Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA
Giovannino Guareschi. C’era una volta il padre di Don Camillo e Peppone
Presentazione del libro di Alessandro Gnocchi, Giornalista e Scrittore e Mario Palmaro, Giornalista e Scrittore (Ed. Piemme). Partecipano gli Autori.
A seguire:
Narnia e oltre. I romanzi di C. S. Lewis
Presentazione del libro di Thomas Howard, Professore Emerito di Letteratura al St. John Seminary di Boston (Ed. Marietti 1820). Partecipa Edoardo Rialti, Docente di Teologia e Letteratura all’Istituto Teologico di Assisi.
A seguire:
La caduta del vento leggero
Presentazione del libro di Giovanni Cominelli, Responsabile Dipartimento Sistemi Educativi della Fondazione per la Sussidiarietà (Ed. Guerini e Associati). Partecipano: l’Autore; Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
MODERATORE:
Abbiamo con noi Mario Palmaro e Alessandro Gnocchi, che hanno scritto da pochissimo per Piemme un bellissimo libro, “Giovannino Guareschi: c’era una volta il padre di don Camillo e Peppone” ma nel retro è anche un’eco della mostra che è qui al Meeting di Rimini, c’è una frase di Giovannino Guareschi. Prima di lasciare la parola a loro, vorrei solo accennare al fatto che di Guareschi è quasi inversamente proporzionale a quanto se parla nei mezzi di comunicazione, diciamo nell’establishment della cultura dominante, inversamente proporzionale alla fama e alla passione con cui viene letto, con cui viene seguito. E’ proprio vero che anche nei libri, ma comunque nella vita, il passaparola, cioè il raccontare uno all’altro ciò che si è scoperto di vero, è il metodo che raduna attorno ai fuochi accesi di verità le persone. E Guareschi senz’altro è uno di questi, tra l’altro in un’Italia molto diversa da quella di adesso, in un tempo molto diverso. Guareschi nasce nel ’08 e muore, potremmo dire simbolicamente, nel ’68. Il libro è un’intensissima biografia di Guareschi, che si allarga a raccontare tutte le problematiche dell’autore. Bene, la parola innanzitutto a Mario Palmaro.
MARIO PALMARO:
Beh, parlare di Guareschi con degli amici è una delle cose più belle che ci possa capitare. Io ringrazio chi ci dà questa possibilità anche oggi pomeriggio, perché Giovannino Guareschi è innanzitutto un grande scrittore, uno scrittore che è stato sottovalutato per troppo tempo e che ancora non trova spazio spesso nelle antologie scolastiche, non trova spazio nei libri che i nostri figli usano a scuola. Ma è soprattutto una miniera, Guareschi, per chi cerca nella letteratura il bello e il vero. La letteratura di Guareschi è grande letteratura perché nei suoi racconti, che sembrano confezionati in maniera molto semplice, quasi banale, soprattutto magari da chi non lo ha letto, ecco, nella letteratura di Guareschi c’è un appuntamento continuo tra verità e bellezza e nello stesso tempo c’è un richiamo fortissimo al tema della libertà dell’uomo. Quindi voi capirete che quando uno si imbatte in uno scrittore del ’900 che è capace di raccontare delle storie che appassionano, che commuovono, che divertono nello stesso tempo che sono ricche, che sono cariche di queste cose importanti, concretissime, che sono la verità, la bellezza e la verità, beh, allora voi capite che uno questa miniera non la lascia più, continua a scavare dentro, continua a cercare, a trovare dei cunicoli, dei filoni d’oro nuovi e cerca anche, indegnamente, di comunicare questa passione a quante più persone è possibile. Allora, da un lato questo è facile perché Guareschi è arrivato prima di noi a tantissime persone, magari soprattutto attraverso la saga cinematografica che continua a piacere, continua a essere vista; però il compito è anche difficile, perché bisogna andare più in profondità, andare oltre a quest’aspetto, bellissimo, che piace molto anche a noi, della trasposizione che Fernandel e Gino Cervi hanno saputo realizzare nella saga cinematografica, andare oltre e cercare anche di capire chi era Giovannino Guareschi. Allora nel nostro libro noi abbiamo provato innanzitutto a raccontare Guareschi, facendo in modo che fosse lui stesso a raccontarsi. Vi voglio leggere queste poche righe con cui Guareschi presenta se stesso: “Adesso vi racconto tutto di me. Ho l’età di chi è nato nel 1908, conduco una vita molto semplice, non mi piace viaggiare, non pratico nessuno sport, non credo in tante fantasticherie ma, in compenso, credo in Dio”. Ecco, questo era Guareschi, il quale riesce, come avete sentito in queste pochissime righe, a mettere insieme l’umorismo, che è uno dei suoi tratti fondamentali, un certo distacco dal conformismo, anzi direi una radicale diversità dal conformismo imperante, e nello stesso tempo poi, quando il lettore si è rasserenato attraverso la risata, attraverso un sorriso, Guareschi vuole dire la cosa più importante che lo riguarda, cioè crede in Dio. Allora questo fatto di essere cattolico per Guareschi non è, come dire, accessorio, ma è un elemento che avvolge tutta la sua letteratura. Allora, nel tempo a disposizione io vorrei dire tre cose che a mio parere – tra le molte, ovviamente – ma tre cose che mi colpiscono sempre nella personalità di Giovannino Guareschi e nella sua letteratura. La prima è che Guareschi è capace sempre di tenere ben distinto l’errore dall’errante. Giovannino Guareschi è un maestro di quell’arte tipicamente cattolica che ti permette di essere un servitore intransigente della verità e di essere un amante di tutte le persone che incontri, cioè di saper riconoscere che una cosa è vera o è sbagliata, di non essere disposto a cedere neanche di un millimetro di fronte alla prepotenza della verità, alla santa prepotenza della verità, nello stesso tempo, però, sapendo sempre che davanti hai un essere umano come te e che quindi non puoi buttarlo via perché è nell’errore, ma non puoi neanche lasciarlo al suo destino triste nell’errore. Guareschi è innamorato di tutti i personaggi e ti fa innamorare dei suoi personaggi, a cominciare da Peppone, dal comunista Peppone, proprio perché è innamorato dell’umanità, anzi non dell’umanità come astrazione, ma dell’uomo che incontri, che hai davanti a te. Guareschi, come sapete, si è fatto nella sua vita per ben due volte il carcere, la prima volta, durissimo, il campo di concentramento nazista, due anni di campo di concentramento; il suo bilancio, quando esce dal campo di concentramento, bilancio che scrive nell’introduzione di “Diario clandestino”, è questo: “per quello che mi riguarda la storia è tutta qui; una banalissima storia nella quale io ho avuto il peso di un guscio di nocciola nell’oceano in tempesta e nella quale io esco senza nastrini e senza medaglie, ma esco vittorioso, perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno”. Ecco, passare attraverso due anni di campo di concentramento, passare attraverso la guerra senza odiare nessuno. E questa è la cosa che ti sconvolge di Guareschi, perché Guareschi non è un irenista, cioè uno per il quale va bene tutto, non è uno per il quale, pur di andare d’accordo col mondo, cambia anche la sua posizione, taglia gli angoli, gli spigoli o imbocca le scorciatoie del conformismo; Guareschi è uno che è pronto a fare polemica quando è necessario, anzi Guareschi è stato uno dei più grandi polemisti della letteratura italiana del ’900. Guardate anche qui questo et…et… tipicamente cattolico: amare tutti quelli che incontri, o quantomeno non odiare nessuno, e nello stesso tempo essere polemista, saper dire che un’ideologia è disumana: il comunismo è disumano. Non tutti i comunisti sono disumani; non tutti i comunisti sono da buttare via, anzi, i comunisti sono esseri umani. E allora questa distinzione tra l’errore e l’errante è quella che domina la sua letteratura. E poi, in sintesi, il secondo elemento che mi colpisce di Guareschi e della sua letteratura è la speranza. La letteratura del ’900 – non tutta, per fortuna – è una letteratura della disperazione. La letteratura concentrazionaria del ’900 è una letteratura della disperazione, salvo poche rare eccezioni. Noi abbiamo grandissimi scrittori italiani che hanno raccontato l’esperienza del campi di concentramento, ma nella luce del non senso, perché o tutto ha senso o nulla ha senso. E se quell’esperienza di sofferenza è dentro nel non senso, tutta la vita dell’uomo è oscurata dall’ombra del non senso. Invece, in Guareschi, due anni di campo di concentramento sono due anni di speranza, sono due anni nei quali lui riesce a scrivere – dentro il lager, non a casa, durante il lager! – delle pagine, che non possiamo leggere qui, di straordinaria speranza. E come ultima, ma non ultima per importanza, cifra della letteratura guareschiana, il Cristo dell’altare maggiore, il Cristo dell’altare maggiore che parla con don Camillo. Che non è solo una straordinaria trovata letteraria, ma è innanzitutto e fondamentalmente il cuore della letteratura guareschiana, perché il mondo di don Camillo non è un sistema copernicano, non è un sistema tolemaico, è un sistema al cui centro c’è Cristo, al cui centro c’è la croce di Cristo. Un Cattolicesimo della speranza ma anche del dolore, della gioia ma anche della tragedia, della carità ma anche della verità che brucia come sale sulle ferite. È il Cattolicesimo della Chiesa del silenzio, della Chiesa che nei Paesi dell’Est soffriva persecuzione. E Guareschi diceva e denunciava queste cose quando dirlo non era facile come è facile dirlo oggi. La letteratura di Guareschi ruota intorno a quel Cristo che non è una statua, non è un simulacro, che non soltanto ascolta, ma ha da dire molte cose all’uomo. E guardate che oggi Guareschi e i suoi film, i film quantomeno ispirati alla sua pagina, appassionano ancora milioni di telespettatori, che si guardano in prima serata un film in bianco e nero, l’unico film in bianco e nero che la programmazione commerciale si permetta il lusso di mandare, perché sostiene, con i suoi ascolti la pubblicità. Ecco, questi film, questa letteratura guareschiana appassionano perché tutti quelli che la vedono per un attimo, anche se non son cristiani, pensano: “come sarebbe bella la vita se davvero ci fosse un Dio che ti vuole parlare”. E questa è la straordinaria verità che c’è nella pagina guareschiana, perché non è soltanto letteratura ma è la descrizione di quella che veramente è l’esperienza dell’uomo. Grazie.
MODERATORE:
La parola adesso ad Alessandro Gnocchi che è uno dei massimi esperti di Guareschi.
ALESSANDRO GNOCCHI:
Bentrovati a tutti, cercherò veramente di essere brevissimo, che è quello che deve dire ogni oratore per farsi benvolere. Io prendo proprio lo spunto di ciò che ha detto Mario adesso, partendo da una constatazione, perché Guareschi è il maestro in assoluto, nel ’900, di coloro che vogliono conoscere la realtà, di coloro che vogliono conoscere i fatti e misurarsi con quelli, piuttosto che con le idee o le ideologie. Ché un fatto assolutamente indiscutibile, o comunque che io ho contestato spesso e che mi ha sempre colpito, che mi ha fatto riflettere, e che credo che sia uno dei motivi per i quali io continuo a studiare Guareschi e cerco di capirlo sempre di più, è questo: io ho trovato tantissime persone che – io per primo, ma credo forse tutti voi che avete letto i suoi libri o avete visto i film tratti dalle sue opere – alla fine di un racconto di Guareschi, alla fine di un film tratto dalle opere di Guareschi, si sono trovate indistintamente a fare una considerazione banalissima ma verissima: “che bello se il mondo fosse veramente così!”
Ma guardate che Guareschi non racconta un mondo perfetto, Guareschi non racconta un mondo disegnato dall’ideologia, dove tutto va alla perfezione, racconta un mondo dove c’è la morte, dove c’è l’odio, dove c’è il brutto, dove c’è il peccato, dove c’è la miseria, eppure alla fine tutti ci troviamo a dirci: ma che bello se il mondo fosse veramente così!
E tutti abbiamo quanto meno un minimo di commozione e di dispiacere perché il libro è finito oppure perché il film è finito. Se voi ritornate con la mente alla musica bellissima di Alessandro Cicognini, che fa da colonna sonora ai film, e allo scorrere dei titoli di coda, credo che un po’ di nostalgia la proviate. E se qualcuno dice di no, mente. Ecco, perché tutto questo? Perché Guareschi nonostante racconti un mondo dove c’è il male, dove c’è il peccato, dove c’è tutto questo, racconta un mondo dove l’uomo non si oppone alla grazia di Dio, dove l’uomo riesce in qualche modo a corrispondere all’amore che Dio ha per lui. In modo banalissimo, finito, monco, brutto se vogliamo, ma vero. Faticoso, ma vero. Ed è questo, ed è questo il motivo del successo di Guareschi. Guareschi è stato tradotto in tutte le lingue del mondo. L’ultima versione che ho visto io era in cambogiano, fatto con gli ideogrammi, di 3 o 4 anni fa. Perché tutto questo? Perché Guareschi riesce a tradurre in letteratura un concetto banalissimo ma oscurato dal mondo moderno, e cioè che l’uomo non cambia mai, il cuore dell’uomo ha bisogno sempre delle stesse cose, in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo viva. E quindi Guareschi riesce a parlare a tutti noi, riesce a parlare a tutti noi dicendo delle cose straordinarie, delle cose di una poesia bellissima. Guareschi tra le altre cose, essendo credo uno dei massimi interpreti del titolo del Meeting di quest’anno “O protagonisti o nessuno”, essendo veramente un protagonista della letteratura, è riuscito a scrivere e a dire delle cose come nessun altro era riuscito a fare, come nel ’900 nessuno è riuscito a fare. Guareschi è il più grande scrittore cattolico non solo italiano ma sicuramente europeo del ’900. E questo ce lo hanno nascosto per decenni, perché qualcuno, molti, hanno tentato di fare in modo che Guareschi fosse nessuno. Hanno tentato in tutti i modi di ucciderlo, e la struttura del libro che gli abbiamo dedicato questa volta ha proprio questo andamento qui. Abbiamo immaginato di essere un po’ come il tenente Colombo dei telefilm – se qualcuno li conosce questi telefilm, avrà notato che sono molto strani da un punto di vista narrativo perché mostrano subito all’inizio chi è l’assassino e come la vittima è stata uccisa. Noi, il primo capitolo, lo abbiamo dedicato proprio alla morte di Guareschi, e abbiamo individuato e additato tutti coloro che avrebbero voluto che la sua memoria venisse uccisa. E poi abbiamo ricostruito nel corso del libro i vari motivi. Abbiamo ricostruito nel corso del libro il motivo fondamentale per cui non sono riusciti ad ammazzarlo: perché Guareschi era attaccato assolutamente a Nostro Signore Gesù Cristo. Allora, questo è il motivo del successo di Guareschi. Guareschi proclama sempre e continuamente la verità. Se voi avrete modo di visitare la mostra che gli è stata dedicata, troverete dentro una foto, che è tratta da un film, una foto famosa di un racconto famoso che si intitola “La processione”, di cui adesso vi leggo il finale. Lì il protagonista non è Don Camillo, non è Peppone, non è nessun altro, ma è Gesù Cristo crocifisso. Questo racconto è quel racconto nel quale Don Camillo deve andare come tutti gli anni a benedire il grande fiume, che è il Po, perché il fiume non straripi e non vada a debordare e a rovinare e a distruggere il paese. Peppone decide che quell’anno ci deve andare anche lui con tutta la sezione del Partito Comunista, compresa la bandiera del partito. Naturalmente Don Camillo non vuole. Allora ne nasce una diatriba e un litigio, fino a quando si scopre che gli uomini di Peppone hanno fatto sapere che se qualcuno tiene cara la pelle a quella processione non ci deve andare. E infatti Don Camillo si avvia verso il grande fiume da solo, con dietro solo un cagnetto e con il crocifisso enorme tenuto retto. E si trova davanti ad un certo punto Peppone e i suoi. Don Camillo quando arriva davanti a tutta la sezione del partito comunista schierata e minacciosa, prende il crocifisso e dice a Gesù: “Gesù, state saldo perché adesso tiro giù”. Quindi non ha niente a che fare con il dialogo di cui ci parlano oggi. Don Camillo non è un prete del dialogo, è un prete del monologo, ma è proprio questo che attira!
“Rimase in mezzo alla strada soltanto Peppone, con le mani sui fianchi e piantato sulle gambe aperte. Don Camillo infilò il piede del crocifisso nel supporto e poi marciò diritto verso Peppone, e Peppone non si spostò. Non mi scanso per voi, ma per Lui, disse Peppone indicando il crocifisso”. E qui Don Camillo, se fosse un prete ancora diciamo del dialogo, si accontenterebbe di tutto questo. Ma lui arriva fino in fondo: “e allora togliti il cappello dalla zucca, rispose Don Camillo senza guardarlo. Peppone si tolse il cappello, e Don Camillo passò solennemente fra gli uomini di Peppone. Quando fu sull’argine si fermò”.
E state attenti alla preghiera di benedizione, perché è un capolavoro.
“Gesù, disse ad alta voce Don Camillo, se in questo sporco paese le case dei pochi galantuomini potessero galleggiare come l’arca di Noè, io vi pregherei di far venire una tal piena da spaccare l’argine e da sommergere tutto il paese. Ma siccome i pochi galantuomini vivono in case di mattoni uguali a quelle dei tanti farabutti, e non sarebbe giusto che i buoni dovessero soffrire per le colpe dei mascalzoni, tipo il sindaco Peppone e tutta la sua ciurma di briganti senza Dio, vi prego di salvare il paese dalle acque e di dargli ogni prosperità. Amen, disse dietro le spalle di Don Camillo la voce di Peppone. Amen, risposero in coro dietro le spalle di Don Camillo gli uomini di Peppone che avevano seguito il crocifisso. Don Camillo prese la via del ritorno, e quando fu arrivato sul sagrato, si volse perché il Cristo desse l’ultima benedizione al fiume lontano, e si trovò davanti il cagnetto, Peppone, gli uomini di Peppone e tutti quanti gli abitanti del paese. Il farmacista compreso, che era ateo, ma che perbacco un prete come Don Camillo che riuscisse a rendere simpatico il Padreterno non lo aveva mai trovato”.
Nei cinque minuti che rimangono vorrei cercare di far capire che questo amore prepotente per una verità prepotente, per una verità che non ammette altre verità altrimenti ci prenderebbe in giro, è la radice dell’umorismo guareschiano. Guareschi, ci viene spesso detto, “si ma è semplicemente un umorista”. Guareschi intanto è un grandissimo scrittore, che è capace di far ridere, di far piangere, di far sospirare, tutto. Quindi non è solo un’umorista. Ma l’umorismo guareschiano è un umorismo particolare, ed l’unico umorismo vero, perché è un umorismo cristiano e questo noi dobbiamo avere il coraggio di dirlo. Dobbiamo avere il coraggio di dire che solamente chi ama la verità è capace di amare anche la realtà, in modo tale da poterne ridere. Ma di poter ridere di che cosa? Di ciò che non collima con la verità. Perché questo è il vero umorismo. Il vero umorismo è ciò che ci permette di essere migliori, ciò che ci permette di essere più buoni, ciò che ci permette di essere più belli. Questo è l’umorismo, questo è il senso del ridere secondo chi è cristiano. Guareschi riesce in un’ operazione straordinaria – io non so quando gli sia capitato nella sua vita, ma probabilmente questo è accaduto durante il Lager, come diceva prima Mario – Guareschi è riuscito a salire sulla croce con Cristo e a guardare il mondo dall’alto della croce. Che è ciò che riesce a fare l’uomo quando sommamente somiglia a Nostro Signore. Questo è riuscito a fare Guareschi. Guareschi ha capito una cosa, che la radice dell’umorismo sta in questo, che di fronte ad un uomo che cerca continuamente di essere come Dio, di essere al posto di Dio, la grande favola, la grande storia, la grande bellezza della nostra vita sta in questa consapevolezza, che la verità non sta nell’uomo che cerca di essere come Dio, ma sta in Dio che è diventato uomo, esattamente nel ribaltamento di quella prospettiva. E’ la prospettiva di tutte le ideologie del ’900 e del ’800 e di tutto il mondo moderno. Questo è spiegato benissimo da Guareschi in un passo di un racconto che si intitola “Giulietta e Romeo”, dove fa questa distinzione tra gli uomini di città, che sono gli uomini moderni, e gli uomini della Bassa, gli uomini di campagna, che sono gli uomini sani. Dice: “nelle grandi città la gente si preoccupa soprattutto di vivere in modo originale, e così saltano poi fuori cose sul genere dell’esistenzialismo, che non significano un accidente ma danno l’illusione di vivere in modo diverso dai vecchi sistemi. Invece nei paesi della Bassa si nasce, si vive, si ama, si odia secondo i soliti schemi convenzionali, e la gente se ne infischia se si trova invischiata in una vicenda di una scopiazzatura di sangue romagnolo, o di Giulietta e Romeo, o dei Promessi Sposi, o della Cavalleria Rusticana, o altre balle di letteratura. Quindi è un eterno ripetersi di vicende banali vecchie come il cucco. Ma alla fine, tirate le somme, quelli della Bassa finiscono sotto terra preciso come i letterati di città, con la differenza che i letterati di città muoiono più arrabbiati di quelli di campagna, perché a quelli di città dispiace non solo di morire, ma di morire in modo banale. Mentre a quelli di campagna dispiace semplicemente di non poter più tirare il fiato. La cultura è la più grande porcheria dell’universo, perché ti amareggia oltre la vita anche la morte”.
Ultimissima battuta. Molti mi chiedono “come mai ti sei appassionato a Guareschi?” Io non lo so, però voglio concludere con questa confidenza che faccio non sempre, mi sembra che siamo abbastanza in pochi per poterlo fare. Io ho tenuto per anni e tengo ancora sul mio comodino il Don Camillo, e per anni ho letto come preghiera, prima di addormentarmi, questa sei righe di Guareschi che stanno alla fine del racconto nel quale Peppone e Don Camillo pitturano insieme le statuette del presepe. E poi qui mi fermo. “E fra mille anni la gente correrà a 6000 Km/h su macchine a razzo superatomico, e per far cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso bambinello di gesso che una di queste sere il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino”. Grazie.
MODERATORE:
Grazie a Palmaro e a Gnocchi. Chiamiamo ora Edoardo Rialti per il secondo libro.
Edoardo Rialti ci presenta il libro, Narnia e oltre di Thomas Howard, uno dei più grandi conoscitori e scrittori di letteratura inglese e soprattutto di Lewis e Tolkien, ma anche di Eliot. È un personaggio di levatura mondiale, che il Meeting ha avuto occaione di ospitare per ben due volte. Questo libro fa parte di un importante lavoro di collana che la casa editrice Marietti ha iniziato da qualche tempo e che riguarda appunto studi su Tolkien e gli Inklings, il gruppo di scrittori che attorno a Tolkien e attorno a Lewis si riuniva nella Oxford di inizio ’900 e che era realmente un luogo di amicizia, un sodalizio di tensione autentica all’arte e alla verità. Lascio subito la parola a Rialti, docente di Letteratura Italiana all’Università di Firenze e docente di Teologia e Letteratura all’Istituto Teologico di Assisi.
EDOARDO RIALTI:
Buon pomeriggio, sono molto, molto contento di essere qui, e vi ringrazio di questa occasione. Sono molto grato di poter parlare di questo libro, che ho avuto la gioia di tradurre in italiano, perché la prima volta che l’ho letto in inglese, io che amo così tanto l’opera di C. S. Lewis, l’opera di Tolkien, l’opera di Eliot, e che ho anche il piacere e l’onore, per quanto immeritato, per come posso, di insegnarli, mi sono spesso domandato: che cosa avrei voluto io scrivere su Lewis? Poi ho avuta la fortuna e la gioia di leggere questo libro, e ho capito che il mio libro su Lewis era già stato scritto da qualcun altro, e non dovevo fare niente, dovevo solo tradurlo, per metterlo a disposizione del nostro popolo, della nostra gente, perché anche loro potessero come me essere aiutati a cogliere meglio quanto avessero già incontrato nell’opera di Lewis. Secondo me un vero libro di critica letteraria è un libro che non ha la pretesa di dominare l’autore, di analizzarlo, di sezionarlo, di farlo a pezzi, ma dovrebbe essere quel genere di libro che man mano che lo leggi, pagina dopo pagina, ti verrebbe voglia immediatamente di chiuderlo e di correre a rileggere il libro di cui sta parlando. Come una persona che ti sta raccontando di aver incontrato un amico così straordinario che tu quasi interrompi il discorso e dici: bene, fammelo conoscere! Andiamo a trovarlo! Questo penso debba essere l’unico vero grande compito della critica letteraria; quello che è invece il grande compito della letteratura è riconsegnarci la realtà, riesporci a qualcosa di bello e di vero. E nessuno credo, ben pochi in questo mondo, possono parlarci di Lewis come Thomas Howard. Thomas Howard proviene da una delle più famose famiglie evangeliche americane, si è convertito dopo un lungo e controverso cammino, molto doloroso, alla Chiesa di Roma. Divenuto cattolico, è attualmente uno dei più stimati pensatori cattolici americani. Alcuni lo chiamano il Lewis d’America. Thomas Howard è stato amico e corrispondente di Lewis per molto tempo, e anzi deve molta della sua formazione proprio all’opera di Lewis. Egli più volte ha detto che Lewis lo ha aiutato fondamentalmente ad una cosa, a guardare. C’è un’immagine che percorre tutto il libro che è questa: secondo Thomas Howard, il più grande pregio dell’arte di Lewis, quale che sia l’opera in questione, Narnia, la trilogia fantascientifica, i suoi saggi di letteratura, i suoi saggi da apologeta, le conferenze che ha fatto alla radio, in tutto questo la grande impresa di Lewis è come quella di portarci ad una finestra e dirci: guarda fuori! E noi ci troviamo improvvisamente esposti ad un paesaggio infinitamente più grande della ridotta versione delle cose nella quale tante volte ci trasciniamo, giorno dopo giorno. Questo se ci pensate è anche il grande tema iniziale delle Cronache di Narnia: si entra in un armadio per uscire allo scoperto, per trovare un paesaggio infinitamente più grande, che ci riempie di struggimento e di desiderio: la realtà è molto più grande della riduzione alla quale la pieghiamo così facilmente, alla quale così tante filosofie facilmente la piegano. L’arte di Lewis è come uno scossone attraverso il quale noi siamo riesposti alle autentiche dimensioni della realtà. Questo è un po’ uno dei temi che ripercorre tutta l’opera di Lewis. Thomas Howard qui parte da Narnia (avete visto il titolo, Narnia e oltre) perché forse qui in Italia Le Cronache di Narnia sono le opere di Lewis più note. Esse ruotano tutte intorno ad un tema: questo grande mondo fantastico, coinvolto in questa dolorosa guerra che ha tanti personaggi e tante fasi, chi attende sempre? Dei bambini. Avete presente il mondo di Narnia? Ci sono grandi eroi, valorosi guerrieri, creature fantastiche, ma tutte queste creature, che sono magari sotto il dominio di qualche malvagia tirannia, aspettano sempre di essere liberati. Da chi? Da degli uomini. Da degli uomini piccoli, deboli, inermi, che non sono particolarmente saggi o particolarmente potenti, ma che hanno la straordinaria capacità di dire di sì a questo compito che si fa strada fino a loro. Per questo il loro fragile, umile sì è in grado improvvisamente di ribaltare tutte le cose. Thomas Howard dice che, se c’è una cosa che è odiata dalle forze del male, in primo luogo dalla strega bianca, la nemica de Il leone, la strega e l’armadio, che cos’è? È la carne dell’uomo, perché la carne umana, il nostro essere creature, è come la gemma sulla corona di Dio. Noi siamo povere, piccole creature, ma siamo capaci di dire di sì con amore a quello che il Mistero ci chiede nella grande avventura dell’esistenza, e questo ribalta tutte le cose. Questo è possibile sempre e solo perché (i protagonisti dei romanzi di Lewis scoprono questo) è possibile amare e servire la verità sempre e solo perché è innanzitutto la verità che ama e serve noi. Tutti i protagonisti delle storie di Lewis sono creature fragili, deboli, che trovano la capacità e il cuore di partecipare ad una avventura apparentemente cento volte più grande di loro solo perché c’è sempre qualcuno più grande di loro che li ha amati, che li ha abbracciati, che li ha cercati e che ha dato se stesso per loro. Pensate ai protagonisti de Il leone, la strega e l’armadio: cosa dà la forza a Peter, a Edmund di poter guidare un intero mondo in rivolta contro la strega bianca? Il fatto che loro per primi sono stati oggetto di un amore infinito, l’amore di Aslan che si è sacrificato per amore loro. C’è una scena molto bella nel Nipote del Mago, nella quale il protagonista è un ragazzo che non ha il coraggio di chiedere al saggio leone Aslan di guarire sua madre dal cancro che la sta uccidendo. La madre di Lewis è morta di cancro, ed anche sua moglie sarebbe morta di cancro. Il bambino trema, riesce a malapena a balbettare la richiesta. C’è un grande silenzio, il leone alza la testa e vede che Aslan sta singhiozzando, singhiozzando di dolore per lui. Anzi, soffre per sua madre infinitamente di più di quel bambino. È uno sguardo così. Essere sorpresi da uno sguardo così, permette all’uomo, nella sua libertà, di partecipare di questa onda di amore e di sacrificio. Questo tema però non è presente solo nelle Cronache di Narnia. Thomas Howard rende piena giustizia anche alla trilogia di fantascienza (Lontano dal pianeta silenzioso, Perelandra, Quell’orribile forza) nella quale ancora una volta il protagonista della vicenda non è un grande sapiente, un uomo di potere, ma un professore di Oxford di mezza età, che si trova coinvolto nella grande battaglia tra il bene e il male, tra gli angeli e i demoni, tra Gesù e Satana. L’ultima parte di questo libro è dedicata – e qui mi sbilancio – a quello che io reputo, (ma sono in buona compagnia perché Thomas Howard pensava la stessa cosa e C. S. Lewis pensava la stessa cosa), la cosa più bella che Lewis abbia scritto e che da amico ad amici vi invito caldamente ad andare a leggere. Si tratta dell’ultimo romanzo che Lewis ha scritto “A viso scoperto”, anche se il titolo inglese è molto più suggestivo, “Finché non avremo un volto”, che è una rinarrazione del mito di Amore e Psiche. Ebbene se voi leggete il libro non potete non dire: sono d’accordo, sono d’accordo, sono d’accordo, e, improvvisamente, vi accorgete che una parte di voi era connivente con una terribile menzogna. Siete disposti ad andare nella pagina successiva e cambiare con la protagonista? Questo è un bel viaggio, doloroso ma bellissimo, vi assicuro che merita, merita di essere fatto questo viaggio. Voglio concludere dicendo due cose: vale la pena leggere un libro di questo tipo, un libro su Lewis quando uno potrebbe semplicemente rileggersi C.S. Lewis, perché qui riaccade quello che Lewis ha fatto accadere attraverso i suoi libri. Se voi leggete quello che Thomas Howard ha scoperto, riscoperto, leggendo “A viso scoperto”, voi cambiate esattamente come leggendo il romanzo. E’ come una grande cassa di risonanza, è come rifare ancora una volta lo stesso viaggio, non solo in compagnia di Lewis, ma anche in compagnia di Thomas Howard. Questo credo che sia uno dei doni più belli, più importanti. E’ bello che quello che è vero diventi sempre più vero perché mediato da più persone che ce lo consegnano. E proprio per questo voglio concludere con una annotazione personale, perché questo libro è figlio del Meeting, ed io sono molto contento di raccontare come. Il prof. Thomas Howard venne qui, in più di una occasione, a parlare; io non c’ero, ma due miei amici e altri ragazzi di Comunione e Liberazione, Pietro e Mattia, erano lì all’incontro. Io non c’ero e mi dissero: Edoardo, avresti dovuto incontrarla questa persona, cerchiamo di organizzare un incontro con lui qui al Meeting, organizziamo un incontro di un quarto di ora. Io rimasi impressionato dalla infinita delicatezza e attenzione di questo uomo, ormai anziano, che era uno dei più grandi esperti di Lewis al mondo, un grande scrittore, un grande scrittore e pensatore cattolico, che stava ascoltando noi, che cercavamo di farci largo col nostro inglese molto stentato, cercando di raccontargli quanto fossero importanti per noi Tolkien o altri autori e ci incoraggiò a scrivere, a far sapere quello che noi avevamo scoperto. Da questo è nato nella mia vita con lui una grande amicizia, che continua. Io ho voluto tradurre questo libro che aveva fatto così tanto bene a me, solo perché volevo tentativamente, per come possibile, continuare come questa onda: Lewis ha portato qualcosa di grande nella vita di Thomas Howard. Thomas Howard ha fatto la fatica, bella, di accogliere questo, ospitarlo ed esprimerlo. E’ venuto qui e ha detto queste cose e le ha scritte. Le ha scritte e le ha dette. Pietro e Mattia hanno avuto l’amicizia nei miei confronti di testimoniarmi questo e di portarmi da lui. Io tentativamente ho cercato soltanto di fare la stessa cosa traducendo il libro, ma siamo tutti coinvolti in questo, perché chiunque di noi, quando è stato raggiunto da qualcosa di bello, di vero, corre e si muove come può verso le persone che gli sono intorno per comunicarglielo. In questo modo si è, credo, protagonisti a livello di quello che il Meeting ci sta chiedendo. Una volta ci fu un incontro al Meeting il cui titolo era “Gli uomini vivi si incontrano” – se non ricordo male. Io sono solo contento di poter dire che questo libro è una piccola testimonianza di quanto grande è la responsabilità del Meeting nel permettere che gli uomini si possano incontrare all’unico livello che conta per davvero.
Grazie infinite.
MODERATORE:
Giovanni Cominelli ha scritto, per la casa editrice Guerini e Associati, un libro dal titolo “La caduta del vento leggero”. Questo libro, come recita anche la fascetta che lo accompagna, è l’autobiografia di una generazione che voleva cambiare il mondo. Giovanni è una personalità della vita pubblica, sociale e politica del nostro paese e anche della Lombardia dalla quale proviene. Bergamasco di origine, poi milanese di studi, si è laureato con Geymonat che è stato il suo maestro.
E’ un forte uomo di pensiero, nel senso profondo, perché ha cercato di trovare o smontare il vero e il non vero nelle cose che ha studiato, il vero e il non vero nelle cose che ha dovuto giudicare. Si è coinvolto nel mondo della scuola come responsabile di tutto il settore scuola del Pds e del Partito Comunista prima. Questo libro è, come dicevo, un atto d’amore, perché il titolo, “La caduta del vento leggero”, dice che c’è un testimone che lega tutto, c’è qualcosa che collega le diverse stagioni della sua e della nostra vita. Nello stesso tempo il libro è anche un grande spaccato per guardare alla storia del nostro secolo, lui lo chiama secolo scorso, dei nostri ultimi 40 anni di vita pubblica e di vita culturale, dove lui si è immerso completamente.
GIOVANNI COMINELLI:
Parto dal titolo, “La caduta del vento leggero”. Trovandoci al mare, a Rimini, molti pensano che c’entrino gli aquiloni o le vele, in realtà il vento leggero è una citazione della Bibbia. “Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero”. Come è evidente, qui “soffio di vento leggero” è uno pseudonimo di Dio, un nickname, ma anche lo pseudonimo del Comunismo, che nella testa di molti di noi aveva sostituito Dio. Perché raccontare? Beh, c’è una ragione nobile, che bisogna fare i bilanci della vita quando si arriva ad una certa età, quando si è in vista del golfo d’ombre. La cosa scatenante è stata una mattina, quando lessi sul Corriere le statistiche Istat che dicevano che la vita attesa dai maschi è 78 anni. Trovandomi all’epoca ad averne 62 mi son detto: qui bisogna ragionare e bisogna stringere perché altrimenti… e quindi ho in realtà finito per scrivere, filtrata dalle vicende personali, una piccola storia della Repubblica a partire dagli anni cinquanta, per fare un bilancio, innanzitutto per me, per la mia generazione, per quei miei compagni di antiche battaglie, che sono rimasti ancora là dentro al sarcofago ideologico del ’68 e non si decidono ad uscirne, e anche soprattutto per i più giovani, anche se è noto che i giovani queste letture le trovano un po’ ostiche ma qualcuno magari, se sa un po’ di latino, un po’ di greco, un po’ di questo, un po’ di quello, magari riesce anche a capire il libro. In realtà è facilissimo da capirsi, eventualmente, come mi ha suggerito qualcuno, metterò un piccolo lessico filosofico collegato perché sia più chiaro.
Racconta la storia di un ragazzo nato nelle montagne bergamasche, contadino, ed è li che ho imparato ad occuparmi di educazione, soprattutto conducendo i maiali, perché, a voi sembrerà strano, condurre un gruppo di maiali da un alpeggio fino a casa, richiede molto tempo. Mentre le mucche impiegano supponiamo 4 ore, un maiale ne impiega 12.
Quindi ad un certo punto tu spingi la scrofa e la scrofa si butta per terra, nel fango e non la schiodi più. Quindi ho imparato che il metodo Pestalozzi non funzionava, ed ho imparato la pedagogia della pazienza, a fare i conti con la realtà. Poi arriva ad un certo punto il prete della parrocchia. Io avevo già imparato a memoria le formule latine, e dice a mio padre e a mia madre: vostro figlio è chiamato da Dio. Mio padre ha tirato giù un bestemmione quando ha avuto questa notizia, però alla fine sono andato in Seminario, ho studiato.
Dopodiché sono uscito fuori, provvisoriamente, a guardare il mondo fuori, che nei Seminari non potevi fare.
Se fumavi una sigaretta venivi espulso, se compravi una rivista, non dico Playboy, ma neanche l’Espresso, venivi espulso, potevi leggere solo L’Eco di Bergamo e le riviste missionarie, non potevi guardare la Tv o lo potevi fare soltanto sotto la guida del Vice rettore, e poco altro.
Insomma, eravamo rinchiusi, mentre fuori fremevano gli anni ’60.
Mi sono iscritto a Filosofia all’Università Cattolica, ed adesso vi risparmio gli anni del ’68 della Cattolica perché ne parleremo domani nel dibattito delle 11.00.
Quello che accade è che la generazione cattolica, impegnata, conciliare, incomincia un lento scivolamento verso il Marxismo.
Se non fosse troppo offensivo per la mia generazione, noi siamo la generazione di Giuda, non nel senso che eravamo dei traditori, ma nel senso dell’interpretazione teologica che molti hanno dato della figura di Giuda, che c’è anche nella canzone di Chieffo, per chi la conosce.
Giuda nel suo famoso monologo dice: “non è che a me interessassero i trenta denari, però quello lì aveva detto che avrebbe portato il regno di Dio in terra, i giorni passavano ed il Regno non arrivava”.
Noi abbiamo detto, è una cosa sbagliata, perciò andiamo verso il Marxismo.
Percorro l’intera carriera accademica, vado in Statale e mi laureo con Enzo Paci su una tesi di Antropologia e comincio a fare Teoretica.
Dopodiché torno in Cattolica e con Capanna, con cui mi ero nel frattempo incontrato ho fatto il Movimento Studentesco e tutta la Sinistra Extraparlamentare, finché, dopo la sconfitta di costruire la sinistra del Pci, una sinistra alternativa senza scivolare nella lotta armata, viene l’assassinio di Moro e comincio a capire che è finita una storia ed è finito un ciclo della Repubblica.
E quindi, dopo un lungo pensamento, arrivo a questa banale conclusione: il Comunismo, non è vero, come sostiene Bertinotti, che fa una specie di New Age pacifista.
Il Comunismo non è una bellissima idea male realizzata nella storia, all’opposto è una pessima idea, però realizzata benissimo e questo è stato il comunismo come io l’ho visto. Il comunismo per come l’ho visto visitando la Russia e questo mi impressionò, ma soprattutto visitando la Cina, perché lì ho scoperto che la famosa rivoluzione culturale, che a noi giovani vendevano – giovani, avevo venticinque anni insomma – come una grande rivoluzione di libertà, in realtà era un modello mongolo di comunismo, che aveva fatto milioni di morti. Perché questo è stato.
Quel fiume giallo, a Canton, che scorreva pieno di cadaveri e di sangue… A noi la Rossana Rossanda, che ancora è viva e le auguro ancora lunga vita, e altri ci avevano raccontato l’opposto, non solo, ma continuano ancora a raccontarlo. E’ veramente brutto invecchiare così male, che per una coerenza astratta si rifiuta di dire abbiamo sbagliato! No, questo è il fatto. Naturalmente l’insulto, il migliore che ti puoi pigliare, è che sei un voltagabbana. Possibilmente che sei un prezzolato, oppure che sei fuori di testa. Ma la verità è che c’è una intera generazione di questi comunisti che ancora adesso – intellettuali, non l’operaio comunista, che infatti vota lega – rifiutano di fare….
Dopo un lungo tergiversare, – mi piaceva molto la cultura politica di Martelli, che per altro era mio compagno, lui era assistente di Remo Cantoni all’università statale, io ero assistente di Paci – sono entrato nella corrente riformista del PCI che era diretta da Napolitano, sempre in giacca e cravatta, compitissimo. Si sperava che attraverso la corrente riformista si riuscisse a cambiare il paradigma di fondo del PCI e della sinistra, che ancora adesso è il paradigma della uguaglianza, non quello della libertà, il paradigma fondato da Marx nel Manifesto del partito comunista del 1848. Siccome non riuscivano a rinunciarvi, avendo nel frattempo capito molte cose, ho deciso di uscirne su posizioni, diciamo liberal democratiche, di liberismo economico e sociale. Per cui, siccome c’era lì la Bonino, che aveva preso il 8-9% alle elezione Europee del 1999, mi son detto: vediamo se lì si trova qualcosa. Nel frattempo D’Alema stava per combinare una mossa tesa a portare i radicali alle elezioni del 2000 con il Pds e quindi praticamente si concorda che io vada nel partito radicale per cercare di dar man forte alla Bonino e isolare Pannella. Mai scelta fu più demenziale, perché: primo, la Bonino ha un legame psicoanalitico evidente con Marco Pannella, per cui dice: “mai e poi mai, io mi metterò contro”; secondo, perché ho scoperto che l’unico uomo politico in grado di isolare Pannella è il Padre Eterno, non ce ne sono altri. Per cui ho chiuso. E lì ho incominciato a pensare il libro. E’ stato in effetti pubblicato in una prima versione dal Foglio di Ferrara, anche lui amico di antiche battaglie riformiste dentro il PCI. Gli ultimi due capitoli, in effetti, sono nuovi rispetto anche alla pubblicazione del 2005, perché c’è un po’ il bilancio dell’approdo e chiudo qui per lasciare la parola Giorgio. Allora il punto è questo: ciò a cui io sono approdato, lo so che a voi sembra banalissimo, e quindi è come vendere vasi a Samo, però è il senso religioso, cioè a dire la scoperta che il senso religioso ti dà della realtà una percezione più radicale e più completa. Solo questa cosa banale. Ovviamente nella mia vita non era una cosa nuova, però l’avevo come sepolta sotto il fuoco delle passioni, delle grida, dei rumori dell’impegno, e di colpo ho riscoperto questa cosa al punto tale che mi ritrovo in una condizione di una tale felicità, insomma è una parola grossa, di una tale serenità, cioè percepisco il mio io così compatto che per dirla con la Bibbia, il cuore così unificato, che non riesco a crederci. Per cui mi son detto: Cominelli, tu sei in agonia e non te ne stai accorgendo, perché mi hanno spiegato i medici che quando uno và in agonia diventa serenissimo, peccato che poi lo spianano del tutto, per cui ho detto: forse sto male. Anche perché, quando poi vado a discutere con i miei compagni della sinistra riformista e così via, continuano a guardarmi come se io avessi una qualche malattia mentale o psichica, e questo perché il senso religioso sembra qualcosa di esterno, di estraneo alla visione della storia, del mondo degli uomini. Io invece ho scoperto questa cosa, dopo di che capisco anche perché, da questo punto di vista, in realtà, l’aveva scoperto già uno, qualche secolo avanti Cristo, che si chiamava Eraclito, filosofo del quinto secolo, mi pare -correggimi se sbaglio – 535-475, avanti Cristo. E’ importante l’avanti Cristo, perché di questi tempi i nostri ragazzi confondono un po’ le cose, del resto io ho sentito Mike Buongiorno in televisione esaltare la bellezza di un crocefisso del quinto secolo avanti Cristo, per cui a questo punto è meglio puntualizzare. Eraclito dice questo, ed è stato il motore della mia esistenza in questi anni: “Per quanto tu possa camminare e neppure percorrendo intera la via tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo Logos”. Questo non è don Giussani, non è Marx: è Eraclito. Come a dire che la struttura dell’uomo ha dentro un nucleo di finitudine ed un nucleo di infinitudine. Dopo di che, combinare queste due cose, questo è il problema. Da questo punto di vista, e chiudo, mi sembra di essere come quegli astronomi che identificano nello spazio un certo punto dell’universo, lì si deve trovare un corpo celeste, si deve trovare qualcosa, però non lo vedono. Io mi sento come un astrofisico cieco, che vede questi due nuclei che si agitano nella mia anima ed io lo so che la risposta c’è, molti me la dicono: è Gesù Cristo. Però lo devo sentire io. Io credo di trovarmi su questa strada. Del resto, diceva Mao Tse Tung, la rivoluzione non è un pranzo di gala, ed io credo che neanche la conversione lo sia.
MODERATORE:
Adesso andiamo avanti con l’intervento di Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, che consce bene e lavora con Cominelli.
GIORGIO VITTADINI:
Innanzi tutto devo dire che io parto dal fondo del libro, cioè conoscendo Giovanni oggi. Quindi lo leggo da questo punto di vista, dal punto di arrivo, mentre evidentemente il libro ha un punto di partenza .
La prima cosa che dico è che sono percorsi, come quello suo, che non possiamo più ritenere casuali, perché io ho conosciuto almeno tre persone, simili a lui: Aldo Brandirali, Teresa e Caprara. Quello che accomuna queste persone è la scoperta della parola esperienza come il fattore di giudizio. Infatti, parafrasando Giussani di un po’ di anni fa, quando incontrò Guitton a Madrid, hanno sottoposto la ragione alla esperienza. Questa è il punto comune di queste persone. Il percorso intellettuale è sottomesso ad una parola, che è la parola esperienza, e questo ci accomuna, prima ancora che la scoperta del senso religioso, prima ancora che tirare per i capelli conversioni. L’idea che l’esperienza è il fattore comune che ci permette di parlare assieme, è una cosa che va anche al di là del percorso del comunismo. Possiamo parlare con Habukawa presente qua al Meeting, possiamo parlare con Weiler, possiamo parlare con Marpurgo, possiamo parlare con gente che cristiana non è, con Modiano, che farà con lui l’incontro sul ’68, e che milita ancora attivamente nella sinistra o con Bersani che ha presentato il libro di Giussani, perché la parola esperienza è un fattore comune, ritenuto fondamentale nei termini in cui Giussani, oserei dire, l’ha teorizzato: il paragone tra qualcosa che è il cuore e ciò che avviene nella realtà. Quindi questo è il punto che noi abbiamo in comune con Giovanni, come molti altri personaggi, con cui avvengono dialoghi ritenuti impossibili. Per esempio, un mio amico, alto dirigente della Bicocca, con cui parlavo della mia amicizia con Claudio Marpurgo, che è stato vice-presidente degli Ebrei, e con cui il paragone con l’esperienza è totale, mi dice: sì, però prima o poi di devi scansare, perché tu hai Gesù e lui no. Io dico no, perché questa parola esperienza, che ha dentro il presagio del mistero, sia che lo chiamiamo con la emme maiuscola o minuscola, è inevitabilmente un fattore che mette insieme totalmente. Non è come dire, fino al 40mo del secondo tempo va bene, però gli ultimi cinque minuti devi litigare. Anche per uno che è cristiano, la parola mistero scandaglia tutta l’esperienza. Noi non abbiamo qualcosa in più, perché siamo dal punto di vista della ragione qualcuno che usa questa categoria dell’esperienza e questo ci accomuna totalmente, per cui siamo insieme a queste persone non per modo di dire, perché l’esperienza è totale e si può fare un percorso totale. Allora questo punto di partenza lo potremmo anche chiamare ricerca della verità. Ed è anche la ragione, secondo me, dell’uscita dal cristianesimo di Giovanni Cominelli, perché anche molti di noi lo avrebbero abbandonato definitivamente se non avessero incontrato qualcosa di altro. Un cristianesimo che non è questo privilegio dell’esperienza, non è accettabile, come mi ha detto un altro grande amico agnostico, che ci ha incontrato negli ultimi anni. Anche lui come Giovanni dice di essere alla ricerca della risposta, dice: io non nego che ci possa essere un Dio, ma voglio scoprirlo io, non accetto che qualcuno me lo imponga come frutto dei valori o della morale o della disciplina. Per questo dico che ci sono uscite dal comunismo che rimangono ultimamente ideologiche, perché se negano l’esperienza e vogliono la morale e i valori come punto di partenza, sembrano vicini, ma sono lontanissimi, perché della ricerca di Dio, ultimamente, non gliene frega niente, gli interessano i valori che nascono da Dio, mentre il punto comune è che uno vuole trovare Dio. Io mi ricordo che quando sono uscito dall’oratorio, avevo quindici anni, il motivo con cui ho litigato col prete a quattordici anni era perché io gli dissi: io voglio capire le ragioni di quello che lei mi dice. Lui rispose: io le ragioni non te le do, quindi o tu accetti o tu te ne vai. Io, da quel giorno in poi non andai più all’oratorio nel mio piccolo, rimanendo cattolico non andai più all’oratorio, perché volevo scoprire il perché. Ed uno deve scoprirlo laicamente, non è accettabile neanche una Chiesa cattocomuinsta, che ti dice ti sento vicino. Ma chi se ne frega, se tu non mi sai dire le ragioni per cui io devo scoprire con la mia esperienza da laico questa cosa… E se accetto di dipendere dalla gerarchia, accetto perché parto da una esperienza per cui questo è ragionevole.
Ora, nelle prime pagine del libro, quelle della nascita della sua esperienza, dell’entrata in seminario e della sua uscita, fu la percezione di una distanza profonda tra il mondo come veniva descritto e il mondo immaginato come reale. Un’esperienza che ti dice: questo mondo non ha più niente da dire e qui nasce, per questa passione per la conoscenza, il lungo percorso del comunismo. Caprara, come Brandirali, ed anch’io che sono sempre rimasto cattolico, abbiamo intuito negli del 73-74, quando c’era la Jaca Book, che il comunismo poteva essere diverso. C’era il comunismo delle risaie, teorico, che poi sarebbe diventato il Vietnam, ma ultimamente il comunismo era il comunismo. Tutto uguale, mentre nel libro di Cominelli si scopre che c’è un arcipelago, con moltissimi percorsi intellettuali, al punto che non si capisce come uno possa avere avuto il tempo di leggere tutte queste cose, anche rimanendo sveglio tutta la notte…
GIOVANNI COMINELLI:
All’epoca niente donne…
MODERATORE:
Niente donne, molti maiali…
GIOVANNI COMINELLI:
Studiare 12 ore al giorno e niente altro…
GIORGIO VITTADINI:
E’ una serietà che Giussani o Carrón direbbero che noi ci siamo sognati, ma vuol dire che questa passione per la conoscenza gli ha fatto fare questo percorso dentro questo mondo, ma senza mai vendere il cervello all’ammasso a questo mondo. Pian piano l’ideologia ha fatto vedere, come il seminario o più del seminario, la sua insufficienza.
Io trovo una analogia quasi totale con Giovanni, perché è come la domanda che ad un certo punto, in questo arcipelago di mondi che è il comunismo, arriva a dire qualcosa, mentre dall’altra parte senti una negazione irosa, perché la caratteristica comune tra Brandirali, Caprara e Cominelli è di essere stati espulsi. L’ideologia ha una caratteristica, non molto differente da un certo mondo cattolico: quando uno fa una domanda in più, lo si butta fuori. Prima lo si fa capo, poi lo si butta fuori.
Una persona tra virgolette normale, non protagonista cosa fa allora? Dice: va bene, per un posto al sole facciamo una domanda in meno. Mentre dal libro si capisce che per Giovanni l’esperienza valeva più dell’ideologia. Si trova fuori perché l’ideologia è contro l’esperienza; un’ideologia religiosa, anche un’ideologia cristiana ma l’ideologia comunista soprattutto, non accetta le domande, non accetta uno che legga i libri ed è proprio questa passione per la conoscenza che diventa onestà intellettuale. Anche adesso Giovanni è impertinente, anche col rapporto con noi; è impertinente nel senso che non ce le fa passare, ci fa una domanda in più.
GIOVANNI COMINELLI:
Anche tu sei impertinente nei miei confronti.
GIORGIO VITTADINI:
Infatti la bellezza di un rapporto è che non ce lo mandiamo a dire, non facciamo un rapporto politico, non siamo cinesi. Allora io dico, concludendo, che questo libro è una grande provocazione, come il rapporto con Giovanni, a capire che se uno ha il dono della fede, questo dono deve conquistarselo; ce l’ha, ma dire che si ha la fede è dire: oggi devo scoprire il Mistero, oggi devo scoprire una verità che mi è stata data come tradizione, come critica, come domanda, come risposta alla questione, perché i fatti che vedo sono qualcosa che danno ragione del fatto che c’è qualcuno fra noi e più si ha gente come lui vicino, più queste risposte non sono scontate, perché ti fa sempre un’obiezione in più, ti costringe a scandagliare nella verità di te stesso. Allora la partita è veramente interessante.
MODERATORE:
Grazie a Vittadini, a Cominelli e grazie anche all’editore Guerini, che vedo presente e alle sue iniziative editoriali.
(Trascrizione non rivista dai relatori)