Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA
L’Europa del diritto
Presentazione del libro di Paolo Grossi (Ed. Laterza). Partecipano: l’Autore, Giudice della Corte Costituzionale; Luca Antonini, Vice Presidente Fondazione per la Sussidiarietà e Docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Padova.
A seguire:
Madre Teresa, le notti della fede
Presentazione del libro di Renato Farina. (Ed. Piemme). È stato invitato l’Autore, Deputato al Parlamento Italiano, PdL.
Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
CAMILLO FORNASIERI:
Bene, do il benvenuto a tutti. Cominciamo questo incontro della serie “Testi e contesti”, con la presentazione di due libri. Cominciamo con il primo, “L’Europa del diritto” di Paolo Grossi edito da Laterza, nella collana “Fare l’Europa”.
Paolo Grossi ha scritto questo libro, che credo dia anche una cornice di importanza a tutta la collana, perché il fenomeno del diritto è uno dei punti in cui si mostra con più evidenza qual è l’esperienza di questa entità, di questa comunità che si è andata profilando con il nome di Europa nel tempo.
Noi siamo lietissimi, come Meeting di Rimini, di avere ancora una volta tra noi il professor Paolo Grossi, perché se c’è anche una così vasta platea, io credo sia di persone coinvolte sul tema del diritto e della legge, ma anche interessatE per una passione culturale, che intuisce che proprio in questo termine, in questa storia, si delineano e si profilano le ricchezze e le fatiche della società che anche stiamo vivendo.
Paolo Grossi riassume in questo libro una esperienza di più di 40 anni di insegnamento nell’ Università di Firenze, appunto di Storia del Diritto e poi divenuta, mi pare, Storia del Diritto medioevale e moderno, e ci lascia davvero una grande eredità con questo volume che permette di rileggere più di 500 anni di storia.
Ecco, io darei la parola a Luca Antonini che, ovviamente presento. Anche lui è docente presso l’Università di Padova e darei a lui il compito di fare un primo intervento che inquadri questo importante contributo sulla storia del diritto.
LUCA ANTONINI:
Sì, io rubo solo un secondo, perché io credo che oggi la gente, i tanti amici che sono qui presenti, magistrati, studiosi, vogliono vedere giocare Maradona e non Luca Antonini, allora anche se sono un giocatore…
Comunque penso che questa sia anche un’occasione per festeggiare Paolo Grossi e festeggiare la sua nomina all’interno della Corte Costituzionale, nomina che io ritengo, e non solo io, che sia stata qualcosa anche di provvidenziale.
Allora, io ruberò un minuto, per dire che questo volume che è inserito in una collana pubblicata da Laterza e diretta da Le Goff, dal titolo “Fare l’Europa”, è un evento che, nella presentazione che fa il curatore, viene descritto così:
“E’ una grande speranza che si realizzerà soltanto se si terrà conto della Storia. Un’Europa senza Storia sarebbe orfana e miserabile, perché l’oggi discende da ieri e il domani è il frutto del passato.
Il volume di cui parliamo non è un volume diretto a un pubblico di specialisti, è un romanzo che avvince il lettore, che si trova di fronte a un panorama che stempera le difficoltà tecniche con un linguaggio chiaro e accattivante.
Anche da questa opera di Paolo Grossi emerge la caratteristica di un profilo scientifico che non ha avuto uguali, nella storia – secondo me – del nostro pensiero giuridico, perché non ha avuto limitazioni nell’arco cronologico, disegnato dai sui studi, dal Medioevo ai giorni nostri, sempre impegnato in uno sforzo di trascendere il dato concreto per capire il fenomeno giuridico.
E’ ancora una volta fortemente sottolineata la qualifica del diritto come dimensione della vita quotidiana, dice l’Autore, scritto nella concretezza dei fatti prima che in leggi, in trattati internazionali, in opere scientifiche. Medioevo, modernità e post modernità propongono diverse visioni e realizzazioni del diritto e Grossi ha sperimentato concretamente nei suoi studi – e alcuni li mostra – aspetti fondamentali di ognuna di queste esperienze”.
Alcuni spunti che emergono dal libro si inseriscono benissimo – secondo me – nel tema di questo Meeting, la conoscenza è un avvenimento, e offrono materiale anche all’incontro di oggi. Il diritto, prima di essere un comando, è un ordine della società, il diritto viene prima dello stato, è voce delle società, in particolare delle comunità intermedie. Sotto questa luce Grossi rilegge il percorso della modernità e offre dei punti di riflessione cruciali sull’esperienza giuridica moderna, tocca anche i suoi punti di crisi, soggettivismo esasperante, formalismo e statalismo.
Secondo me, e concludo, può essere utile riprendere quanto Grossi scriveva lo scorso anno in un articolo pubblicato su Atlantide: “Bisogna riscoprire la necessaria dimensione oggettiva del soggetto, la quale non può che concretarsi nella riscoperta di tre dimensioni radicali, cioè di radici profonde. Una dimensione comunitaria, che lo costringa a fare i conti con l’alterità e con interessi e valori sovrastanti la propria egoistica ed edonistica individualità; la dimensione della tradizione, che rendendo il soggetto anello di una catena che arriva fino a lui, lo riporti alla virtù dell’umiltà e dell’ascolto; la dimensione della natura delle cose, quale ulteriore lezione di umiltà e ulteriore invito all’ascolto”.
Da questo si può cogliere l’importanza per tutti, e non solo per i giuristi, di un libro come questo, che spalanca la mente e permette di giudicare la nostra storia presente, offrendo elementi preziosissimi.
A lui la parola.
PAOLO GROSSI:
Innanzitutto, quanto tempo ho? Beh, tu mi fermerai quando credi.
Intanto grazie per questo ennesimo invito, l’altr’anno ero relatore al Meeting e oggi sono qui invitato per un gesto ancora più lusinghiero da parte dell’organizzazione, cioè la presentazione di un mio libro. E quindi sono particolarmente grato a Camillo Fornasieri, a Luca Antonini, a tutta l’organizzazione, per questo gesto che si fa verso di me!
Vi parlerò brevemente del libro. Quando ricevetti l’invito da parte del grande storico Jacques Le Goff in questa sua collana, l’invito di scrivere il libro relativo al diritto, rimasi turbato. E all’inizio ebbi quasi un senso di sgomento, poi decisi di accettare, accettare perché… perché questo libro poteva per me essere una scommessa. La prima scommessa: recuperare il vero senso del diritto. Noi abbiamo, durante la modernità, cioè durante i secoli che vanno dal ’500 al ’900, frainteso il diritto, l’abbiamo calpestato, l’abbiamo soffocato, tanto che l’uomo della strada teme il diritto ancor’oggi. Mentre, come accennava Antonini, il diritto è una dimensione ordinante della società, è il salvataggio della società civile. Guardare al diritto in una storia lunga, nella lunga durata che va dal Medioevo fino ad oggi: abbiamo lì la verità di questo. Il diritto non appartiene alla patologia della società, anche se ci appare più vistoso nel momento in cui c’è qualcosa di violato, quando interviene il commissario di polizia o giudice; ma il diritto appartiene alla fisiologia della società, viviamo immersi nel diritto come viviamo immersi nell’ossigeno. Non ce ne accorgiamo, ce ne accorgiamo quando saliamo a 3000 metri, ma è l’ossigeno che rende possibile la nostra esistenza, così come avviene per il diritto nella nostra esistenza sociale. Quindi a mio avviso questo libro era per me una scommessa: recuperare la dimensione reale del diritto, verificandola nella lunga durata. Cioè in una storia dove il diritto è stato vissuto nel Medioevo, nell’età moderna e nel postmoderno dove noi siamo attualmente situati, in modo completamente diverso. Nel Medioevo non esiste lo stato, non esiste un potere forte, non esiste un potere totalizzante. Il diritto proviene dal basso della società civile. Il diritto è visto pluralisticamente, è fatto, diciamo noi giuristi, di consuetudini, cioè di usi che vengono dal basso, che le comunità riconoscono come dei valori e le osservano. Un diritto consuetudinario che non ha ancora i limiti delle frontiere che ci saranno nel diritto moderno. L’Europa moderna è un arcipelago di isole, uno stato accanto all’altro, con frontiere rigide, invalicabili, e ogni stato pretende un suo diritto. Ecco, nel mondo medioevale, in questa civiltà sociale, giuridica, culturale che ci sembra così lontana, noi abbiamo un’avventura straordinaria, noi abbiamo finalmente un diritto autenticamente europeo. Diciamo noi, con termini latini, col nostro latinetto, ius commune, cioè un diritto veramente comune, comune a tutta la grande geografia europea, l’Europa che non andava oltre i confini della Russia e a stento occupava solo una parte della Scandinavia. Ma certamente qualcosa di comune che non proveniva da uno stato, cioè da questo o quel potere politico, ma dalla società civile. Ecco il diritto medioevale, un diritto che risponde a tutte le forze plurali della società, non solo alle forze del detentore del potere, è un diritto che esprime la sua società nella sua complessità. Lo fanno la consuetudine, e siccome la consuetudine è un insieme di fatti grezzi, grossolani, occorrono i giuristi, i giudici, ed ecco i giudici con le loro sentenze, ecco i giuristi della grande fioritura universitaria europea. Un diritto scientifico, un diritto giudiziale, un diritto consuetudinario. Questa è una grande realtà, una grande realtà che viene cancellata quando nell’età moderna, appare questo soggetto politico forte, omnicomprensivo, totalizzante, il grande burattinaio, lo stato. Guardate che il principe medioevale non pretende di essere un legislatore, cioè di produrre lui il diritto, lui sa benissimo che il diritto viene dal basso, viene da questo materiale di consuetudini quotidiane. Il nuovo principe, che noi vediamo soprattutto nella Francia trecentesca, e poi è un crescendo, pretende di produrre il diritto, capisce quale grande valore ha il diritto come cemento per il suo stato e pretende di controllarlo. Ed abbiamo un diritto francese, poi abbiamo un diritto spagnolo, portoghese, cioè il diritto si statalizza. E mentre nel mondo medioevale la voce di colui che detiene il potere supremo, non è la fonte suprema del diritto, la fonte prevalente, l’abbiamo detto, viene dal basso, sono gli usi, raccolti da giudici, o da maestri, nel nuovo mondo moderno noi abbiamo una tendenza a immedesimare il diritto nella legge, nel complesso delle leggi, cioè nelle voci dei detentori del potere politico. E ovviamente le miserie di quei detentori, che sono sempre cospicue, quotidiane, queste miserie si trasferiscono anche nel diritto, il diritto si riduce.
Io uso sempre con i miei studenti universitari, cioè usavo… oggi faccio un altro mestiere, ma fino a quando insegnavo nell’università, io parlavo di “riduzionismo moderno”. Il diritto è stato snaturato, è stato ridotto in un complesso di norme autoritarie, di comandi che piovono dall’alto sui cittadini, e dai cittadini si pretende soltanto obbedienza. Un diritto fatto soltanto di norme, che devono essere scritte in dei testi, che parlino chiaro perché devono essere obbedite. Addirittura il fenomeno centrale del diritto moderno è la codificazione, cioè: tentiamo di ridurre tutto il diritto in una legge chiara, certa, sistematica, ma avulsa da quello che è il divenire della società civile. Vedete, il diritto è come una corteccia rispetto alla linfa sottostante, se si separa dalla linfa, quella corteccia, ce lo dice l’esperienza comune, rinsecchisce. Così è del diritto… il diritto deve seguire il corpo sociale sottostante perché è chiamato a ordinare quel corpo. È come se una madre pretendesse che il suo figliolo che è in crescita avesse sempre lo stesso vestito, con quella misura. Inevitabilmente quel vestito diventerà prima o poi troppo stretto, e sacrificherà il corpo sottostante. E spesso nel ’800 noi l’abbiamo visto: i giudici francesi.
La grande codificazione francese, cioè la riduzione di tutto il diritto in dei libricini mirabili ma che sono dei testi cartacei, immobili, immobilizzanti. Questa codificazione francese risale alla prima decade del ’800. Ma il diritto continua a vivere, e se noi andiamo a guardare le sofferenze dei giudici francesi nella seconda metà del ’800, da cosa derivano? Derivano dal fatto che quei giudici si trovavano di fronte un codice mirabile ma ormai inadatto a ordinare la società civile francese, che era cresciuta enormemente sotto il profilo sociale, economico, e perché no?, tecnico.
Modernità del diritto, un diritto che perde il suo carattere di ordinamento della società, ma quando alla fine del ’800 lo stato non è più in grado di reggere questa società civile che sta esplodendo – quello stato era uno stato monoclasse, borghese – ma quando noi abbiamo di fronte un orizzonte che si amplia, un orizzonte ormai pluriclasse, ecco che noi entriamo in quel ’900, in quel secolo che sta appena alle nostre spalle, e che possiamo definire come il secolo della post modernità. E che cosa avviene in questi 100 anni che stanno appena dietro di noi? La società scoppia, la società avanza le sue pretese. Il paesaggio giuridico della modernità era semplice: esistono solo due soggetti, il macrosoggetto, lo stato, il burattinaio, il controllore, e dall’altra il singolo, l’individuo. La rivoluzione francese aveva cancellato le formazioni sociali, perché rompevano l’unità dello stato. Prima fra tutte la Chiesa, la odiata, pericolosissima Chiesa romana, la quale era ovviamente una mina per la compattezza dello stato, però si cancella tutto, si cancellano i sindacati, si cancella qualsiasi formazione comunitaria. Esiste un paesaggio giuridico, semplicissimo, ma artificioso, stato e individui. Ma ecco che le formazioni sociali nei primi del ’900 riprendono vigore, escono dalle fogne, dove avevano allignato segretamente, non scopertamente. Il nostro grande giurista Santi Romano nel 1909, quando è chiamato a tenere una grande lezione inaugurale dell’anno accademico dell’Università di Pisa, la intitola: “Lo stato moderno e la sua crisi”. E dov’è che questo grande giurista individua la crisi? Nelle formazioni sociali che stanno montando, lo si voglia o no, da parte della ufficialità. E queste formazioni sociali sono partiti politici, sono sindacati, sono un mucchio di associazioni che ormai proliferano e che pretendono una cittadinanza all’interno della società civile.
Siamo entrati nel postmoderno, l’itinerario del ’900 se volete è questo: sempre più società e sempre meno stato. Anche oggi ne parlavamo a colazione… oggi non si parla di crisi del diritto. Non si parla di crisi del diritto, è sbagliato! Il diritto non è mai in crisi. Il diritto se appartiene veramente alla fisiologia della società, si limiterà semplicemente a seguire il divenire, le trasformazioni, le mutazioni della società. In crisi sono i modi in cui la modernità giuridica ha costretto il diritto. Quel paesaggio politico semplice, artificioso…quello è in crisi! Dobbiamo riscoprire un diritto nuovo, un diritto che ormai si sente sacrificato da questa atomizzazione in stati. Oggi se c’è un soggetto in crisi è lo stato, e non solo perché c’è un’Unione europea, grazie a Dio! Ma perché c’è addirittura una prassi economica sociale a livello globale. Noi viviamo un momento di grossa crisi, ma è una crisi fertile. Perché stiamo abbandonando un mondo fatto di codici, fatto di testi cartacei immobili, mentre abbiamo un mutamento rapidissimo, un movimento e mutamento rapidissimo, e guai se il diritto non segue quel mutamento. Quindi è una crisi, e anche questo dicevo ai miei studenti, fertile. Perché certamente è produttiva del futuro, noi stiamo costruendo il nostro futuro.
Amici, per farla breve, e non togliere tempo alla presentazione successiva, ecco il grande insegnamento della storia del diritto fatto nei tempi lunghi: questa comparazione fra modi diversi di vivere il diritto. Perché il diritto è vita! Ce lo ha insegnato un grande filosofo del diritto cattolico, Giuseppe Capograssi, il diritto è esperienza. Può essere anche tante altre cose, ma dopo… il diritto è vita, è storia vivente! Ce lo ha detto questo grande filosofo del diritto cattolico, che io vorrei ricordare, perché fu nominato dal Presidente della Repubblica nel 1956 Giudice della Corte Costituzionale in quella prima sessione inaugurale della corte. Purtroppo Giuseppe Capograssi morì proprio nel giorno in cui la Corte aveva la sua prima seduta quotidiana. Sarebbe stato un grandissimo giudice, però da grande filosofo che ci ha lasciato questo insegnamento. E la storia del diritto che guarda alla vita ci fa ripercorrere come le varie civiltà abbiano deformato, soffocato, conculcato il diritto, altre volte come viceversa gli abbiano permesso una libertà, e oggi noi dobbiamo, da tutta questa cavalcata storica, trarre un grande insegnamento, affinché nel domani i nostri figli possano contare su un diritto che sia veramente ordinamento e non violenza legale. Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie davvero sentito per questo magistrale intervento, che ha davvero riassunto l’intento e lo scopo di questo bellissimo libro. Mi viene da chiederti un’ultima reazione su questo punto anche finale che hai evocato dell’inizio del nostro secolo e delle problematiche attuali. Dunque, tu concludi il libro dicendo: “occorrerà scavare ancora”. Scavare significa resuscitare delle forme, o significa cercare, e dove? Perché questa grande fiducia che Grossi esprime nella società, nella vita sociale, e quindi nella vitalità delle persone, nelle persone che si mettono insieme, è una prospettiva culturale che davvero capovolge anche le riflessioni e gli intendimenti che sentiamo più correnti oggi. Mi sembrava che ci fosse un’analogia tra il tempo della modernità borghese, cioè della nascita dello stato e anche della neonascita degli stati, e tentazioni oggi tentazioni ricorrenti. Ecco dove guardare e come attendere, cioè che lavoro fare?
PAOLO GROSSI:
Rispondo volentieri alla domanda di Camillo Fornasieri. Ma intanto: non avere paura. Non credere che lasciando un immediato passato noi ci troviamo in una sorta di deserto. Certamente gli stati hanno diviso, hanno frammentato, hanno soffocato la dimensione giuridica. Intanto guardiamo con fiducia nell’Europa. Vi posso dire una cosa un po’ più confidenziale: se il Presidente della Repubblica mi ha onorato di questo gesto, nel febbraio scorso, tutto nasce da un’attenzione che il Presidente delle Repubblica ha avuto per questo libro. Un libro che lui ha apprezzato, lui, europeista convinto, perché portava l’attenzione verso un fenomeno che è europeo, e che io aggiungo non deve limitarsi alla sola Europa. Intanto guardiamo quello che è successo in quel mondo così distante fino a ieri, che è il mondo del Common Law, il mondo anglosassone, dove il diritto vive ancora secondo canoni medioevali, dove il diritto è legato a una storia di un popolo, è soprattutto un insieme di consuetudini. L’Europa vedete, per il giurista, è uno straordinario laboratorio, dove entrano in fusione la vecchia mentalità nostra, continentale europea e quella del Regno Unito, che dal 1971 è componente primaria. Ecco che noi in Europa abbiamo un fenomeno singolare: il vero motore del diritto europeo più che il Parlamento o la Commissione, è la Corte di Giustizia del Lussemburgo e anche la Corte dei Diritti umani di Strasburgo, cioè due organismi giudiziari che, caso dopo caso, cominciano a costruire l’Europa dei diritti, cioè dei diritti umani. E poi un orizzonte che ormai è globale che dobbiamo ordinare, perché non possiamo lasciarlo in mano alle forze economiche, che possono essere peggiori delle forze politiche, più spietate delle forze politiche.
Ricordiamoci di quello che un vecchio giurista diceva: “Hominum causa omne ius constitutum est”: tutto il diritto è nato per l’uomo, deve servire all’uomo. Guai a quel diritto che in nome di un mercato, come oggi si suol dire, sacrifica e stritola la persona umana. Ben venga il diritto del futuro a livello globale, però abbiamo il compito grave e difficile di ordinarlo, di far sì che da quel diritto non scaturiscano delle regole, degli istituti, delle norme che sacrifichino quel bene supremo che è, e deve essere sempre, la tutela, il rispetto, la dignità della persona umana.
CAMILLO FORNASIERI:
Con queste parole suggeriamo la conclusione di questo, seppur breve, ma intensissimo incontro. Il libro lo troviamo nella libreria del Meeting. Grazie ancora a Paolo Grossi di cuore, da tutto il Meeting! Grazie a Luca Antonimi, e vi invito a rimanere. Chiamo Renato Farina per il secondo momento, dedicato al suo ultimo libro, dedicato a Madre Teresa.
Accomodatevi anche qui davanti, ci sono dei posti liberi in prima fila. Salutiamo Renato Farina, caro amico, giornalista, scrittore e onorevole. Ci regala un altro dei suoi preziosi interventi di scrittore, di saggista che coniugano anche la sua esperienza dal vivo, gli incontri che come giornalista ha fatto. “Madre Teresa, le notti della fede”, edito da Piemme, è forse una delle più belle biografie su Madre Teresa e vorrei che tu ci accennassi un po’ questa ripresa…
RENATO FARINA:
Sicuramente la più bella biografia su Madre Teresa,
CAMILLO FORNASIERI:
Sapevamo sempre della tua grande considerazione.
RENATO FARINA:
Non c’è differenza per me scrivente, tra quando ho scritto la mia storia “Alias agente Betulla” e quando ho scritto “Madre Teresa”, la differenza è la qualità del soggetto. Madre Teresa è un pochino superiore all’agente Betulla, per profondità di cuore e importanza storica, per fortuna. Però io ho accettato di fare questo libro così come ho fatto gli altri, senza pensare che sono specialista in un campo o in un altro, ma rovesciandovi dentro tutta la mia esperienza umana quando essa è colpita da qualcosa di forte e alla fine positivo. Questo è un po’ il senso della vicenda e tra l’altro nel momento in cui mi sono capitate… proprio capitate, mi si è rovesciato in testa un secchio di acqua gelida, per usare delle parole gentili, sono stato costretto a ricordarmi di che cosa vivo io, di che cosa, alla fine, è la vita nostra e allora la cosa più preziosa è ciò che resta quando abbiamo perso tutto, tutto, la reputazione, la prospettiva apparente di futuro, la considerazione degli altri. E ciò che resta è precisamente ciò che resta a quelle persone che Madre Teresa soccorreva, e quelle persone lei vedeva che erano Gesù Cristo, cioè, quando abbiamo perso tutto resta la cosa essenziale e la cosa essenziale è la misericordia. La misericordia che non è un concetto e non è innanzitutto un sentimento, ma è una presenza umana, che poi è Dio, si rivela essere Dio, perché riempie sovrabbondantemente il cuore persino dei moribondi e non solo il cuore in senso figurato ma tutto ciò di cui essi hanno bisogno, dal fatto che hanno le ossa triturate, e Madre Teresa le bacia e le soccorre, al fatto che tutti li hanno abbandonati e Madre Teresa li soccorre e non perché sono una specie di annunciatori di Gesù Cristo, ma proprio perché sono Gesù che si presenta a lei. Ecco questo è… adesso però queste cose le avete già sentite di Madre Teresa.
Io, quello che ho scoperto in questo libro, attraverso questo libro, e che ho voluto documentare, è il mio incontro personale con lei, che ho avuto in diverse occasioni a partire dal 1985, che mi ha portato ad essere in qualche modo diretto spiritualmente da lei per alcuni mesi del 1987 e che mi aveva permesso di capire come per lei la fede non fosse come un pensierino fiorito su una riva scoscesa della vita, ma la fede fosse la conoscenza della sostanza dell’essere, della sostanza della vita. Io percepii come una aridità che era più forte, come dire, della retorica che la circondava, la retorica del suo sorriso. Quando lei sorrideva, non sorrideva perché le si piegava la bocca, ma perché nonostante il suo cuore bruciasse, nonostante lei vivesse su di sé la croce, la notte, il buio, però l’essere è totale, la bellezza è totale, la luce è ciò che alla fine grida il buio. Lei è una che ha vissuto il buio, anche personale, come tutti noi, che abbiamo attraversato momenti difficilissimi, che quando avevamo bisogno di sentire la parola del Signore, eravamo sicuri che noi ci meritassimo di sentire la parola del Signore o di un amico, ma quella non arrivava. Lei ha passato tutta questa cosa, ma, tutta questa cosa era in funzione di una pienezza e di una grazia maggiore. Io ho scritto in questo libro, che è una specie di indagine su Madre Teresa, ho scritto che secondo me, così come Teresa di Lisieux e san Giovanni Bosco sono i più grandi santi dell’età moderna e soprattutto Teresa di Lisieux, della quale non a caso madre Teresa di Calcutta ha preso il nome, allo stesso modo i più grandi santi dell’età post moderna, cioè dell’età in cui la ragione ha come smesso di avere la pretesa di totalità e passa tutte le sue consegne alla volontà, alla volontà e alla pretesa della scienza che è completamente risibile, ridicola, i più grandi santi dell’età post moderna, cioè che parlano a noi, sono don Giussani e madre Teresa di Calcutta. Questa tesi me la sono trovata come tra le mani, rileggendo la vita di Madre Teresa a partire dall’incontro che ho io avuto con lei, dalle cose che ho intuito e a partire naturalmente dagli scritti che sono venuti alla luce attraverso il processo di beatificazione, che hanno rivelato tutte le sue notti. Io ho compreso una cosa, ho compreso, leggendo Madre Teresa, a partire dall’esperienza che ho fatto seguendo don Giussani, che è la santa meno compresa di tutte. E’ onorata, ma è stata la meno compresa di tutte e io ho riletto con gli occhi di don Giussani la sua vita.
CAMILLO FORNASIERI:
Perché?
RENATO FARINA:
Perché è stata ridotta al fare, è stata ridotta al fare ed è stata ridotta all’ideologia della carità, non alla carità nella sua sostanza, come esattamente l’incontro con Dio dovunque e specialmente nei più poveri tra i poveri, che diventa opera, che diventa costruire dappertutto case, accogliere persone, ma è stata ridotta a questa cosa come se fosse staccata dal momento razionale della fede, dal momento pienamente razionale della fede.
Io mi sono accorto che noi non siamo capaci di fare niente, senza Gesù non possiamo fare niente, però, molta gente che non sapeva fare niente, incontrando persone come madre Teresa, diventavano capaci di tutto e tutto questo non è spiegabile, come, non so, come una sorte di apprendimento di un libretto delle istruzioni, ma è spiegabile soltanto con il fatto che c’è un altro in mezzo a noi, che queste persone sono testimoni di un altro, che veramente è presente. Tutto questo senza Dio non esiste. Non il Dio, voglio dire, dei filosofi, il Dio delle dottrine, ma il Dio che è nostro Signore Gesù Cristo incarnato. Questi qua sono testimoni, non della capacità dell’uomo di fare grandi cose, ma della grandezza dell’uomo quando si lascia invadere da una altra presenza. Tutta la sua vita è stata questa cosa qua. Se avrete la bontà di leggere questo libro, vedrete che c’è anche un tentativo di una scrittura che somigli al suo dramma e che somigli anche alle sue gioie. Io ho pescato nelle lettere che ha scritto, nei vari suoi discorsi, ma anche nei ricordi delle persone che l’hanno conosciuta, quello che era il suo filo che ha dato a noi.
Ci sono delle pagine in questo libro che sono abbastanza rare, secondo me, che sono quelle dove io lavoro un po’ con padre Aldo Trento proprio su questa notte, su cos’è la notte, che non è una particolarità dei grandi mistici, ma è una vicenda che tocca ciascun uomo e poi con i testi di don Giussani in cui parla di madre Teresa di Calcutta, perché ho fatto una ricerca sulle volte che don Giussani, nei suoi libri, parla di lei e poi anche sui documenti della causa di beatificazione, su alcuni telegrammi spediti, che sono conservati, di don Giussani a lei, o alcuni messaggi che si sono mandati. E tutto questo mi ha permesso proprio di documentare quella che era una mia intuizione, cioè che Dio non lascia soli gli uomini, non lascia soli neanche i cristiani, dà sempre dei segni potentissimi di ciò che è la risposta al bisogno dell’uomo, non in generale, ma al bisogno dell’uomo di oggi. Ecco, è seguendo questo tipo di persone che si cambia…
CAMILLO FORNASIERI:
Senti, ci fai rileggere i passi dove don Giussani sottolineava l’unicità di madre Teresa, dovuta proprio al fatto che tutto per lei era conoscere Cristo e far conoscere Cristo? La famosa intervista che lei fece in televisione, mi colpì molto. Al ministro indiano negli anni ’80 che le chiedeva, “lei perché fa tutto questo, per delle persone che tra pochi minuti muoiono?”, lei rispondeva: “perché conoscano quello per cui sono nati”.
Anche in un contesto, in una religione, in una civiltà diversa, uno nasce per conoscere Cristo, per conoscere questa dedizione di Dio all’uomo. Citi però nella dedica anche von Balthasar, del quale riporti una lunga sorta di poesia, di diario poetico in rima, dedicata al venerdì santo e a don Gianni Danzi, amici in cielo. Come mai questi tre?
RENATO FARINA:
Allora la dedica è a Luigi Giussani a Balthasar, a Gianni Danzi amici in cielo. A Luigi Giussani, a lui dedico tutto, in particolare è lui che mi ha dato gli occhi per vedere la vita di madre Teresa; a Urs von Baltasar, perché è stato un mio grande amico e mi ha permesso, attraverso i suoi scritti e il suo modo di leggere la mistica, di capire di più madre Teresa. Balthasar parla di mistica oggettiva. La mistica soggettiva è quella per cui uno di voi o uno di noi cade in estasi, e questo appartiene ad alcune figure di santi, per cui dentro questa mistica, questa estasi, c’è una comunicazione del divino. Però esiste una mistica oggettiva, che è persino superiore, per cui uno, senza neanche sapere che sta guardando Dio, parla come Dio, perché è talmente immedesimato in questo avvenimento della salvezza, che il suo giudizio, il suo giudizio che è esattamente la forma dell’esperienza, è quello cristiano. La mistica oggettiva, ad esempio, io l’ho riconosciuta in don Giussani, quando parlava e dava dei consigli e dei giudizi sulla nostra vita ed era quella che ho incontrato in madre Teresa Calcutta, persino quando era nel buio più totale. Per cui, mi raccomando, è molto importante questo, perché sennò cadiamo nel santino, pensando ai grandi personaggi della storia della chiesa o al perfetto cristiano. Certo, poi c’è santa Faustina Kowalska a cui Dio parlava… Gesù parlava proprio come evidenza, mostrando la sua faccia e a lei era chiaro che era Gesù che parlava. Però questi sono doni particolarissimi. La mistica oggettiva, invece, è la mistica per cui Dio non ti parla ma tu gli obbedisci attraverso la Chiesa, non ciecamente, ma perché nella notte senti come il buon odore della verità, il buon odore di Cristo, la memoria di qualcosa che ti ha toccano e ti ha cambiato il cuore. Questo è l’insegnamento di madre Teresa, per cui madre Teresa di Calcutta ha sopportato tutto dell’età moderna e dell’età post moderna, le guerre, l’immigrazione, la persecuzione, il fatto di essere una minoranza, il fatto di essere una minoranza prima nazionale e religiosa nella sua patria, l’Albania, sottomessa prima ai Turchi e poi ai Serbi, poi la migrazione in India, il suo essere una minoranza rispetto agli induisti, poi il suo essere una minoranza rispetto alle suore, che ne parlavano male, perché l’invidia c’è sempre, la sperimentò Teresa di Lisieux e l’ha sperimentata lei. Io dedico anche un capito all’analisi del rapporto tra santa Teresa di Lisieux e la beata Teresa di Calcutta. Poi ha sperimentato, prima, l’incomprensione del Vescovo che non voleva saperne di concedere, neanche di parlare della nuova idea, della nuova missione che il Signore le aveva affidato e lì non si capisce fino a che punto è stata proprio una apparizione mistica in senso soggettivo oppure no. Lei ha tenuto duro, anche quando hanno supposto che dietro questa volontà di uscire dal convento di Loreto, ci fosse una sorte di relazione con il suo confessore, con cui in quel periodo parlava più spesso. Allora le suore, sempre molto attente, sempre molto bisognose di correggere il prossimo, la denunciarono al Vescovo e alla superiora. E dopo nella persecuzione forte che le fecero gli induisti li e poi soprattutto ciò che la fece soffrire, la persecuzione dentro la Chiesa, perché c’era un tipo di persecuzione che si appoggiava all’ideologia famosa del ’68, cioè, che madre Teresa, sanando le piaghe dei poveri, in realtà finiva per giustificare la povertà, perché alla fine razionalizzava il capitalismo. Questa era l’idea, poi dovettero cambiare idea perché siccome faceva anche la stessa cosa nel regime comunista, allora a quel punto arrivò dall’altra parte l’idea che alla fine giustificava la dittatura di Fidel Castro. Però lei ha sempre avuto questo principio: “io vado dappertutto purché mi lasciate portare un sacerdote a celebrare la messa”. Questo era il principio, se non le consentivano questo, lei non andava a fare le opere di carità. E li c’era proprio la coscienza semplice fortissima, cattolica, dell’incarnazione, che senza la presenza di Cristo nessuna opera è efficace, e che la presenza di Cristo è garantita soltanto attraverso l’unità della Chiesa che si esprime dentro l’eucaristia e dentro la potenza di nostro Signore. Questa era lei. E poi alla fine l’attacco fortissimo, sistematico, totale, che negli ultimi anni ha subito ad opera dei giornalisti più a la page, di Christopher Hitchens, soprattutto, che adesso è una delle prime firme del Corriere e che sosteneva che madre Teresa non ha fatto altro che truffare i poveri. Io rispondo punto per punto alle osservazioni di questo deficiente, proprio in senso tecnico, quindi non è un insulto, perché proprio gli mancano gli occhi, non so se mi spiego, proprio gli mancano gli occhi, gli occhi umani; può avere gli occhi della telecamera ma non è capace di vedere cosa l’immagine dice al cuore degli uomini. Io penso che questo libro sia, tra quelli che ho scritto, il più prezioso, perché nasce come dall’esterno di me, mi è stato chiesto dall’amico Diego Manetti, perché mi disse che lui personalmente e molti altri erano stati sorpresi dal capitolo che io avevo dedicato a madre Teresa, nel libro “Maestri”, dove avevo riportato brani di interviste con lei che le avevo fatto io e la storia del mio rapporto. E lui mi ha detto che la gente si aspetta qualcosa su madre Teresa, perché non è uscito niente che rilegga madre Teresa alla luce dell’ultimo libro uscito, neanche l’ultimo, quello fatto dal postillatore della beatificazione, che si limita a pubblicare delle lettere senza spiegare come cambia la visione di madre Teresa dopo questa storia della notte. Se prima non abbiamo detto delle bugie, come fanno a stare insieme queste due immagini, la santa Teresa piena di fede e la santa Teresa nella notte? In realtà lei era piena di fede, nella notte. Essere pieni della fede, come mi ha detto padre Aldo, non vuol dire non avere dei dubbi, vuol dire che anche nel dubbio tu gridi e accetti la mano che ti si tende dentro lì e segui con la ragione la memoria di quello che ti è accaduto. E’ come quando hai fatto un percorso e tu sai chi abita lì e in quel momento magari sta dormendo, come dice Teresa di Lisieux, e allora cerchi di svegliarlo e poi magari quando si sveglia lui ti sgrida e dice: “ma come dubitavi che io non ti guardassi, amica?”. Questa è la nostra vita, madre Teresa è un’eroina, ma noi siamo chiamati a questa eroicità che è la quotidianità, cheè l’essere quotidianamente, in ogni istante, capaci di dire di sì, capaci di aprire gli occhi, capaci di voler bene, perché siamo voluti bene.
CAMILLO FORNASIERI:
Renato, io ti ringrazio. Parafrasando un po’ quello che hai detto: esiste ciò che conosci, non ciò che si dimostra continuamente, perché la conoscenza è la permanenza di una presenza. Grazie alla Piemme del suo lavoro, grazie a voi tutti.
(Trascrizione non rivista dai relatori)