Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA
LA FAVOLA DELL’ABORTO FACILE. Miti e realtà della pillola RU 486
Presentazione del libro di Assuntina Morresi, Docente di Chimica fisica all’Università degli Studi di Perugia e Eugenia Roccella, Sottosegretario di Stato al Ministero della Salute (Ed. FrancoAngeli). Partecipano gli Autori; Giancarlo Cesana, Docente di Igiene all’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
A seguire:
LE RAGIONI DEL FISCO. Etica e giustizia nella tassazione
Presentazione del libro di Franco Gallo, Giudice della Corte Costituzionale (Ed. Il Mulino). Partecipano: l’Autore; Luca Antonini, Vice Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
CAMILLO FORNASIERI:
Con questa fase finale della giornata vi sono proposte di lettura, di riflessioni che il Meeting sottopone a tutti noi. Il primo è della casa editrice De Angeli e si intitola La favola dell’aborto facile, le autrici sono Assuntina Morresi, Eugenia Rocella; con noi anche Giancarlo Cesana che ci offrirà qualche riflessione riguardo a questo lavoro.
Il tema, come già si intuisce dal titolo, riguarda quel dramma, quella tragedia che è l’aborto e la situazione delle varie legislazioni dei paesi tra cui l’italia, ma con un nuovo procedimento, una nuova possibilità, diciamo così, che è quella di questa “kill-pill” come viene definita nei paesi anglosassoni, la RU486, che apparentemente secondo la vulgata, secondo forti campagne di stampa, secondo anche l’andamento del dialogo pubblico che spesso è privo di conoscenze o volutamente copre e non dice, è l’aborto medico, l’aborto facile, è la possibilità di saltare la fase dell’aborto chirurgico. Abbiamo forse assistito a vari commenti che già da qualche tempo sono in corso anche nel nostro Paese.
Di recente è stato preso un provvedimento da parte del Ministero della Salute che riguarda appunto la necessità di assistenza in relazione all’uso della pillola RU486.
Il libro vuole rivelare i miti e la realtà di questo procedimento chimico e medico che copre e nasconde questo dramma e lo riconsegna nella solitudine e nella singolarità della madre, della donna, e rende ancora più drammatico questo fatto.
Il libro è di quattro anni fa e ha una parte aggiornata che appunto riguarda gli ultimi casi e anche le alte percentuali di morti relative all’utilizzo della pillola RU486. Dunque è un’occasione per renderci conto di più di una realtà, per renderci conto anche della complessità dei temi giuridici legati all’ospedalizzazione, e soprattutto un’occasione per cercare una verità più precisa e più reale su quanto sta accadendo in relazione a questo.
Io do subito la parola a Giancarlo Cesana, che ha titolo evidentemente per intervenire in questo campo essendo docente di Igiene all’Università di Milano Bicocca e anche presidente della Fondazione Ca’ Granda e Ospedale Policlinico di Milano.
Poi seguiranno gli interventi di Assuntina Morresi e di Eugenia Rocella.
GIANCARLO CESANA:
Io sono particolarmente lieto di fare questa introduzione dell’introduzione, perché sono grato a Eugenia Rocella e Assuntina Morresi di questa loro instancabilità nella lotta per evitare che l’aborto diventi un atto, o meglio, che la vita diventi una cosa banale, diventando banale anche il sopprimerla com’è in fondo l’intenzione della RU486.
Perché l’idea della sacralità della vita è stata introdotta nel IV secolo avanti Cristo da Ippocrate o chi per lui, si è poi affermata nel Cristianesimo e ha retto la pratica medica in Occidente e i rapporti tra le persone per secoli.
È da 40 anni che la vita non è più sacra, e la stanno facendo diventare sempre meno sacra, tanto è vero che un figlio quando non lo si vuole è una scocciatura e quando lo si vuole è un diritto: certamente non è più un dono.
Noi siamo all’alba di questo pensiero.
Cosa sarà tra cent’anni non lo sappiamo, avrà sicuramente degli effetti disastrosi, che già si cominciano a vedere sull’educazione; perché questa banalizzazione della vita, l’effetto negativo più grande che ha, è sul “vivere”, nel senso che la vita è progressivamente ridotta a niente, si vive per niente.
ASSUNTINA MORRESI:
Questo libro l’abbiamo presentato nella sua prima edizione 4 anni fa qui al Meeting sempre con Giancarlo Cesana, e quattro anni fa la nostra vita era tutto sommato ancora abbastanza normale: Eugenia Roccella era saggista e giornalista, io solo docente di Chimica all’università e non avrei mai pensato che dopo quattro anni sarei tornata qui a raccontare tutto quello che era successo, avendo vissuto questi anni ancor più da protagonista.
Questo perché quando quattro anni fa abbiamo presentato il libro, proprio qui da Rimini, abbiamo parlato pubblicamente spiegando che cos’era la RU486, e fin da allora per noi era chiaro che era un metodo per rendere l’aborto “facile”, ma a parole (in realtà era un metodo lungo, doloroso incerto), ed era un metodo che secondo noi voleva essere utilizzato proprio per baypassare la legge, che comunque non è che sia così restrittiva, che già c’è: quindi il primo allarme noi l’abbiamo lanciato dal Meeting.
Quello che è successo in questi quattro anni sostanzialmente sono stati, per quello che mi riguarda, cambiamenti minimi, cioè io sono entrata a far parte del Comitato Nazionale per la Bioetica, e quindi su questi temi mi sono confrontata con quelli che in Italia dicono la loro da tutti i vari punti di vista.
Eugenia Roccella, l’anno dopo della presentazione al Meeting, è stata portavoce del Family Day e poi è diventata Sottosegretario nel 2008 alla Salute, e quindi lei si è occupata in prima persona dei cosiddetti temi “etici” e si è trovata a seguire l’introduzione della RU486 in Italia.
Io collaboro con lei per alcune questioni più tecniche, io sono un chimico, al Ministero.
Ho detto questo perché?
Perché nel frattempo ci siamo rese conto che la scrittura di questo libro ci ha preparato alla nostra azione politica, soprattutto alla sua, la mia è più di supporto tecnico, all’interno del Ministero. Noi non avremmo, almeno, io non sarei stata capace di capire veramente quello che stava succedendo quando la pillola è arrivata in Italia, se alle spalle non ci fosse stato il lavoro di scrittura di quel libro.
Proprio per quello è stato più semplice, da un certo punto di vista, e più drammatico, perché ce ne rendevamo bene conto, renderci conto di quello che stava succedendo. Quando siamo arrivate al Ministero, la ditta che produceva la RU486, la Exelgin, aveva già fatto richiesta di commercializzazione in Italia, e i passi fondamentali per avviare la commercializzazione erano già stati fatti tutti dal precedente governo, quindi rimaneva solo da stabilire il prezzo.
Quello che è stato fatto da noi è stata soprattutto una battaglia e un’opera di governance. Che significa governance?
Significa che abbiamo cercato di governare tutti i passaggi e di capire quello che stava succedendo.
È stato impressionante per me, come primo passo, chiedere alla ditta Exelgin, chiarimenti sulle morti e sugli eventi avversi, ma chiederli dall’interno del Ministero, quindi con più ragione, con più autorevolezza.
Quando noi avevamo presentato il libro qui a Rimini quattro anni fa, avevamo documentato tredici morti: le avevamo trovate con molta fatica, proprio cercando di risalire dagli articoli dei giornali locali riportati in internet, cercando di leggere dai siti, dai blog anche personali, di risalire alle fonti, era stato un lavoro molto faticoso quello di far venire alla luce quelle tredici morti di cui parlammo proprio al Meeting.
E quando, da dentro il Ministero, abbiamo sollecitato le informazioni alla Exelgin, è arrivato il dossier con tutte le morti: le morti erano 29 ed è stato impressionante per noi aprire, avere tra le mani quel dossier, e ritrovare, segnalato dalla ditta che le aveva prodotte (quindi segnalato dai medici che avevano raccolto quelle esperienze), quello che con tanta fatica avevamo cercato negli anni precedenti e che eravamo riuscite a ricostruire.
Cioè tutto quello che noi avevamo trovato negli anni precedenti in maniera faticosa era già noto alla ditta e ci era confermato in tutti i particolari.
Nell’aggiornamento del libro noi abbiamo solo aggiunto un capitolo, perché tutta la parte precedente l’esperienza di questi anni ce l’ha confermata tutta nei fatti, nei numeri, nel giudizio, e purtroppo anche nelle modalità dei decessi.
Quando è arrivato il dossier delle morti, quel dossier era confidenziale e quindi noi non potevamo renderlo pubblico.
Di fatto ne abbiamo potuto parlare, l’abbiamo trasmesso all’agenzia nazionale del farmaco, all’ AIFA, per conoscenza, ma non potevamo renderlo pubblico.
Ne abbiamo potuto parlare quando c’è stata, lo scorso novembre, una indagine parlamentare nel corso della quale siamo state chiamate a raccontare, a render conto della nostra attività; e in quell’ambito, richiesta dal parlamento, ho raccontato di queste morti, ho dato conto e da quel momento sono diventate pubbliche.
Per me questa storia delle morti è particolarmente significativa, sia perché tutto questo è nato dall’aver trovato, cinque anni fa ormai, in internet la storia di Holly Patterson, che era una ragazza di diciotto anni che era morta a seguito dell’aborto con la RU486, sia per la mia esperienza personale: quando avevo diciassette anni ci fu il famoso referendum sulla legge 194 e io allora combattevo (e lo sono tuttora) contro quella legge, e ricordo che si parlava molto delle donne morte per aborto clandestino.
Mi sembrava strano, da parte di chi sosteneva la legge, che all’improvviso, adesso che c’erano delle donne che erano morte per aborto “legale”, a nessuno gliene importasse più niente: cioè le stesse persone che erano così attente alle donne che tanti anni fa erano morte per aborto clandestino, io mi aspettavo di trovarle accanto a me adesso che c’erano le notizie di donne morte per aborto legale.
Non solo, queste morti era stato tanto faticoso per noi trovarle prima di arrivare al Ministero, e la ditta ce le ha comunicate solamente quando è stata costretta a comunicarcele.
Ma questo fatto sulla stampa ha fatto fatica a venire fuori, è venuto fuori solamente quando tutta questa battaglia è diventata una battaglia politica.
Cioè, finché noi abbiamo detto, raccontato in giro negli incontri, non è successo niente, non riuscivamo a fare arrivare queste notizie ai giornali, al grande pubblico, ci riuscivamo solo in ambienti riservati, in circuiti più piccoli.
Tutto questo è riuscito a arrivare sui giornali, quindi è stato possibile per noi costruire una battaglia per far capire cosa stava succedendo, quando tutto questo è diventato una battaglia politica, e questo è importante, è importante che noi lo capiamo: i dettagli di quello che è successo in Italia in questi quattro anni li troverete nel libro, nel libro c’è tutta una parte in cui si spiega che cos’è l’aborto, che è la parte precedente, c’è poi la storia della pillola, ci sono le tredici morti (quelle fino al 2006), e poi sono aggiornate con quello che abbiamo saputo dalla Exelgin, e nell’ultima parte del libro, quella nuova e abbastanza corposa, ci sono tutti i fatti successi in Italia.
Quello che però mi preme dire è che è stato fondamentale che tutto questo sia diventato una battaglia politica.
Battaglia politica vuol dire che comunque, pubblicamente, chi regge le sorti del paese se ne fa carico e la mette nell’agone pubblico.
Prima, nell’incontro precedente, per farmi capire, si è parlato della questione Englaro. Quand’è che la questione Englaro è stata dirompente ed è arrivata a tutti?
Non quando, con un gesto assolutamente meritorio, le bottigliette d’acqua sono state portate sui gradini del Duomo: quello era un gesto significativo, meritorio, di testimonianza, ma quello non ha smosso la politica.
È diventata battaglia politica quando nel Parlamento, i parlamentari hanno chiesto, hanno sollevato un conflitto di competenze e quando il Ministro Sacconi e il Sottosegretario Roccella hanno fatto l’atto di indirizzo, cioè quando alcuni politici hanno messo, hanno buttato nel Parlamento, hanno lanciato il problema e l’hanno affrontato insieme agli altri politici, l’hanno imposto.
Solo così è possibile che si apra una discussione e la vera, la prima vittoria di queste battaglie è “farle diventare” battaglie: il problema di questi temi, dei cosiddetti temi etici, dalla RU486 al caso Englaro, ai fatti che si sono succeduti in questi anni, è che rischiano di passare sotto traccia, e quindi alla fine rischiano di non essere capiti mentre stanno succedendo, e quindi di non essere giudicati.
Quando è arrivata in Italia la pillola del giorno dopo, nel ’99, la politica non se n’è accorta, se ne è accorta pochissimo, e quindi è scivolata via e ce ne siamo accorti quando oramai era nelle farmacie.
La RU486 ha rischiato di fare la stessa fine: se non ci fosse stata una battaglia politica, sarebbe successo in Italia come negli altri paesi: cioè che la pillola sarebbe arrivata pian piano e sarebbe diventata una prassi.
Poi, come è successo in Francia, la legge ne avrebbe preso atto. La battaglia politica è importante quindi, perché?
Perché sia possibile per tutti dare un giudizio consapevole su quello che sta avvenendo. Senza battaglia politica, quindi senza battaglia pubblica, tutte queste tematiche scivolano via e non ci rendiamo conto di quello che succede.
Quindi a chi mi dice, perché si incontra in giro la gente che dice: “Attenzione, però abbiamo perso, la pillola è arrivata”, dico: “No, la battaglia è appena cominciata, innanzitutto tu lo sai che è arrivata, sai che sono successe delle morti, sai come funziona, sai qual è il problema, che non è semplicemente una tecnica per abortire ma è un modo per nasconderE questo aborto, è un modo per fare un salto di qualità peggiore, è un modo per nasconderlo e impedire di giudicarlo”.
Quindi io vorrei che chi di voi leggerà il libro, capisse che è importante che tutto questo diventi giudizio pubblico e battaglia politica, altrimenti non è possibile giudicare e capire quello che succede, non è possibile poi governare questi processi. e arrivo alla questione della governance.
Adesso ci sono le leggi oramai sull’aborto, sulla procreazione medicalmente assistita, fra poco sul fine vita probabilmente, ma non è che “fatta una legge” poi tutti a casa, è finita la battaglia, è finito tutto.
È lì che inizia innanzitutto per noi l’opportunità, la possibilità, il dovere di governare, di monitorare, di capire quello che succede, di seguire quello che succede.
Faccio un esempio: per la legge 40, per i primi anni, sono stati diffusi i dati in maniera distorta per far pensare che la legge era una legge ingiusta, crudele, ecc.
Quando siamo riusciti a far capire che così non era, poi è cambiata anche la percezione dell’opinione pubblica; però nel frattempo tutta una “non governance” dei dati, il fatto di non essere riusciti a far capire che invece ci dimostravano che la legge era buona, ha fatto sì che si generasse una grossa opposizione a questa legge, anche se noi eravamo riusciti a mantenerla con il referendum.
Governance significa controllare i dati, significa finire i processi, per la RU486 significherà capire cosa faranno le donne, controllare che veramente l’aborto con la RU486 avvenga in regime di ricovero ospedaliero, così come detto dal Consiglio Superiore del Senato, controllare che non sfugga, capire come poi nei fatti viene effettivamente condotta la pratica all’interno degli ospedali.
Quindi, e con questo finisco, nel libro troverete le informazioni (che probabilmente molti di voi via via negli anni hanno già letto) sulle modalità dell’aborto, su quello che è successo negli altri paesi e, da ultimo nell’aggiornamento, su quello che è successo in Italia.
Ma è importante che sia uno strumento per una battaglia politica e pubblica di giudizio di tutti noi.
Questo significa che a livello locale, per esempio, si deve chiedere agli amministratori di render conto di come localmente questa modalità di aborto viene praticata, di tener conto di cosa effettivamente avviene negli ospedali e solo avendo una conoscenza approfondita di quello che significa l’aborto con la RU486 è possibile che questa battaglia politica non sia solo di alcuni ma sia di tutti: seguire e rendere pubblico il confronto, la discussione su questo tema.
Di questo non dobbiamo mai stancarci, perché seguire, rendere “pubblica” è la prima vittoria, perché noi abbiamo ragione, insomma la verità è dalla nostra, il nostro giudizio purtroppo si è rivelato corretto sui pericoli di questa pillola e quindi noi abbiamo il dovere di fare questa battaglia pubblica tutti i giorni, ognuno là dov’è con le informazioni che noi abbiamo cercato di dare nel libro.
Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
C’è ancora una battuta di Cesana.
GIANCARLO CESANA:
Una rapidissima testimonianza a riguardo di quanto lei diceva adesso.
Il lavoro che hanno fatto loro ha permesso, almeno nell’ambito della sanità lombarda – io sono presidente dell’Ospedale dove ci sono probabilmente più nascite e quindi anche più morti – la formulazione di moduli di consenso informato molto ben fatti e adeguati appunto a permettere una scelta consapevole, e questo fatto sta determinando una richiesta molto contenuta di pillole, molto bassa.
Non è che non abortiscano, perché abortiscono in un altro modo; però questa idea, che la banalizzazione della vita è un gioco pericoloso, è una piccola idea che vale la pena di avere chiaramente in mente.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie. Adesso a Roccella chiediamo di entrare magari anche di più nel merito degli aspetti legislativi attuali e anche nel cambiamento culturale che questa banalizzazione medica porta.
EUGENIA ROCCELLA:
Sì, l’intervento politico sostanzialmente l’ha fatto la mia amica Assuntina Morresi, quindi io magari faccio altro.
Intanto vi ringrazio, perché io sono molto felice ogni volta che vengo al Meeting, perché è un appuntamento straordinario, con un pubblico straordinario, è un’occasione che è difficile riprodurre in altri incontri, in altro modo, è irripetibile e sono grata a Giancarlo Cesana perché all’inizio ha avuto fiducia in noi (anche Vittadini fra l’altro).
All’inizio ha avuto fiducia in noi, nel nostro libro-inchiesta, nella nostra insistenza un po’ da fissate sulla RU486 che, quattro – cinque anni fa, quando noi ce ne occupavamo, nessuno sapeva bene che cosa fosse, e noi sembravamo delle pazze che andavano in giro, scrivevano articoli a tutto spiano su questa pillola, sui pericoli di questa pillola, sulle morti, sulle storie di queste morti.
Perché quando si dice “Tredici morti”, colpisce poco.
Alla fine qualcuno ci ha pure detto: “Vabbè, ma in fondo tredici morti che cosa sono?”, parlo delle morti che noi avevamo già documentato nel libro.
Ma tredici morti sono tredici storie, tredici donne con delle facce, con dei figli, come la storia di Holly Patterson che era appena diciottenne, o la storia di Rebecca Telberg: a me piace ricordare i nomi e i cognomi, visto che non posso ricordare i volti di queste donne. Rebecca Telberg aveva sedici anni ed è morta dissanguata sotto la doccia, perché uno dei rischi di questa pillola è proprio questo: se la si prende a casa, come avviene in gran parte del mondo e come alcuni vorrebbero che la si prendesse anche in Italia (cioè non in ospedale con il ricovero ordinario), può dare origine anche a situazioni di questo tipo, perché la vigilanza sui sintomi è affidata alla donna.
Quindi se io, per esempio, sottovaluto come questa ragazzina i sintomi di un’emorragia, posso morire così, banalmente, sotto la doccia.
Ecco, io penso che è un po’ come se rendessimo conto al pubblico del Meeting che ci ha ascoltato quattro anni fa di quello che è successo, di cosa abbiamo fatto in questi quattro anni.
Cosa abbiamo fatto sta scritto in questo libro che, fra l’altro, è utile anche perché dà una panoramica globale dell’uso della pillola RU486, di quello che succede anche nei paesi di cui non sappiamo assolutamente nulla sul piano delle morti come l’Asia, come l’India, come la Cina; possiamo solo sospettare, possiamo avere indizi da denunce di associazioni umanitarie, ma non sappiamo in realtà se ci sono incidenti (siamo sicuri che ci sono), non abbiamo dati.
Quindi come è stata diffusa, perché è stata diffusa, con quale scopo è stata diffusa: è lo scopo del controllo delle nascite, della facilitazione dell’aborto, di un aborto anche laddove non c’erano strutture sanitarie, dell’aborto proprio di massa senza la possibilità di controllo né sanitario né di governance, come diceva la mia amica Morresi.
Allora, noi abbiamo fatto prima di tutto, e ne siamo fieri, un’operazione di verità: abbiamo evitato che tutto quanto scivolasse nel silenzio, che queste morti di cui nessuno sapeva scivolassero nel silenzio.
Basta pensare che le tre morti inglesi non sono mai uscite sui giornali, e parliamo della libera stampa anglosassone, non parliamo della stampa di un paese con una dittatura o con un regime autoritario.
Noi abbiamo fatto un’operazione contro la banalizzazione del silenzio, cioè un silenzio che considera tutto questo come una cosa quotidiana, che può avvenire, morti che possono avvenire, aborti che possono avvenire, aborti che riguardano solo la coscienza individuale, cioè aborti che sono fatti privati.
Come in America, dove l’aborto è stato introdotto da una legge, da una sentenza sulla privacy.
L’aborto non riguarda solo la coscienza individuale, l’aborto riguarda tutti noi, interpella le coscienze di tutti perché siamo tutti coinvolti in qualche forma: è coinvolta la donna, ma è coinvolto il padre (spessissimo non se ne parla), nel bene e nel male c’è sempre un padre che ha detto una parola o non l’ha detta, che ha dato un sostegno o non l’ha dato, che c’era o non c’era.
C’è il medico, ci sono le strutture sanitarie, c’è una società che è responsabile, c’è una politica che è responsabile, e non è soltanto l’aiuto economico che evita gli aborti.
Noi abbiamo visto che, per esempio, i dati smentiscono che la questione centrale sia quella dell’aiuto economico: la metà delle donne che abortiscono in Italia sono sposate e occupate, solo una percentuale molto piccola è disoccupata.
E, d’altra parte, la mia amica Paola Bonsi che opera alla Mangiagalli ed è la responsabile del Centro per l’Aiuto alla Vita, dice che lei è umiliata certe volte dal fatto di dover offrire alle donne, per aiutarle a scegliere di non abortire, una cifra minima, irrisoria, degli aiuti piccolissimi.
Ma a volte bastano aiuti piccolissimi, a volte basta una mano tesa, a volte basta evitare la solitudine, mentre questa pillola, oltre a tutti i rischi medici e a tutti i rischi documentati sul piano sanitario, porta anche questo rischio: una solitudine assoluta, una solitudine vissuta nelle mura domestiche, che anche in caso di complicazioni sanitarie fa qualcosa che avviene tra il bagno e la cucina, in cui al massimo possiamo fare una telefonata, al massimo abbiamo un numero di telefono.
Non abbiamo una voce amica, non abbiamo una persona che ci da aiuto, non abbiamo qualcuno accanto a noi.
Io vorrei che questo non accadesse.
“Ma siete stati sconfitti e la pillola è passata”.
A parte il fatto che sia passata, lo dobbiamo dire e non è un’affermazione scarica barile, purtroppo è stata una delle ultime cose fatte dal governo Prodi, perché il comitato tecnico e scientifico dell’AIFA ha dato l’approvazione poco prima che il governo Prodi cadesse.
Noi comunque abbiamo dato dei limiti molto precisi, non soltanto dei modi di assumere la pillola, che sono quelli indicati dal Consiglio Superiore di Sanità: la Morresi ha invitato tutti ala vigilanza, che è fondamentale proprio perché abbiamo detto che questa questione interpella tutti.
E ci interpella anche sul piano della consapevolezza di quello che accade, di quello che noi dobbiamo chiedere a chi governa nelle nostre regioni, perché è noto che sono le regioni a governare la sanità.
Ci sono regioni che hanno scelto o che stanno scegliendo in contrasto con quello che ha indicato il Consiglio Superiore di Sanità italiano, massima autorità scientifica italiana e quindi non certo sospetta di tendenze politiche, visto che ci sono tre diversi pareri di tale Consiglio dati in epoche diverse e con presidenti diversi (e anche presidenti del consiglio diversi) sulla pillola abortiva e sono tutti sulla stessa linea: la sicurezza della pillola abortiva è pari a quella dell’aborto chirurgico solo se l’intera procedura avviene in ospedale, anche se a questo ci potevamo arrivare col semplice buon senso.
Perché è chiaro che se abbiamo qualcuno che, nel caso di emorragia, può intervenire subito, o nel caso di un’infezione o nel caso di qualunque complicanza, è molto diverso da quello che può accadere in casa se abbiamo semplicemente in mano un numero di telefono o se dobbiamo decidere noi se è il caso o non è il caso di correre in ospedale.
Ma comunque ci sono tre diversi pareri molto precisi del Consiglio Superiore di Sanità.
Ci sono invece regioni che hanno deciso di fare il day-hospital: il day-hospital è la strada maestra per l’aborto a domicilio, per l’aborto “fai da te”, per la solitudine assoluta, per la donna che non ha accanto nessuno.
Quindi noi possiamo chiedere conto, ovunque siamo, di che cosa fa la nostra regione, quali protocolli vengono applicati sulla pillola abortiva, quali sono i consensi informati, che cosa si fa per aiutare le donne a non essere da sole in questo momento di estrema fragilità.
La maternità è qualcosa che interpella tutti, quindi anche la “non maternità”.
La maternità non è una questione privata, perché se si riduce a una questione privata allora non possiamo che ammettere il diritto al figlio, e poi il diritto al figlio sano, e poi il fatto che il figlio diventa un oggetto, un optional, qualcosa sullo scaffale che noi possiamo prendere o non prendere nel momento in cui noi decidiamo che è opportuno per la nostra vita avere anche questo optional in più.
Non è così: non solo la vita è un dono e il figlio è un dono, ma c’è proprio qualcosa di più, c’è il significato profondo della maternità, che si riverbera poi su tutto: sul nostro senso della famiglia, sul nostro senso del dono, della capacità di solidarietà, di riconoscere l’altro come fratello, su tutta una visione antropologica che è poi il fondamento del nostro vivere civile.
Quindi non è soltanto una questione di aborto, è una questione molto più larga, è una questione di come noi concepiamo le relazioni più elementari, fra madre e figlio, fra padre e figlio, e quindi le relazioni che sono alla base della comunità, cioè le strutture di parentela che noi sappiamo essere quelle che fondano poi il legame di comunità.
Noi abbiamo cercato, sia con le linee guida che abbiamo emesso come Ministero e che seguono le indicazioni del Consiglio Superiore di Sanità, sia con un parere che il Ministro Sacconi (che allora era Ministro della Salute) ha comunicato all’Unione Europea, abbiamo cercato di dare dei precisi binari alla pillola abortiva.
Con questa comunicazione all’Unione Europea abbiamo detto che la pillola può essere introdotta in Italia solo in compatibilità con la legge 194, che dice che l’aborto deve avvenire all’interno delle strutture pubbliche: questo ha detto anche la Commissione al Senato, che ha fatto le indagini parlamentari sulla pillola, e questo ha detto il Ministero, quindi comunicato dal Ministro all’Unione Europea.
Se alla fine, nell’arco di uno o due anni, vedremo che l’introduzione dell’aborto farmacologico è solo un metodo per scavalcare la 194, per allargare le maglie di una legge che pone in realtà dei paletti molto precisi fra cui questo dell’aborto nelle strutture pubbliche, allora dovremo rivedere tutto da capo: cioè non consentiremo però, nelle libertà che pure hanno le regioni e senza scavalcare le competenze regionali in materia, che il metodo dell’aborto farmacologico diventi un modo per scardinare la legge 194.
Legge che, peraltro, a parole, viene difesa dalla sinistra e poi vediamo invece quanto, nei fatti, questa sarà effettivamente la linea che anche le regioni di sinistra terranno su questo argomento.
Noi vogliamo che questo diventi un punto fondamentale, che la questione della maternità e dell’aborto diventi un punto fondamentale dell’azione anche di questo governo.
Io vi invito a leggere anche l’Agenda Bioetica che abbiamo fatto con il governo, che il Ministro Sacconi fra l’altro ha presentato al Meeting ieri e che abbiamo presentato insieme anche al Ministro Fazio.
Dentro ci sono tutti gli appuntamenti su cui vogliamo caratterizzare il nostro governo, proprio sui temi etici, che sono i temi dell’umano, i temi su cui ognuno di noi si riconosce come uomo, cioè la visione antropologica che è alla base di tutto, del nostro vivere e del nostro fare politica.
Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie. Accogliendo il piglio del loro lavoro e anche questa battaglia “al centimetro” che ci è chiesta, chiedo una parola conclusiva a Cesana.
GIANCARLO CESANA:
Ringrazio. Io tengo a dire fondamentalmente una cosa: che Assuntina ed Eugenia sono due esempi di pensiero passionale e originale, ostinate come sono ostinati i fatti.
Non so su altro, ma su questo vanno imitate.
CAMILLO FORNASIERI:
Chiamo i protagonisti della prossima presentazione. Ben ritrovati a coloro che sono rimasti. Abbiamo un libro, una proposta editoriale del Mulino, nella sezione saggi, l’autore è Franco Gallo, il titolo Le ragioni del fisco, etica e giustizia nella tassazione. Il tema è uno di quelli spinosi, nel senso che poi tocca le singole persone, tocca ambienti, tocca le realtà plurime di cui è composta la società. Lo studio che questa sera abbiamo occasione di conoscere, è uno strumento molto importante, perché ha un excursus storico che riguarda proprio le peculiarità della concezione italiana, la storia di alcune figure che hanno pensato e ideato le forme riguardo al fisco e per ritrovare le ragioni di quelle esperienze e soprattutto illuminare le ragioni del presente e anche trovare nuove strade. Abbiamo tra noi il professor Franco Gallo che salutiamo, l’autore, lui è ordinario di Diritto Tributario, Accademico dei Lincei e Giudice presso la Corte Costituzionale, quindi una figura che ha attraversato molti campi e molti aspetti, da quello formativo a quello dello studio e della ricerca, a quello della complessa, come dire, applicazione e vigilanza, tutela delle nostre legislazioni. Insieme all’autore c’è Luca Antonimi, anche lui professore ordinario, professore di diritto costituzionale presso l’università di Padova, e vicepresidente della Fondazione per la Sussidiarietà. Visto anche il tema che coinvolge abbastanza il nostro correlatore, chiederei a lui un primo intervento e anche qualche domanda che un po’ semplifichi e un po’ ci faccia entrare in questo bel contributo che il professor Gallo ci dà.
LUCA ANTONINI:
E’ sicuramente molto interessante il dialogo con il professor Franco Gallo, perché Franco è stato Ministro dell’Economia, è giudice della Corte Costituzionale; è un po’ il padre dei tributaristi italiani delle finanze e quindi è una persona che ha un’esperienza sul campo estremamente interessante sia come ministro sia oggi come giudice. Primo tributarista ad andare alla Corte Costituzionale si è distinto per il contributo dato alla giurisprudenza della Corte. Per esempio, nell’ambito del federalismo fiscale che si sta facendo, che si sta realizzando, il faro è stato la giurisprudenza della Corte Costituzionale. È anche un uomo di grande cultura, perché appunto è un accademico dei Lincei, insieme col collega Paolo Grossi che è qui presente, per cui è estremamente interessante ragionare sul tema, il fisco, che è un tema di estrema attualità, estrema attualità perché si parla di federalismo fiscale, si parla di riforma fiscale con una persona che ha questa esperienza e questa cultura. Quindi queste due coordinate permettono il dialogo. La prima domanda che gli vorrei rivolgere parte da una provocazione, che è la provocazione del Meeting. Il titolo “Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore” non è che non c’entri con una problematica come quella fiscale, una problematica della realtà concreta, della quotidianità, è che c’entra con l’idea della giustizia, della giustizia sociale. E non è che non c’entri perché sono andato a vedere insieme proprio a Franco la mostra del Buon Governo, sul Buon Governo di Lorenzetti, e c’era proprio nello statuto della città una frase che ci ha colpito, perché ad un certo punto si dice: “Questa santa virtù la dove regge induce ad unità gli animi molti, questi a ciò rivolti guardano un bene comune e si impegnano a – i governatori – a non tenere mai gli occhi distolti dalle virtù che intorno a loro si danno. Per questo con trionfo a questa realtà, a questo comune, a questo bene comune, si danno censi tributi e signorie di tasse”. Allora il dialogo spesso sul sistema fiscale che è un punto cruciale della democrazia è un dialogo assolutamente retorico, fatto di luoghi comuni di bassa portata, quindi l’incontro, il dialogo con Franco Gallo su un tema che ci tocca da vicino tutti è estremamente interessante, soprattutto anche nello scenario che noi andiamo ad analizzare, che è uno scenario appunto in cui siamo in uscita ancora non completa da un fenomeno di crisi globale dovuta ad un eccesso di liberalismo, il cosiddetto mercatismo che ha dominato l’ideologia quotidiana e la vita anche economica. Per cui la prima domanda che io farei a Franco Gallo è come lui sente la questione anche alla luce del pensiero, della cultura del fisco.
FRANCO GALLO:
Ma, siamo in una fase storica molto delicata, come avrete percepito leggendo i giornali seguendo il dibattito. Dico storica, non politica. Lo si percepisce nel dibattito di questi ultimi dieci, quindici anni sui tributi, sull’imposizione, sul concetto di stato, sul welfare state sui limiti del welfare state, sui limiti dell’intervento sociale e tutti abbiamo percepito che specie negli ultimi anni un po’ per inefficienza dell’amministrazione, un po’ perché la spesa pubblica è elevata e non è appunto efficiente, si tende a porre l’accento sulla tasse in senso diciamo negativo, tornando un po’ a schemi ideologici che son quelli di metà dell’Ottocento o del primo Novecento. Si tende a ragionare, riguardo al tributo, in termini espropriativi, in termini di oppressione o repressione, dimenticando che questo era un modo di intendere la funzione del tributo nel primo Ottocento, quando lo stato era uno stato liberale ottocentesco, quando l’economia era retta dal principi liberisti, quando l’imposizione era vista in un ottica commutativa, corrispettiva, era richiesto cioè un servizio e si chiedeva quindi qualche cosa per finanziarlo. Da allora si sono fatti dei passi avanti, lo stato è intervenuto nell’economia, le infrastrutture e sovrastrutture sono a carico del potere pubblico e quindi la necessità di finanziare questi servizi, queste opere è passata nelle mani dello stato, del potere pubblico e quindi naturalmente il finanziamento è stato posto a carico della collettività, cioè si è passato da quello che si chiama tassa, pagamento del corrispettivo per un servizio, a quello che è imposta, cioè il pagamento di una somma per un intervento di carattere generale. Tutto questo è avvenuto soprattutto prima della seconda guerra mondiale. Lo stato di diritto è uno stato che richiedeva, in nome della sovranità dello stato stesso, a dei soggetti di pagare delle somme, purché queste somme fossero garantite dalla legge, il famoso principio anglosassone del no taxation without representation. Qual è il secondo passaggio più importante che è avvenuto? È avvenuto nel dopoguerra, nel secondo dopoguerra, quando la nostra Costituzione, frutto di un compromesso, onorevole a mio avviso, fra il movimento cattolico, il movimento diciamo comunista e gli azionisti, che erano ancora un altro tipo di situazione, di posizione politica, ha prodotto la nostra Costituzione, dove il tributo è diventato qualcosa chiesto dallo stato in nome del suo potere e supremazia in termini coercitivi. Devo pagare il tributo perché me lo ha chiesto la legge, per cui sono obbligato a pagarlo, ma è diventato un modo di concorrere alle pubbliche spese, infatti la nostra Costituzione parla di “concorso di pubbliche spese”. Questa è la logica vanoniana, la logica del movimento cattolico del dopoguerra, dove tutto girava attorno al bene comune, tutto girava intorno alla necessità di finanziare il bene comune, non in un’ottica coercitiva, ma in un’ottica che direi paritetica, un’ottica di contribuzione. Io concorro alle pubbliche spese perché questo è un bene costituzionale di solidarietà. Il passaggio quindi qualificante, il contributo, è avvenuto negli anni Sessanta, negli anni Settanta, dove il tributo non è rimasto il costo dei diritti – ho un diritto e quindi devo esercitarlo e quindi pago – non è soltanto il frutto di autolimitazione dell’individuo, lo stato liberale, il quale decide di pagare qualche cosa per essere tutelato o in via giudiziaria o in via di polizia o di sicurezza, per avere i servizi essenziali o per avere un esercito, ma è qualcosa di più. È da una parte il praemium libertatis, cioè qualcosa che ho in cambio della libertà, e dall’altra diventa anche uno strumento per superare gli squilibri geoeconomici, gli squilibri sociali, per ridurre le disuguaglianze, cioè si usa il tributo come strumento non soltanto che serve per garantirci la libertà, questo è un fatto importante, ma per darci anche l’uguaglianza. Il passaggio, la connessione tra uguaglianza e libertà passa attraverso lo strumento del tributo, che è lo strumento che viene utilizzato dagli stati più illuminati per consentire attraverso un mix di intervento, spesa pubblica da una parte, spesa pubblica dall’altra, di superare gli squilibri. Questo è un discorso che oramai tutti abbiamo accettato fino agli anni ’80-’85, poi cosa e successo dal punto di vista storico? L’eccesso della spesa pubblica, l’aumento delle entrate collegate al fatto che se aumenta la spesa pubblica doveva essere finanziata attraverso il sistema fiscale, l’inefficienza della amministrazione e tutto quello che sappiamo, lo stato assistenziale per capirci, che è il lato negativo dello stato sociale, hanno comportato un’antipatia non verso la spesa pubblica, ma verso il tributo, che invece è soltanto lo strumento neutrale, non è un disvalore per la spesa. Cioè il tributo, io non riesco a pensarlo come un fatto negativo in sé, è un fatto che serve soltanto, uno strumento per la spesa. L’inefficienza della spesa non deve riflettersi come concetto negativo sul tributo, il tributo dipende da come uno poi lo spende, lo utilizza. Allora negli anni ’80 -’90, tutti noi sappiamo, è venuto fuori quel discorso in cui si è utilizzato la critica al tributo come modo per ridurre la spesa; non si è fatta politica, di sinistra di destra di centro, per ridurre la spesa o renderla più efficiente, si è tentato di fare una richiesta politica di riduzione delle entrate per far sì poi che le spese fossero ridotte. E questo, almeno come mio punto di vista non so cosa ne pensate voi, mi sembra un po’ un non senso, perché significa dare al tributo un disvalore che non deve avere, che non può avere, è un fatto neutrale il tributo. Ogni governo se vuole avere un welfare state efficiente o ricco, applicherà i tributi, in Svezia in Norvegia siamo a 60-50%, se un governo vuole avere invece più privatizzazione e meno stato sociale, meno servizi pubblici, avrà tributi più bassi, ma il tributo in sé non è un fatto negativo, questo mi sembra importante. Tutto questo è molto interessante, perché quello che io ho detto è il frutto non solo del pensiero, come tutti potrebbero pensare, non so laico, di certi intellettuali libero-americani, tipo Amartya Sen, tipo Rawls, questi filosofi che sono il punto di riferimento dei liberal occidentali, ma è il frutto soprattutto del pensiero cattolico cristiano del dopoguerra. Ezio Vanoni ha sempre visto il tributo in questo senso, come strumento per l’equilibrio. La scuola grizzottiana, che fa capo a Grizzotti ma soprattutto a Vanoni, ha sempre guardato al tributo nel senso in cui vi ho detto. La Costituzione, articolo 53 “ciascuno concorra alle pubbliche spese” è stato scritto da Ezio Vanoni e dal gruppo che stava intorno a lui nella Costituente e anche a livello diciamo ecclesiale io ho raccolto alcuni passi del pensiero cattolico, non dico più illuminato, ma a me sembra tradizionale, in cui si dice (vi leggo per esempio un intervento del cardinale Martini): “Il fisco è equo quando da una parte fa sì che individui e gruppi identici o simili vengono trattati in maniera la più possibile uguale o analoga e dall’altra – attenzione – che chi è in condizioni di sostenere un sacrificio più elevato contribuisca in proporzione secondo criteri ragionevolmente progressivi a ciò che è richiesto dal bene comune dell’intera collettività”. È detto molto bene quello che io ho appena espresso all’inizio del mio intervento. Il cittadino contribuente e i gruppi sociali o territoriali di cittadini contribuenti, quindi già si pensa al federalismo fiscale o decentramento, sono consapevoli che se pagano più di quanto ricevono, altri individui e gruppi ne traggono un beneficio da ciò che è stato pagato. Beh insomma scusate, questo è la sintesi della norma costituzionale del concorso alle pubbliche spese attraverso l’imposizione. E la cosa che mi sembra più interessante è il seguente passaggio della voce tassazione del Compendio della dottrina sociale della Chiesa, elaborato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. C’è un punto che, dopo aver ribadito il discorso che ha fatto Martini e che vi ho letto, parlando della spesa pubblica e della voce tassazione, dice esattamente questo: “il cattivo uso che il governo fa del prelievo fiscale non dipende dal pagamento; per cattivo che sia l’uso nella complessità dell’economia attuale, solo lo stato può contare i problemi cosiddetti macroeconomici ed oggi è principalmente da questi problemi che dipende la qualità della vita di una comunità politica. La chiesa guarda allo stato come fattore essenziale di mediazione fra società ed individuo”. Attenzione, questo è molto interessante, perché è molto politico ma molto vero, l’inadempienza degli apparati governativi non giustifica l’inadempienza del singolo cittadino. Questo è molto bello e impone moralmente in un regime democratico di mandare a casa i cattivi governanti alle prime elezioni. Questo non lo dio io, non lo dice il mio libro, ma lo dice la chiesa attraverso un documento ufficiale. Mi fermo qua, sei d’accordo?
LUCA ANTONINI:
Sì. Ti passo subito un’altra provocazione, perché tu mi ricolleghi proprio il fattore della imposizione fiscale al problema della giustizia distributiva e quindi della giustizia sociale, no? Tu parli anche di riforma del welfare, no? e fai riferimento anche al principio di sussidiarietà e alla ragionevolezza dell’imposizione.
FRANCO GALLO:
Anche su questo io ho trovato dei punti di incontro, quando si dice poi che sono gli scontri e l’impossibilità che i movimenti di pensiero possono incontrarsi su certi argomenti fondamentali. Sul tema del tributo per esempio io ho trovato che tutto il pensiero liberale non liberista, quello insomma dei filosofi occidentali di cui parlavo prima, Rawls, Amartias Sen, questi cioè che guardano alla responsabilità collettiva e non individuale, che guardano più hai diritti sociali che alla proprietà, si incontrano con il pensiero cristiano. Stavo leggendo l’altro giorno per caso l’intervento che avrebbe dovuto fare il Papa Ratzinger all’incontro presso la Santa Sapienza di Roma, l’Università, che non gli fu consentito fare perché ci fu, ricordate, una protesta di alcuni studenti, lui però quel documento che avrebbe letto lo ha distribuito, lo stavo rileggendo. Ebbene, Ratzinger, che oltre essere papa è anche un filosofo, in questo documento, che è un documento molto colto, da intellettuale più che da capo della chiesa, dialoga con Rawls e dialoga con Habermas, forse per me uno dei più grandi filosofi viventi, uno dei pochi che è rimasto ancora vivo, gli auguro col tempo lunga vita e si domanda: come deve essere la giustizia? Rivolto ai giovani di giurisprudenza, voleva rivolgersi ai giovani di giurisprudenza, deve essere la giustizia equa? Che vuol dire giustizia equa? Deve tendere alla verità? E lui dava risposta in linea con filosofi tra l’altro neanche religiosi, come Rawls, come Habermas. Lui dice, io sono d’accordo con Habermas e con Rawls nel dire che la giustizia per essere accettata e per essere costruita debba essere ragionevole. Lui parla di ragione. Poi naturalmente la ragione di Ratzinger è la ragione che affonda le sue radici nel pensiero cristiano, è la ragione evidentemente che come sapete fa riferimento a san Tommaso, ad Agostino, però la ragione di cui parla lui è la stessa dal punto di vista della giustizia nel momento attuale di Habermas. La ragione cos’è per Ratzinger? È il frutto di un bilanciamento tra interessi e tra principi. In fondo per noi giuristi che cos’è il tributo? Il tributo è una prestazione richiesta a dei soggetti per mediare, per bilanciare tra la tutela democratica della proprietà, che è un diritto assoluto, che è un diritto importante, che è un diritto fondamentale e i diritti economici tra i quali rientra per primo il diritto sociale. Cioè la giustizia ragionevole è il frutto di un bilanciamento che spetta al legislatore tra tutela del diritto proprietario e la tutela del diritto sociale. Questo è un argomento molto delicato, perché quando voi pensate a tributo, a cosa pensate normalmente? Alle vostre tasche, alla vostra proprietà, pensate ai diritti proprietari che sono lesi dalla potestà di imposizione, è lo stato che interviene con leggi e vi chiede qualche cosa, si incide sulla proprietà, e qui voi siete disposti a dare ma a che condizioni? La risposta che dà Ratzinger è: a condizione che il legislatore bilanci tra gli interessi sociali alla base del welfare state e i diritti proprietari che sono alla base dei diritti fondamentali. Il discorso diventerebbe lungo, no? Per cui uno dice: ma allora questo che significa? Qual è il limite all’imposizione, il bilanciamento trova un limite? Può il legislatore addirittura abolire la proprietà in nome dell’imposizione? In nome dei diritti sociali? Certo no, ma neanche può abolire i diritti sociali in nome della proprietà. Ecco il frutto del bilanciamento, qui è giusto che ci siano riscontri politici e che i vari partiti secondo gli orientamenti politici attuino delle scelte. Chi è più orientato sul sociale punterà sui diritti sociali, chi sta sul fronte della proprietà o del mercato sta più sul diritto proprietario, preferisce quindi privatizzare e non socializzare.
CAMILLO FORNASIERI:
Antonini, suggerisco per concludere se si può aprire un piccolo capitoletto sul tema del federalismo fiscale.
LUCA ANTONINI:
Prima gli facciamo una domanda un po’ provocatoria, di carattere tecnico non politico. Visto che adesso si parla di appunto di riforma del sistema fiscale, c’è un modello ottimo, un’ottima imposta, il modello ottimo tu come lo vedresti disegnato? Oggi per esempio la progressività è in crisi, perché si dice: tanto più aumenti la progressività, tanto più i capitali se ne vanno in un contesto globalizzato, no? E allora qui il libro è estremamente interessante anche per le formule nuove che porta avanti, quindi se ci dai un flash su questo aspetto e poi una domanda conclusiva sul federalismo fiscale, che mi sembra però l’emblema di quella dissociazione che tu dicevi, cioè non si attacca la spesa pubblica dissennata, uno attacca l’idea del fatto che mi vieni a chiedere le imposte. In fondo il federalismo fiscale vuole rimettere in asse le due coordinate, perché permette al cittadino di controllare la spesa pubblica, quindi è un meccanismo che serve a rendere diciamo convergenti due direzioni che sono state in modo anomalo separate, no?
FRANCO GALLO:
Molto sinteticamente, ho l’impressione che io non posso dare un giudizio personale per ragioni evidenti, faccio un mestiere in questo momento, vero Paolo, che non mi permette di dare giudizi, valutazioni né politiche né di politica fiscale. Posso dire come lettore attento alla realtà, fare i giudici non è che ci vieta di leggere la realtà. Posso dire che secondo me in questo momento si contendono due posizioni sulla politica fiscale che potrei sintetizzare in questo modo. Da una parte ci sono quelli che ritengono che dobbiamo ancora salvare il sistema della giustizia fiscale in temi di progressività, di imposte cumulative, di imposte progressive, far pagare secondo una curva dell’aliquote delle imposte personali, partendo da una aliquota bassa, andando ad aliquote che sono repressive, espropriative dei ricchi… quello che in parte stanno facendo alcuni paesi occidentali per far fronte alla crisi economica di questi anni. L’Inghilterra sta aumentando le aliquote marginali superiori sui ricchi. Fin qui una posizione in cui lo strumento tributario diventa essenziale per fare politiche distributive, quindi c’è la tendenza a riprendere i vecchi discorsi sulla progressività perfetta, come direbbe Tremonti “millimetrica”, quindi tassazione a reddito effettivo, lotta all’evasione incisiva, pregnante, decisa, a sistema quasi poliziesco. Poi ci sono gli altri, che invece dicono ma non mettiamo le mani nelle tasche degli italiani, il surplus se lo deve gestire il privato, lo stato deve stare il più lontano possibile dalle nostre tasche e quindi puntano tutto sulla spesa pubblica, cioè facciamo anche politiche sociali, ma facciamole, amministriamo la spesa, quindi dando contributi, controllando i contributi e chiedendo il minimo di tasse ai soggetti. A me sembra che sono due posizioni ambedue estreme, non dico sbagliate, ma secondo me andrebbero compattate. In questo momento il nostro paese non è pronto tecnicamente ad avere un sistema fiscale a basse aliquote, a pressione fiscale a 30% per capirci, andando dal 42-43% attuale fino al 30%, non è in grado, non è possibile, perché c’è una forte evasione, perché abbiamo un sistema sanitario che richiede finanziamento, tante cose. D’altra parte non siamo neanche un paese però in grado di attuare la cosiddetta “flat tax”, cioè la tassa ad aliquota unica o a due aliquote. A parte il fatto che nessun paese del mondo è mai riuscito ad applicare una tassa proporzionale con aliquota unica, perché è quasi impossibile. Dice Atkinson, che è uno studioso inglese molto noto, che per avere un finanziamento di un welfare ragionevole una aliquota unica dovrebbe essere del 50%, capite? Non siamo in grado quindi di avere anche parametri per interventi sulla spesa non fiscali tali da consentire alle famiglie di svilupparsi e di incentivare le famiglie che hanno per esempio un anziano non autosufficiente, attraverso contributi. E’ difficile fare una valutazione analitica dettagliata che consenta tali interventi di incentivi, contributi, sovvenzioni puramente di spesa. Dobbiamo accontentarci di un sistema in cui l’elemento fiscale, l’elemento della spesa, insieme, in un mix, consentano di avere un sistema fiscale, un sistema economico, la tassazione della famiglia più possibile giusto, equilibrato. Per esempio, il quoziente familiare francese, come richiesto da molti partiti attuali, potrebbe essere un modo ragionevole. Per esempio, dobbiamo finirla di pensare a tassare ancora il soggetto come individuo, dobbiamo pensare alla famiglia nel suo complesso come soggetto da tassare. Come era negli anni ’50 ’60. Poi la sfortunata sentenza della Corte invece ha riportato il sistema a tassazione individuale. Incentivi alla famiglia, interventi fiscali come l’imposta negativa, cioè, insomma, questo è un paese, l’unico paese d’Europa, in cui l’aliquota marginale minima è del 23%. E siamo saliti dal 9-10% di 25 anni fa al 23%. Gli altri paesi stanno all’8, al 9, 10, 15% di aliquota minima. Facciamo uno sforzo di portare l’aliquota marginale dal 22-23% al 17%, al 18% al 15%. Le detrazioni non sono sufficienti, questo l’ho già detto prima. Io quello che farei è un discorso in cui utilizzerei la spesa e le entrate come strumenti per riportare equità al sistema, che attualmente è in crisi. E’ vero che il posto dove si bari c’è, cioè sul lavoro autonomo e dipendente. Chi è lavoro dipendente, autonomo, sa che lui si paga l’aliquota marginale del 43%. Gli altri hanno o le cedolari, o le imposte proporzionali. Andiamo verso un sistema di imposte proporzionali applicando il principio del Maximin, cioè agevoliamo i più svantaggiati, non creiamo progressività millimetriche perfette, ma diamo uno sguardo alla middle-tax, quella che in questo momento, la zona mediana, è più colpita dalla tassazione, e non dimentichiamoci chi è ricco, quando il ricco è bene che paghi più del povero.
LUCA ANTONINI:
Federalismo fiscale?
FRANCO GALLO:
Bene, il federalismo fiscale, Io vorrei sentire quello che pensa il mio amico Antonimi, che è il presidente dell’omonima commissione, perché devo essere io a esprimere giudizi? Tu sei il presidente, approfittiamone.
LUCA ANTONINI:
Ok, da un punto di vista proprio culturale, cioè come la vedi questa sfida?
FRANCO GALLO:
Sai che ti ho dato sempre una mano culturalmente, affettuosamente, amichevolmente. Io ci credo al federalismo fiscale. Intanto perché siamo in un momento storico in cui il processo è irreversibile. Chi come molti di voi e forse io stesso tende più ad essere statalista piuttosto che federalista, si deve rendere conto che siamo in un momento storico in cui la Costituzione ormai è stata modificata nel senso federalista. Il federalismo s’ha da fare, facciamolo al meglio possibile. Tra trentanni i nostri figli cambieranno. Un grande maestro dell’economia americana, un certo O’Connor, scrisse un libro vent’anni fa, che è intitolato Crisi fiscale dello Stato, in cui lui spiega che il federalismo è ondivago. Quando lo stato è molto povero tende a decentrare e a federalizzare, perché vuole scaricarsi dal peso. Quando è molto ricco, tende a concentrare il potere. Questo stato adesso è molto debole, il bilancio statale non funziona. E’ chiaro che stiamo nel campo del federalismo. Facciamolo il più dal volto umano possibile. E tu mi pare stai ben lavorando. Che vuoi che ti dica Luca, la delega l’hanno votata pure quelli della sinistra, mi pare, no? Con l’astensione. La delega è una cosa molto seria. Come state attuandola non lo so. Vedremo, vi vedremo alla prova.
CAMILLO FORNASIERI:
Bene. Siamo felici di aver conosciuto e aver apprezzato seppur in brevi minuti una grande saggezza, preparazione, profondità in senso di responsabilità, in materie che hanno tutte un portato storico. Per questo è sempre molto bello vedere persone che traggono dall’insegnamento del passato, dall’interpretazione di esso, spunti per il presente, e anche un tessuto di dialogo, di trama di visione, di amicizia professionale su temi così importanti, che ha avuto sede qui. Il libretto, il libretto, insomma il libro è molto molto interessante e anche di possibile lettura ai non esperti. Grazie al prof. e giudice Gallo, davvero, e grazie ad Antonimi, grazie a voi, buona serata a tutti.
(Trascrizione non rivista dai relatori)