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INVITO ALLA LETTURA
San Paolo dalle sue lettere
Presentazione del libro di Mariano Herranz. (Ed. Marietti 1820). Partecipa Josè Miguel Garcia, Docente di Cristianesimo delle origini all’Università Complutense e alla Facoltà Teologica San Damaso di Madrid.
Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
CAMILLO FORNASIERI:
Bene. Buonasera, un caro saluto a tutti. Abbiamo questo spazio di incontri di presentazione dei libri, una proposta. Avremo tutto il tempo di ascoltare ed approfondire, tra l’altro, anche il metodo e la figura che abbiamo avuto modo di accostare ieri con l’intervento centrale, insieme a quello sul titolo del Meeting, di Julián Carrón, sulla conoscenza in San Paolo. Abbiamo infatti, qui tra noi, Josè Miguel Garcia, professore a Madrid, alla facoltà teologica san Damaso, docente, teologo e biblista: facciamogli un applauso. Due brevissime parole su questo libro di Mariano Herranz, edito da Marietti, che si intitola San Paolo attraverso le sue lettere ed ha la prefazione di Julián Carrón. Mariano Herranz, ce lo descriverà bene Garcia: è suo maestro, maestro di tanti, ed è quello che ha iniziato questa scuola di Madrid che si contraddistingue per un approccio alle scritture che fra l’altro fa anche chiarezza su molte modalità, a volte anche disequilibrate, d’approccio a narrazioni e scritti così fondamentali per la fede e per la cultura. Scrive Carrón, nella breve presentazione: “Il suo metodo era una fedeltà alla ragione e alla tradizione”. Due elementi che spesso vengono scorporati. La tradizione come qualcosa di costruito, che difende, che copre, che non va spostato, non va modificato, quindi un’accezione ristretta, negativa. E la ragione come qualcosa che, invece, può scalzare questo portato del tempo, della storia e invece trovare di più, e dunque trovarsi isolata, senza storia, trovarsi senza esperienza, trovarsi senza i fatti che invece nella tradizione sono portati e vanno sempre guardati con attenzione. Dice, infatti, Carrón: “Don Mariano ci aiutava a utilizzare i metodi moderni dell’esegesi biblica allo scopo di far emergere la verità della tradizione. Evitava così di incorrere nel duplice errore di ridurre il nostro lavoro a un superficiale pietismo o alla critica razionalista”. Anche ieri è stato fatto un accenno all’approccio alla Scrittura, nella lezione di Carrón. E in ultimo mi ha colpito questo: il libro scorre guardando a san Paolo attraverso le sue lettere, non attraverso notizie storiche ma attraverso quello che lui ha lasciato di scritto. E’ quindi un approccio particolare alla figura di Paolo, anche difficile, non tanto nella lettura quanto nell’attenzione. Dice infatti Mariano Herranz che leggendo e rileggendo il testo, scorgeva ciò che più sfuggiva. Insomma, una osservazione veramente ripetuta, aperta e tesa a cogliere i particolari e la loro unità col tutto, ha permesso e permette di vedere di più. E questo si percepisce da tutto il loro lavoro. Questo libro vede la luce postumo, perché Herranz è morto nei primi mesi del 2008, in gennaio, e la sua breve presentazione reca, infatti, la data del 18 ottobre 2007, festa di san Luca. Il libro è però di recentissima edizione in italiano, e raccoglie gli studi su san Paolo che vennero pubblicati dalla fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80, in Spagna, nella collana Cuadernos de Vangelo, e che i lettori, alcuni dei quali, tra l’altro, diventati vescovi, avevano chiesto fossero diffusi in maniera compiuta. Ecco, dunque, che vede la luce questo libro che ci porta a conoscere questo grande santo, questa figura di fede, di missione e di amore a Cristo totale dentro quel grande cambiamento che è stato – testimonia Paolo – tra la legge, cioè una prescrizione, un rapporto misterioso con Dio attraverso una forma, e la possibilità di un incontro particolare che attiva tutta la conoscenza. Io chiedo a Garcia di parlarci della figura di Paolo come Herranz gliel’ha fatta scoprire negli studi e anche della figura del suo maestro. Grazie.
JOSÈ MIGUEL GARCIA:
Grazie a te. Prima di tutto dovrei dire che sono stupito di vedervi qua, a quest’ora della giornata, ormai stanchi, per parlare di una cosa seria come un libro di esegesi in una situazione veramente pochissimo adatta. Il rumore che c’è non favorisce una riflessione a livello esegetico. Ho pensato però di introdurvi alla lettura di questo libro senza abbassare il livello: sarà sicuramente una fatica, per voi e per me, però vale la pena. Don Mariano Herranz diceva che lo studio è sempre faticoso e che soltanto quelli che sono pronti a prendersi questa fatica entrano nel merito della verità. Detto questo, farò il mio intervento su due aspetti, il contenuto del libro e la presentazione dell’autore. Ha detto Camillo che il motivo di questo libro è stato l’anno paolino: certo, ma l’anno paolino ormai è finito e questo libro rimane utilissimo per chi, attratto da Paolo, da questo apostolo così imponente, vuole conoscerlo di più. Il metodo di presentazione di Paolo, che don Mariano ha voluto fare, è interessante perché comporta il leggere con attenzione le sue lettere. Il titolo lo dice chiaramente. Evidentemente, il genere letterario epistolare è totalmente diverso da una biografia: quindi, il libro non parla della vita di Paolo e anche se le lettere contengono notizie biografiche, si tratta però di un genere letterario molto speciale. Perché la lettera è la espressione di un rapporto, e quindi quello che viene sottolineato è soprattutto il rapporto. Le lettere di san Paolo, voi lo sapete bene, sono state scritte durante i suoi viaggi apostolici, dal 45 fino al 57. Normalmente sono tutte indirizzate a delle comunità fondate da lui stesso, eccetto una che è quella ai Romani, una comunità che era stata fondata da un altro. Comunque, lo studio delle lettere di Paolo ci permette di conoscere qualcosa della sua vita, evidentemente, ma soprattutto lui, Paolo. Chi è? In cosa consisteva la sua personalità, la sua identità e la sua autocoscienza, cioè, cosa amava? A chi apparteneva, qual era il rapporto che definiva la sua persona? Fare un lavoro così non è un’impresa troppo facile. Don Mariano lo ha svolto con una capacità, con una decisione che indica anche la sua intelligenza e la sua sapienza. Comunque, il libro tenta di entrare proprio nella personalità dell’autore, di Paolo. Le lettere fanno riferimento a tante cose che, purtroppo noi non conosciamo al 100%, alcune, neanche al 5%, perché quando uno scrive una lettera, scrive sempre dando per scontato che l’altro sappia su cosa si scrive, di cosa si parla. Infatti, lui scrive alle comunità senza entrare a dettagliare i problemi, le domande a cui vuole rispondere. Quindi, per sapere cosa c’è in gioco, uno deve fare un po’ l’investigatore, deve assumersi il mestiere di Sherlock Holmes, e fare attenzione alle tracce che permettono di ricostruire il fatto, la problematica o il problema che c’è dietro la lettera. E il libro, a volte, riproduce questo stile del giallo. Il libro aiuta, soprattutto, ad entrare nella coscienza di Paolo. Dice l’autore nel prologo: “Si osserva san Paolo nel suo lavoro e nella sua passione per Gesù”, vale a dire, si osserva come Paolo giochi la libertà in quello che fa, nel suo lavoro e in quello che ama, per scoprire chi è, la sua consistenza. Come lo fa? Leggendo con un’attenzione molto particolare le sue lettere. L’autore lavora come un esperto che tratti pietre preziose o diamanti. Uno che lavora sulle pietre preziose, le gira tra le mani tentando di guardare tutte le sfaccettature, tutti i particolari per valorizzare la pietra. È quello che fa l’autore, quello che fa Mariano: tenta di guardare, tramite le sue lettere, tutti i particolari per capire quale sia l’autocoscienza, l’identità di quest’uomo. Voglio leggere un testo di don Giussani che parla molto bene di quello che Paolo esprime nelle sue lettere: anche se don Giussani scrive pensando a Giovanni ed Andrea, quello che dice può benissimo essere attribuito anche a Paolo. Dice don Giussani: “Pensate a Giovanni ed Andrea, da quando hanno incontrato quell’uomo, Gesù di Nazareth, sono andati a casa dalle mogli e dai figli, sono andati a pescare, andavano alla sinagoga con gli altri, andavano a Gerusalemme, andavano in giro, facevano tutto come prima ma non come prima, tra sé e quello che facevano avevano dentro una figura, quello là”. Certamente, questo spiega perché don Giussani dice che parlare del cristianesimo è quello che fa Paolo nelle sue lettere. Parlare del cristianesimo: ma il cristianesimo sarebbe una parola vuota se non si avesse davanti la faccia di Gesù di Nazareth, e quello che fa Paolo nelle sue lettere, in un modo o nell’altro, è parlare continuamente di Gesù di Nazareth. Questa è secondo me la cosa più importante del libro perché, conoscendo Paolo, si conosce il cristianesimo, in cosa consista il vero cristianesimo. Comunque, il libro ci introduce in alcuni aspetti della vita di Paolo. Paul Barnett, uno studioso di san Paolo, dice in un libro che la figura dell’apostolo Paolo è enigmatica, perché ci sono tante domande senza risposta. Secondo me, è un po’ esagerato quello che dice Barnett, però è verissimo che ci sono aspetti della vita di Paolo, della sua realtà, che nessuno di noi potrà mai sapere: chi furono i suoi genitori, come mai suo padre era diventato cittadino romano, se ha visto e ascoltato o meno Gesù di Nazareth in Palestina. Tante domande a cui non ci sarà una risposta sicura. Ma ci sono altre domande cui da tempo l’esegesi tenta di rispondere e fino ad oggi non abbiamo individuato risposte esaurienti. Quali sono le domande a cui tenta di rispondere questo libro di don Mariano? Paolo ha avuto una malattia cronica, aveva curiosità per il Gesù storico o la sua predicazione era centrata soltanto sul Cristo della fede? L’educazione di Paolo è stata ellenistica o puramente ebraica? Che rapporto aveva Paolo con la legge mosaica dopo la sua conversione? Si può dire che è il vero fondatore del cristianesimo?
Bene, il libro di don Mariano tenta di rispondere a tutte queste domande. Non posso soffermarmi su tutte, faccio due esempi soltanto, per non stancarvi troppo, e tento di sintetizzare quello che lui dice su due questioni, magari aggiungendo anche qualcosa degli studi che faccio io. Soltanto due: se è il vero fondatore del cristianesimo – una cosa che da sempre si discute tantissimo – e quale sia stata la sua formazione: Paolo appartiene al mondo ellenico o al mondo ebraico? Iniziamo con la prima: il vero fondatore del cristianesimo è Gesù o Paolo? Dal XIX secolo, la ricerca moderna sul Nuovo Testamento ha sottolineato la contrapposizione, anzi, lo scontro tra Gesù e Paolo. Uno degli studiosi che hanno determinato tantissimo gli studi sul cristianesimo è stato Wilhelm Wrede. Questo autore tedesco ha scritto un libro divulgativo su Paolo di Tarso, nel 1904, all’inizio del secolo scorso, in cui presenta l’Apostolo come un fenomeno nuovo. Secondo lui, Paolo avrebbe introdotto un cambiamento radicale nel cristianesimo primitivo, cioè in quello che avevano vissuto i primi seguaci di Gesù. La predicazione di Paolo avrebbe introdotto un’immagine nuova su Gesù, molto diversa dalla realtà storica tramandata dalla comunità cristiana di Palestina. Durante i suoi viaggi missionari, Paolo avrebbe realizzato una simbiosi con le religioni misteriche del mondo greco. Così il Gesù storico, un semplice rabbi, al massimo un profeta, è diventato il Cristo della fede, cioè un essere trascendente, un essere pre-esistente, un essere divino. Dato che questo Gesù è diventato, in seguito alle prediche che lui ha fatto, quello venerato nella chiesa cattolica, nella chiesa cristiana, cioè si è imposto il cristianesimo di Paolo, allora bisogna identificare Paolo come il vero fondatore del cristianesimo: è questa la sintesi del testo di Wrede. Per sapere se hanno ragione Wrede e i tanti autori che lo hanno seguito, occorre realizzare uno studio storico e paragonare il cristianesimo più antico, quello chiamato “il palestinese”, con quello che trovò Paolo nel momento della sua conversione. Così si potrà individuare qual è la diversità e se veramente abbia avuto luogo questo cambiamento. Wrede e gli altri studiosi affermano che il cristianesimo incontrato da Paolo è stato quello ellenistico, non quello palestinese. Quando la fede in Gesù, dopo la morte di Stefano, entrò in contatto con la cultura greca e le sue concezioni religiose, i cristiani usarono i racconti mitici del mondo ellenico per descrivere Gesù, facendo di Gesù questo essere divino. L’apostolo Paolo avrebbe diffuso questa concezione di Gesù propria del cristianesimo ellenistico. Purtroppo, il tempo a nostra disposizione non ci permette di svolgere una critica dettagliata su questa ipotesi: però devo almeno dire che è priva di ogni fondamento. Certamente, se il cristianesimo di Paolo fosse stato una mistificazione, l’esito di una simbiosi e di un sincretismo, se fosse stato cioè una cosa diversa da quella predicata dagli apostoli, sarebbe stato impossibile il rapporto di amicizia, di comunione, il rapporto di unità che c’era tra coloro che furono considerate le colonne: Giacomo, Pietro e Giovanni, e poi Barnaba e Paolo, che erano missionari. Invece, Paolo, nella sua Lettera ai Galati, afferma chiaramente questa unità. Dice che le colonne della chiesa di Gerusalemme hanno dato una mano a lui e a Barnaba in segno di comunione, come dire, riconosciamo che quello che voi predicate è quello che noi predichiamo qua a Gerusalemme. E’ evidente che se una questione di questo spessore fosse vera, come dicono questi autori moderni, ci sarebbe stata proprio una divisione netta tra Barnaba e Paolo, e la comunità di Gerusalemme. Invece non fu così: c’è sempre stato un rapporto, una comunione che lo stesso Paolo ha affermato esplicitamente, tornando prima o poi alla comunità di Gerusalemme, per incontrare Pietro o Giacomo dopo i suoi viaggi missionari.
CAMILLO FORNASIERI:
Questo si evince dalle lettere…
JOSÈ MIGUEL GARCIA:
E’ detto negli Atti degli Apostoli e nelle lettere, soprattutto in quelle ai Galati. Martin Angel, uno studioso che alcuni di voi hanno conosciuto, ha mostrato come la fede cristiana veramente prenda il suo volto nella comunità di Gerusalemme. Cioè, la cristologia, questa riflessione su Gesù, accade proprio a Gerusalemme, non fuori, quindi l’incontro con il vero Gesù, Paolo lo ha avuto proprio lì. Lo dice molto bene don Mariano, quando fa vedere che Paolo ha ricevuto la tradizione su Gesù ed il suo insegnamento dalla comunità palestinese. L’incontro con il cristianesimo lo ha avuto, è vero, andando a Damasco, ma l’incontro con il cristianesimo è lo stesso a Damasco come a Gerusalemme, perché c’era soltanto un cristianesimo. Il supposto cristianesimo ellenistico è una pura creazione di certi studiosi. Prima della missione di Paolo, la comunità cristiana riconosceva Gesù come essere pre-esistente, divino, redentore di tutta l’umanità, con la sua morte e resurrezione. E’ vero che Paolo si converte a Damasco, ma lui stesso dice che dopo qualche anno è andato a Gerusalemme per conoscere Cefa, come dicono le nostre traduzioni della Lettera ai Galati. Ma la traduzione non è giusta. Il verbo greco è stato studiato molto bene da uno studioso inglese, Kilpatrick e lui dice che questo verbo porta un complemento di persona, in questo caso, Cefa, che non serve per indicare la visita o la conoscenza di una persona, bensì per indicare il ricevere informazioni da essa. Quindi, Paolo è andato a Gerusalemme per chiedere a Pietro, il testimone unico per eccellenza, quello che era accaduto. Tutto questo è molto interessante, perché quello che lui ha imparato a Gerusalemme è stata la sua predicazione. Proprio da lì ha cominciato a fare questi viaggi missionari. Perciò Paolo è inserito nell’unico cristianesimo esistente, quello nato da Gesù che è stato tramandato dai dodici. A rafforzare questo dato storico viene la sua nascita e formazione. L’apostolo Paolo ha fatto tanti viaggi e ha scritto tante lettere, però parla poco di se. Ma qualcosa dice nelle lettere, cose molto interessanti, per esempio, dice che è membro della tribù di Beniamino, una tribù che è rimasta fedelissima al patto stabilito da Dio con Israele, che è stato circonciso otto giorni dopo la nascita, cioè è un ebreo puro, che i suoi genitori erano della Palestina e che lui apparteneva al gruppo fariseo, questo gruppo che è sempre stato così criticato. Vuole dire che lui apparteneva alla élite del mondo ebraico: ma appartenere all’élite del mondo ebraico poteva succedere in Palestina, non fuori. Cioè, per essere un ebreo puro, per rispettare al 100% la legge, per appartenere al gruppo dei farisei, doveva abitare e studiare e imparare tutto quanto in Palestina, soprattutto a Gerusalemme. Infatti c’è un passo molto interessante, negli Atti degli Apostoli, che racconta un discorso di Paolo, quando Paolo è stato presso il popolo ebreo nella spianata del Tempio, perché pensavano che lui avesse fatto un peccato di profanazione del Tempio introducendo qualche elleno, qualche pagano, e il popolo in una sommossa popolare lo ha preso e hanno iniziato a picchiarlo.
CAMILLO FORNASIERI:
Dov’è successo questo?
JOSÈ MIGUEL GARCIA:
Sulla spianata del Tempio di Gerusalemme, al ritorno dal suo terzo viaggio missionario. Lì è stato salvato e riscattato dalla coorte, cioè dai soldati romani. Ma lui ha voluto parlare, prima che lo portassero dentro la torre Antonia. Ha fatto un discorso, Luca dice che lo ha fatto in aramaico, dove comincia dando una indicazione biografica molto breve. Dice così: “Io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia ma cresciuto in questa città, Gerusalemme, educato ai piedi di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio come oggi siete tutti voi”. Mi interessa soprattutto questa affermazione: “cresciuto in questa città”. Lui usa un verbo greco, anatrefo, che anche Luca usa negli Atti degli Apostoli, per dire che Mosè è stato alimentato e cresciuto dalla sua mamma dopo essere stato riscattato dalle acque del Nilo. Cosa vuol dire questo verbo, che periodo indica? La fanciullezza. Luca usa ancora questo verbo per dire che Gesù è cresciuto a Nazareth, per riferirsi alla fanciullezza di Gesù. Quindi, questo verbo vuole indicare il periodo dell’infanzia vissuta a casa con i genitori, durante la quale si riceve la prima educazione. Uno studioso che ha conosciuto molto bene Paolo, Van Unnik, conclude con questo passo: “Sebbene l’apostolo Paolo fosse nato a Tarso, fin dall’infanzia crebbe a Gerusalemme, cioè arrivò alla città prima ancora di poter guardare fuori dalla porta e poter camminare per strada, ossia quando era un bambino”. Questo significa che tutta l’educazione di Paolo è stata ebraica, ebreo-palestinese, cioè si è svolta interamente a Gerusalemme. Col tempo, Paolo è diventato un allievo importante del fariseo Gamaliele, però le sue radici sono al 100% ebraico-palestinesi e non ellenistiche. Voi mi chiederete come mai lui abbia parlato greco! Anche se in una lettera lui dice che lo parlava ma non molto bene, nella I ai Corinti dice che lo parlava e se la cavava. Invece, la lingua materna, la lingua madre sarebbe proprio l’aramaico. Questo è molto interessante perché è quello che don Mariano vuole mostrare, che c’è un influsso della mentalità semitica nelle sue lettere, e che a volte ci sono certi passi che si possono spiegare soltanto facendo riferimento alla mentalità semitica, che ha avuto un influsso anche sul suo modo di parlare il greco. Voglio fare un esempio brevissimo, spero sia noto a tutti voi.
CAMILLO FORNASIERI:
Ma il greco di cui parli, scusami, è il greco diffuso come lingua commerciale…
JOSÈ MIGUEL GARCIA:
No, anche se si dice che lui abbia scritto nel greco koiné, che è quello parlato, non è al 100% koiné. Ha un influsso semitico chiarissimo. Racconto un aneddoto interessante. Un professore di greco di una città della Spagna, Oviedo, leggeva normalmente le lettere di Paolo in greco, perché lo sapeva molto bene. Però a volte questo professore arrivava a pranzo molto infastidito. I seminaristi gli chiedevano cosa era successo e perché era in ritardo, e lui, che stava leggendo le lettere di Paolo, diceva: queste lettere, chi le capisce? Anche lui faceva fatica a capire fino in fondo quel greco lì, perché ha una modalità tutta speciale. Faccio un esempio brevissimo. Quando Paolo scrive ai Corinti, nel cap. XV sta difendendo la verità della resurrezione di Gesù. In quel capitolo, dice che alcuni cristiani non accettano la resurrezione. Come mai sono cristiani, se non ammettono la resurrezione di Gesù? Infatti lui dice, al versetto 12: “Come mai alcuni tra di voi dicono che non c’è resurrezione dei morti e quindi non c’è stata la risurrezione di Gesù?”. Non ha senso, come si può dire che sono cristiani e non affermano la resurrezione di Gesù? Bene, il problema è la preposizione usata: en significa in, tra. Però, se c’è l’influsso semitico, può significare anche davanti a voi, contro di voi. Quindi, “ci sono alcuni che lottano contro di voi, negando la resurrezione di Gesù”. Chi sono questi? Gli ebrei, sta parlando degli ebrei che lottano contro i cristiani. Non sta facendo riferimento ad un problema all’interno della comunità cristiana: comunque, si trovano parecchie cose di questo tipo. Vale quindi la pena leggere questo libro, perché così uno entra in tutta questa realtà. Voglio fare un intervento sull’autore, don Mariano Herranz, soltanto sottolineare qualche aspetto della sua personalità come aiuto a capire di più il libro che viene proposto. Tutta la vita sacerdotale di don Mariano è stata segnata dallo studio della parola di Dio. La sua vera passione, il lavoro di tutta la sua vita, l’accettare la fatica e il sacrificio che richiede questo lavoro intellettuale, nasceva dalla sua affezione a Cristo. Come dice molto bene san Girolamo, il santo protettore degli esegeti, ignorare le scritture è ignorare Cristo. Riconosceva come dono più grande la fede ricevuta dalla chiesa, e quindi lottava per farla riconoscere nella sua grandezza, la difendeva dall’attacco a cui viene sottoposta negli ultimi secoli a causa di una ragione ridotta. Si addolorava quando vedeva come tanti libri o articoli di studiosi, o anche certe omelie di preti, distruggono la fede dei semplici o generano una disaffezione a Cristo e alla chiesa. Con il suo lavoro esegetico, tentò di dimostrare la ragionevolezza della fede: tutta la sua esegesi, anche quella più scientifica, aveva un solo scopo, far conoscere Gesù come risposta ai bisogni radicali dell’uomo. La sua passione per Cristo e il suo desiderio di servire la chiesa fecero sorgere in lui l’urgenza di educare una generazione di preti, preparati nello studio esegetico del Nuovo Testamento, capaci di pubblicare e di predicare Gesù tra gli intellettuali e la gente. Uomini con una conoscenza scientifica ma, allo stesso tempo, attratti dalla bellezza di Cristo, uomini che con i loro scritti e le loro parole potessero essere un’eco della parola vivente “piena di grazia e di verità”, come dice san Giovanni. Questo gruppo di esegeti ha ricevuto il nome di Scuola di Madrid. Per generare questa scuola, occorreva certo una competenza intellettuale, ma soprattutto una dedizione generosa e costante. Non si aggrappò gelosamente al sapere e al tempo, non li considerò una sua proprietà, ma li condivise gratuitamente con tutti noi. Non era preoccupato della sua carriera accademica ma di servire la chiesa. Don Mariano, tra l’altro, aveva condizioni intellettuali spettacolari, come professore di latino e greco leggeva i classici nelle loro lingue originali, conosceva anche molto bene la lingue semitiche, aveva studiato per ben sei anni queste lingue semitiche e moderne, ha tradotto parecchi libri dall’inglese, dal tedesco, dal francese, dall’italiano. Era innamorato della letteratura popolare, cioè, i racconti brevi, le fiabe, le novelle, le saghe, soprattutto per un motivo, perché i Vangeli sono considerati come letteratura popolare e quindi, leggendo questi racconti, era aiutato a capire di più la struttura e la narrazione evangelica. Leggeva anche costantemente la nostra letteratura classica, conosceva a memoria il Siglo de oro ma, sapendo a memoria e leggendo quotidianamente questi autori, ha avuto una notevole padronanza dello spagnolo. Lo si capisce leggendo il suo libro in spagnolo. Con tutta questa preparazione linguistica, era capace di individuare il problema del testo biblico e proporre delle soluzioni acute, brillanti. Paradossalmente, il suo periodo più fecondo, intellettualmente parlando, è stato quello della malattia, prolungata per ben 19 anni, con metà del corpo paralizzato, senza poter scrivere niente e con la vista molto debole, la visione ridotta ad un solo occhio. Sono stati anni di tenacia nello studio, di ricerca infaticabile dell’intelligenza del testo sacro. Durante gli anni della sua malattia, ha fatto luce su testi di un’enorme difficoltà, utilizzando l’ipotesi del substrato semitico che ha cominciato ad essere utilizzata, non da lui, ma all’inizio del XX° secolo. In che cosa consiste questa metodologia semitica o studio semitico? E’ facilissimo, dico solo due parole. E’ evidente che Gesù ha parlato in aramaico, altrettanto evidente che gli apostoli hanno parlato in aramaico: quindi, la tradizione evangelica all’origine è stata formulata in aramaico. Il passaggio dall’aramaico al greco implica una traduzione. Questo riferimento al substrato aramaico è dunque assolutamente logico, anche se questi testi ci sono arrivati soltanto in greco. Uno studioso di questa metodologia, Millar Burrows, dice: “La questione non è se c’è traduzione nei Vangeli, ma quando. Poiché Gesù parlò in aramaico, le sue parole e detti sono stati tradotti in greco ad un certo momento”. E’ così!
Leggendo il libro di don Mariano, ci si rende uno conto dell’importanza che ha questo influsso della mentalità aramaica, ma soprattutto dell’importanza del metodo linguistico, cioè di ogni particolare del testo. Dietro una questione apparentemente minore – ho fatto molto sbrigativamente l’esempio della prima Lettera ai Corinzi -, il significato di una preposizione, il valore di un verbo, la scelta di una variante testuale, si può trovare luce per risolvere un testo oscuro, una difficoltà storica o di senso, o un testo che afferma qualcosa che è contraddittorio con altri passi evangelici. Non bisogna scandalizzarsi davanti a questi fenomeni e a queste difficoltà, poiché il verbo di Dio si è fatto carne preparandosi a diventare anche libro, e quindi accettando tutte le difficoltà che ci sono nelle redazione e nella traduzione di un testo. Ma la cosa più impressionante è che fare la fatica di capire bene il testo scritto dei Vangeli o delle lettere di Paolo, coincide, come si vede molto bene in questo libro, con il penetrare nel mistero della persona di Paolo, che è il mistero di Gesù. Il lettore potrà riconoscere come da un particolare della redazione del testo si possa arrivare alla comprensione della verità che, in quanto rivelata, ha la forza di cambiare la persona e di salvarla. Leggere il libro di Mariano Herranz è sempre arricchirsi con una scienza e con una conoscenza, ma soprattutto arricchirsi nella fede. Grazie per la vostra pazienza.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie. Siamo stati bravi. Voglio trattenere solo pochissimi aspetti. Uno: quando hai detto che le Lettere indicano un rapporto, sono scritte a qualcuno, sono scritte a della gente che Paolo aveva conosciuto, e dunque questo contesto che non è spiegato ma fa parte delle loro vite, circa le quali lui scrive, esorta, approfondisce, richiama. E’ bellissimo, perché è dentro la natura dei fatti, delle cose che ricostruire il senso di una personalità, il profilo, avvenga attraverso ciò che uno ha detto. Questo fa sì che si realizzi quella fedeltà che è la persona, il testimone che ha parlato e l’uomo intero, con la sua formazione, i suoi problemi, la sua ansia, la ricerca e lo zelo nuovo per la fede. L’altro punto: il libro, proprio come diceva Garcia nei primi passaggi, non è sempre e solo un confronto filologico. Anzi, ci sono quasi più domande, che ci fanno entrare ed incuriosire nelle risposte che Mariano Herranz poi trova nelle Lettere, rispiegandole ed ampliandole. Per cui, la modalità, il movimento che c’è nel libro è un movimento che ci fa entrare, perché ci fa accorgere e fare domande che non ci facciamo mai. Questo è molto bello, tra l’altro insegna anche un modo di leggere tante altre cose. Da una parte possiamo trovare risposta alla passione per una figura che è principe della Chiesa, assieme a Pietro. Da questa necessità di rispondere ad obiezioni, nascono domande più profonde ma che trovano nella fonte, nei maestri, la possibilità di essere capite ed approfondite. Maestri da cui vengono fuori amici: da questa Scuola – leggevo nella biografia – sono venuti anche Francisco Javier Martínez, arcivescovo di Granada, Rodriguez Plaza di Valladolid, adesso a Toledo, Augusto Franco Martinez, vescovo di Madrid, oltre a Carrón e Garcia che conosciamo.
JOSÈ MIGUEL GARCIA:
Per introdurci nel reale abbiamo sempre bisogno di un adulto, di un maestro. Per conoscere Paolo, per introdurci anche a conoscere le Lettere di Paolo… Don Mariano diceva sempre, parlando dei Vangeli: la gente dice che è facile leggere questi libri, però non mi pare, non è così facile. Io dico che in un certo modo gli ebrei sono più intelligenti, più perspicaci nel capire fino in fondo tutto quello che si racconta o si dice nei Vangeli. Perché loro hanno una mentalità dove si gioca tutto e capiscono il gioco di parole, le provocazioni, le situazioni che per noi sono date per scontate, o sconosciute, quasi. Quindi, per introdursi nel reale, anche nella figura di Paolo, occorre prendere la mano di un maestro, don Mariano senz’altro è un maestro, che semplifica. Il maestro semplifica, non complica. Se volete essere aiutati a conoscere questo uomo, a sapere chi è Paolo, questo libro vi offre l’opportunità di essere guidati da un vero maestro, don Mariano Herranz.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie, la migliore sintesi è questa. Grazie, Garcia, anche per l’offerta di questa sua riflessione. Arrivederci.
(Trascrizione non rivista dai relatori)