dai suoi 1000 volontari, quasi tutti bergamaschi e bresciani, perché erano 30mila i picciotti, i volontari che si unirono a lui e molti lo seguirono nella risalita della Penisola e ovunque, anche a Napoli, Garibaldi fu accolto trionfalmente.
Garibaldi non conquistò Palermo. Entrò a Palermo con un sotterfugio mandando avanti i carri con i feriti, i mercenari borbonici inseguirono quelli e lui piombò sulla città, si acquartierò e il resto però lo fecero i palermitani che si schierarono con lui. La città fu bombardata dal mare ma alla fine i mercenari borbonici dovettero arrendersi. Poi è vero che ci fu, dopo il Risorgimento, una guerra civile al Sud, ed è vero che per troppo tempo se n’è parlato troppo poco. Però è sbagliato, ed è disonesto presentarla come una guerra del Nord contro il Sud. Le prime vittime dei cosiddetti “briganti” furono i patrioti del Sud, della Guardia Nazionale, che venivano massacrati da quella strana alleanza di briganti in senso tecnico e di nostalgici dei Borbone, festa farina e forca, non esattamente un’alleanza per il progresso. Anche in quella guerra civile c’era una parte giusta e una parte sbagliata. Poi, certo, il Risorgimento è fatto di uomini, e gli uomini commettono degli errori e a volte dei crimini. Il Risorgimento si fece contro la Chiesa. Però oggi la Chiesa ha un atteggiamento molto interessante, molto aperto sui 150 anni. Il cardinale Bagnasco più volte ha ribadito la necessità di salvare l’unità nazionale, di fare un federalismo solidale. Il cardinale Bertone è stato il primo Segretario di Stato ad andare a Porta Pia dopo 140 anni. Il cardinale Ruini ha fatto un convegno molto importante a Roma sui 150 anni. Insomma, questo Risorgimento che si fece contro la Chiesa finirà paradossalmente per essere salvato dalla Chiesa stessa, anche perché il Risorgimento oggi non è di moda, non si fanno fiction sul Risorgimento. Anche il Re che fece l’Italia, Vittorio Emanuele II, un personaggio cinematografico, romanzesco, però non ha un grande romanzo, un film importante che lo racconti. Era però un personaggio, preferiva le popolane alle nobildonne, la bagna càuda alle salse francesi. Era talmente simpatico, un po’ rozzo, che nacque la leggenda che non fosse il vero figlio del Re, che il vero figlio del Re fosse morto in culla in un incendio a Firenze e fosse stato sostituito nottetempo dal figlio di un macellaio fiorentino.
Io sono nipote di un macellaio, e quindi la leggenda mi piace, e sono sicuro che piace anche a Giorgio Guazzaloca che vedo qua in prima fila e che saluto. Però nel libro scrivo che si tratta solo di una leggenda. Non l’avessi mai fatto. Quando abbiamo fatto questo stesso spettacolo, la notte bianca del 16 marzo a Firenze, il sindaco Renzi ci ha dato il Salone dei 500 di Palazzo Vecchio, ma c’erano più di mille persone. Qualche giorno dopo mi è arrivata una lettera della famiglia dei discendenti del macellaio fiorentino che mi scrivevano: “Ma quale leggenda, noi in casa ancora si racconta della notte in cui vennero a portare via il bisnonno per portarlo alla reggia”, e quindi chissà. Resta il fatto che, se confrontate i ritratti, vedrete che Vittorio Emanuele non assomiglia per nulla a suo padre. Carlo Alberto era magro, pallido, era alto più di due metri, puliva con il cilicio una gioventù libertina, mentre Vittorio Emanuele era basso, tozzo, grassoccio. Però era capace di gesti nobili, come questa lettera che ora ascolteremo, scritta a Costantino Nigra. Siamo alla vigilia della II Guerra di Indipendenza, 1859, gli austriaci marciano su Torino, i francesi non sono ancora arrivati in sostegno, il rischio è pazzesco: se gli austriaci vincono per la terza volta in dieci anni è finita. Eppure, nell’ora fatale, sentite qual è la preoccupazione di Vittorio Emanuele II.
SPETTACOLO
Io parto domattina per la campagna con l’esercito. Procurerò di sbarrare la via di Torino. Se non ci riesco e il nemico avanza, ponete al sicuro la mia famiglia e ascoltate bene questo. Vi sono, al Museo delle Armi, quattro bandiere austriache prese dalle nostre truppe nella campagna del 1948 e là deposte da mio padre. QuestE sono il trofeo della sua gloria. Abbandonate tutto al bisogno: valori, gioie, archivi, collezioni, tutto ciò che contiene questo palazzo, ma mettete in salvo quelle bandiere. Che io le ritrovi intatte e salve come i miei figli. Ecco tutto quello che vi chiedo, il resto non conta.
ALDO CAZZULLO:
Beh parole davvero da re. Queste parole sono per noi italianI, non per i piemontesi, perché se si va a San Martino, dove fu combattuta la battaglia che decise la Seconda Guerra di Indipendenza, si vede che ci sono resti non soltanto di soldati piemontesi, valdostani, liguri, sardi, ma di volontari venuti da tutte le parti d’Italia. Bene, queste parole sono per noi italiani l’equivalente delle parole di Churchill alla Camera dei Comuni quando dice: “Non ci arrenderemo mai. Se anche i nazisti arriveranno a Londra noi continueremo a combattere. Non ci arrenderemo mai”. Vittorio Emanuele vuole dire la stessa cosa: se anche gli austriaci arriveranno a Torino, teniamo da parte le bandiere che gli abbiamo preso nel ’48 perché noi continueremo a combattere per l’indipendenza d’Italia, non ci arrenderemo mai. E anche suo padre, il Re Tentenna, come viene chiamato, beh, no, non tentennò per nulla Carlo Alberto. la notte della sconfitta di Novara, 1949, Carlo Alberto manda a chiamare i suoi figli, i suoi generali, chiede se si può ancora resistere il giorno dopo. Gli rispondono di no. Allora lui si alzò in piedi con i suoi due metri e dice: “Da questo momento io non sono più il re. Il re è Vittorio, mio figlio”. Tiene a precisare, quasi per sfatare la leggenda della sostituzione d’infanzia. E parte per l’esilio con una foga tale che devono inseguirlo a cavallo per fargli firmare l’abdicazione. Parte con un cocchiere e con un passaporto intestato al Conte di Barge. Barge è un piccolo paese del Piemonte. Gli austriaci lo fermano, Carlo Alberto si dispera perché pensa che neanche quell’ultima umiliazione gli viene risparmiata. Ma il comandante austriaco non vorrebbe umiliarlo e pensa a un trucco per lasciarlo passare. Manda a chiamare un prigioniero di guerra piemontese, un bersagliere, e gli chiede: “Riconosci quest’uomo?”. Il bersagliere risponde: “Si, certo”. Come dire, è il re! “No, attento, puoi confermarmi che si tratta del Conte di Barge?”. Il bersagliere capisce, comincia a piangere, e con le lacrime agli occhi dice: “Sì sì, lo riconosco, è lui, è il Conte di Barge”. E così Carlo Alberto può ripartire per l’esilio. Impiegherà settimane ad arrivare a Oporto, lo stesso luogo poi dove morirà Umberto II, e pochi mesi a morire.
SPETTACOLO
Sono stato a Oporto a vedere la sua stanza, il suo letto. E’ in un palazzotto a due piani, alla periferia della città. Tappeti francesi, porcellane inglesi, parquet inchiodato, una piccola cappella con un inginocchiatoio, una finestra sul fiume Duoro. La stanza in cui morì il re che tentò di fare l’Italia è quella d’angolo. Pare una via di mezzo tra una poesia di Gozzano e il mercato dei mobili usati di Porta Palazzo, fiori sotto una campana di vetro, un comodino di legno a colonne, un termos, tre sedie, due poltrone su cui sedettero gli ultimi visitatori giunti da Torino, Giacinto di Collegno e Luigi Cibrario. Il re morente assicurò di essere pronto, “se mai sorgesse una nuova guerra contro l’Austria” ad “accorrere spontaneo, anche qual semplice soldato”; perché “la Nazione può aver avuto principi migliori di me, ma niuno che l’abbia amata tanto”.
Il sacco preparato
sull’òmero mi sta;
son uomo e son soldato:
viva la libertà!
Addio, mia bella, addio:
l’armata se ne va;
se non partissi anch’io
sarebbe una viltà!
“Garibaldi ha reso all’Italia il più grande dei servizi che un uomo potesse offrirgli: egli ha dato agli italiani fiducia in loro stessi, ha provato all’Europa che gli italiani sanno battersi e morire sui campi di battaglia per riconquistarsi una patria”. Camillo Benso Conte di Cavour.
“Ho dovuto combattere contro Napoleone, il più grande condottiero; mi è riuscito di mettere d’accordo imperatori, re, uno zar, un sultano e un papa. Ma nessuno sulla faccia della terra mi ha procurato maggiori difficoltà di un manigoldo italiano, emaciato, pallido, straccione, ma facondo come l’ uragano, rovente come un apostolo, furbo come un ladro, sfacciato come un commediante, infaticabile come un innamorato. Il suo nome è Giuseppe Mazzini”. Klemens Wenzel, Principe di Metternich.
ALDO CAZZULLO:
Forse avete già sentito non molto tempo fa questa parole, insomma le parole di Roberto Benigni al Festival di Sanremo. Benigni ha impostato il suo monologo su Viva l’Italia!, cosa che mi ha fatto molto piacere perché ha moltiplicato per milioni di volte la forza delle mie parole, che poi in questo caso non sono mie. La descrizione dei due Giuseppe, di Mazzini e Garibaldi, è affidata a due loro nemici, Cavour e Metternich. Cavour ha la grandezza di riconoscere che Garibaldi ha reso agli italiani il più grande dei servigi, ha mostrato all’Europa che gli italiani sanno battersi e morire per riconquistarsi una patria. E questo è di nuovo vero ancora oggi. A lungo, dopo il disastro della Seconda Guerra Mondiale, l’esercito italiano non ha avuto il prestigio che ha adesso. A lungo l’esercito è stato considerato o una grana da evitare o una torta da spartire. Oggi il prestigio dell’esercito italiano è di nuovo molto alto nel mondo, perché i nostri soldati sono considerati i migliori nelle missioni di pace, e in patria. Perché? Perché è di nuovo vero quello che diceva Cavour parlando di Garibaldi: gli italiani sanno mostrare al mondo di sapere sacrificare anche se stessi, certo per la loro famiglia, ma anche per il bene comune e per la patria. E quindi io vorrei rivolgere un pensiero ai soldati e agli alpini italiani caduti in Afghanistan e in Medio Oriente. E poi lasciatemi salutare anche i quattro colleghi che sono stati liberati stamattina, per il sollievo di tutti. Claudio Monici, Pino Sarcina, Elisabetta Rosaspina e Domenico Quiri.
Ecco, Mazzini e Garibaldi, i due Giuseppe, sono i due personaggi davvero internazionali del nostro Risorgimento. Garibaldi era forse l’uomo più famoso del mondo: ovunque ci fosse un popolo oppresso, dall’America latina alla Polonia, alla Spagna, all’Ungheria, i patrioti scandivano il nome di Garibaldi nei cortei, c’erano i suoi ritratti nelle case. I due non si amavano, uno era un uomo d’azione, l’altro era un politico, però seppero trovare una certa unità d’intenti durante la Repubblica Romana quando per la prima volta, in Italia, si vota a suffragio universale e si elegge una Assemblea Costituente che sotto le bombe francesi scrive una carta così avanzata che interi passi della Costituzione della Repubblica Romana, del 1849, saranno ripresi tali e quali, cent’anni dopo, nella Costituzione della Repubblica Italiana. A Roma, per la prima volta nell’Europa liberale, si teorizza che la libertà, da sola, è appena un fiato di voce se non c’è il progresso sociale, il pane per i contadini, il salario per gli operai e la scuola per i loro figli. Sbarcano i francesi, comandati dal generale Oudinot, e gli ambasciatori della repubblica lo avvertono: ci batteremo. E il generale rispose ridendo: “Les italiens ne se battent pas”. Beh, si batterono talmente bene, i patrioti romani e quelli venuti da tutte le parti di Italia, in particolare dalla Lombardia, dal Veneto, dalle Romagne a difendere Roma, che il primo giorno sotto San Pancrazio i francesi persero 500 uomini tra morti e feriti e dovettero far arrivare di corsa rinforzi da Tolone. Sotto le mura di Roma combatterono non soltanto gli uomini ma anche le donne, perché le donne, nel Risorgimento, non sono soltanto la compagna dell’eroe, Anita Garibaldi, o la femme fatale, la contessa di Castiglione, o la mater dolorosa, Adelaide Cairoli, cinque figli, quattro muoiono con Garibaldi e il superstite, Benedetto Cairoli, diventa Presidente del Consiglio. La donna nel Risorgimento è anche leader politico. La Principessa di Belgioioso è uno dei capi delle 5 Giornate e poi della Repubblica Romana. Oppure, la donna è combattente come Colomba Antonietti di cui ora Marianna Dal Collo ci leggerà la storia.
SPETTACOLO
MARIANNA DAL COLLO:
Tra i difensori della repubblica romana, c’è Colomba Antonietti, trasteverina di origine umbra, 20 anni. Suo marito, il conte Luigi Porzi, è stato diseredato e anche incarcerato per avere infranto le leggi del tempo e sposato una popolana. E lei viene ferita a morte a Porta San Pancrazio, mentre combatte vestita da uomo, accanto al suo amore. Si racconta la morte di Colomba Antonietti come quella di una martire: ella giunse le mani, volse gli occhi al cielo e morì gridando: ”Viva l’Italia”. Il marito vivrà ancora a lungo ma non si risposerà più.
PAOLO VALERIO:
Emilio Dandolo vede morire Luciano Manara, è lui a darne notizia alla moglie
MICHELE GHIONNA:
Una palla colpì il povero Luciano alla bocca dello stomaco e gli uscì dalla schiena. Fece tre passi e io accorsi e lo presi in braccio: “Ho pochi momenti da vivere” mi disse “ti raccomando i miei figli”. E mi diede un bacio.
PAOLO VALERIO:
L’aristocratico lombardo si è battuto senza speranza, sino all’ultimo, fedele a quanto un mese prima aveva confidato a un amico:
MICHELE GHIONNA:
“Noi dobbiamo morire per chiudere con serietà il ’48, affinché il nostro esempio sia efficace dobbiamo morire”.
PAOLO VALERIO:
Resta Garibaldi, il Parlamento della Repubblica lo convoca in Campidoglio, per chiedergli consiglio: “Arrendersi, combattere casa per casa o lasciare Roma per portare la guerra in Romagna, contro gli austriaci, come propone Mazzini?”. Il generale arriva direttamente dal campo di battaglia, un testimone ci ha lasciato un ritratto di potenza straordinaria.
MICHELE GHIONNA:
Madido di sudore, intriso di sangue, coperto di polvere, il volto avvampato. Tutti si alzarono in piedi acclamandolo. Dalle tribune risuonavano dei…
PAOLO VALERIO:
“Bravo!”
MARIANNA DAL COLLO:
“Bravo!”.
ALDO CAZZULLO:
Poi Roma cade. Garibaldi tenta di soccorrere Venezia, che ancora resiste. Muore, nella pineta di Ravenna, Anita. E Garibaldi riparte per l’esilio, prima a Caprera e poi in America.
A New York Garibaldi lavorava come operaio, nella fabbrica di un altro grande italiano, Antonio Meucci, il padre del telefono, che aveva una fabbrica di candele. E un giorno, stanco di far lucignoli, Garibaldi se ne andò al porto di New York a cercare, lui marinaio, un imbarco su una nave, una nave qualsiasi che lo portasse lontano da lì. I marinai giovani e forti neanche gli diedero risposta. E siccome stava nevicando, faceva freddo, Garibaldi chiese di poter dare una mano a scaricare una nave, così, gratis, solo per scaldarsi, e lo mandarono via. Bene, quell’uomo ridotto a rudere, seppe, pochi anni dopo, liberare il Sud e delle immense ricchezze di quel regno, sentite, cosa portò via con sé, a Caprera, di nuovo in esilio?
SPETTACOLO
Il 6 Novembre 1860, dopo aver liberato la Sicilia e il Sud dai Borboni e averli consegnati a Vittorio Emanuele, Garibaldi passò in rassegna le sue truppe davanti alla Reggia di Caserta. Il Re aveva promesso di venire, ma non si fece vedere. Il giorno dopo il generale lo accompagnò nell’ingresso a Napoli, poi partì per Caprera. Rifiutò tutte le offerte, il Collare dell’Annunziata, massima onorificenze dei Savoia, un titolo nobiliare, un castello, la nomina a generale di armata, una nave, i privilegi per i figli, una tenuta per Menotti, una dote per Teresita, la nomina di Ricciotti ad aiutante di campo di Vittorio Emanuele. Delle immense ricchezze del regno che aveva conquistato, non portò a Caprera i quadri di Caravaggio, i gioielli della corona, l’oro dei Borboni, ma qualche centinaio di lire racimolate a sua insaputa da un luogotenente, alcuni pacchi di caffè e zucchero, un sacco di fave di cui era ghiotto, un sacco di sementi e uno scatolone di merluzzo secco.
VIDEO
Quasi la metà di questi soldati era in fanteria, seguivano poi con 200mila unità gli alpini con la loro mantella e il cappello con la piuma, il genio che costruiva ponti e scavava trincee e gallerie e i bersaglieri, qui li vediamo sfilare in bicicletta. La cavalleria, i carabinieri e i granatieri avevano contingenti minori, quasi 100mila addetti si dedicarono alla sanità e 40mila alla sussistenza e tra di esse vi furono molte donne crocerossine. Tra i soldati che combatterono nel primo conflitto mondiale, ci fu anche il grande poeta Giuseppe Ungaretti, arruolato in fanteria e inviato prima nel Carso poi sul fronte francese. All’esperienza della guerra, Ungaretti dedicò molte dolenti poesie come San Martino del Carso:
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto.
Ma nel cuore
nessuna croce manca.
E’ il mio cuore
il paese più straziato
ATTORE:
Di che reggimento siete,
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante,
involontaria rivolta
dell’ uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.
Sono un poeta
un grido unanime
sono un grumo di sogni
Sono un frutto
d’innumerevoli contrasti d’innesti
maturato in una serra
Ma il tuo popolo è portato
dalla stessa terra
che mi porta
Italia
E in questa uniforme
di tuo soldato
mi riposo
come fosse la culla
di mio padre.
Giuseppe Ungaretti
MARIANNA DAL COLLO:
Guarda la sua mascella che tien fermo,
guarda severità della sua bocca
onde il comando ed il castigo scocca,
e il lampo a cui la pàlpebra fa schermo
gravata sopra il chiaro occhio che scaglia
l’anima al segno e il tratto non misura.
Sempre in tutt’arme egli è senza armatura.
Tutta nel pugno nudo ha la battaglia.
Gabriele D’Annunzio
ATTORE:
Caro amico, se muoio, l’annuncio dovrà essere più semplice possibile, da evitare assolutamente queste parole: patria, onore, fervida gioventù, fiore di giovinezza, odiato nemico, orgoglioso e commosso, ecc. Basterà: è caduto in combattimento. Carlo Emilio Gadda
ALDO CAZZULLO:
E siamo arrivati alla grande guerra. La memoria della grande guerra è oggi spenta. Nel libro racconto l’intervista che feci all’ultimo fante, Carlo Relli, morto a 109 anni. La memoria oggi può rivivere nei racconti che noi possiamo fare ai nostri figli, ai nostri nipoti. Ed è una memoria spesso triste, 600mila morti, mutilati, una guerra che era meglio non fare. Però la grande guerra è la prima prova dell’Italia unita, il crogiolo con cui per la prima volta si fondono gli italiani del Nord, del Sud, laureati e analfabeti, gente di città e gente di campagna. E quella prova terribile l’Italia la superò. Poteva essere spazzata via. Dimostrò di essere un fatto compiuto, non più un nome geografico ma una nazione. Io nel libro cerco di raccontare la grande guerra attraverso le parole dei poeti che l’hanno fatta e l’hanno narrata. Quella un po’ ridondante di D’Annunzio, che dedicava questi versi, sul Corriere della sera, a Luigi Cadorna, il figlio di Raffaele Cadorna che prese Roma e il padre di Raffaele Cadorna, comandante dei Volontari di libertà nella resistenza. Luigi Cadorna era nato a Verbania in riva al lago, anche lui. E in un’altra poesia, D’Annunzio scrive:
Questi, che vedi curvo su le carte,
nel più duro granito del Verbano
tagliato e scarpellato fu, di mano
di maestro; e il vigor soverchiò l’arte.
Cadorna, cui non mancava l’autoironia, commentò: ”Ecco un modo elegante per dire che sono brutto”. No, io amo di più il modo in cui fanno e raccontano la guerra Gadda e Ungaretti. Pensate, i due grandi innovatori della letteratura italiana, uno nella poesia e l’altro nella prosa, si ritrovano a distanza di pochi chilometri l’uno dall’altro sull’Isonzo, entrambi volontari, entrambi fanno il corso ufficiali, Ungaretti però non lo superò, fu giudicato inadatto al comando. E lui, già trentenne, già uomo maturo, come avete visto, farà tutta la guerra come soldato semplice, accanto ai diciannovenni che facevano a gara a portargli lo zaino o il fucile. Ungaretti amava l’Italia, ma non c’era mai stato perché era nato ad Alessandria d’Egitto, poi era andato a Parigi. Ed è soltanto con l’uniforme addosso che lui, in qualche modo, si scopre italiano. Scrive quell’altra bellissima poesia, I Fiumi, in cui enumera i fiumi della sua vita: il Serchio, sulle cui rive sono nati i suoi antenati, ma non l’ha mai visto, il Nilo sulle cui sponde lui è nato, la Senna dove si è riconosciuto come poeta e l’Isonzo in cui si riconosce come italiano. Carlo Emilio Gadda invece superò il corso ufficiali, ebbe il comando di un reparto che fu fatto prigioniero a Caporetto e per ogni notte, dei lunghi mesi che passò in prigionia, Gadda sognò i suoi amici, quegli stessi amici cui aveva detto: “se muoio non scrivete onore, gloria, ma scrivete soltanto: è caduto in combattimento”. Sognò gli amici che gli chiedevano conto, che gli dicevano: ”ma hai lasciato passare gli austriaci”. E ancora nel 1959, quando Gadda era ormai il più importante scrittore italiano, andò a vedere la prima di un bellissimo film, La grande guerra. Un film di cui una volta Mario Monicelli mi ha raccontato che, secondo lui, Gassman è dominato da Sordi. Gassman è il grande attore che si cala nella parte del milanese un po’ bauscia, mentre Sordi non fa il romano un po’ indolente, lui è il romano un po’ indolente che però nel momento drammatico (noi italiani molto spesso diamo il meglio di noi nei momenti drammatici), davanti alla scelta tra tradire e morire, sia Gassman sia Sordi non hanno esitazione a scegliere il plotone di esecuzione, piuttosto che consegnare i piani italiani ai nemici. Quindi, La grande guerra non è un film antiitaliano, semmai un film arciitaliano. Eppure, quel film a Gadda non piacque, se ne andò sdegnato dicendo che il pubblico aveva riso, mentre il pubblico francese o tedesco non avrebbe mai riso, e poi la guerra non era così, era una cosa seria e noi ci credevamo davvero. E ci credevano a maggior ragione quei 2000 volontari partiti da Trento e Trieste, erano cittadini austriaci, erano italiani di cuore e di lingua ma erano sudditi dell’imperatore, e l’imperatore mandava i suoi sudditi italiani a combattere in Galizia contro i Russi o i Serbi (la Galizia è la terra di Papa Wojtyla). 2000 di loro disertarono e andarono a combattere con gli italiani contro gli austriaci, andando incontro a morte quasi certa: se anche sopravvivevano agli assalti, non venivano fatti prigionieri, venivano impiccati come Cesare Battisti. Uno di loro, un ebreo triestino, Antonio Bargamas, ha scritto una lettera che ora Michele Ghionna ci leggerà, che io considero la pagina più bella del libro. E’ una lettera alla madre, in cui Antonio Bargamas spiega perché va a morire. Il libro è pieno di gente che sarebbe volentieri rimasta a casa sua, ma arriva un momento nella vita, nella storia. in cui bisogna scegliere da che parte stare. E Antonio Bargamas scrive: ”Mamma io non volevo morire”. Ma se proprio doveva farlo, non voleva morire in Galizia o in Serbia ma “per la nostra Patria, l’Italia, sul nostro Carso con il tuo nome sulle labbra”. Cadrà davvero sul Carso, Antonio Bargamas, e sua madre, a guerra finita, sarà incaricata di scegliere il milite ignoto, che riposa ora a Roma all’Altare della Patria. La portarono nel duomo di Aquileia, davanti a 11 bare di 11 soldati sconosciuti come suo figlio: si tolse lo scialle nero, lo posò sulla seconda bara e a quel punto il cerimoniale le disse: ”Prego, signora, può uscire”. Ma lei volle passare in rassegna anche gli altri ragazzi, per chiedere scusa di non avere scelto loro. Arrivata davanti alla decima bara, cadde a terra sopraffatta dall’emozione, poi si riprese. Visse ancora una vita lunga, fece in tempo a votare, quando le donne, troppo tardi, per la prima volta votarono nel ’46, morì nel ’54. E oggi Maria Bargamas riposa nel cimitero di guerra di Aquileia, accanto agli altri 11 militi ignoti. E questa è la lettera che suo figlio Antonio le scrisse prima di morire.
MICHELE GHIONNA:
Domani partirò, per chissà dove, quasi certo di andare alla morte, quando tu riceverai questa mia, io non sarò più. Forse tu non comprenderai questo, non potrai capire come non essendo io costretto sia andato a morire sui cAmpi di battaglia. Perdonami dell’immenso dolore che io ti reco e di quello che io reco al padre mio e a mia sorella. Ma credilo, mi riesce mille volte più dolce morire in faccia al mio paese natale, al mare nostro, per la patria mia naturale che morire laggiù nei mari ghiacciati della Galizia o in quelli sassosi della Serbia, per una patria che non era la mia e che io odiavo. Addio mia mamma amata, addio mia sorella cara, addio padre mio. Se muoio, muoio con i vostri nomi amatissimi sulle labbra, davanti al nostro Carso selvaggio.
VIDEO
È alla fine del 1943 che si moltiplicano i gruppi di partigiani e di resistenti che sulle montagne o nelle città sabotano con azioni di guerriglia, rappresaglie e scioperi, il dominio nazi-fascista sull’Italia centro-settentrionale. Sorgono così le brigate Garibaldi, a maggioranza comunista, quelle di Giustizia e Libertà, collegate al Partito d’Azione, le brigate costituite in maggioranza da militari datisi alla macchia dopo l’8 settembre, le brigate autonome, come per esempio la Osoppo, in Friuli e la Di Dio in Val d’Ossola, le Fiamme verdi, di ispirazione cattolica e altre ancora. I partigiani godono generalmente dell’appoggio della popolazione, meno facili sono i rapporti tra loro, anche se con il tempo il coordinamento aumenta grazie all’azione dei Comitati Nazionali di Liberazione, appositamente costituiti. Anche le donne si danno alla macchia segnando una pagina importante della la storia del movimento di liberazione nazionale. Le donne sono anche le prime a sapere che il fascismo è l’opposto della democrazia, e quindi lo combattono.
MARIANNA DAL COLLO:
Prima della fucilazione, Cleonice Tomasetti si rivolse ai compagni: “Su, coraggio ragazzi. È giunto il plotone d’esecuzione. Niente paura: ricordatevi che è meglio morire da italiani che vivere da spie, da servitori dei tedeschi”. Un milite fascista traduce la frase ad un soldato, che la prende a schiaffi e a sputi. Altri militi però fremono di rabbia alla vista delle umiliazioni inflitte a uomini e donne che sono pure sempre compatrioti. “Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo: esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi dico che è opera vana: quello non lo domerete mai. Ragazzi, viva l’Italia! Viva la libertà per tutti!”
ATTORE:
A Castelnuovo dei Sabbioni nella diocesi di Fiesole, il 4 luglio 1944, i tedeschi radunano 82 ostaggi nella piazza del paese. Il parroco, don Ferrante Bagiardi, ne chiede la liberazione. Di fronte al rifiuto dell’ufficiale nazista, si unisce a loro e impartisce l’assoluzione e l’eucarestia. “Per rassicurare i parrocchiani, li accompagno io davanti al Signore”. Muoiono tutti e 83. Nella stessa diocesi, nello stesso modo, muore don Giovanni Fondelli, parroco di Meleto.
ATTORE:
Don Pasquino Borghi, figlio di contadini, parroco emiliano, nascose i partigiani nella canonica. Arrestato, percosso, torturato, fucilato nella notte tra il 29 e il 30 gennaio 1944 a Scandiano, sopra Reggio.
MARIANNA DAL COLLO:
Don Giuseppe Morosini, cappellano militare del quarto reggimento di artiglieria in Croazia, trasferito a Roma dove si occupa dei ragazzi sfollati. Assistente spirituale della resistenza romana, vicino a Fulvio Moscone, tenente dell’esercito e capo della banda Fulvia, segnalato da un delatore, arrestato dalla Gestapo il 4 gennaio 1944, nel collegio Leoniano a Prati, detenuto in Regina Coeli, nella cella 382, torturato, condannato a morte, fucilato il 3 aprile 1944. Su dodici militari del plotone d’esecuzione, dieci sparano in aria. Ferito dai colpi degli altri due, don Morosini viene ucciso dall’ufficiale fascista che comanda l’esecuzione con due colpi alla nuca. Un altro prigioniero ha scritto di lui:
ATTORE:
“Detenuto a Regina Coeli, sotto i tedeschi, incontrai un mattino don Giuseppe Morosini. Usciva da un interrogatorio delle SS: il volto tumefatto grondava sangue come Cristo dopo la flagellazione. Con le lacrime agli occhi gli espressi la mia solidarietà. Egli si sforzò di sorridermi e le labbra gli sanguinarono. Nei suoi occhi brillava una luce viva, la luce della sua fede. Benedisse il plotone d’esecuzione dicendo ad alta voce: «Dio perdona loro. Non sanno quello che fanno. Come Cristo sul Golgota». Il ricordo di questo nobilissimo martire, vive e vivrà sempre nell’animo mio”.
MARIANNA DAL COLLO:
Il prigioniero era Sandro Pertini.
ATTORE:
Per 58 giorni il colonnello Montezemolo subisce continui interrogatori e torture. I nazisti gli strappano le unghie, gli cavano i denti: non avranno nessun nome, nessuna notizia. Armellini propone a Badoglio di scambiarlo con qualche prigioniero tedesco di pari importanza, ma la sua richiesta cadrà nel vuoto. I nazisti sanno di avere in mano un elemento di primo piano, ma quando capiscono che non ne otterranno nulla, lo portano con gli altri, alle Ardeatine.
MARIANNA DAL COLLO:
Duccio Galimberti, avvocato antifascista di Cuneo, in guerra diventa uno dei riferimenti dei partigiani del basso Piemonte. Viene arrestato il 28 novembre 1944, in una base della resistenza nascosta in una panetteria. I tentativi di scambio con i prigionieri tedeschi non riescono. Galimberti è una preda importante, per nessun motivo può essere liberato. Ridotto in fin di vita dalle sevizie continua a tacere. Il mattino del 4 dicembre viene caricato su un camioncino e portato fuori città, dove è giustiziato con una raffica di mitra alla schiena. Ha scritto Giorgio Bocca: “Duccio viene catturato a Torino, i fascisti se lo fanno consegnare, lo torturano e lo uccidono simulando una sua fuga. Un ragazzo che passa per il campo vicino a Centallo sente il comandante gridare: «Sparate su quel bastardo!». Lo lasciano lì per due giorni in un fosso.
ATTORE:
C’è un rastrellamento tedesco, l’operazione Piave. I partigiani e molti civili fuggono. Il comandante nazista, il vicebrigadiere delle SS, Herbert Andorfer, prepara una trappola. Fa affiggere dei manifesti sui muri di Bassano e dei paesi vicini: “Chi si presenterà avrà salva la vita e lavorerà per l’organizzazione Todt, civili al servizio dei militari, o entrerà nella Flac, la contraerea”. Ignare, le persone influenti della zona, sindaci, maestri, sacerdoti, gli stessi genitori, invitano i giovani a presentarsi. Il 26 settembre 1944 gli abitanti di Bassano compresi i bambini che giocano sul viale vedono arrivare i camion e scendere i loro fratelli maggiori con le mani legate dietro la schiena. Nel silenzio interrotto solo dagli ordini secchi in tedesco, i ragazzi vengono appesi agli alberi. Il viale è molto lungo, ma poiché gli alberi
non bastano, alla fine i renitenti alla leva nazifascista penderanno dagli alberi di altre due vie della città. I cappi sono cavi del telefono. A infilare dentro le teste dei loro coetanei, sono giovani fascisti di 18, 17 e anche 16 anni, inquadrati nei reparti della contraerea. I cappi sono legati da una lunga fune al camion. Il boia, Karl Franz Taush, coordina l’esecuzione: spiega come e quanto stringere i lacci. Ordina al camion di accelerare, il cappio si stringe al collo dei primi 31 condannati. I giovani fascisti sono incaricati di tirare le gambe di coloro che respirano ancora. È quasi mezzanotte. Tra gli impiccati c’è un malato di mente che grida disperato, c’è il maestro elementare di Mirandola, c’è un ragazzo di 17 anni, Cesare, che si trovava sul Grappa per curarsi una malattia ai polmoni, un altro, Giovanbattista, che ha appena compiuto 16 anni, suo fratello Giuseppe, diciottenne, è stato fucilato due giorni prima. Un quindicenne viene giustiziato nella caserma Reatto con altri prigionieri, nel plotone d’esecuzione ci sono ragazzi della sua età o anche più giovani. Alla fine i carnefici vanno al Caffè Centrale e all’Hotel Al Cardellino a brindare e festeggiare: nessuno di loro, neppure Tausch, sarà mai processato. Tra il 20 e il 28 settembre, l’operazione Piave porta alla morte di 264 partigiani o renitenti alla leva. Solo trenta sono caduti in combattimento. Gli altri sono appesi agli alberi di Bassano o sepolti in fosse comuni. Quasi tutti i prigionieri si erano presentati spontaneamente per lo strazio dei padri e delle madri, che ora ottengono di recuperare almeno il corpo dei figli: alcuni non saranno mai ritrovati.
ALDO CAZZULLO:
A volte mi chiedo se i ragazzi di 20 anni hanno mai sentito questi nomi: Ignazio Vian, don Ferrante Bagiardi, don Morosini, don Pappagallo, Irma Bandiera, colonnello Montezemolo.
Mi chiedo se i ragazzi di 20 sanno cosa è successo alle Ardeatine, a Sant’Anna di Stazzema, a Bove, a Marzabotto. Temo che i ragazzi di 20 anni siano cresciuti con nelle orecchie il ritornello che i partigiani erano tutti criminali sanguinari e i ragazzi di Salò erano tutti bravi ragazzi. Io ho scritto il libro anche per ricordare che non è andata così. Che quelli che oggi si usa chiamare i vinti, sono vinti dopo il 25 aprile ma prima hanno il coltello dalla parte del manico e lo usano. Salò dalla sua ha la Wermacht, le SS, la formidabile macchina bellica nazista, mentre i vincitori venivano braccati, torturati, fucilati senza processo, appesi, esposti come monito per terrorizzare la popolazione civile.
È vero che poi la resistenza ha avuto le sue pagine nere ed è vero che per troppo tempo se n’è parlato troppo poco. Il Teatro Stabile di Verona, che ha prodotto questo spettacolo, ha prodotto anche uno spettacolo sulle foibe, così come è giusto parlare del ‘triangolo della morte’, delle vendette partigiane. Si parla nella prefazione di questo libro di un’altra di queste pagine nere. Sul confine orientale, le brigate autonome scelsero di chiamarsi ‘brigate Osoppo’ perché Osoppo era la città che più a lungo aveva resistito agli Austriaci nel 1848, per oltre sei mesi. Ed erano partigiani delle brigate Osoppo quelli che furono assassinati da altri partigiani comunisti a Porzus. Tra di loro c’era Guido Pasolini, il fratello di Pierpaolo Pasolini, e c’era Francesco De Gregori, lo zio, il fratello del padre del cantautore che ne porta il nome e che ha scritto una canzone bellissima, che ora ascolteremo, Il Cuoco di Salò, una canzone piena di pietà per tutte le vittime, perché le vittime vanno rispettate tutte e dobbiamo sempre ricordare che anche dall’altra parte c’erano ragazzi che magari sparavano in aria per non ferire don Morosini, che morivano gridando “Viva l’Italia!” e che erano convinti, in buona fede, di servire la patria. Ma in quella canzone il dolore famigliare non fa velo a De Gregori e non gli impedisce di ricordare che nella guerra civile c’era una parte giusta e una parte sbagliata.
ALDO CAZZULLO:
A volte mi chiedo anche cosa direbbero i personaggi che hanno fatto l’Italia dell’Italia di oggi. Cosa direbbe Garibaldi che parte per l’esilio non con l’Oro dei Borboni, con i gioielli della Corona ma con lo scatolone di merluzzo secco. Io ho un giudizio molto critico dell’Italia di oggi però sono anche molto ottimista sull’Italia di domani. Perché? Perché ovunque vado per il mio mestiere, non so, in America per le elezioni di Obama, in Cina per le Olimpiadi, in Sudafrica per i Mondiali di Calcio, ovunque dico che sono italiano – sarà successo anche a voi – sempre mi sorridono. E questo lo dobbiamo non soltanto al grande lavoro fatto nei secoli dai nostri emigrati, dai nostri missionari, ma anche al fatto che l’Italia piace, c’è una grande domanda di Italia nel mondo globale. Un mondo che diventa sempre più uniforme, sempre più uguale a se stesso, guarda con ammirazione a un Paese come il nostro che cambia accento, prodotti, paesaggio a ogni crinale di collina. Questo mondo globale che ci fa tanta paura può essere anche una grande opportunità perché è pieno, non soltanto in America, in Giappone dove già ci conoscono, in Germania, ma anche in India, in Cina, in Brasile, nel mondo di domani, di gente che vorrebbe vestirsi come noi, comprare i nostri prodotti, bere i nostri vini, acquistare i nostri cibi, adottare il nostro stile di vita e magari venire in Italia. E se noi siamo consapevoli di noi stessi, nessun traguardo ci può essere negato. E io sono convinto che oggi gli italiani siano più uniti di qualche mese fa, anche perché siamo più legati all’Italia di quanto amiamo riconoscere. Prendiamo i simboli, il tricolore: fino a qualche anno fa era considerato un simbolo di parte, quasi di estrema destra, oggi è un simbolo in cui la grande maggioranza degli italiani si riconosce. L’Inno di Mameli, beh, fino a qualche anno fa non era considerato così importante – se andate a vedere la partita di calcio più famosa di tutti i tempi, Italia-Germania 4 a 3, vedrete che all’inizio i calciatori non cantano l’inno e il telecronista non sta zitto, continua a dare le formazioni. E non è certo colpa di Gigi Riva, tra l’altro amico di infanzia di don Massimo, e neanche ovviamente di Nando Martellini: era lo spirito del tempo, l’inno non era considerato importante, adesso lo è. Infatti, prima ci siamo alzati tutti quanti in piedi a cantarlo, spontaneamente. E forse, ancora qualche anno fa, non era così normale che una platea di cattolici cantasse l’inno scritto da un eroe risorgimentale come Mameli. Bene, vedete, io credo che ancora oggi abbiamo molti motivi di essere orgogliosi di essere italiani. Penso ai piccoli imprenditori che mantengono vive le imprese in un momento di crisi e impoveriscono il loro patrimonio personale pur di non mandare a casa la gente, penso agli operai che guadagnano meno di ieri e lavorano di più, penso agli insegnanti che continuano a fare il loro dovere. Ancora oggi abbiamo molti motivi per gridare: “Viva l’Italia!”.
Io ho concluso, non mi resta che ringraziare le persone che hanno reso possibile questo nostro incontro, a cominciare ovviamente dagli organizzatori del Meeting, ringrazio le persone care e tutti quanti voi. Ringrazio in particolare le persone che sono con me sul palco, il Direttore del Teatro Stabile di Verona che ha inventato tutto questo, un uomo che crede nel teatro civile, grazie a Paolo Valerio, a un’attrice meravigliosa che di solito recita film, fiction, che al teatro è stata Giulietta, Desdemona, Ofelia, e oggi è stata per noi Cleonice Tomasetti e Colomba Antonietti: grazie a Marianna Dal Collo. Ogni teatro ha bisogno di un grande attore, di un grande organizzatore e anche di un bel ragazzo, che fa sempre la sua figura: noi abbiamo queste tre figure nell’unica persona di Michele Ghionna.
Ma non avremmo apprezzato allo stesso modo le loro parole senza la musica del maestro Michele Fontana. E grazie ai nostri tecnici: Marco Spagnolli e Nicola Fasoli. Non è finita, però, io ho finito. Adesso Michele Ghionna, Marianna Dal Collo e Paolo Valerio leggeranno l’ultima pagina del libro, quella in cui si parla dei grandi quadri – come dicevo prima – dipinti da italiani, che oggi sono al Louvre, al Prado, e sono tutti quadri di argomento religioso. Quando abbiamo fatto la prima di questo spettacolo a Verona, l’unica grande città italiana a guida leghista, beh, alla fine, davanti al Battesimo di Gesù di Piero della Francesca, al Cristo alla Colonna di Antonello da Messina, e agli altri quadri – per cui, mi scuso, dovete aguzzare la vista perché lo schermo è più piccolo del solito, ma sono sicuro che faranno lo stesso effetto -anche i leghisti veronesi avevano le lacrime agli occhi dall’orgoglio e dalla commozione. Perché l’Italia è molto più antica di 150 anni, nasce dalla bellezza di Dante e Petrarca, dalla poesia e dalla bellezza degli artisti rinascimentali. E dobbiamo sempre ricordare che l’Italia è una cosa seria, anche quando non lo sembra, e che sono esistite generazioni di uomini e di donne, tantissime donne, per cui l’Italia era un ideale che valeva la vita e per cui le ultime parole furono: “Viva l’Italia!”. Grazie.
(Trascrizione non rivista dai relatori)