Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA
Aspettare insieme. Carteggio tra amici
Presentazione del libro di Jonah Lynche David Gritz(Ed. Marietti 1820). Partecipano: Stefano Alberto, Docente di Introduzione alla Teologia all’Università Cattolica Sacro Curore di Milano; Jonah Lynch, Fraternità Sacerdotale Missionari S. Carlo Borromeo.
A seguire:
Intelligenza senziente
Presentazione del libro di Xavier Zubiri a cura di Paolo Ponzio, Docente di Storia della Filosofia all’Università degli Studi di Bari. (Ed. Bompiani). Partecipano: il Curatore; Javier Prades López, Docente di Teologia Dogmatica alla Facoltà Teologica San Damaso di Madrid.
A seguire:
Come figlio
Presentazione del libro di Vittoria Maioli Sanese, Psicologa della coppia e della famiglia (Ed. Marietti 1820). Partecipano: l’Autrice; Maurizio Vitali, Giornalista.
Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
MODERATORE:
Bene. Cominciamo questo momento pomeridiano di invito alla lettura che prevede la presentazione di tre libri di tre storie, di tre esperienze e saranno annunciati secondo l’ordine stabilito. Il primo, siamo già qui insieme ai nostri ospiti, riguarda il libro edito da Marietti, Aspettare insieme. Carteggio tra amici. Abbiamo qui i nostri ospiti che salutiamo: Marina Corradi e Jonah Lynch. Jonah Lynch è vicerettore del seminario della Fraternità Sacerdotale dei Missionari S. Carlo Borromeo. Marina Corradi è giornalista di Avvenire. Il libro ha una post-fazione di Massimo Camisasca, che è il fondatore e Rettore della Fraternità Sacerdotale S. Carlo Borromeo, che ha fortemente voluto questo libro e credo che oggi intuiremo il perché. Grazie, la parola a Marina Corradi.
MARINA CORRADI:
Io ho conosciuto Johah Lynch un paio di anni fa, per fare un’intervista per un libro sui sacerdoti della Fraternità S. Carlo, e l’ho visto per un’ora in un bar di Milano e siamo diventati amici, abbiamo avuto subito una grande affinità. Quando mi ha mandato questo suo libro e l’ho letto, ho pensato fra me che ha avuto coraggio a tirare fuori dal cassetto delle lettere scritte e ricevute da un amico quando aveva 20 anni, un coraggio che io non avrei, perché quando si hanno 20 anni e si scrive ad un amico molto caro, si dice veramente tutto quello che si ha nel cuore e nel caso particolare di questi due ragazzi, abbastanza fuori dell’ordinario, ciò che avevano di vero, che avevano nel cuore, era la domanda di senso, sul perché ci alziamo al mattino, sul perché viviamo. La prima impressione è che sia un libro un po’ spudorato, nel senso che scuote certi tabù, forse l’ultimo dei tabù, perché si può parlare di tutto oggi ma ciò di cui si parla meno volentieri è appunto il perché, il senso, perché siamo qui. La cosa singolare è che questa domanda comincia a muoversi nel contesto che è quello della McGill University di Montreal, che è assolutamente laico, e anzi, nel racconto che ne ha fatto personalmente Lynch, è un contesto di un gaio nichilismo, in cui certe domande sono evitate se non addirittura derise, eppure questi due ragazzi si incontrano e forse prima ancora della domanda di senso c’è la domanda, in tanta leggerezza c’è la domanda anteriore, se “davvero poi ci sia qualcuno che ci ha chiamato?”. Non è affatto scontato in questo nulla allegro e lieto che gira intorno a questi due ragazzi che la risposta debba volgere ad un positivo. David è un ebreo non praticante, che si dice non credente per mancanza di dati. Mi è venuto in mente che poteva far suo, questo ragazzo, delle parole di Kafka che mi sono rimaste in mente, cioè questa frase: “Anche io come chiunque altro ho in me fin dalla nascita un centro di gravità che neanche la più pazza educazione è riuscita a spostare, ce l’ho ancora questo centro di gravità ma in qualche modo non c’è più il corpo relativo”. Questo ragazzo sembrava avere dentro come una radice perduta, qualcosa a cui nemmeno più sapeva dare un nome, però sapeva che qualcosa c’era. Lynch è invece figlio di cattolici irlandesi, che hanno attraversato quasi un’epopea, fra l’Irlanda e l’Oregon, cresciuto in maniera avventurosa, radicale per temperamento. Però questa sua fede aveva attraversato una specie di diaspora della tradizione cristiana, che molti di noi in Occidente hanno attraversato, cioè alla fine non credeva più in niente. Mi ricordo che quando lo conobbi mi raccontò che quello che gli restava della sua fede era stato travolto dalla lettura dei Fratelli Karamazov, da quelle pagine terribili e strazianti che sono quelle in cui Ivan dice “del dolore degli innocenti” e questo mi aveva molto accomunato a lui, perché anch’io da ragazza avevo letto lo stesso libro e ne ero stata praticamente annientata, come se questo dolore degli innocenti fosse un’obiezione a cui non potevo trovare una risposta. Ecco, Lynch ha avuto il coraggio di portare alla luce queste lettere che parlano del grande tabù. Io quest’estate ho frequentato gente di tutti i tipi, e a tavola, parlando con tanta gente, amici e conoscenti, pensavo, però parliamo di tutto, di tutte le sciocchezze possibili, ciò di cui non parliamo mai, come se fosse indicibile, è appunto il senso, Dio e ancora di più Cristo, un Dio di carne. Sembra quasi, a volte, maleducato pronunciare questi argomenti, quasi fossero inopportuni, invece tutto questo dialogo è spudoratamente su questa domanda; ad un certo punto Lynch dice all’amico: “Se Gesù era Dio, cambia tutto”, con questa obiezione radicale e sbalordita di uno che viene da una storia cristiana, l’ha dimenticata e la riscopre, ed è sbalordito. Il ragazzo che viene dall’ebraismo lo ascolta stupefatto, obietta ed ha una sorta di atteggiamento recalcitrante di fronte a questo Dio così scandalosamente uomo. Ma come dice don Massimo Camisasca, questo David era ricerca pura, era un girovago nell’Europa con il suo amico o senza, tra Parigi e tutto l’Occidente, sempre con questa grande domanda irrequieta addosso. Anche la forma mi ha commosso, perché queste e-mail scritte in fretta, prima che cada la linea, perché parliamo di sette/otto anni fa, quindi non eravamo all’internet di adesso, eppure in questa forma elettronica che è veloce e concisa, la domanda è la stessa dei rotoli di Qumram o dei monasteri Benedettini. C’è una domanda che mi ha colpito molto nel libro, che David fa a Lynch: “Mi piacerebbe che tu mi parlassi della preghiera; dimmi soltanto, se non ti dispiace, come vivi con essa e in essa parlami del suo effetto sulla tua vita e della relazione con il tempo in generale”. Lui stesso, però, aveva avuto un’intuizione in questo senso. Scriveva pochi anni prima: “Dobbiamo ricorrere a qualche tipo di metodo archeologico per stabilire cosa giace in fondo al nostro corpo, per scavare sotto la montagna di stupidaggini che ci hanno condizionato fino ad ora e trovare la pietra preziosa”. Jonah risponderà a quest’intuizione dell’amico anni dopo, citando una frase del Senso Religioso di Giussani: “Essere consapevoli di noi stessi fino in fondo significa accogliere nel profondo di noi stessi un Altro, questa è la preghiera, essere consapevoli di noi stessi fino in fondo, fino ad incontrare un Altro”. Mi ha anche, per coincidenza di letture, incuriosito nei Diari di Etty Hillesum, che è una giovane ebrea morta ad Auschwitz, è che ha attraversato nel lager una misteriosa conversione tacita al cristianesimo, torna la stessa intuizione di David, quasi nella stessa forma: “Un pozzo molto profondo è dentro di me e Dio c’è in quel pozzo, qualche volta riesco a raggiungerlo, più spesso pietre e sabbia lo coprono, allora Dio è sepolto, bisogna allora che lo dissotterri”. Comune in questi due ragazzi ebrei, che avevano dimenticato la loro memoria esplicita. il senso di una pietra preziosa da dissotterrare nuovamente. La strada in cui questo fatto si compie è l’incontro fra di loro, come se la strada fondamentale fosse lo scambio e lo scontro fra due uomini, come se proprio ontologicamente la struttura dell’uomo fosse un rapporto. Mi veniva in mente quel verso di Hölderlin, bellissimo, che è anche il titolo di un libro di Eugenio Borgna, “Noi siamo un colloquio”, cioè noi siamo radicalmente portati verso un altro e in quell’altro noi scopriamo noi stessi, che è anche ciò che dice l’Antico Testamento, “non è bene che l’uomo sia solo”. Ecco è singolare come in quella Montreal svagata, in una lezione di un insegnante di CL, che è John Zucchi, è David, è l’ebreo, a cogliere più intensamente una frase che questo professore dice. La frase è: “La moralità non è una regola ma l’espressione di una appartenenza” ed è David che insiste con l’amico perché si vada cercare, finita la lezione, quel professore, per capire cosa voleva veramente dire, che segreto c’era sotto questa frase che li affascinava ma che non riuscivano a decifrare. Quindi in fondo è David che conduce l’amico verso la fede cristiana, poi negli anni, quando Lynch matura questa sua fede, avrà quasi la pretesa di portare l’amico alla fede cristiana, a quella verità che per lui è l’unica e la splendida, però non accade. Accade, invece, che in una lettera entusiasta, David scriva da Parigi: “Ho vinto una borsa di studio per andare a Gerusalemme, sono uno dei tre”, ed è felice; va a Gerusalemme e l’assurdo è che finisce in questa guerra che apparentemente non lo riguarda, lui è nato a Parigi, figlio di una croata, cosa c’entra nel conflitto tra Palestinesi e Israeliani, e però questo modo di morire, nel conflitto del suo popolo, mi sembra, a Gerusalemme, la città del muro, ma anche la città della tomba scoperchiata, della morte sconfitta, mi sembra come un segno, cioè tu leggi, è folle morire a questo modo, a 20 anni, con questa intelligenza, con questo splendore di talenti, e ti atterrisce pensare a suo padre e sua madre, a come hanno fatto a non essere annullati dal dolore. C’è però una frase che rimane, come una traccia che rimane, in fondo a questo libro, una frase che David ha scritto nel ’97. David si è chiesto: “Ma perché evitare il dolore in qualsiasi forma? Non possiamo accettarlo? Potrebbe essere la strada giusta, forse dovremmo accogliere a braccia aperte il mare che ci porta alla deriva”. Se ci pensate, un ebreo, nemmeno praticante…. questa è l’intuizione della croce cioè del dolore abbracciato; questo ragazzo nella sua ricerca, oscuramente, ha avuto l’intuizione della croce. Perché dobbiamo ribellarci al dolore, che è ciò che facciamo tutti? Potremmo abbracciarlo: forse è la strada giusta. Ecco poi, che uno che ha detto una cosa simile finisca in questo modo, in quel luogo, è una cosa che a me sembra un segno e quindi ho capito alla fine il coraggio di Lynch nell’estrarre queste lettere così intime dal cassetto, cioè dare ragione di una speranza, il motto paolino – dare alla nostra speranza una ragione, cosa che così spesso, per pigrizia o per timore, non facciamo. Vi ringrazio.
JONAH LYNCH:
Sono molto grato a Marina di aver detto tutte le cose che non volevo dover dire, perché mi risulta molto difficile raccontare a più di due/tre persone intime questa vicenda, così ho pubblicato un libro, così non devo stare lì. In realtà mi sento quasi nudo ad aver pubblicato questo libro, e quindi oggi non voglio parlare molto della vicenda, che Marina adesso ha spiegato comunque molto bene, molto sinteticamente, molto profondamente. Se vi interessa potete leggere le cose nel libro. Quello che vi vorrei dire è questo. C’è un a certa vergogna in me, nel parlare oggi, ma c’è soprattutto una gratitudine per potervi offrire quest’amicizia, alla fine è stata questa gratitudine che ha vinto la mia vergogna e il mio timore e mi ha convinto che don Massimo aveva ragione che dovevo pubblicare il libro. Sono grato di avere questo tesoro da condividere, perché dentro questa amicizia ho scoperto Dio, ho incontrato Comunione e Liberazione, ho aderito alla vocazione che Dio mi faceva sempre più chiara, sono entrato in seminario e sono diventato sacerdote. Cioè ho veramente moltissimo di cui essere grato. Negli ultimi mesi, molte persone mi hanno scritto per ringraziarmi del libro ed è per me una conferma gradita della giustezza del pubblicare che ho rimandato per sei anni – dicevo a don Massimo, no, non voglio. Appunto si può crescere nella certezza che sia stato pubblicato il libro e con ogni lettera che mi arriva la certezza è cresciuta. Ma moltissime di queste lettere, praticamente tutte le persone che mi parlano della loro esperienza di aver letto il libro, mi dicono anche un’altra cosa, come vorrei anch’io avere un amico così. Penso, infatti, più ancora che un sussulto di nostalgia che ci invade naturalmente alla vista di una coppia di innamorati che si amano con tenerezza e rispetto, anche la vista di una amicizia libera e ricca ci riempie di desiderio struggente di vivere anche noi così. Uno mi ha scritto: “Io un’amicizia come la tua con David non l’ho mai neppure lontanamente vissuta e visto che mi conosco, so anche che non la vivrò mai”. Mi sono quasi messo a piangere quando ho letto, perché è talmente disperata una cosa così, e va avanti dicendo: “Il fatto che ci sia chi può testimoniarmi che una amicizia come questa esista, aiuta la mia speranza ad essere sostenuta”. Non so se in lui domina più la speranza o la nostalgia, ma siccome ho conosciuto tante persone in cui domina decisamente questa nostalgia amara e paralizzante, mi sembra che la cosa più utile che io possa fare oggi è rispondere a questa obiezione, a questa domanda, a questo atteggiamento. Ho l’arditezza di parlare, a questo punto, perché conosco la solitudine, ho vissuto anni in cui piangevo in segreto quando vedevo amici che erano felici insieme e perché ho vissuto un’amicizia profonda e vivo ancora amicizie profonde. Per cui tento di capire cosa significa questa frase, “io vorrei vivere un’amicizia così”. La prima cosa che voglio dire è che l’amicizia è possibile; l’amicizia è possibile per me, per te, per noi, non è un bene riservato a pochi fortunati, perché Dio non ci lascia soli. Anche Marina ha citato quella frase “Non è bene per l’uomo essere solo”, come una promessa fondamentale della creazione. Infatti non siamo soli, molti di voi, come me, fate parte di Comunione e Liberazione, che è una bella strada avventurosa di santità. Ma il nostro nome già lo dice, che nella comunione siamo liberati, facciamo l’esperienza della libertà. Giussani ha scritto tantissimo su questo tema. Tanti di voi siete sposati, tanti siete consacrati, tutti siamo figli di un padre e di una madre. Per me una delle intuizioni più belle di Giussani è che il destino del matrimonio è l’amicizia tra gli sposi, l’innamoramento passa ma l’amicizia può continuare in una impresa comune e in una comune strada verso Dio, molto più dell’immagine falsamente romantica della nostra società che inventa il Viagra per prolungare inutilmente quel periodo dell’innamoramento. Ma tutti noi siamo figli, questo per me è il cuore del Rischio educativo di don Giussani, quale destino migliore che essere amici dei nostri genitori, amici del padre e della madre? Appunto Giussani dice che il destino del rapporto educativo, sia a scuola che in famiglia, è diventare compagni di viaggio. Sembra questa una definizione bellissima di cosa è l’amicizia. Poi mi ha colpito, parlando con alcuni amici quest’anno, che ci può essere anche un’amicizia con le cose, con il mondo, perché esistono anche periodi di solitudine con le persone, li viviamo tutti questi periodi. Mi ha colpito anche sua sorella, Letizia Fornasieri, che mi diceva qualche tempo fa al telefono, che per lei dipingere è un atto come accarezzare gli oggetti, dire a loro “sono contento tu ci sia”, una sedia, un filobus, le cose che dipinge Letizia. “Sono contento che tu ci sia”, mi sembra un’espressione bellissima della gratuità dell’amicizia, che uno può vivere anche verso le cose. Mi ha colpito anche il libro di Bersanelli “Solo lo stupore conosce”, che anche uno scienziato fa questa esperienza. Sono tentato di fare un po’ una deduzione che al mio spirito teologico piace fare, ogni tanto, cioè conoscere le cose vuol dire amarle, amare le cose vuol dire amare il loro Creatore, e quindi si fa un nesso sottile ma profondissimo e fortissimo tra la conoscenza e l’amore delle cose stesse del mondo e Dio. Quindi le cose diventano la presenza dell’Amico, con la A maiuscola, che è come un misterioso e affascinante seduttore che ci attrae attraverso piccoli segni posti sul nostro cammino, come petali di rosa che portano alla stanza nuziale. Non voglio però continuare un elenco di tutti i mestieri e di tutte le condizioni possibili di vita, vorrei semplicemente dire che pensare che l’amicizia sia impossibile è un atto di disperazione, è dire che Dio è mentitore, che Dio non ci ha promesso di non lasciarci soli. Infatti non ci lascia soli. Ecco, vorrei raccontare un episodio che mi aiuterà sa piegare meglio questo che voglio dire. Durante l’estate del ’98, David ed io abbiamo passato un mese, viaggiando in autostop per la Francia. Volevamo suonare il violino per strada e guadagnare da vivere, in qualche modo placare la sete di avventura che avevamo. Quindi abbiamo passato Marsiglia e Aix an Provence, un mese intero siamo rimasti in giro a suonare e chiedere passaggi in macchina e incontrare la gente più diversa e improbabile. La notte dormivamo in tenda, bussavamo alle porte delle case che avevano un piccolo giardino per mettervi la tenda, e sempre dicevano di sì, e questo mi aveva colpito. Spesso ci regalavano anche del cibo, delle birre, qualche volta ci invitavano a cena e suonavamo con la famiglia o anche con tutti gli abitanti di quel paese, rimanevamo a dormire nella casa – così non dite mai che i francesi non sono accoglienti. Una volta eravamo in Bretagna, eravamo accampati accanto a una siepe di cipressi, fitti e molto alti, mentre il sole tramontava dietro alla siepe noi leggevamo con l’ultima luce del giorno, le nuvole sparse che vedevamo davanti a noi si tingevano di rosa e David ha smesso di leggere per contemplarle. Mi ricordo il suo sguardo stupito, io invece non pensavo che fossero granché, perché sapevo che dall’altro lato della siepe, dove tramontava il sole, ci sarebbe stata ben altra bellezza. Allora gli ho detto: “Infiliamoci tra i cipressi, andiamo a vedere” e si apriva davanti a noi davvero il tramonto più spettacolare che io ricordi, era come un campo arato, tutto striato con arancione e rosa. Mi sembra un’immagine bella di cosa siamo stati: lui capace di amare ogni cosa nel suo dettaglio infimo, che mi innervosiva, perché sembrava diffidente nell’affermare il fondamento, la sorgente della luce, e io invece, impaziente, a volte ottuso, a volte teologico, con poco amore per la vita concreta, rischiavo di allontanare il mio amico con discorsi universali. Nel tempo lui mi ha insegnato ad amare le molte cose che avrei scartato e io ho cercato continuamente di portarlo all’altro lato della siepe, di fargli vedere la sorgente della luce che lo affascinava. Appunto ho questa propensione, un po’ da prete, di fare i discorsi teorici, ma per questo ho voluto raccontare questa storia, perché si vede molto chiaramente che in fondo ciò che ci univa, e ciò che ci unisce ancora, è qualcosa fuori di noi, che entrambi cercavamo. Io ho avuto la grazia, poi, di incontrare e di amare quel sole che è Cristo. Ma oggi vedo meglio di allora, che lui, amando le cose, anche lui amava Cristo, perché amava il riflesso di Cristo nelle cose.
Quindi il secondo punto che vorrei dire, e che è, forse, un punto radicale e provocatorio, è che l’amicizia è possibile solo tra persone che cercano Dio. Altrimenti ci può essere al massimo una connivenza, una convergenza di interessi ma non amicizia. È chiaro che con questo non voglio negare la possibilità di amicizia con uno che si professa ateo o agnostico o di un’altra religione, ma se quella professione di fede o non fede non è vissuta come ricerca, non ha la forza spirituale di vivere una vera amicizia. Allora brevemente vorrei concludere con un discorso teorico, però cercate di seguirlo, perché è il modo migliore che io conosca per dire ciò che ho da dire. Dio stesso è amicizia, è trinità, è comunione, è unità dei diversi. Il Padre non è il Figlio, non è lo Spirito, ma i tre sono uno, sono un solo Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo. Questo mistero è il mistero senz’altro più alto insieme a quello dell’incarnazione, che sono i due misteri fondamentali della fede. Ma un inizio della comprensione di questo Mistero si può trovare nell’esperienza dell’amicizia umana. Mi trovavo e mi trovo ancora a dire che David è parte inscindibile di me, e con la sua morte il mondo è diventato un po’ più vuoto. Una parte di me si è spostata nell’altro mondo, questo per me è il punto, ed è l’esperienza di centuplo che cerco di testimoniare con questo libro, ed è l’esperienza che vi auguro, perché noi cattolici, anche nella comunione dei santi, crediamo nell’unità meravigliosa che si può sperimentare proprio fra questo mondo e l’altro mondo. Ora, una cosa che io sperimento, con più o meno distrazione, tutti i giorni nella mia Messa, perché lì sono radunati i presenti ma sono radunati anche tutti gli angeli e tutti i santi, come dico e non è per modo di dire, “ e noi insieme agli angeli e ai santi cantiamo senza fine l’inno della tua lode, Santo Santo Santo”, lì presente sta David, nella mia Messa, tutti i giorni, è con me. Quindi il mio modo di vivere l’amicizia è cambiato, è il modo è diverso ora, non ci scriviamo più lettere. Ma testimonio che lui è presente alla mia vita, presente in questo modo misterioso ma reale e allora alla fine ho accettato di pubblicare questo libro e di denudarmi davanti a tutto il mondo per farvi partecipi di questa amicizia, di questa esperienza di centuplo che è un pregusto di ciò che sarà la gioia della vita eterna. Grazie.
MODERATORE:
La parola conclusiva è semplicemente un grazie, grazie alla loro testimonianza. Grazie alla testimonianza di Marina Corradi e grazie a Jonah Lynch per la sua esperienza, per le parole che ha trovato per raccontarla oggi e raccontarla nel libro. Grazie e voi.
Il nuovo libro che presentiamo è un corposo lavoro, è la traduzione di un opera di un grande pensatore, di un grande filosofo del secolo appena trascorso, del ’900, che comunque tanta traccia lascia in questi primi anni del nuovo secolo. Riguarda l’opera principale di Xavier Zubiri. L’occasione di oggi è quella per incontrare questo autore e capire quali sono i punti cruciali del suo pensiero e della sua riflessione sull’esistenza. Ci guideranno in questo lavoro introduttivo Paolo Ponzio, docente di Storia della filosofia a Bari, conosciuto al Meeting per gli incontri di filosofia degli anni scorsi e Javier Prades, che è uno studioso, un teologo e filosofo, che abbiamo incontrato anche ieri e che vedremo nei prossimi giorni qui all’opera.
La parola quindi subito a Paolo Ponzio.
PAOLO PONZIO:
Grazie a Camillo per le sue parole introduttive. È realmente un rischio presentare un classico della filosofia al Meeting di Rimini. È un rischio duplice perché innanzitutto prima di questo libro, c’era un libro che era un’esperienza, il racconto di un’esperienza, il racconto di un’amicizia solidale, di un’amicizia dell’ideale, all’ideale. Un classico di filosofia che cos’è? Beh anche un classico di filosofia è un’esperienza, un’esperienza di lavoro, ma è anche un’esperienza di incontro che il curatore, il traduttore e che io, in questo caso, ho fatto in questi anni, con questo autore che non ho avuto il piacere di conoscere personalmente, ma che ho conosciuto attraverso i suoi numerosi scritti. Chi è Xavier Zubiri? Molti, io per primo qualche anno fa non lo conoscevo, molti di noi probabilmente non lo conoscono. È un filosofo che si forma alla scuola di Ortega Y Gasset negli anni ’20 in Spagna, persegue i suoi sudi filosofici un po’ in tutta Europa. Questo è un dato interessante, la filosofia anche negli anni venti e trenta, forse ancor più in quegli anni che in questi, è una filosofia europea, per cui Zubiri sente una esigenza di formarsi in Belgio per il suo dottorato, e poi di trasferirsi a Friburgo, dove ha la possibilità di seguire gli ultimi corsi di Husserl e i primi corsi di Heidegger. Resterà affascinato sia dall’uno che dall’altro, seguendo il primo e discostandosi quasi subito dal secondo per i motivi di cui poi tratteremo e che riguardano appunto l’oggetto del libro, “Intelligenza senziente”. Da Friburgo poi si muove a Berlino, dove incontrerà filosofi e anche scienziati come Einstein, con cui condividerà anche un beve ma intenso epistolario. È un filosofo che si interessa di scienza, e chi avrà il fegato oltre che il gusto di leggere l’opera, si renderà conto che è un filosofo che dialoga con le scienze, non soltanto con le scienze esatte, ma anche con la scienza teologica, come ci spiegherà meglio Javier Prades.
Torna in Spagna e la situazione in Spagna è tragica, drammatica; scoppia la guerra civile. Lui si trasferisce a Parigi e rimarrà a Parigi fino alla fine della guerra, rientrando in Spagna ma non trovando più l’insegnamento universitario che aveva lasciato all’Università centrale di Madrid. Questo per le ragioni più svariate. Per i franchisti perché era un antifranchista, per gli antifranchisti perché era un franchista. Continua a tenere corsi privati e li terrà fino alla sua morte, nel 1983.
Di che cosa si tratta? Innanzitutto si tratta di un incontro personale che io ho fatto con questo autore, un incontro che come tutti gli incontri hanno della imprevedibilità e dell’intensità. Imprevedibile perché è nata dalla curiosità di una nota a piè di pagina di una lezione inaugurale di un corso, tenuto nel 2001 tenuto da Javier Prades nella sua facoltà di Madrid; da una semplice nota a piè pagina in cui Prades, insieme ad altri autori che conosco, cita questo autore per me assolutamente sconosciuto. E si illumina la curiosità filosofica, la curiositas, e incomincio a leggere questo autore, incomincio a intravederne le potenzialità e anche la complessità del pensiero. Ogni incontro è sempre un incontro imprevedibile ma anche intenso. E quindi si consuma questo incontro intenso nella lettura delle centinaia di pagine che compongono la sua opera, di cui non parlerò a lungo perché mi interessa oggi capire con voi che cosa vuol dire “intelligenza senziente” e cosa può essere utile ad un lettore che non sia per forza un lettore di filosofia, un filosofo che studia per lavoro, per professione.
La filosofia dell’intelligenza di Zubiri nasce dall’unire, dall’unificare la relazione fra il sapere e la realtà. Qualche anno prima Zubiri aveva pubblicato un’opera sulle essenze, e quest’opera aveva suscitato una grossa critica, e la grossa critica era che per conoscere l’essenza, per conoscere il reale nella sua essenza, era necessario prima sapere ciò che è possibile conoscere. Prima della realtà c’è bisogno di capire cosa può conoscere l’uomo, con che mezzo l’uomo può conoscere l’uomo. Sembrerebbe cioè che ci sia, e questo lo sappiamo da tutta la filosofia moderna, una preminenza del conoscere sul conoscibile, come se il sapere dell’uomo venisse prima della realtà. La posizione di Zubiri è un po’ diversa; cito dal Prologo: “Certamente la ricerca sulla realtà ha bisogno di essere aiutata con alcune concettualizzazioni di ciò che significa sapere. Ma questa necessità è una anteriorità? Non lo credo. Poiché non è nemmeno certo che una ricerca intorno alle possibilità del sapere possa giungere a termine e di fatto non è giunta a termine se non ci si appella ad alcune concettualizzazioni della realtà. È impossibile una priorità interna del sapere sulla realtà né della realtà sul sapere. Il sapere e la realtà sono alla loro stessa radice strettamente e rigorosamente congeneri. Cioè vi è una condizione intrinseca per conoscere la realtà e questa condizione intrinseca è il fatto che il conoscere, il sapere nella sua indeterminazione, e la realtà sono uniti, sono unificati, e sono unificati all’origine”. Questo permette a Zubiri di evitare l’errore dei filosofi realisti, che dicono c’è prima la realtà e poi il sapere e di quelli idealisti, che dicono il contrario, c’è prima il conoscere e poi la realtà. Il problema filosofico di Zubiri è invece ad un livello originario. Per questo la presunta anteriorità critica del sapere sulla realtà non è in fondo se non una specie di indecisione all’inizio del filosofare stesso. Come se qualcuno che volesse aprire una porta passasse delle ore a studiare i movimenti dei muscoli della sua mano e probabilmente non giungerà mai ad aprire la porta; in fondo questa idea critica di anteriorità non ha mai portato per se stessa ad un sapere del reale e quando ci è riuscita, ha dovuto ammettere di non essere stata fedele alla stessa critica. Qual è allora il problema originario del conoscere? Zubiri lo svolge attraverso il lavoro di queste pagine che sono l’unione di tre volumi intitolati: Intelligenza e realtà, Intelligenza e logos e Intelligenza e ragione, in cui sviluppa questa idea, l’unica idea che la filosofia dell’intelligenza di Zubiri ha: il fatto che l’intelligenza, il sapere, il conoscere siano una mera attualizzazione del reale nell’intelligenza senziente. E qui devo spiegare che cos’è l’intelligenza senziente, altrimenti sembrerebbe come se ci fosse una unione dell’intelligenza e del sensibile, del sentire e dell’intelletto; non è così. L’intelligenza senziente consiste formalmente nell’apprendere il reale in quanto reale. I sensi ci danno nel sentire umano le cose reali, con tutte le loro limitazioni, nel sentire noi abbiamo le cose reali e così questa prensione delle cose reali in quanto sentite, è una apprensione senziente, e in quanto è una apprensione di realtà è una apprensione intellettiva. Di qui il fatto che il sentire e l’intellezione non siano due atti numericamente distinti, ma costituiscano due momenti di un solo atto di apprensione, l’intelligenza senziente. Quindi l’intelligenza senziente che cos’è? È un tentativo, questo grosso tentativo di unificare il sentire e l’intelligenza umana, non più come atti, come facoltà, ma come un unico atto descrittivo dell’intelletto. Ora detto cosi, è proprio detto come uno slogan; occorrerebbe a questo punto fare il lavoro di lettura del testo per capire che cosa significhi e cosa significhi dire che l’intelligenza non è più una facoltà, una delle facoltà, ma un unico atto, anzi come Zubiri sosterrà poco più in là, un unico fatto. Perché l’intelligenza non è più un atto, non è più un’astrazione, ma una apprensione, una apprensione che implica in sé l’afferrare il reale. È come se il reale potesse essere afferrato nell’atto intellettivo, afferrato attualizzandolo in modo che sia presente, che sia presente all’atto dell’intellezione stessa. Qual è allora il compito della ragione, il compito che è un po’ la terza parte, l’ultima, ma non la più importante del volume? Il compito della ragione, come si dice anche nella quarta di copertina, il problema della ragione non consiste nel verificare se è possibile che la ragione giunga alla realtà, ma proprio il contrario, definisce in che modo occorre mantenersi nella realtà nella quale già stiamo. Non si tratta di giungere a stare nella realtà, ma di non uscire da essa. Il compito della ragione, il cammino, cosi lo presenta Zubiri, è quello di pensare la realtà stando dentro la realtà, di pensarla in profondità e non perché sia uno sforzo astratto o intellettivo, ma perché le cose stesse ci danno da pensare, sono le cose stesse che ci imprimono la possibilità stessa del pensiero. È curioso come in un passaggio, che molti di noi avranno letto chissà quante volte de Il senso religioso, Giussani dica ad un certo punto: “Il problema veramente interessante per l’uomo non è la logica, non è la dimostrazione, il problema interessante per l’uomo è aderire alla realtà, rendersi conto della realtà, e dunque una cogenza, qualcosa che costringe, non una coerenza”. È estremamente interessante cogliere il nesso tra quello che vi ho detto e questa frase di Giussani che, in qualche modo, ci dice in maniera assolutamente reale quello che è il tentativo dell’intelligenza senziente di Zubiri, che ha come unico compito quello di far rimanere nella realtà l’uomo stesso. Grazie.
JAVIER PRADES LOPEZ:
Diceva adesso Paolo che è la realtà che ci fa, che ci dà da pensare. Ecco, non si può partire che da lì, io sinceramente non posso evitare la domanda che cosa muove tutte queste persone ad ascoltare la presentazione di un volume come questo, che per me rimane una domanda molto aperta e sarei ben curioso di sentire le risposte. E questo mi sembra che parli non solo a favore di Zubiri eventualmente, ma soprattutto a favore di una storia, di un’esperienza che può destare l’interesse di ascoltare, di allargare la ragione con questo autore Zubiri che penso che la stragrande maggioranza degl’italiani, anche per gli universitari, sia sconosciuto. Lo racconterò, andrò in Spagna e racconterò che c’era tutta questa gente qui ad ascoltare Zubiri. A me Zubiri mi è venuto incontro più volte, e oggi è una di quelle volte in cui mi è venuto incontro tramite Paolo, che mi ha invitato e che ringrazio per essere qui. Dalle prime letture che si facevano allora in seminario e che mi avevano destato curiosità, poi tramite l’amicizia con alcuni giovani filosofi spagnoli che io stimo molto e che sentivo parlare di Zubiri, sono venuto a conoscenza di questo filosofo, non facilissimo, non immediato e che però può avere una grande ricchezza. Non solo per i cenni storiografici, per come è collocato Zubiri nell’incrocio di diverse forze decisive per la storia della Spagna, lui è uno degli esponenti dell’epoca dorata dell’Università centrale di Madrid, negli anni trenta prima della guerra, e come tanti intellettuali aderisce alla repubblica che sente come una possibilità di superamento dello stagnamento precedente, poi si distacca quando vede come sta evolvendo la cosa. Lui durante la guerra civile è a Roma, a Parigi. Questo volume che diffonde il pensiero di Zubiri in Italia, mi sembra molto interessante. Chi non volesse leggerlo tutto, può leggere la bellissima introduzione di Paolo Ponzio, dove troverà le frasi di Zubiri che ha appena letto e che svelano la curiosità e il percorso di concezione della ragione che ha Zubiri e l’interesse che può avere per tutti noi. Il suo linguaggio è tutto seminato di neologismi, e questo ha giocato un po’ contro Zubiri, perché lo strumento del linguaggio non è subito a portata di mano. Ma tanti di noi sanno quanto un linguaggio apparentemente estraneo, in realtà ne allarga l’uso e permette di conoscere di più il reale. Zubiri ne ha creati di neologismi a non finire in spagnolo e lui ha dovuto assumersi un compito ben faticoso per tradurlo in italiano. Io faccio solo un esempio, provo a dirlo velocemente. Questa concezione della ragione e del rapporto ragione realtà aiuta molto a una cosa che a me sempre mi ha provocato moltissimo: aiutare a capire il rapporto con Dio. Noi uomini del ventunesimo secolo quando parliamo di Dio stiamo inventando, stiamo aggiungendo, siamo dei visionari, siamo un po’ patologicamente malati, come ci dicono in tanti, chi crede in Dio ha qualche patologia sotto sotto che anziché esprimere in un altro modo la esprimono cosi. Per capire il rapporto ragione realtà, per capire il rapporto dell’uomo con Dio, Zubiri è assolutamente interessante. Lui ha una concezione dell’uomo intrinsecamente legato al reale, non c’è uomo, nessun uomo che non sia messo nel reale in modo tale che la questione di Dio è la sua questione. L’uomo non ha il problema di Dio, l’uomo è il problema di Dio, il problema del fondamento, il problema del rapporto al fondamento. Zubiri, in un modo molto interessante, dice da dove cominciamo, dice che l’uomo è una realtà piazzata, posta, non semplicemente gettata alla Heidegger, posta, radicata nel reale, fisicamente posta nel reale ed è in grado di apprendere le cose come reali: intelligenza senziente. In questo senso, dice Zubiri con un espressione molto bella, l’uomo è un animale di realtà, è un animale che conosce le realtà e la realtà in quanto tale. In questo senso l’uomo è relativo alla realtà, non c’è né prima né dopo, sei tu messo, collocato nel reale e in grado di cogliere il reale come reale, sei relativo, sei relativo alla realtà. Ma dall’altra parte, proprio la qualità tipicamente umana di comprendere, di apprendere intellettivamente il reale, ti scioglie dal reale, non sei pura continuità, sei relativo e sciolto, per questo l’uomo, dice Zubiri, è relativamente assoluto, è un assoluto ma relativo. Questo primo livello di rapporto con il reale dice Zubiri fa sì che tu sei di te stesso, sei persona. La vita è il percorso che ti fa diventare te stesso. E come diventi te stesso, dice Zubiri? Nella realtà, a partire dalla realtà, attraverso la realtà. Chiunque di noi vuole diventare se stesso non può arrivare a farlo se non attraverso la realtà, nella realtà, dalla realtà. E che cos’è la realtà? La realtà, dice Zubiri, ha questo compito impotente, che è consentire a me di diventare me stesso. L’interessante è che si scioglie il problema realismo idealismo, le cose che diceva Paolo, perché il reale è tutto singolare cioè ha delle qualità molto interessanti che riassume dicendo che il reale ha il carattere di fondamentalità e cioè, detto con altre parole impossibili, il reale ha un carattere ultimo non penultimo, il reale stesso non ci lascia mai fermarci nel penultimo, il reale in quanto tale è una grande risorsa, una grande possibilità, è finalmente repellente. Il reale provoca. Ecco, che cosa, e finisco, dice lui di questo carattere, di questo potere del reale? Questo potere e fondamento, che non si confonde con nessuna cosa, – questa è la bottiglia, questo è il bicchiere, non è che questa cosa è in sé il potere del reale, ma il potere del reale mi arriva attraverso la bottiglia, il bicchiere e il tavolo e tutte le persone come si è visto prima – non ti lascia in pace, subito ti desta, ti provoca e ti lancia. Il percorso molto bello che Zubiri fa, e finisco, è che la fondamentalità del reale desta un suo carattere enigmatico, pieno di enigma, e attraverso questo potere di vocazione del reale si può comprendere razionalmente come Dio, che è il nome ultimo del fondamento, chiami ognuno di noi personalmente nelle cose, senza confondersi nelle cose, attraverso le cose. Ecco questo plesso, che noi potremmo dire con una parola più conosciuta esperienza elementare, consente di dire che l’ uomo non ha il problema di Dio, ha il problema del reale, chiunque ha il problema del reale e chiunque di noi ha il problema del reale è alle prese con il senso ultimo della vita con Dio. Ecco, Zubiri può essere un buon compagno di cammino per chiunque sia interessato a cogliere il reale.
MODERATORE:
Beh davvero un grazie a Prades per la capacità sintetica di averci illuminato su questo tema della realtà, della verità e della conoscenza, in questo modo cosi intenso. L’Italia segue la Spagna con questa pubblicazione, però la batte, perché l’intelligenza senziente costa 35 Euro presso Bompiani, mentre in Spagna ci sono tre volumi ognuno dei quali costa 35 Euro.
MAURIZIO VITALI:
Passiamo all’ultimo libro di oggi. Presentare Vittoria Maioli Sanese a Rimini è abbastanza singolare, perché è una personalità molto nota non solo a Rimini e l’applauso lo segnala molto bene. L’autrice del libro che presentiamo è psicologa della coppia e della famiglia. Siccome la coppia è fatta di due, Fornasieri ci ha abbandonato per non essere in tre e non confondere le idee. Lei da più di trentenni sviluppa questa attività, lo dico per i pochissimi che non lo sanno, su due livelli assolutamente intrecciati. Un livello di professionalità di tipo clinico, di assistenza alla famiglia e un livello di accompagnamento di esperienze concrete: coppie, famiglie e associazioni di operatori. Quindi tutta la riflessione anche teorica, l’approfondimento, si sviluppa da questa esperienza. Questo tipo di esperienza ha prodotto già due libri di successo, pubblicati negli anni recenti dalla editrice Marietti. Il primo: Ho sete per piacere, il secondo libro più recente: Perché ti amo. Il terzo è questo, che ha un decimo delle pagine del precedente e un quarto del prezzo, editrice Marietti, Come figlio, come padre, come madre, col sottotitolo Adozione e Affido, che indica diciamo di che si tratta materialmente, editrice Marietti, Euro 15. Fatto questo, io volevo introdurre Vittoria, perché lei è l’autrice del libro, io non ho neanche fatto la Prefazione, non ho fatto nulla. L’ho letto però. L’ho letto con piacere e con interesse, non tanto come giornalista, ma come cinquantasettenne che ha tirato su tre figli e che ha anche avuto una piccola esperienza, non so neanche se di affido, comunque insomma, per qualche anno un ragazzino senegalese, che aveva bisogno di essere ospitato, è stato a casa nostra ed è venuto su con i nostri figli, per il tempo di cui ha avuto bisogno e poi siamo rimasti in rapporto diverso, perché ha avuto meno bisogno. L’ho letto da questo punto di vista. Allora il libro riflette proprio l’esperienza anche per come è costruito. Raccoglie alcune conferenze in cui si condensa il pensiero sull’ampia gamma di problemi che questioni come l’adozione o l’affido suscitano in chiunque approcci questa situazione. Raccoglie poi seminari o incontri con le domande e le risposte e quindi c’è anche tutto un dettaglio, un modo di affrontare infiniti problemi che nascono dall’esperienza, non inventandosi la domanda per dare la risposta, ma raccogliendo le domande, accompagnando chi fa le domande nelle risposte e attraverso la loro esperienza. L’inizio e la fine poi sono scritti in prosa poetica e questo rende il tutto una cosa veramente singolare. Questo è il libro. E qui vi comunico un po’ come ho reagito io alla lettura, da profano, da uno che non sa di psicologia. Ho trovato da un lato, appunto come lei stessa dice, non un vademecum o un manuale di risposte, nel senso che uno ad ogni singolo pezzettino di problema, trova una risposta. Non è un manuale delle giovani marmotte per famiglie adottive. Quello che mi ha colpito invece è che ogni risposta, e tutta questa problematica, riporta sempre a qualcosa di sempre più originario. Intanto ho trovato che il percorso indicato, è un percorso che da un lato riporta all’origine delle questioni, dall’altro ti accompagna in un lavoro che poi sei costretto ad andare avanti a fare tu. In questo senso non è un manuale di istruzioni d’uso. Quindi ti riporta a questa origine, ti impegna nel senso che ti richiama alla tua persona e al tuo essere genitore, famiglia o coppia. Mi sono accorto, leggendolo, che i suggerimenti, le provocazioni, il discorso che tu hai portato avanti non riguardava per esempio la mia relazione col piccolo senegalese adottato, ma riguardava, mi aiutava a interpretare e a capire di più la relazione con mia moglie e con i miei figli. Questo mi ha colpito molto. Infatti il libro è rivolto a chi è genitore con figli naturali, è rivolto a chi ha esperienze di adozione, è rivolto a chi ha esperienze di affido, è rivolto anche a chi opera in questo settore o alle associazioni che accompagnano questi problemi ed è per tutti egualmente utile. Quando dico che mi ha interessato molto il riportare le cose all’origine, cioè che cos’è una coppia e più ancora che cos’è una persona, cosa vuole dalla vita, oppure che cos’è un genitore, mi ha colpito perché sposta il percorso che suggerisce su due cardini. Uno, come si diceva anche prima, allargare la ragione, perché passare dall’istruzione di un meccanismo a una comprensione più vasta di ciò che è in gioco, è un allargamento della ragione, quindi una migliore conoscenza della realtà; in secondo luogo è una provocazione alla libertà, perché se già tutto è fatto e scritto, insomma, va bene, io lo applico e basta, se invece la cosa si riporta su di me come persona, come coppia, come genitore, come genitorialità, beh questo mette in moto la mia libertà e quindi un percorso di lavoro e di ricerca.
Fine della mia parte. Adesso do la parola a lei, fine della mia parte, cioè nel senso che questa è la mia reazione, do la parola a lei con tre o quattro domande che raccolgo dalla lettura del libro. Una è una provocazione forte che ho trovato nella lettura di questo libro, la seconda è un guaio da cui lei mette in guardia, il terzo è un bell’enigma e poi possiamo anche finirla con le domande.
La provocazione che ho trovato lì si condensa in questa frase: “La coppia non è mai sterile”. La cosa mi ha fatto un pochino reagire, perché ovviamente ci sono delle coppie che danno fuori di matto per avere i figli e non ci riescono. Naturalmente questa è una domanda che porta a chiedersi: ma allora che cos’è un adulto che genera? Che cos’è la genitorialità? Perché dobbiamo raccogliere una provocazione così? E questa è la prima domanda che rivolgo a Vittoria. La seconda la dico dopo.
VITTORIA MAIOLI SANESE:
Buona sera a tutti. Prima di rispondere alla domanda volevo con gratitudine farvi conoscere, ma già tutti la conoscete, Martina Gennari, quella signora che ho fatto accomodare qui, perché ha collaborato in maniera forte al libro. C’è infatti un’appendice con tutte le informazioni sulle adozioni internazionali, che lei, molto generosamente, ha fatto per il mio libro ed è una carissima amica dell’AVSI con cui collaboro da tanti anni. Grazie Martina. Poi volevo anche ringraziare, perché so che è presente, Angela Micheli. Ricordate l’autrice della scultura che è sulla copertina, un’artista di Rimini che ho conosciuto da poco, non ha abitato a Rimini per anni, però adesso è tornata a Rimini. Fa sculture solo di genere femminile, veramente, veramente molto belle e che io ringrazio proprio per aver permesso di metterne una riproduzione fotografica in copertina. Grazie Angela.
La coppia non è mai sterile. Questa è un’affermazione che va all’origine di che cos’è la coppia. Questa esperienza fondamentale che sta all’origine di ciascuno di noi, che fa parte del nostro essere profondo, che ci coglie dentro questa attrazione fatale dell’uomo e della donna, indicibile, costante, questa identità coniugale che ci definisce, che cos’è? Che cosa rappresenta? Che cos’è? Che cos’è affidato a questo incontro uomo-donna? È affidata la continuità, la generazione, è affidato il generare. Ontologicamente è affidato il generare, quindi non possiamo pensare che ci siano coppie che non hanno questa possibilità e coppie che hanno questa possibilità. Un uomo che realizza fino in fondo la propria vita, realizza la sua capacità di generare o la sua coscienza o la sua identità generativa. La coppia, per cui la coppia umana non è mai sterile, può avere una sterilità biologica, quindi un livello minimo del suo esistere può avere una sterilità biologica. Ma qui si pone una domanda molto inquietante, secondo me, cosa vuol dire non essere sterili? Anche coppie con figli sono sterili, perché la sterilità o la fecondità non è solo una caratteristica biologica, è una caratteristica psichica, esistenziale, educativa. Io spero che tanti genitori oggi non dimentichino di educare i figli a questa capacità di generare, di occuparsi degli altri, di prendersi cura, di avere una responsabilità educativa verso gli amici, verso gli altri. Nella sua descrizione ontologica, devo dire che la coppia umana non è mai sterile e come tutti gli aspetti della nostra vita fa il percorso affidato alla nostra libertà, perché il passaggio adulto più affascinante, secondo me, in assoluto, è quando una persona comincia a chiedersi: ma io chi sono, chi voglio essere? Quale aspetto della vita voglio interpretare? Perché a me, chi mi conosce lo sa, resta sempre affascinante la metafora del teatro… Noi abbiamo un autore che ha già scritto tutto, poi noi siamo gli attori, siamo interpreti principali, protagonisti della nostra vita e in qualche modo arriviamo a decidere che parte interpretare e come interpretare. Ecco, la cosa più deformante dell’uomo di oggi è che vuole fare a meno del copione già scritto, si inventa il copione e fa una recita all’improvvisazione, per cui risulta questa vita spezzettata, profondamente sterile, senza legame né col passato né col futuro, vuota di significato, il nulla che fondamentalmente incrociamo tutti i giorni. Credo che una delle cose, uno dei percorsi più interessanti che possiamo fare nella nostra vita, sia proprio andare alla ricerca di questo copione già scritto, ma scritto per ciascuno di noi e per tutti con una dimensione contemporaneamente assolutamente universale e assolutamente personale. Questo copione è già scritto e scoprirlo, interpretarlo, da protagonisti, certamente significa soddisfare la realizzazione, l’esigenza realizzativa che abbiamo dentro di noi. In questo copione già scritto la coppia non è mai sterile. E alla coppia sterile biologicamente probabilmente è data una domanda, è dato l’interpretare questa parte, chiedersi in quale modo, in quale modo è chiamata ad esprimere la propria fecondità. Le è sottratto il dato naturale più vicino. Io da psicologa della coppia e della famiglia temo molto la coppia sterile biologicamente che fa il salto immediato nella scelta dell’adozione, senza fare il percorso, anche drammatico e doloroso, della domanda: in che modo mi viene chiesto di interpretare la mia fecondità? Perché può non essere immediatamente l’avere figli o adottare. Se non si guarda in questo modo qui, quel bambino o quei bambini sono inconsciamente incaricati di chiudere una ferita, la ferita di una mal interpretata sterilità. Mi fermo qui a questa prima domanda.
MAURIZIO VITALI:
Grazie, ma siamo proprio sulla soglia della seconda domanda che avevo in mente. Nei capitoli che specificamente parlano dell’adozione, mi ha colpito la messa in guardia dal rischio di considerare l’adozione o il figlio adottivo come una sorta di risarcimento danni per la mancata fecondità biologica, con quel che ne consegue per questo figlio il quale, magari gravato di un carico abnorme di attenzioni, rimane nella coscienza dei genitori adottivi un surrogato di un figlio che non c’è stato. Sarebbe utile sapere come si evita questo guaio.
VITTORIA MAIOLI SANESE:
Ma io credo che il rischio di proiettare sul figlio aspetti di risarcimento danni o immagini proiettive narcisistiche nostre, credo che sia un rischio presente per tutti i genitori. Essere genitori è veramente camminare sul filo, su un baratro, è veramente qualcosa di dinamico, da correggere continuamente ecc. Credo che fondamentalmente oggi, se andiamo un po’ alla radice del problema, abbiamo questa percezione della vita, come di una vita che deve assecondare la nostra immagine, che non deve privarci di nulla, che non deve farci fare più fatica di quello che noi abbiamo deciso di poter fare. Quest’uomo che ha staccato completamente da sé la coscienza della propria identità, lo si vede benissimo nella famiglia e nel rapporto coi figli. Lo si vede ad occhi nudi, per cui la rappresentazione per esempio che fanno i genitori dei figli, cercando ad ogni costo la loro prestazione perfetta o andando a proteggerli da tutte le fatiche e da tutti i dolori, con una trasmissione completamente falsata della vita e della realtà, l’importante essendo che il figlio rappresenti la propria immagine di perfezione, tutti questi aspetti qui che oggi incrociamo fortemente, credo che nell’adozione ma anche nella coppia naturale vengano fuori in maniera fortissima ed evidente. Io avevo all’origine di questo libro un, come dire, progetto, avevo voglia di radicare, per quello che era possibile coi miei mezzi limitati, l’identità genitoriale, cosa significa essere genitori e se l’essere genitori è in realtà la vera grande tappa realizzativa della coscienza adulta, cioè che l’adulto in quanto adulto non può che essere genitore.
Ecco, avevo voglia di comunicarvi questo con questo libro e avere la possibilità di farlo attraverso il confronto dell’identità genitoriale adottiva e dell’identità genitoriale naturale, mi è sembrato una buona cosa. È un pezzo limitato di contributo al grande problema dell’emergenza educativa oggi. Perdonatemi se sono così presuntuosa, ma credo che veramente i genitori oggi, gli adulti oggi, e io stessa poi mi metto insieme perché è così, abbiamo continuamente bisogno di essere educati ad una coscienza della nostra identità genitoriale, che abbiamo ridotto a un servizio, a un fare, a una prestazione. Poi siamo altro. Siamo uomini e donne che vivono al di fuori della propria identità genitoriale, per cui il nostro modo di essere, di trattarci, di andare per strada, di fare la spesa, di stare con gli amici, di amare il marito, di amare la moglie non ha più la coscienza che tutto quello che noi siamo genera. Peccato che generi anche se non lo sappiamo, perché comunque il dato del genitore, dell’adulto, è questo. Come noi siamo, generiamo, generiamo la nostra società, generiamo i nostri figli, gli amici dei nostri figli, l’ambiente di lavoro, generiamo…
Io credo che l’identità genitoriale sia una delle vette più alte di essere protagonisti nella vita, è una coscienza dell’io che chiedo a me stessa e all’adulto oggi in maniera urgente e prepotente.
Non possiamo prescindere dalla coscienza che tutto quello che noi siamo genera, e genera in una maniera particolare, perché il modo di generare dell’adulto è irradiare. Questo è un termine che Giovanni Paolo II usa molte volte quando parla di genitori e di famiglia. Il nostro modo di generare è irradiare. Vuol dire che siamo veramente coi nostri figli, coi nostri amici, fra di noi, lievito che fa crescere o inacidisce tutto quanto. Essere insieme dentro questa coscienza e aiutarci a questa coscienza, credo che sia oggi una delle forme di fecondità più importanti e più urgenti.
MAURIZIO VITALI:
Se il prof. Fornasieri ci consente ancora tre minuti, faccio un’altra domanda, anche se abbiamo raggiunto veramente il cuore della questione con questa risposta (due minuti). Ce la facciamo ancora? Una domandina. Se l’adulto genera e il figlio è generato, quando c’è l’affido a chi appartiene: a due famiglie o a una delle due?
VITTORIA MAIOLI SANESE:
Beh, la domanda sulle due famiglie dovevi farmela per prima, se no tutto il problema… Io credo, guardate, leggetelo sul libro, perché ho affrontato a fondo il problema di questa doppia appartenenza, però io amo sempre dire che se un adulto è in questa posizione che genera, che io stia insieme con un ragazzo per dieci minuti o per tre ore o per mesi o per tutta la vita non cambia il fatto che l’esperienza che lui possa fare accanto a me sia proprio di scoprire, in maniera suggestiva e profonda, l’immagine di sé, quell’immagine che può non dimenticare più, anche se è un figlio in affido, anche se è un figlio adottato. Che cos’è che genera… l’adulto? Che cos’è che genera? E con questo vi lascio, perché è l’abisso più profondo, più affascinante e misterioso del mio lavoro. Il figlio è quello che il genitore guarda. Questa potenza dello sguardo è forse il tramite più forte della fecondità, perché io trasmetto come ti porto dentro di me e quindi tu sei generato nel come io ti guardo, che sia per dieci minuti o che sia per tutta la vita, genero in te quell’immagine di te che passa attraverso quello che tu sei per me. Allora vedete che torna immediatamente addosso all’adulto, a ciascuno di noi, proprio il peso, ma direi il fascino, di questa identità generativa, che ci colloca così vicino alla capacità creativa di Dio.
MAURIZIO VITALI:
Grazie, grazie Vittoria per queste cose che credo abbiano colpito ognuno di noi. Arrivederci.
(Trascrizione non rivista dai relatori)