Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA
CHI SEI TU CHE MI GUARDI. Padre, madre, figli
Presentazione del libro di Vittoria Maioli Sanese, Psicologa della coppia e della famiglia (Ed. Marietti 1820). Partecipano: l’Autrice; Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.
A seguire:
UN MODERNO DESIDERIO DI DIO. Ragioni del credere in Italia
Presentazione del libro di Salvatore Abbruzzese, Docente di Sociologia della Religione all’Università degli Studi di Trento (Ed. Rubbettino). Partecipano: l’Autore; Carmine Di Martino, Docente di Gnoseologia all’Università degli Studi di Milano.
Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
CAMILLO FORNASIERI:
Cominciamo questo momento di presentazione dei due libri che il Meeting intende sottoporre all’attenzione di tutti noi. Il primo, la prima proposta: Chi sei tu che mi guardi? Padre, madre, figli, edizione Marietti. Abbiamo con noi l’autrice, Vittoria Maioli Sanese che salutiamo. Il nostro presidente Emilia Guarnieri, salutiamo anche lei che siamo contenti di sentire, come già anche altre volte e altrove anche in veste di madre, di donna, di persona di grande sensibilità. Emilia Guarnieri condurrà il dialogo e il filo di questa presentazione.
Io vorrei solo dire che gli attesi libri che corrispondono all’infaticabile attività di Vittoria Sanese nel campo del dialogo con persone, coppie e gruppi relativamente al tema della famiglia, dell’affezione, sono un lavoro importante. Ho saputo poco fa che ha varcato le soglie, le colonne d’ercole dell’Italia. C’è un’edizione spagnola del suo primo volume. E questo tema, chi sei tu che mi guardi, certamente va al fondo di quel tema dell’alterità che anche il titolo del Meeting prefigura. Uno sguardo ci definisce tutti in qualche modo. Immaginiamo se uno entrasse in una scena e nessuno lo guardasse, passasse indifferente e uscisse poi di scena. Ecco, questo sarebbe il massimo della tragedia, ma la questione è un po’ più profonda, perché si può essere guardati senza chiedersi chi sei tu. Perché ognuno di noi è figlio di uno sguardo. Questo passaggio chi sei tu, credo che sia un po’ l’inizio e la chiave di sviluppo di tutto il lavoro di questo libro.
EMILIA GUARNIERI:
Io sono qui perché sicuramente il libro che presentiamo oggi è un libro al quale come Meeting teniamo tanto. Li abbiamo presentati tutti i libri di Vittoria, ma sono qui anche e soprattutto per la grande amicizia e la grande gratitudine che mi lega al rapporto con Vittoria. Quindi sono molto contenta di essere qui e di essere qui con lei e con voi a parlare di questo libro. Vittoria Maioli Sanese, penso nota soprattutto ai suoi lettori, psicologa, terapeuta della coppia. Ha fondato e dirige tuttora il Consultorio per la Coppia e la Famiglia di Rimini, è nota anche fuori Rimini per il suo lavoro di terapeuta, ma anche di consulente e di supervisore di gruppi di educatori e insegnanti sia a Rimini, sia fuori.
Sono tante le realtà sia personali, famigliari sia anche educative, sociali che credo in questi hanno l’abbiano conosciuta, quindi penso che anche l’uscita di questo libro possa essere un’occasione perché tutti questi rapporti che sono iniziati possano trovare un ulteriore strumento e contributo ad andare avanti e crescere. Dicevo, questo è il quarto dei libri che Marietti pubblica di Vittoria e i libri sono ovviamente sul grande tema: padre, madre, coppia, figli, famiglia con varie angolature. Quello che a me ha colpito del percorso di questi quattro libri e in modo particolare di questo, è che sono state tutta una serie di tappe come di approfondimento, di approfondimento io credo proprio nello sguardo che Vittoria ha rivolto e rivolge all’oggetto che è la realtà personale di uomo, donna e figli. E’ come veramente una possibilità di essere andati, io credo che per chi ha seguito questo percorso editoriale questo sia stato evidente, di essere andati sempre più a fondo dell’oggetto da conoscere. Perché come sempre il problema della vita non è aggiungere dei contenuti, il problema della vita, il problema della conoscenza della vita è quello di andare sempre più a fondo nella conoscenza del grande oggetto, che è la realtà. Ecco, io leggendo questo quarto libro ho avuto proprio questa percezione, di uno sguardo che si sia sempre più approfondito. Io farò tre domande, io ho già finito non pensiate che parli io per carità, io farò tre domande a Vittoria. La prima appunto, muove proprio da questo tema dello sguardo. C’è un epilogo nel libro dove Vittoria torna su questo tema del guardare, perché il sentimento non resti un’emozione, ma diventi percorso di conoscenza. Guardare, perché la ragione abbia il nutrimento della curiosità. Guardare, perché la realtà non diventi nemica, guardare perché l’orizzonte sia sempre davanti. Guardare, perché non sfugga il nuovo. Guardare, perché il passato non copra con la sua ombra la visione del presente. In questo refrain del guardare, è come se si fosse colpiti, o almeno io sono rimasta colpita, dal fatto che questo guardare, questo sguardo è perennemente un’apertura. Che il sentimento non sia solo un’emozione, che la ragione abbia la curiosità, che la realtà non sia nemica, che ogni azione riveli altro, eccetera. Ecco allora io vorrei chiederti Vittoria: che cosa vuol dire guardare l’altro con questa apertura? E da dove trarre una commozione così grande da poter guardare l’altro in questo modo? Da dove nasce insomma l’apertura dello sguardo che lascia spazio all’oltre e al diverso da sé?
VITTORIA MAIOLI SANESE:
Abbiamo solo quaranta minuti! In primo luogo volevo dirti che nonostante sia già la quarta esperienza di questo genere e nonostante che il Meeting sia come la mia casa, sono molto emozionata e grata di questa possibilità. Stavo pensando che non c’è molta differenza tra il presentare il mio libro al Meeting oggi e tutte le tagliatelle che ho fatto stamattina per i miei amici per la cena di stasera. E’ un po’ la stessa cosa. E’ come dire, cercare di nutrire, di generare. Qual è questo sguardo? Vorrei sinteticamente partire da un’affermazione: l’adulto genera, che lo sappiamo o no, generiamo. Quindi l’evento generativo non si ferma a un evento biologico e il grande paradigma del fatto che si genera credo che sia la crescita di un figlio, proprio come si conduce un figlio dentro la sua crescita, dentro la sua vita e come lo si accompagna ad affrontare tutta la realtà. Allora la domanda fondamentale a questo livello è: ma che cos’è che genera? Genera uno sguardo, è uno sguardo che genera. E allora è già diverso, non è solo il vedere l’uso degli occhi, ma è come ciascuno di noi porta, dentro di sé, se stesso, l’altro, il senso di sé, il senso dell’altro. Dove si colloca dentro la mente e il cuore un figlio? Quindi che cos’è per noi? Noi diciamo che al fondo è un problema di significato ed è un problema di significato che si trasmette con lo sguardo, perché nel come noi guardiamo una cosa, passa come noi la intendiamo, come la trattiamo, che cos’è per noi, quindi passa il significato. Questo come primo aspetto. Nel grande evento del rapporto con i figli avviene quel grande mistero della vita dell’uomo per cui ciascuno di noi è generato da un altro che lo fa e questo non si esaurisce nelle azioni, ma va a colpire profondamente la conoscenza di sé e la propria identità. Il poter dire io sono in qualche modo passa sempre inesorabilmente, inevitabilmente per tutti da qualcun altro, da questo tu che ti ha guardato e ti ha generato in quel modo. Nel momento in cui si è genitori, nel momento in cui si è adulti, tutto prende forma, anche la realtà esterna e non solo il figlio, da come noi guardiamo le cose.
EMILIA GUARNIERI:
Questa esperienza dello sguardo che genera mi aiuta a entrare nella seconda domanda, perché uno sguardo è quanto di più libero e liberante ci sia. Uno sguardo non è uno schema e lego a questo la mia seconda domanda. Tu dici sempre e scrivi anche, che non dai ricette, che non dai indicazioni, ma che appunto suggerisci una posizione personale, suggerisci uno sguardo, non delle tecniche. D’altra parte, è altrettanto vero che sei bravissima, che tecnicamente sei bravissima, nel senso che i meccanismi, i dinamismi.
VITTORIA MAIOLI SANESE:
Così come tu sei bravissima nel tuo insegnamento.
EMILIA GUARNIERI:
Assolutamente. Noi siamo bravissime! Ci si aiuta nella vita, cerchiamo di tenerci su come possiamo anche noi. Tu sei bravissima nel senso che i funzionamenti che tu non suggerisci, che però tu hai nella mente li conosci molto bene. Insomma da una parte non dare ricette, dall’altra parte questa professionalità altissima che ti contraddistingue e tu sei come in mezzo a queste due cose, il tuo sguardo su chi hai davanti è come fra queste due sponde. Allora io ti chiederei: qual è il rapporto con la libertà di chi tu hai davanti, perché comunque tu sei la prima che fa i conti con questo sguardo da avere nei confronti della libertà dell’altro. Che cos’è per te la libertà dell’altro che hai davanti? Altra domandina che così possiamo proseguire domani.
VITTORIA MAIOLI SANESE:
A me piacciono molto queste domande, perché insomma mi piacerebbe che fossero il contenuto della conversazione fissa, sempre: a tavola con gli amici, a passeggio, quando bevi un caffè. Perché è parlare di noi, è non banalizzare la vita. Sono bellissime queste domande. La libertà per me è una cosa intoccabile e sacra, per cui è stato proprio l’inizio del mio lavoro, quarant’anni fa è stata proprio la preoccupazione fondamentale. Proprio io ricordo che dicevo che accanto a me, con me, nel legame con me, possa fare esperienza della sua totale libertà. Cioè che non si senta condizionato, che non si senta che io ho degli schemi che io gli applico addosso, non ho dei filtri con cui lo leggo eccetera. Io credo di essere andata e di continuare ad andare a fondo sempre di più sul discorso della libertà perché per me personalmente continua ad essere una domanda apertissima. Io vi dico cosa ogni tanto penso. Penso che l’altro prima di tutto è l’altro me stesso. Che non c’è differenza tra me e l’altro, quindi mi chiedo, esigo da me sempre di guardarlo e trattarlo come vorrei essere guardata io e trattata io. Cioè senza pregiudizi, senza filtri che ingabbiano, senza schemi di riferimento, senza principi astratti, ma cogliere me e cogliere l’altro nella sua totale unicità, nella sua totale originalità, in tutto il suo percorso che è inalienabile. L’altro aspetto che mi risuona sempre dentro è una frase. è che niente di ciò che è umano mi è alieno. E allora perché non sono diventata un’assassina? O perché non sono diventata una puttana? Se niente di ciò che è umano mi è alieno? Perché l’originalità che è in ognuno di noi ci fa nascere in quel posto, da quei genitori, in quel modo, ci fa incontrare quegli amici, cioè non è un mio merito. Ma tutte le circostanze che la vita mi ha dato hanno fatto essere me così, come fanno essere l’altro se stesso e quindi ciò comporta, come dire, la caduta di ogni pregiudizio di ogni preclusione. Soltanto le circostanze della mia vita non mi fanno essere stata un Anna Maria Franzoni. Solo le circostanze della vita non il merito, perché niente di ciò che è umano mi è alieno. Allora guardare così ogni persona, cioè con questo ascolto per me è un lavoro. Perché il mio lavoro richiede questo, richiede uno spazio interno della mente e del cuore in cui l’altro esiste e non esiste il mio giudizio sull’altro. Questo non è tutto certamente, ma questo mi ha condotto nel tempo a percepire sempre più che al fondo di me e dell’altro c’è un legame che si genera dove si supera l’estraneità; pur restando estranei c’è un livello in cui l’estraneità è superata, perché davvero fino infondo l’altro non può che essere l’altro me stesso.
EMILIA GUARNIERI:
Insisto su questo tema della libertà e credo che questi temi ti debbano stare molto a cuore.
Le circostanze, l’educazione che non sono un nostro merito, potremmo aggiungere, l’indole, il carattere, che non sono il nostro merito, solo questo determina il fatto che una madre sia una Vittoria, piuttosto che, scusa non faccio l’esempio che hai fatto tu, credo che tu sappia perché, piuttosto che una madre che è stata capace di percuotere un bimbo di sette mesi? Sono solo le circostanze, l’educazione, l’indole, la storia l’ambiente? O c’è altro? E di fronte a questo altro il tuo lavoro che cos’è? Questo altro che è la libertà, ovvio.
VITTORIA MAIOLI SANESE:
A me il titolo del Meeting di quest’anno piace moltissimo perché ci dice che comunque ciascuno di noi deve in qualche modo fare i conti con la natura umana di cui siamo fatti, che non abbiamo inventato noi e che viviamo. Questo è uno dei capisaldi anche del mio lavoro, perché senza una legge profonda, senza un ordine profondo che ci accomuna, che ci permette di comunicare gli uni con gli altri, ci permette di capirci, non potremmo quando dico amore sapere di cosa tratto, quando dico figlio che nasce sapere di cosa si tratta. Cioè questa natura dell’uomo è comunque un compito che ci riguarda tutti, cioè ci riguarda il compito di conoscerla, perché altrimenti la nostra vita sarebbe fatta solo a partire dai nostri antecedenti biologici, dal nostro istinto, dalle esaltazioni delle emozioni, – oggi va tanto di moda- questa esaltazione delle emozioni – avrebbe valore solo ciò che ci emoziona. Dal nostro istinto, dal nostro carattere, cioè ingabbiamo il percorso della nostra vita dentro aspetti che non sono il criterio con cui vivere ma li facciamo diventare criterio. Perché il criterio con cui vivere è questa scoperta, questa esigenza che nella mia storia è stata prima di tutto un’esigenza della mente, poi del cuore, di conoscere di che cosa sono fatto. Perché io credo che portare la propria vita a compimento, la realizzazione piena di sé, pensate l’amore fra un uomo e una donna, pensate la crescita di un bambino, presupponga l’ andare a fondo a capire di che cosa siamo fatti, che cosa stiamo impastando nella nostra vita. Quali ingredienti usiamo per realizzare il percorso della vita che è fatto della nostra libertà? La cosa più affascinante per me è quella di andare a capire questo ordine profondo, che poi è fatto anche di meccanismi psicologici, è fatto anche di funzionamento, è fatto di tante cose, questo ordine profondo che è la nostra natura umana e noi siamo nella vita interpreti, protagonisti. A me piace molto dire questo, siamo interpreti di un dramma già scritto. Solo che dobbiamo andare ad impararlo, sennò ci inventiamo le parole, ci inventiamo i sentimenti e crediamo di interpretare la vita, invece la vita ha una legge profonda, una natura profonda. Io credo che dentro questo aspetto qui, questa ricerca appassionata del come noi siamo fatti, di qual è il punto, di qual è l’oltre che ci definisce, si arrivi poi a scoprire chi è quel tu che ci ha guardato e ci definisce e in questo sguardo possiamo scoprire davvero la nostra identità, sennò facciamo una pseudo vita, facciamo qualcosa d’altro. Invece la realizzazione piena della propria persona è andare all’origine e scoprire proprio quell’oltre, quel tu che ci definisce. Io credo che la nostra libertà sia uno degli strumenti formidabili, eccezionali per andare a fondo in questo che è il punto fondamentale del nostro esistere e del nostro essere.
EMILIA GUARNIERI:
L’ultima domanda che avevo programmato era questa, la dico ma non te la faccio perché in qualche modo hai già risposto, però in compenso te ne faccio un’altra. Allora l’ultima domanda che io avevo programmato era questa, nel tuo parlare e nel tuo scrivere ricorre frequentissimamente l’aggettivo profondo. Non so se avete notato quante volte l’ha detto anche in quest’ultima risposta. Ti avrei voluto chiedere la ragione di questo, però credo che nella tua ultima risposta lo si percepisse già. Però mi hai fatto venire in mente di avere sentito l’utilizzo di questo aggettivo l’altro giorno dall’attore che ha fatto il Caligola. Stefano Pesce l’altra mattina in conferenza stampa, non so chi di voi ha avuto modo di vedere il Caligola la prima sera, dunque il dramma di questo imperatore pazzo che cerca l’impossibile, che cerca la luna. Stefano l’altra mattina in conferenza stampa diceva: è stata una provocazione anche per me avere dovuto immedesimarmi con i sentimenti di Caligola, perché? Perché, diceva Pesce, ho dovuto andare a fondo del mio cuore e a fondo del mio cuore io ho trovato il desiderio di Caligola, ma nel mio cuore ho trovato anche gli stessi sentimenti perversi, la stessa malvagità. Io nel profondo del mio cuore ho trovato tutto quello che c’era nell’animo del Caligola. Mi è tornato in mente questo perché, sentendoti parlare, mi è venuto da pensare che nel tuo lavoro forse anche a te accade di arrivare a questi strati profondi dell’altro che hai di fronte. Che esperienza è per te lo stare davanti ai drammi che incontri? Troppo?
VITTORIA MAIOLI SANESE:
Lo alleggerisco io.
EMILIA GUARNIERI:
Non ti chiedo di parlare dei drammi.
VITTORIA MAIOLI SANESE:
Mi sono chiesta tante volte come mai mi era data questa possibilità e anche questa capacità di portare tanti drammi, tanti dolori. Non mi fa impressione il dramma, è vero c’è un filo conduttore nelle risposte e nelle tue domande. Ripartiamo da cosa ho detto nella prima domanda. Niente di ciò che è umano mi è alieno, per cui semmai c’è anche la conoscenza sempre forte di che cos’è la vita, la vita è questo, è una cosa incredibile. A me fa impressione la cultura di oggi che tende a facilitare, tende a togliere la sofferenza ai figli, quando i genitori vengono da me e mi dicono: non voglio che soffra. A me sembra di una violenza questo desiderio (non voglio che soffra) ma come fai a togliere la sofferenza dalla vita? E’ prima di tutto un giudizio su di te e vuol dire che ti giudichi incapace di reggere alla sofferenza della vita e di stare davanti alla sofferenza. E’ come una riduzione della propria umanità. Allora non mi fa paura il dramma, la domanda seria invece è come si sta davanti al dolore di una persona. Quando vedi la sofferenza, quando vedi che quel cuore e quella mente stanno entrando in un buio profondo, poi diventi anche capace di entrare in queste camere oscure, in questo buio profondo e di fare compagnia alle angosce più forti. Diventi capace e cerchi un unguento. Io nel mio lavoro credo che l’unguento sia molto complesso. Credo sia non avere l’obiezione davanti alla sofferenza, prima di tutto questo. Non si può stare davanti alla vita con l’obiezione alla vita. E’ proprio un problema di salute mentale, di rapporto con la realtà, di conoscenza. Entra in gioco tutto davanti al dolore di una persona e credo il mio lavoro rappresenti una parte piccola, parziale di quello che è la grandezza di una relazione, di un rapporto, cioè essere dentro un legame che ti accompagna nella vita con qualcuno che accanto a te ti aiuta a fare tutto il percorso, tutti i sentieri, anche quelli più impervi, anche quelli più terribili. E’ un legame, il mio lavoro è l’offerta di questo legame, parziale, limitato perché fatto di poco tempo, però è l’offerta di questo legame, di questa compagnia al dolore. Il dolore va contemplato, una delle cose in cui mi ritrovo spesso a fare è aiutare le persone a trattare bene il proprio dolore e a trattare bene il dolore dell’altro. Si incomincia a guarirsi proprio imparando a trattare bene il dolore e a trattare bene la propria sofferenza.
EMILIA GUARNIERI:
Grazie Vittoria. Credo che non ci sia molto da commentare, soprattutto dopo questa ultima risposta. Io ti ringrazio perché hai accettato di rispondere a un livello forse un po’ trasgressivo, sono domande che a una terapeuta di coppia so che non andrebbero fatte. Ti ringrazio perché le hai accettate, d’altra parte avendo chiamato me un po’ il rischio l’avevi corso.
VITTORIA MAIOLI SANESE:
Hai voluto la bicicletta….
CAMILLO FORNASIERI:
E quindi grazie, grazie anche per l’incontro di oggi.
VITTORIA MAIOLI SANESE:
Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Entriamo in un tema, che è quello della valutazione, della scoperta, il termometro della religiosità del nostro tempo. Il libro ha come titolo Un moderno desiderio di Dio. Ragioni del credere in Italia di Salvatore Abruzzese, che è qui con noi e salutiamo. Docente di Sociologia nell’ Università Trento, abbiamo qui per presentarlo Carmine di Martino, docente di Gnoseologia all’ Università degli Studi di Milano e coautore della bellissima mostra su Dante. Salutiamo anche lui. Due brevissime parole introduttive. Salvatore Abruzzese è un carissimo amico che ritroviamo qui al Meeting con grande contentezza e curiosità. Il legame con lui risale a molti anni fa e ci sorprese in quell’occasione come lui guardava il fenomeno religioso. Erano anni in cui forse più di oggi c’era un nichilismo ed uno scetticismo riguardo alla dimensione religiosa nella nostra cultura, nella nostra società, nell’etica personale e pubblica e Abbruzzese individuava proprio tra noi, nel Movimento di CL, un fenomeno interessante. Salvatore Abruzzese è un sociologo delle religioni, sempre volto a scoprire e a guardare che cosa c’è attorno a lui, attorno a noi. Questo libro supera gli schemi consueti di studiare quanto secolarizzata è la nostra società o le società dell’ Europa e guarda, va al fondo di tanti motivi, ragioni che possono essere passeggere o che potranno durare, di spunti di tradizione, che ci mostrano come oggi, lo diceva Sua Eminenza Scola sul Quotidiano Meeting, ci sia un ritorno della familiarità almeno col fatto che Dio c’è. Io chiederei dapprima un intervento ad Abruzzese magari più breve, e poi a Di Martino, per poi ridare la parola all’autore per una semplicissima domanda: quale è la preoccupazione che ti ha mosso, che ti ha fatto fare anche questa fatica di entrare in un argomento che per certi aspetti è un po’ anche tabù, perché guardarlo da vicino e giungere anche a delle conclusioni o a dei suggerimenti fa parte di una battaglia culturale non da poco.
SALVATORE ABBRUZZESE:
Innanzitutto ringrazio Camillo Fornasieri per questo intervento, ringrazio anche il Meeting di avermi invitato, di aver dimostrato la solita attenzione nei confronti di ciò che faccio. Diciamo che questo testo in realtà è stato molto più faticoso e pesante di quanto non sembri, perché è scritto, ho voluto scriverlo, in maniera molto colloquiale, molto leggibile, ma in realtà vi assicuro che c’è stata una fatica enorme. Mi sono sentito un po’ come una trota che nuotava controcorrente. Sarebbe stato molto più facile scrivere il contrario, il moderno disinteresse verso Dio, sarebbe stato molto più facile parlare di una secolarizzazione infinita che ha oramai travolto tutto e tutti, ed invece ho dovuto fare una strada opposta, perché? Cominciamo da pochi flash, cerco di essere brevissimo perché ci tengo molto all’ intervento di Carmine e voglio dargli più spazio possibile. Allora, primo flash: le parole di Giovanni Paolo II, il 9 novembre 1982 Giovanni Paolo II diceva una frase rimasta nella storia: “Io, vescovo di Roma e Pastore della chiesa Universale da Santiago grido con amore a te, vecchia Europa: ritrova te stessa! Sii te stessa, riscopri le tue origini, ravviva le tue radici, torna a vivere dei valori autentici che hanno reso gloriosa la tua storia e benefica la tua presenza negli altri Continenti, ricostruisci la tua unità spirituale in un clima di pieno rispetto verso le altre religioni e le genuine libertà, rendi a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Domanda di un sociologo: perché un Papa fa una simile affermazione? Non lo sapeva già che la società era secolarizzata? Erano decenni che ne stavano scrivendo, c’erano tonnellate di testi, perché questa dichiarazione? Un appello all’Europa, a ritrovare le proprie radici, ma va là! Sapevamo perfettamente che questo, questo grido andava controcorrente. Non era logico, non era logico. Per i miei colleghi di Parigi quell’invocazione di Giovanni Paolo II non poteva essere che un sogno. Quel Papa sognava e infatti c’è un testo che si chiama Il sogno di Compostela, andatelo a leggere, in cui tutti quanti noi, io non c’ero però diciamo che stavo nell’equipe, dimostravamo come in realtà Giovanni Paolo II sognasse. Sognasse una cosa che non c’è. Il sogno di Compostela. Feci un libro, come molti di voi sanno, sul movimento di CL nel 1990 (verrà tradotto in italiano l’anno dopo), questo testo verrà contestato (il testo su CL), contestato sommessamente, dai miei colleghi d’Oltralpe. Adesso posso dirlo: aveva il difetto, questo libro che avevo scritto, di non svelare i meccanismi attraverso i quali questo Movimento riusciva a mantenere il proprio successo.
Avrei dovuto parlare degli stereotipi cioè dei sogni attraverso i quali i giovani militanti erano catturati, avrei dovuto parlare delle astuzie di una presunta leadership attraverso la quale il tutto era governato e controllato. Avrei dovuto rilevare gli artifici teorici attraverso i quali il loro fondatore imboniva e concupiva le coscienze di quelli che con una sottile ironia erano chiamati “ciellini”, equivocando sul termine, ciellini per gli esterni voleva dire i ragazzini di CL. Non l’ho fatto, ed ho deluso i miei colleghi, non sono stato all’altezza del compito, avrei dovuto smontare la macchina ciellina e mostrare i segreti di fabbricazione; così non feci, che Dio sia lodato. Chi parla di senso religioso, una volta fatti propri i principi della secolarizzazione, è un illuso, pure in mala fede; per chi crede nella secolarizzazione, il senso religioso, non c’è più. È una metafora del passato, è relativo ad altre culture, premoderne, agricole, quello che volete, terzo mondo…, ma non fa parte del moderno corredo dell’uomo contemporaneo. Vado avanti però più brevemente se no altrimenti mi gioco tutto, salto alcuni passaggi, li riprenderò dopo.
Seconda immagine
Giubileo dei Giovani, TorVergata, agosto 2000. C’erano 2 milioni di giovani a dormire per terra, a passare ore interminabili di attesa mangiando improbabili panini ed ancora meno plausibili würstel, consolandosi con la loro allegria, con la loro “ingenua baldanza”, come avrebbe detto don Giussani, in attesa di un uomo, quello stesso Papa che 18 anni prima aveva pronunciato il grido di Compostela e che adesso veniva atteso da quanti ne amavano il desiderio che si portava dentro. Quel Papa arrivato il mattino della domenica disse a quei due milioni di giovani: “siete le sentinelle del mattino in attesa della Resurrezione”.
Quei giovani per il Papa erano le sentinelle. Le sentinelle, per me, ragionevoli, intelligenti. Quei giovani non erano residui, non erano persistenze. A queste sentinelle la Chiesa rimetteva un annuncio, consegnava l’eredità di 2000 anni di storia che intorno a quell’annuncio si erano costruiti.
Salto all’ultima immagine e poi taccio.
11 settembre 2001, una data triste, il mondo nel dolore, la società secolarizzata improvvisamente viene attaccata. Un filosofo a me caro André Glucksmann scriverà: “A New York è arrivato il male, ci sono i demoni in azione”. Una giornalista e scrittrice, Oriana Fallaci, pochi giorni dopo, sulle pagine del Corriere della Sera, scrisse quel lungo urlo di rabbia che prenderà la forma di un piccolo libro che moltissimi hanno letto e lì trovai una seconda o terza o quarta conferma, un ulteriore segnale quando questa testimone del ’900 scrisse: “Io sono atea grazie a Dio, ma vogliamo dirla tutta, sebbene con i preti io non ci vada d’accordo e delle loro preghiere non sappia che farne, la musica delle campane mi piace tanto, mi accarezza il cuore, mi piacciono pure quei bei Cristi e quelle belle Madonne, quei pesanti dipinti, mi piacciono pure i monasteri e i conventi, infatti mi danno un gran senso di pace e spesso invidio chi ci sta”. Oriana Fallaci, una testimone del ’900, un’altra sentinella in attesa dei segni della Resurrezione.
E non ce l’avrei ancora fatta a scrivere nonostante che già scrivessi e poi riscrivessi e poi riscrivessi ancora, come ben sanno a casa mia che mi hanno sopportato in questi dieci anni, se non avessi potuto ripensare, riprendere in esame tutto questo alla luce dei temi del Meeting. Mi spiego: il Meeting secondo me, scusate se lo definisco, chiedo scusa ma ho bisogno di concetti per muovermi, il Meeting è una gioiosa e fracassante presenza della parola di Dio, tradotta e vissuta attraverso i testimoni che sono coloro che ci hanno creduto e che in base ad essa si muovono e da essa sono mossi, a cominciare dai volontari. Questa gioiosa e fracassante presenza della parola di Dio.
I titoli del Meeting mi attiravano come delle cannonate che squassavano e ricostruivano.
Ne ripercorro tre o quattro. L’ignoto genera paura, il Mistero genera stupore, è vero, è il titolo del Meeting1999. Lo stupore è la chiave con la quale quanti sono in cerca di Dio si avvicinano a Lui, si comincia per contemplare un Caravaggio e si finisce per amare un testimone che ci precede sulla strada e ci conforta con la sua testimonianza. Tutta la vita chiede l’eternità (2001); la domanda è domanda di salvezza, salvezza dalla morte, la morte di coloro che amiamo come delle cose che ci circondano; la vita è rivolta dell’Essere contro la morte e la ricerca di Dio è la massima espressione di questa rivolta.
Ancora, ultimo titolo, C’è un uomo che vuole la vita beata e desidera giorni felici?, il desiderio è il motore enorme che è sempre in ricerca.
Ed ancora, l’ultimo, La ragione è ricerca dell’infinito e culmina nel sospiro e nel presentimento che questo desiderio si manifesti. Quindi l’attesa delle sentinelle di Tor Vergata era ragionevole, si trattava solo di rintracciare le tracce, coglierne i segni assieme ai limiti. Ormai per me era chiaro che non la secolarizzazione, ma il desiderio di Dio è il paradigma, il concetto di riferimento dal quale partire per indagare la presenza del religioso nella società contemporanea. Ecco mi fermo, ci sono altre cose ma le dico dopo.
CARMINE DI MARTINO:
Allora, io sarò molto più noioso, perché vorrei per lo meno citare alcune delle affermazioni che si trovano in questo libro molto bello e molto coraggioso di Salvatore Abruzzese. Per esempio, si tratta di un libro coraggioso perché rovescia un paradigma e credo che gli sia costato parecchio. Non so se nell’ ambito della comunità scientifica sia rimasto indenne, comunque a un certo punto si legge: “una serie di avvenimenti contemporanei segnalano la fine di questa fase di espulsione culturale dell’universo delle rappresentazioni religiose dalla società contemporanea, eventi (lo ha citato prima lui stesso) come il successo di massa tanto più esteso quanto inatteso del giubileo dei giovani del 2000 e l’omaggio alla salma di Giovanni Paolo II nel aprile 2005. Essi non sono il risultato della pur efficace macchina organizzativa ma segnalano esattamente il contrario. La volontà e il desiderio di relazione espressi in modo autonomo da folle innumerevoli di uomini e donne, relazione verso una personalità religiosa con la quale si era venuta affermando una dimensione dialogica e un processo di reciproco riconoscimento”. Salterò molte delle citazioni, come vedete, ho un fitto mazzettino di pagine di frasi tratte dal testo, ma le consegne del conduttore sono piuttosto rigide, quindi ne salto molte ma alcune le salvo. Allora vado alla parte, diciamo, più esplicativa del testo di Abruzzese, dopo tanti capitoli dedicati ad analisi determinate, specifiche, puntuali. Questo è un libro che è certamente scritto in un modo arioso, piacevole, colloquiale, come l’autore ha detto, ma è un libro rigoroso, quindi si sbaglia chi crede di trovare un testo costruito su delle impressioni. E’ un testo che è fondato, radicato in analisi, reperti empirici e in commenti molto puntuali all’interno di una prospettiva che mi piace chiamare filosofica con musica. Quali sono le ragioni di questo moderno desiderio di Dio? Questo è il titolo di un rovesciamento del paradigma della secolarizzazione nei fatti, cioè non tanto come scelta culturale interpretativa: le analisi supportano le conclusioni a cui Abruzzese è giunto. Salvatore Abruzzese scrive che la prima componente di questo mutamento, inversione di tendenza inaspettata, è segnata dalla lettura del mondo elaborata all’interno del laboratorio conciliare. Il primo elemento è la rilettura della realtà contemporanea che viene assegnata ad un evento in particolare, naturalmente è il nome di un flusso storico cioè di una fase storica che è il concilio, quindi è il concilio che ha saputo riconoscere il mondo moderno; riconciliarsi, ma di più direi, farne proprie le istanze. Questo è un primo elemento che si combina con un secondo elemento, cioè una società occidentale segnata da una forte crisi di fiducia verso i modelli sui quali era costruita. Poi c’è un commento molto significativo che mi permetto di riproporvi: “Il risveglio è stato brutale, le nuove tecnologie hanno mostrato tutti i rischi di un mancato studio degli effetti connessi con il loro cattivo utilizzo. Molti dei processi di decolonizzazione si sono risolti nella barbarie delle guerre etniche, mentre la fine del periodo di sviluppo economico nei paesi industrializzati ha bruciato le prospettive di sviluppo dei sistemi di welfare, introducendo di nuovo l’austerità nei costumi, nei consumi e raffreddando bruscamente le potenzialità dei sistemi di assistenza già operanti”. E qui una piccola conclusione dalla combinazione di questi due elementi; mi permetto di proporvela perché altrimenti quello che dirò dopo, a mio personale commento del testo, non si sostiene: “E’ pertanto nell’eredità di un’attenzione al mondo maturata nel laboratorio conciliare da un lato e di un crisi dei processi di sviluppo economico sociale e politico connessi al trionfo della società dei consumi di massa dall’altro, che la capacità della dimensione religiosa di produrre significati e definire cornici interpretative delle esistenze dei singoli si afferma in tutta la sua visibilità”. Vi prego ancora di avere un attimo di attenzione: “Il soggetto che emerge dal naufragio dell’ottimismo semplificante e della fiducia naif verso le proprie prospettive di vita (questo soggetto che emerge qui) è caratterizzato dalla ricerca di beni non materiali e da nuove questioni di senso, ma anche (è l’altro elemento che si aggiunge) dal recupero di legami significativi e di appartenenze identitarie, di iscrizioni nella memoria storica di un gruppo e di una tradizione culturale”. Bene, dopodiché c’è anche una ulteriore, molto raffinata sottolineatura che dipinge la rinascita della sensibilità religiosa come sganciata da una dimensione normativa che per secoli è stata direttamente connessa alla evidenza del peccato e del timore del giudizio divino, quindi lo svilupparsi di una sensibilità religiosa indipendentemente da una dimensione normativo-punitiva che ha spesso accompagnato una promozione del religioso in epoche a noi vicine o immediatamente precedenti. Si fa riferimento altresì a una sensibilità religiosa completamente inserita all’ interno del mondo moderno, prudentemente relativista e consapevolmente secolarizzata, che si manifesta come una componente funzionale al recupero degli equilibri interiori e a un consolidamento dei legami esteriori. Ecco, finisco le citazioni e vorrei fare tre rilievi che sono altrettante diciamo occasioni, provocazioni per un dialogo che con Abruzzese non improvviso oggi, ma che ormai da un anno con i nostri ritmi, i nostri tempi per i rispettivi lavori, prosegue.
Il primo elemento: Salvatore Abruzzese mostra molto ben l’esito di un percorso, del percorso occidentale, ma anche, e questa è la domanda, mostra i semi di vitalità di questa stessa tradizione, cioè è all’interno della tradizione occidentale e non è in polemica con essa che la dimensione del religioso rinasce e riguadagna una dimensione, uno spazio, una credibilità nel vissuto delle persone, quindi declino ma anche potenzialità inscritta nella tradizione. Il secondo elemento riguarda il concilio e la modernità. Mi pare molto opportuna la lettura di Salvatore Abruzzese, perché mostra che il concilio è il segno di qualcosa di vivo: solo qualcosa di vivo sa mutare permanendo. Altrimenti o va incontro al collasso, cioè la scomparsa se è già morto o finché può, resiste ma non si modifica. Solo qualcosa di veramente vivo e non agonizzante può mutare permanendo, cioè leggendo il fenomeno nuovo e paragonandovisi in maniera produttiva. Ecco, mi pare che l’osservazione fatta da Abruzzese sulla capacità del Concilio, quindi di una certa esperienza cristiana cattolica di rileggere la modernità, sia uno dei modi più belli, più interessanti, più icasticamente compiuti per cogliere la vitalità dell’esperienza cristiana. Terzo, la necessità dei legami che è uno degli elementi che spiegano il rigoglio della sensibilità e dell’esperienza religiosa. E qui io vorrei suggerire ancora un ulteriore elemento di discussione, un passaggio, detto in termini tradizionali, dall’etica all’ontologia, cioè, certamente il bisogno di relazione è un bisogno che si esprime ad un livello chiamiamolo morale, comportamentale, ma si esprime a questo livello perché, come lascia intravedere molto bene in tante sue pagine Salvatore Abruzzese, il rapporto all’altro è, appartiene alla strutturalità delle esistenze. Quindi, essere in relazione all’altro non è solo un bisogno che è a posteriori, che si instaura nella vita delle persone, ma appartiene alla essenzialità stessa della vita personale. Quindi, in questo senso è una prima indicazione, il fenomeno religioso non sarebbe altro che lo sviluppo di una dimensione profonda, ontologica la potremmo chiamare, strutturale. Ultimo elemento, questo è un nota bene che vorrei sempre sottoporre al dialogo, è il nesso tra il libro di Abbruzzese, che contiene una delle parole chiave del titolo del Meeting, e il titolo del Meeting, Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore, con tutto lo spessore della parola cuore così come è stato profondamente messo il luce nella relazione fondamentale ieri pomeriggio. E vorrei dire questo: certamente la crisi, la crisi a cui Salvatore Abbruzzese fa riferimento è una delle concause della rinascita del fenomeno religioso. Ma, vorrei dire che non sarebbe rilevante parlare di una rinascita del fenomeno religioso se essa fosse ascrivibile puramente e semplicemente a un indebolimento dei miti e delle utopie della società tecnocratica. Diventa rilevante invece se quella rinascita è il realizzarsi non tanto di un’alternativa alla crisi, ma di un fattore costitutivo dell’esistenza umana come tale, in tutte le possibili esemplificazioni, direi in tutte le sue possibili variazioni. Possiamo assistere a una molteplicità, direi, indefinita di modalità di incarnazione dell’istanza strutturale che caratterizza la vita umana, ma o il fenomeno religioso appartiene a questa, cioè ne è lo sviluppo, o altrimenti è una schiuma di superficie tanto quanto la crisi, cioè tanto quanto una società con i suoi miti che va in frantumi. E io direi che in questo sta il primo collegamento tra il libro di Abruzzese e il titolo del Meeting, nella misura in cui il titolo del Meeting allude a qualcosa di più che a una sensibilità nel senso ridotto del termine, allude cioè all’essenza stessa della razionalità umana. Se desiderio del cuore o senso religioso indica la dimensione ultima della razionalità umana stessa, cioè della vita desiderante, della vita umana come vita desiderante, come vita esigenziale, ecco, allora, se questo è il nesso, il libro di Abruzzese coglie qualcosa di più profondo, che non un fenomeno sociologico. Ultima questione, e qui mi vorrei riferire, perdonate l’uso dello strumento un po’ improprio, ma ho, mi sono trascritto una frase sul cellulare, è una frase dell’attuale papa che è anche filosofo e quindi usa un linguaggio che mi è congeniale, dice: “la fede ha ancora in assoluto una sua possibilità di successo?” – parla evidentemente della fede di cui è, diciamo, il testimone per eccellenza. E risponde affermativamente: “sì, perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo. Nell’uomo vi è una inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente. Solo il Dio che si è reso finito per lacerare la nostra finitezza e condurla nell’ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere”. Perciò oggi, dice, “la fede cristiana tornerà a trovare l’uomo”. Ecco, anche qui mi sembra che ci sia un’indicazione nel libro di Abbruzzese molto preziosa, per cui vale la pena di leggerlo e anche di discuterne e cioè che cosa ha, cosa avrebbe il Cristianesimo, la fede cristiana, il Cristianesimo di peculiare rispetto a tutti i tentativi religiosi che sono tutti ugualmente veri come tentativi, che peculiarità possiede il cristianesimo, quale persuasività dal punto di vista razionale può avere? In che senso vi è ancora possibilità di successo? E tutta la risposta è incentrata su questa parola, corrispondenza, una parola antica, che da Aristotele viene utilizzata, poi da Tommaso, ecc. ecc., per indicare la verità. La corrispondenza fra qualcosa che accade e quella dimensione o istanza strutturale che il titolo del Meeting vuole identificare. Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi, è il cuore. Ecco, direi, che tutto l’interesse o tutta la contingenza o relatività e quindi in ultima istanza il non interesse che può rivestire il cristianesimo, sta in questo. Se si tratta di qualcosa che ha, oppure no, una congruenza peculiare con quella struttura che, pur esprimendosi in tanti modi, rappresenta il traduttore di tutte le umanità, il fattore comune, l’invariante di tutte le variazioni. Se il cristianesimo rappresenta questo, cioè qualcosa che accade e che ha come suo alleato, interlocutore la vita desiderante dell’uomo in tutta la sua originalità, allora del cristianesimo vale la pena parlare.
CAMILLO FORNASIERI:
Bello, bello ed interessante, soprattutto questi spunti finali di Di Martino. Chiederei, chiedo ad Abbruzzese un breve dialogo sintetico, con alcune delle espressioni di Di Martino.
SALVATORE ABBRUZZESE:
Ho fatto bene a chiedere a Carmine di venire perché ha molta più libertà di me, è molto più veloce, va molto più lontano. E anche lo stesso Meeting va molto più lontano. Io purtroppo essendo sempre potentemente ancorato ai dati empirici, mi devo muovere con una lentezza esasperante. È una cosa terribile fare questo mestiere, si è sempre vincolati ai dati concreti e allora volevo spiegare meglio. A parte il fatto che non conoscevo il titolo del Meeting quando ho fissato il titolo del libro, non immaginavo, nemmeno avrei potuto tentare un qualsiasi ponte, perché sarebbe stata un’operazione concettualmente spericolata. Non posso entrare in un universo concettuale altro dal mio saccheggiando, per carità, non avrebbe senso. Quindi l’ho costruito pensando ad altre cose. Secondo me lui ha ragione, cioè è vero, io penso che da un punto di vista antropologico, il senso religioso sia di ogni epoca e quindi non sia banalizzabile in una contestualizzazione. Per di più, anche nel libro, quando arrivo a dire “guardate nel mondo contemporaneo ci sono i valori post-materialisti, l’uomo è più attento a vivere in un modo naturale”, è chiaro che io stesso non è che volessi arrivare a dire che l’uomo, in conseguenza di questo, si riapre a Dio. La cosa non è così semplice. Innanzitutto, lì il senso del desiderio di Dio è ancora a un livello superficiale e così è un’opzione, è una plausibilità, Dio diventa plausibile. C’è un dato che mi ha fatto saltare sulla sedia quando ho controllato le statistiche sulla credenza e la pratica religiosa. Tra il 1980 ed il 2005, amici cari, la percentuale di quanti dichiarano di non credere in Dio o di non andare mai in Chiesa, si dimezza. Si dimezza, erano il 20% nel 1980, sono il 12% nel 2005. E’ il nucleo forte dell’ateismo puro e duro che è in crisi, in favore di che? In favore di una, per carità, una semplice plausibilità. Ma si, va bèh, ci so ’sti cattolici! Perché no? Perché no? E questo ‘perché no’ è profondamente diverso da quella cultura un po’ superficiale, un po’ blasfema degli anni ’60 e ’70 che chiudeva tutto in un’allegria continua, un ottimismo. Chi tra i presenti si ricorda l’immagine che noi avevamo nel futuro negli anni ’60? Negli anni ’60, noi pensavamo che il futuro sarebbe stata una cosa bellissima, sarebbe andato tutto bene. Il nostro sistema non poteva che andare di bene in meglio, avevamo oramai un welfare che ci garantiva su tutto. Stavamo andando verso un pieno sviluppo di tutto, il nostro Occidente andava veramente come un missile. Aumento del prodotto interno lordo del 15% l’anno. Erano cifre incredibili. Si stava tranquillamente bene, al punto tale che c’era gente che diceva: “ah ma no, io non voglio lavorare per questa società dei consumi”. Ve lo ricordate? Quando si diceva: “ah ma io non voglio lavorare, non mi voglio integrare in questo mondo del consumo. Io vado in giro, cerco il mio io, poi si vedrà”. Cose da pazzi, cioè un mondo completamente aereo, tranquillo. Erano le mille bolle blu. Voglio dire, era un mondo allegro e sereno all’interno del quale, la Chiesa, improvvisamente, si ritrovava ad essere svuotata: si va bèh, questi parlano della morte, ma per carità! Bèh insomma, ma figuriamoci! Ma pensiamo a vivere e a vivere al meglio. È un’epoca serena, un’epoca, tutto sommato, superficialmente assurda. E’ stato così. Non apro il capitolo, perché qui ci sono capitoli interi dedicati alla storia di processi culturali negli anni ’60 e ’70 che riprenderò. Don Giussani era uno, è uno che aveva capito questo, e qui apriamo una parentesi troppo lunga in cui non voglio entrare, perché è un tema, un tema nel tema che in sé meriterebbe quasi un testo a parte per quant’è importante la sua intuizione, quella che don Giussani ha avuto e che il resto della Chiesa evidentemente non aveva in quel periodo, altrimenti avrebbe avuto lo stesso successo. La cosa che mi interessa è che, diciamo, questa allegra superficialità è venuta meno, adesso c’è una sorta di spazio di plausibilità. Per cui viene da dire: ma sì, perché no i benedettini, ma sì in fin dei conti è una cosa carina. Le abbazie, ma perché no, ma sì anche Cl, sono un po’ strani, però… Comunque, ma sì, perché no i cattolici! Cioè improvvisamente si sono quasi tirati indietro certi giudizi così pesanti, che giravano negli anni ’70 e ’80. Tutto questo non cambia di uno iota. Cioè sia ben chiaro, sia ben chiaro, ciò che ci fa scegliere – su questo io sono assolutamente d’accordo con il Meeting e con l’insegnamento che c’è all’interno di esso di don Giussani – ciò che ci fa scegliere è un incontro concreto, con delle persone concrete, che vivono l’esperienza concreta. Per carità, fuori discussione. Io mi limito semplicemente a illustrare lo spazio dei processi culturali che ci stanno intorno, che rendono semplicemente questo incontro più plausibile, più possibile, ma alla fine è chiaro che è sempre con l’incontro concreto delle persone che si passa dal desiderio a qualcosa di più concreto, che si mette in piedi un’esperienza, che ci si comincia a muovere e che si va avanti. Questo è fuori discussione. Quello che mi ha colpito, quando leggevo la Fallaci, quando ho visto anche tutti i giovani, gli stessi giovani di Tor Vergata, era, o anche i funerali di Giovanni Paolo II, era questa capacità di un mondo apertamente secolarizzato e in apparenza profondamente indifferente, di commuoversi dinanzi a presenze concrete e di andare lì. Noi non sappiamo cosa sono diventati i 2 milioni di giovani di Tor Vergata, io non penso che siano diventati tutti credenti, praticanti e magari forse molti di loro sconfessano quell’esperienza. Lo stesso può essere accaduto per chi è andato da Giovanni Paolo II, lo ritiene magari una meravigliosa persona, anche se non ha nulla a che vedere col resto della Chiesa. Ci può esser di tutto, non ci facciamo illusioni, ma il semplice fatto che ci si sia, come dire, commossi dinanzi a queste cose e ci si sia mossi… Nel ’68 si diceva a Parigi, sous le bague la plage, sotto il muro di cemento c’è la sabbia, sotto i mattoni c’è la sabbia. Ecco, sotto una secolarizzazione enorme, continua, incessante, fracassante, resta questa apertura che non attende altro che un incontro, che non attende altro che di incontrarsi con persone concrete, con le quali finalmente cominciare a articolare un linguaggio nuovo. Questo è il punto forte, per questo le conseguenze sono enormi, perché a questo punto la responsabilità della Chiesa diventa incredibile. Scusate, lo dico in furor di battuta, non ci possiamo più salvare la coscienza a buon partito dicendo: “eh, ma c’è la secolarizzazione, che vuoi fare, è normale che le chiese siano vuote. Eh, ma c’è la secolarizzazione, che vuoi fare, è normale che non viene nessuno quando tu annunci un gruppo, un’attività, cose di questo tipo”. No signori. Non è così. Non è così. Dipende dalla concretezza dell’essere che in quel momento fa quella proposta. Dipende da quanto lui si rende credibile, accidenti! Perché quando è credibile, vedete come ci sono le risposte, come dinanzi a testimonianze concrete c’è una commozione dell’uomo che si muove, perché questo spiega il successo anche di questa realtà che abbiamo sotto gli occhi, che altrimenti non si spiegherebbe. Quindi, come vedete, girare di paradigma ci porta a delle conseguenze abbastanza interessanti. Che fanno capire anche il successo del Movimento, anche il successo di mille iniziative, di mille singole persone.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie Salvatore. Mi sembra di poter concludere proprio con due elementi. Uno è che l’approccio che Abbruzzese ha su questo tema consente di mostrare la realtà. Non è facile, diciamo, superare la barriera della comunicazione che il potere ha instaurato. Quindi lo studio che lui fa, ma soprattutto l’occhio che lui ha, mi interessa sottolineare anche in termini personali di dialogo, è quello di approcciare questo fatto andando a vedere e cercando le ragioni vere. Quindi c’è un superamento, questo ribaltamento della situazione dovuto anche al fatto che a livello collettivo emergono dati di crisi in tutti i campi e in tutti i sensi. Quindi se l’elemento globale della comunicazione non comunica più un ottimismo strano, un successo continuo, evidentemente già questo sposta un po’ l’orizzonte. Ma lui va più in fondo. Secondo, è che lui, è sempre stato sincero, fin dall’inizio. Nei suoi primi studi, ma in questo ancora di più, il fatto di guardare un fenomeno come quello religioso non può non interrogare chi lo guarda nell’oggetto stesso di questo fenomeno. Per cui l’oggetto stesso è quella pretesa, quella possibilità che il cristianesimo, ad esempio, sia qualcosa di pertinente di per sé, in sé come diceva Di Martino, all’esistenza stessa della persona in questo tempo e in ogni tempo. Cosa fa rimaner vivo il fatto religioso? È il paragonare, il poter vivere tutta la dinamica del desiderio del cuore, fino in fondo. Montanelli diceva, in una semplice osservazione non di sociologo ma di giornalista, quindi breve: “se la Chiesa c’è da 2000 anni, c’è un fattore un po’ inquietante, cioè devo domandarmi qualcosa”. Grazie ad Abbruzzese, grazie a Di Martino, alla sua puntualità e precisione. Arrivederci alle 19.
(Trascrizione non rivista dai relatori)