INTORNO ALLA FAMIGLIA. Di fronte alla realtà per un cammino di ricerca

Intorno alla famiglia. Di fronte alla realtà per un cammino di ricerca

In collaborazione con CEC (The Notre Dame Center for Ethics and Culture). Partecipano: Anna Garriga, Ricercatore nel Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali all’Università Pompeu Fabra di Barcellona, Spagna; Chiara Giaccardi, Docente di Sociologia e Antropologia dei media all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Orlando Carter Snead, Direttore Center for Ethics and Culture all’Università di Notre Dame, USA. Introduce Lorenza Violini, Docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Milano.

 

LORENZA VIOLINI:
Buonasera a tutti, siamo qui ancora insieme, ancora una volta. E’ sempre un’esperienza interessante. Uno degli ultimi temi che questo Meeting affronterà, è un tema cui abbiamo voluto dare un titolo problematico: Intorno alla famiglia, il de familia, per chi è familiare con il latino, l’argomentare intorno alla famiglia. È un tema molto discusso, su cui sono stati spesi fiumi di carta, su cui ci sono discussioni, anche attualmente, su fronti importanti come la politica e la cultura, anche a livello internazionale. Noi abbiamo scelto questo approccio che è dialogico ma problematico, proprio perché ci rendiamo conto che su questi temi spesso si è un po’ approssimativi oppure divisivi oppure lontani dall’esperienza. Siamo invece fortemente interessati, e dico noi perché penso non solo a me ma a tutti gli amici del Meeting, a chi pensa i titoli e lo svolgimento del nostro lavoro insieme. Se guardiamo a queste grandi parole – famiglia, matrimonio – oltre a tutta la tradizione, oltre a tutta la storia, oltre a tutti gli sviluppi che sono presenti oggi, forse quello che colpisce è che, da un lato, evocano un senso di grande aspettativa, di grande ammirazione, evocano desideri importantissimi e basilari negli uomini e nelle donne del nostro tempo: il desiderio di compagnia, il desiderio di aiuto, di solidarietà, il desiderio di avere nell’altro, negli altri che sono nell’ambito della nostra famiglia, quel senso di calore, di affetto, di presenza che è ciò che vogliamo noi quando ci incontriamo. Insomma, la famiglia è un po’ l’emblema della relazione che completa l’umano, che l’umano desidera perché in essa si sente completato. In questo senso, non è una relazione come tante altre ma è l’archetipo della relazione, è la relazione costitutiva. In qualche modo, con qualche difficoltà, tutti abbiamo alle spalle un’esperienza di famiglia. C’è questa bellezza della famiglia che ci attrae ma allo stesso tempo siamo profondamente coscienti di un contesto in cui l’esperienza familiare, matrimoniale è messa sotto pressione, è messa in crisi. Vive una crisi. Il fatto stesso che la Chiesa cattolica si stia interrogando in modo importante su questo tema, è un segno della consapevolezza che in un certo mondo c’è, della bellezza della famiglia ma anche della difficoltà a viverla con pienezza, in modo duraturo, in modo soddisfacente, in modo stabile, in un modo che possa davvero rispondere alle aspettative che desta. È anche in questo contesto che ci poniamo, nel contesto di una discussione intorno alla famiglia che sta muovendo tanto del nostro pensiero. E quindi ci interessa ragionare insieme per offrire degli spunti che possano essere un contributo a chiunque, per mostrare una posizione ma nello stesso tempo un’esperienza. Siamo intorno a questo tavolo per fare insieme questo lavoro e ragionare della famiglia. È un panel internazionale: alla mia destra, il professor Carter Snead, dell’università di Notre Dame, Indiana. Carter è un grande amico del Meeting, è con noi da vari anni: quest’anno c’è stato un passo importante, perché l’università di Notre Dame è divenuta partner ufficiale del Meeting di Rimini. E siamo veramente contenti che questa amicizia abbia preso anche una forma istituzionale, perché molti sono venuti dalla Notre Dame, per aiutare lo sviluppo del Meeting e la sua progressiva internazionalizzazione. Ma non solo per questo, anche perché l’università di Notre Dame è non solo un luogo di cultura, ma anche di azione: ci sono vari centri, nell’ambito dell’università, che aiutano e sostengono le famiglie povere, che danno una mano alle donne in difficoltà che aspettano un bambino. Fa un lavoro educativo perché sia sempre pià chiaro che cos’è la famiglia. Carter Snead dirige il centro di Culture and Ethics di questa università, un centro culturale importante, l’anima dell’identità cattolica di questa università. Insegna essenzialmente, assieme a tante altre cose, Bioetica e Diritto, Biodiritto, diremmo oggi, ed è stato anche un membro importante della Commissione di Bioetica della Presidenza degli Stati Uniti. Quindi abbiamo con noi uno specialista. Abbiamo poi Chiara Giaccardi, Professore Ordinario di Sociologia della Comunicazione, appunto uno dei temi di cui ci occuperemo in questa discussione: lei stessa ha una bellissima esperienza di famiglia, lo so che non si dovrebbe mischiare il pubblico con il privato, ma la sua è un’esperienza di famiglia aperta, che accoglie, che aiuta e sostiene. Alla mia sinistra, Anna Garriga, anch’essa docente universitaria. Il suo intervento sarà difficilissimo, lo preannuncio, perché Anna lavora con i dati, vuole andare a capire cosa sta succedendo nei nostri Paesi rispetto alla famiglia: bisogna fare un po’ di fatica ad ascoltarla ma sono sicura che il suo intervento sarà molto utile. E le do il benvenuto con particolare affetto perché fino a ieri Anna, come si vede dalla sua giovane età, era tra i volontari del Meeting, invece ora è stata accolta tra i vecchi, diciamo così. Come vedete, all’aspetto di lavoro, di ricerca, di riflessione, noi vogliamo unire le esperienze. Ed è per questo che l’ordine dei relatori sarà il professor Snead, poi Anna Garriga e in conclusione Chiara Giaccardi, per un momento di lavoro e di proposta rispetto alla famiglia che pensiamo possa essere davvero utile per chi desidera ascoltare e anche in un contesto di pluralismo, dove varie sono le esperienze che si incontrano e si scontrano. Ma come prima cosa, per potersi incontrare e scontrare, la cosa fondamentale è essere disponibili ad ascoltarsi. Allora, il primo intervento a Carter Snead, a cui do la parola. La domanda di fondo che muove il suo intervento è: questa esperienza di famiglia, così affascinante, così promettente, come si può definire? In che modo l’esperienza del mondo cattolico, l’esperienza cristiana ha pensato alla famiglia e la vuole oggi riproporre in questo contesto così nuovo, così problematico, in queste acque così turbolente? La parola a Carter Snead.

ORLANDO CARTER SNEAD:
Grazie, Lorenza. Prima di tutto, grazie di avermi invitato, è la quinta volta che parlo al Meeting di Rimini ed é la prima volta che il Centro di Etica e Cultura dell’Università di Notre Dame, di cui sono direttore, collabora con il Meeting di Rimini come co-sponsor. Siamo onorati ed entusiasti della nostra recente collaborazione: a nome del Centro per l’Etica e la cultura dell’Università di Notre Dame, desidero esprimere la nostra profonda gratitudine per l’ottimo lavoro svolto da chi ha reso possibile questo evento, cioè Emilia, Marco, Roberto, Giorgio, e voglio anche ovviamente ringraziare i duemila volontari, tutti straordinari. Oggi vorrei brevemente parlare della famiglia e del ruolo che svolge nel rispondere alle domande che affliggono l’uomo moderno, e cioè: chi sono io, e perché sono qui? In altre parole, la famiglia è il luogo che dà risposta a questa domanda, che è squisitamente umana e si addice perfettamente a una creatura fatta ad immagine e somiglianza di Dio. Quindi, prima di tutto spiegherò quello che io e altre persone, tra cui Papa Benedetto e Padre Carrón, abbiamo chiamato la crisi dell’antropologia. Poi passerò a descrivere una risposta falsa e pericolosa all’interrogativo sulla natura umana e sulla pienezza dell’essere che è stata proposta dall’individualismo radicale. Poi vi spiegherò i pericoli di questa falsa immagine dell’uomo, facendo alcuni esempi legati al mio campo di studi, cioè la bioetica pubblica, che è la governance della scienza, della medicina e della biotecnologia, legati in particolare all’etica nell’ambito della procreazione della vita e dell’inizio della vita. Alla fine suggerirò un’alternativa, una vera visione alternativa della persona, caratterizzata dalla dignità umana inalienabile e da un rapporto di debito reciproco e dalla solidarietà. Cosa ancora più importante, spiegherò che solo vivendo in famiglia si possono imparare queste verità: e cioè chi siamo e perché siamo stati creati.

Vengono proiettate delle slides

Il primo punto di cui parlerò è la crisi dell’antropologia. Lo scrittore americano Walker Percy scrisse che viviamo in un’era pericolosa, più pericolosa del solito perché, nonostante i grandi progressi scientifici e tecnologici, l’uomo non ha la minima idea di quello che fa. Questa crisi antropologica attanaglia l’uomo moderno che si pone grandi interrogativi sulla sua identità, il suo destino e sul debito che ha nei confronti dei suoi simili. Questa confusione sicuramente fa parte della mancanza di cui i nostri cuori a un tratto sono pieni, come padre Carrón scrisse nel discorso al Congresso Teologico Pastorale del 2006, questa crisi riguarda la famiglia e l’individuo. Padre Carrón scrisse: “La crisi delle famiglie è una conseguenza della crisi antropologica nella quale ci troviamo. Come impostare il rapporto, come concepirlo, dipende dall’immagine che ciascuno si fa della propria vita e della realizzazione di sé. Ciò implica una concezione dell’uomo e del suo mistero. «La questione del giusto rapporto fra l’uomo e la donna» ha detto Benedetto XVI «affonda le sue radici dentro l’essenza dell’essere umano, e può trovare la sua risposta soltanto a partire da qui. Non può essere separata dalla domanda antica e sempre nuova dell’uomo su se stesso, e cioè: chi sono io? Che cos’è l’uomo, che cos’è l’essere umano?»”. Tuttavia, in maniera un po’ paradossale, tra un po’ vi spiegherò che, benché il successo della famiglia dipenda dalla comprensione del nostro essere e del nostro destino, è proprio vivendo e amando all’interno della famiglia che l’uomo trova risposta a questi interrogativi. Ma prima parliamo della falsa risposta e cioè la risposta falsa data dall’individualismo radicale. C’è una risposta falsa e pericolosa alla domanda sulla natura, l’identità, il destino e la vita dell’uomo. È la proposta dell’individualismo radicale, che vede l’uomo come un essere profondamente solo, isolato, vede l’uomo non come unità dinamica del corpo e dello spirito ma semplicemente come una creatura definita dalla propria volontà, dal proprio arbitrio. In base a questa falsa concezione, l’aspetto più importante dell’uomo è che è una persona che sceglie, un mero consumatore di cose. La massima pienezza dell’uomo si esplica nella concezione e realizzazione di progetti che scaturiscono solo dalla sua volontà, che sola è isolata. Ma così non c’è destino, non ci sono vincoli naturali o sociali nell’esercizio della volontà, quindi l’uomo è come una tabula rasa. I rapporti personali con gli altri si limitano ad essere rapporti di natura strumentale e contrattuale. Cosa ancora più importante, gli unici obblighi del radicale sono quelli che egli stesso sceglie. Non ci sono obblighi non scelti, l’uomo incontra l’altro che è una sorta di avversario isolato, imprigionato per così dire in una corazza di diritti. L’individualismo radicale minaccia la nostra vita insieme. Questa visione della persona, ridotta a una semplice volontà di potere, non solo è falsa ma è anche pericolosa e questo diventa chiaro quando si parla proprio di Bioetica pubblica, cioè la governance della scienza, della medicina e della biotecnologia in nome dell’etica. Soprattutto perché gli esperti del settore studiano tematiche come l’inizio della vita e la procreazione umana. La falsa premessa dell’individualismo radicale presenta anche sfide radicali su più fronti e cioè l’identità, il valore e la definizione stessa della persona umana, oppure la natura e il significato della procreazione umana, la natura dell’obbligo del genitore nei confronti del figlio e lo scopo ultimo della ricerca scientifica e della medicina. Nel mondo della bioetica, all’inizio della vita umana la tesi dell’individualismo radicale limita la natura della famiglia e della morale. Quando la persona viene considerata mera volontà, puro arbitrio, il cui fine ultimo è la concezione e realizzazione di progetti personali, chi non è in grado di formulare, lavorare per seguire gli obiettivi, viene relegato a essere una non persona. L’embrione, il nascituro, il disabile cognitivo, anche se sicuramente sono membri della specie umana, della famiglia umana, sono considerati non persone, il che significa che non hanno una dimensione morale e che la legge non li può proteggere da varie forme di violenza, come ad esempio la ricerca distruttiva sugli embrioni, l’aborto e l’eutanasia. Inoltre, l’appiattimento e la corruzione del concetto stesso di procreazione devono essere presi in considerazione. Ci sono due eminenti filosofi che credono nella tesi dell’individualismo radicale. Il primo è il professor Robertson, Presidente del comitato etico della più importante società americana per la riproduzione assistita, che scrisse: “La scelta di perseguire o evitare la procreazione è fondamentale per l’autodefinizione, l’appagamento del desiderio e l’autoespressione”. Il professor Gerard Shutten, famoso genetico all’università di Pittsburgh, ha detto al Consiglio di Bioetica americano che l’obbiettivo della riproduzione assistita è – cito – “aiutare i genitori a realizzare il proprio sogno di avere eredi senza rischio di malattie”. In pratica, questi pensieri vengono tradotti con forme di selezione del sesso, screening genetico per avere i tratti che si vogliono del bambino, una pratica commerciale di maternità surrogata, dove i bambini che non soddisfano determinati standard sono rifiutati, come si rifiuterebbero prodotti difettosi, e forse addirittura clonazione di bambini. Ma che cosa è il bambino in tutto questo? È un progetto, l’oggetto della volontà dei suoi genitori, è uno strumento su cui il genitore o i genitori riversano le loro aspirazioni, è un prodotto da accettare o rifiutare a seconda che soddisfi o meno il desiderio dei suoi genitori. Ecco, è proprio questo che porta la falsa e pericolosa ideologia dell’individualismo radicale ad essere un pericolo. Ci sono però nuove notizie, e cioè che questa immagine falsa e deformata dell’uomo, un uomo sminuito a consumatore di cose, che realizza i propri progetti, non ha ragione d’essere se pensiamo alla vera identità dell’uomo, impregnato di una dignità umana inalienabile, intrinseca, che vive in solidarietà con gli altri, in condizione di debito reciproco, che ha doveri nei confronti degli altri, anche doveri che magari non sceglie, gli altri da cui anche lui, anche l’uomo deve pretendere la stessa attenzione. Come facciamo ad imparare questa vera immagine dell’uomo e del suo destino? Come vi spiegherò, è solamente vivendo e amando all’interno della famiglia che si può esplicare questa verità, dove capiamo quale è veramente il nostro destino. Quali sono queste verità, innanzitutto? Per quanto riguarda la persona, la verità è che siamo tutti intrinsecamente uguali nella nostra dignità e questo solo perché facciamo parte della famiglia umana. Ogni singolo essere umano è prezioso e insostituibile, a prescindere dall’età, dalla grandezza, dal Paese, dalla razza, dal sesso, dall’utilità oppure dalla pesantezze che ha nei confronti degli altri, dal fatto di avere determinate capacità fisiche o mentali o dal valore che gli è conferito dagli altri. Quindi, è moralmente incoerente ed è una grave ingiustizia escludere dal circolo delle cosiddette persone chi è immaturo, piccolo, dipendente, oppure chi ha scarso livello cognitivo: non esiste una persona che non sia umana. Non esiste un essere umano che sia antecedente alla persona, non esistono embrioni e feti e non ci sono pazienti con difficoltà cognitive, tutti gli esseri umani sono persone da quando vengono concepiti a quando muoiono. Come facciamo a imparare questa verità sulla dignità della persona umana? La impariamo alla scuola della famiglia. Prima di tutto venendo amati e accuditi in maniera incondizionata e poi dando lo stesso amore incondizionato ai bambini ancora in grembo, a chi ha disabilità cognitive a causa di malattie, incidenti o per via dell’età. Nelle ecografie, capiamo che siamo tutti persone, a prescindere dalle nostre capacità cognitive, dalla nostra capacità di elaborare e perseguire piani futuri. Alla scuola della famiglia, impariamo anche che siamo tutti debitori delle cure d’amore. A prescindere dalla scelta di questi obblighi, non siamo una volontà senza corpo, siamo membri di una famiglia profondamente vulnerabili, la cui sopravvivenza dipende dalla benevolenza reciproca. Sappiamo che i nostri genitori si sono presi cura di noi quando siamo nati, e dobbiamo fare lo stesso per loro, quando diventano anziani e hanno bisogno di noi, di cura e amore. Inoltre, non siamo esseri isolati, parcellizzati, non siamo separati e distinti dagli altri, la verità è che nasciamo e siamo in costante rapporto con gli altri a cui siamo legati da parentela. Siamo legati alle generazioni passate, presenti e future, ed è una cosa che impariamo alla scuola della famiglia, vivendo e amando chi viene prima di noi. Questa concezione di solidarietà e di comunità va ben oltre la famiglia ed è una cura per il fallimento dell’immaginazione morale che ci impedisce di vedere con chiarezza il prossimo. Tanta ingiustizia nasce dal fallimento o dal rifiuto di riconoscere l’altro nei confronti del quale abbiamo un debito di cura. E questo lo vediamo con le vittime della povertà e delle calamità naturali, lo vediamo nella bioetica pubblica, all’inizio della vita, soprattutto quando parliamo del futuro nascituro in grembo o in laboratorio. Vediamo il fallimento dei genitori nel riconoscere i loro figli, vediamo il fallimento dei medici che non vedono il loro paziente, vediamo il fallimento della nostra società nel riconoscere i suoi membri. È un fallimento più grave di quello di amare il prossimo come se stessi, è il fallimento di riconoscere il prossimo come essere umano, simile a noi. Il mancato riconoscimento dell’altro si vede chiaramente quando sentiamo storie di persone che soffrono in posti lontani, affitti da calamità, guerre, povertà. Forse capiamo queste tragedie a livello intellettuale, ma non sentiamo le grida di fratelli e sorelle, non le sentiamo nei nostri cuori. Anche qui, la scuola della famiglia ci può aiutare. Quando amiamo le nostre madri, i nostri padri, i nostri figli, i nostri fratelli, le nostre sorelle, i nostri zii, le zie, le nonne, i nonni, capiamo che chiunque incontriamo è figlio, nipote, madre o padre, fratello o sorella di qualcun altro. In loro vediamo i nostri stessi genitori, i nostri stessi figli, i nostri fratelli e le nostre sorelle, ci sentiamo legati a loro, vogliamo prendercene cura come vorremmo che facessero loro se fossimo noi a soffrire. Mi ricordo adesso di un commento di mia moglie nel 2005, dopo l’uragano Katrina che ha colpito la città di New Orleans. C’era una famiglia bloccata dalle inondazioni su un ponte. Mia moglie aveva visto la nostra famiglia negli occhi di quelle persone che tenevano per mano i loro piccoli e che chiedevano aiuto in maniera disperata. In quel momento, mia moglie ha capito che la sofferenza e la paura non sono un semplice fatto intellettuale ma un fatto di mente e di cuore, e che questa è la scuola della famiglia. Per concludere, che cosa ci insegna la famiglia sui nostri destini, sul perché siamo qui? La famiglia non solo ci indica la nostra umanità, non solo ci insegna la nostra dignità inalienabile e il debito che abbiamo nei confronti degli altri, ma l’amore della famiglia ci indica inevitabilmente Colui che ci ha portato a conoscerLo, ad amarLo e a servirLo nel mondo, ad essere per sempre felici con Lui in Paradiso. È solo amandoci a vicenda che riusciamo a vedere il volto di Cristo. Grazie.

LORENZA VIOLINI:
Grazie, Carter, per questa introduzione al tema, per avere messo in chiaro che l’esperienza che noi facciamo nelle famiglie è veramente globale, un’esperienza di tutta la persona e di tutte le persone e che questa esperienza va conservata, guardata, curata, comunicata. Io credo che molte delle nostre famiglie qui presenti e molte delle famiglie nel mondo possano dire e attestare che questo è vero. Ma, come ci siamo detti all’inizio, a fronte di questa bellezza e di questo senso della famiglia noi viviamo una situazione difficile, le nostre società, oltre a una continua diminuzione problematica, dal punto di vista demografico, del fertility rate, vivono anche una dissociazione, un’atomizzazione della famiglia. Se legarsi a un’altra persona alla fine è un contratto, un modo per ottenere dei beni, dei benefici e per soddisfare dei sentimenti, e se è solo questo, evidentemente c’è una fragilità che ci tocca e ci tocca tutti: a nessuno è risparmiata la fatica di riconoscere oltre a questo qualcos’altro dentro l’esperienza della famiglia. Ma vogliamo stare ancora un momento su questo aspetto problematico dell’esperienza famigliare. Chiedo pertanto ad Anna di illustrarci e a tutti voi la pazienza di seguire l’esito dei suoi studi, che sono studi ancora in corso, su cosa vuole dire oggi guardare alla famiglia in tutta la sua dimensione di crisi e in tutta la sua dimensione di fragilità.

ANNA GARRIGA:
Innanzitutto vorrei ringraziare il Meeting per avermi invitato, è per me una grande occasione per parlarvi della mia ricerca e associarla allo slogan del Meeting. Io sono sposata e madre di quattro figli piccoli e faccio ricerca sulla famiglia. Perciò vivo quello che studio ogni giorno nel mio lavoro. Nel concreto, mi occupo di studiare le cause e le conseguenze delle separazioni nei figli e anche sulla società in generale. Quando cadde il Muro di Berlino, avevo solamente nove anni: quindi vivo in me stessa molte delle difficoltà, dei problemi, dei dubbi di ogni altro genitore di oggi, né più né meno. Sono stata invitata qui per spiegare le conclusioni alle quali sono arrivata con il mio lavoro e anche i dubbi che ho ancora, le domande aperte. Vedrete che si tratta di una storia di piccole battaglie che nascono dalla mia passione per il dialogo. La famiglia oggi è circondata da tantissime prospettive, tanti temi: l’entrata della donna nel mondo del lavoro, l’aumento della speranza di vita, ci sono tantissimi problemi. Io ho deciso di studiare il tema del divorzio perché riguarda tante persone. Riguarda ovviamente i genitori, i bambini, riguarda anche i nonni, la società in generale. Prima di spiegarvi i miei dati – vi chiedo di avere pazienza nel seguire le mie parole – vorrei spiegarvi per quale motivo ho iniziato a studiare utilizzando il metodo statistico. Iniziai le mie ricerche circa dieci anni fa, quando in Spagna si stavano discutendo le leggi sulla famiglia poi approvate da Zapatero, tra queste anche quella del divorzio breve. La prima cosa di cui mi resi conto è che esistevano due posizioni completamente contrapposte, e non c’erano assolutamente nessuna collaborazione e nessun dialogo tra queste due posizioni. La prima difendeva e difende il fatto che il matrimonio sia un bene e si basa su principi morali che buona parte della società spagnola non capisce: si basa su questi principi e non parte dall’esperienza. La seconda posizione parte invece dall’idea secondo la quale il divorzio è un bene, che consente una maggiore libertà alle donne e che non ha effetti di alcun tipo sui figli. Mi sono resa conto che queste due posizioni avevano qualcosa di comune: nessuna delle due era relazionata con l’indagine scientifica. La prima dice che assolutamente non è necessario studiare ciò che è ovvio, tutto il mondo lo sa, non è necessario studiare. L’altra dice che non ci sono effetti e non è necessario studiare. Mi resi conto che in altri Paesi avevano superato questo scontro utilizzando il metodo scientifico, la statistica. Non sto scoprendo l’acqua calda, non è una storia di grandi guerre, ma piuttosto si tratta di lottare in piccole battaglie, giorno dopo giorno, e soprattutto dare credito a chi pensa in modo diverso da te. La prima cosa che mi sono chiesta in questi anni è innanzitutto se il divorzio genera più libertà, più benessere e più uguaglianza oppure no.

Vengono proiettate delle slides.

Per la maggio parte delle persone, il divorzio rappresenta una liberazione dalla sofferenza e quindi un bene: e molte volte è così. Quello che ci dicono i dati, è che il divorzio ha effetti negativi sui bambini per diversi aspetti, per quanto riguarda il benessere a livello educativo, psicologico, economico e anche relazionale. Una volta dimostrato questo, molte persone mi dicevano: “Bene, sì, il divorzio potrebbe avere effetti negativi ma questi effetti spariranno”. Queste persone utilizzavano varie argomentazioni. Ora, durante la mia esposizione potrete vedere che io metterò in crisi e criticherò tutte queste argomentazioni. La prima afferma che il divorzio ha effetti negativi durante la separazione, ma quando i figli sono adulti, non ne ha più. Non è così, il divorzio ha assolutamente effetti a livello educativo e anche a livello relazionale. I bambini che hanno vissuto una situazione di divorzio, quando diventano adulti hanno molte più probabilità di separarsi, di avere relazioni di minore qualità. Quindi, non è assolutamente vero che gli effetti scompaiono, al contrario, a volte si manifestano ancora di più. Non sto dicendo ovviamente che tutti i bambini che vivono una situazione di divorzio vivranno in queste condizioni, però aumentano le probabilità che accada. Il secondo punto che molto spesso si utilizza è affermare che il problema non è il divorzio ma piuttosto la povertà. Sappiamo effettivamente che in Spagna e in Italia la povertà delle famiglie monoparentali arriva fino al 25%, è molto alta e secondo me assolutamente inaccettabile. Però molti dicono che se dovesse sparire la povertà di queste famiglie, allora la situazione generata dal divorzio non sarebbe così negativa e non avrebbe effetti negativi sui bambini. Nella nostra ricerca abbiamo visto che non è così, i bambini che dopo il divorzio vivono una situazione di benessere economico comunque continuano ad avere problemi e il divorzio continua ad avere effetti sulla loro vita. Inoltre, nei Paesi scandinavi in cui la povertà delle famiglie monoparentali è molto bassa, i bambini di genitori divorziati vivono effetti negativi allo stesso modo dei bambini di genitori divorziati in Spagna e Italia. Inoltre, se confrontiamo diverse generazioni della Svezia, vediamo che l’effetto del divorzio non diminuisce assolutamente. Quindi, i più giovani non soffrono meno gli effetti del divorzio dei genitori rispetto alle generazioni precedenti. Infine, vorrei esporvi una delle argomentazioni che secondo me sono tra le più importanti: il conflitto. Molto spesso si dice: “Non è il divorzio che causa problemi nei bambini quanto piuttosto il conflitto vissuto precedentemente al divorzio”. Ed effettivamente in parte è vero, il conflitto genera malessere nei bambini. Le ricerche più recenti mostrano che per i bambini che hanno vissuto un’alta situazione di conflitto prima della separazione dei genitori, effettivamente il divorzio rappresenta una liberazione. Però i bambini che non hanno vissuto una situazione altamente conflittuale prima del divorzio, vivono invece effetti molto negativi: attualmente, questo tipo di divorzio è il più comune. Si separano sempre più famiglie che non hanno vissuto situazioni altamente conflittuali: a mio parere, oggi questo è uno dei problemi principali. Perciò il divorzio porta ad una maggiore liberazione? In alcuni casi sì, ma molte volte no.
Secondo punto, il divorzio porta a una maggiore uguaglianza? Attualmente vediamo che per molti l’aumento del numero dei divorzi è un segnale positivo. Tutti possono separarsi e il divorzio non è più motivato da ragioni economiche. Ciò che stiamo vedendo attualmente in tutto l’Occidente, ed è vero anche in Spagna e in Italia, è che prima, quando esisteva una percentuale di divorzio molto bassa, le persone delle classi sociali più alte erano quelle che si separavano maggiormente, mentre le persone delle classi meno abbienti si separavano meno. Non è più così. Oggi accade il contrario: le persone delle classi più povere si separano più delle persone che appartengono alle classi meno abbienti. E questo lo abbiamo dimostrato per la Spagna e l’Italia, anzi, forse più per la Spagna che per l’Italia, però comunque anche in Italia questa tendenza sta aumentando. E questo è molto importante dal punto di vista dell’uguaglianza. Perché la domanda non è più se tutti possono separarsi. Piuttosto, la domanda è se le persone che desiderano una relazione per sempre hanno maggiore probabilità di ottenerla se appartengono a una determinata classe sociale. Devo rispondere che la classe meno abbiente ha meno probabilità di avere una relazione duratura. Questo genera un problema soprattutto per i figli. Alcuni dati confermano che la crescita della disuguaglianza, della disparità tra bambini ricchi e poveri si deve al fatto che i bambini poveri hanno più probabilità di vivere in una famiglia monoparentale. Perciò, non ci stiamo dirigendo verso una società con meno famiglia, ma piuttosto meno famiglia per le classi meno abbienti. Sono in realtà quelli che ne avrebbero più bisogno. Bene, questi sono i dati che volevo presentarvi, la conclusione è che per me il dialogo è possibile, anche utilizzando i dati statistici, e sappiano che il dialogo è lo spirito del Meeting. Ma utilizzando la statistica, vediamo che esiste un grande paradosso: da una parte il divorzio è all’ordine del giorno e sempre più per ragioni meno conflittuali. Però allo stesso tempo vediamo che il matrimonio inteso come relazione per sempre continua a far parte dei desideri dei nostri tempi. Sembra che negli Stati Uniti i giovani che desiderano una relazione per sempre o a lungo termine siano aumentati negli ultimi anni. Perciò questo è il paradosso, esiste un grande desiderio ma esiste anche una grande difficoltà a realizzare questo desiderio. Per me, avendo vissuto l’esperienza non solamente grazie ai dati statistici ma grazie al mio matrimonio, il matrimonio in sé è una cosa impossibile. Vorrei spiegarvi per quale motivo e farvi capire in modo molto chiaro il perché di questo paradosso. Vado a citare Rilke. "Questo è il paradosso dell’amore fra l’uomo e la donna: due infiniti si incontrano con due limiti; due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare. E solo nell’orizzonte di un amore più grande non si consumano nella pretesa e non si rassegnano, ma camminano insieme verso una pienezza della quale l’altro è segno". Forse una delle ragioni di tanti divorzi è che tutto questo si è dimenticato. Il matrimonio proposto dalla nostra società è un matrimonio borghese, un matrimonio autoreferenziale che dice che sì, è possibile, è un’opera umana, è in grado di dare pienezza affettiva alla coppia. Però il matrimonio come lo intendo io non è perfetto e non si autorealizza, piuttosto è una relazione nella quale si vive lo slogan del Meeting: Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che ad un tratto ne sei pieno?. Il matrimonio è un luogo in cui uno si scopre costantemente mendicante di qualcosa che accade, non è un luogo di perfezione ma piuttosto un luogo di coscienza dei propri limiti. E questa coscienza è qualcosa che non solamente stimola la realtà ma piuttosto anche gli amici, la comunità e, per me, la Chiesa. Senza questo matrimonio, che è insufficiente senza l’altro, che genera una famiglia decentrata e aperta all’accoglienza dell’altro, sarà sempre più difficile difendere il matrimonio dal divorzio. Grazie.

LORENZA VIOLINI:
Grazie, Anna: oltre ad averci fatto vedere dei dati, delle cose interessanti riguardo ai suoi studi, ci ha fatto vedere una prospettiva che possiamo chiamare, tra virgolette, “religiosa”, una prospettiva che fa presente che l’uomo ha dei desideri infiniti che spesso la realtà, i rapporti, non sono in grado di soddisfare. Ma questa non è una buona ragione per rompere con la realtà, per pensare che la realtà è negativa, per pensare che l’altro è un nemico. E’ piuttosto un motivo per andare al fondo di questo desiderio e scoprire che l’uomo ha dentro di sé qualcos’altro, qualcosa di più grande di lui. Questa, tra l’altro, può essere l’esperienza di tutti. Io ho un’amica carissima, più giovane di me, che dopo avere fatto delle esperienze normali, ha sposato una persona non battezzata, si è sposata in Comune. Insomma, ad un certo punto è arrivata la domanda, il desiderio di poter arrivare anche ad un matrimonio religioso. Di fronte al mio stupore – ma perché, in fondo state bene, i figli – lei ha detto: “Sto cominciando a capire che tra me e lui, per poter essere veramente insieme, c’è bisogno di un altro”. E piano piano questo la fa camminare verso una strada che non ideologica ma è la scoperta di un’esperienza, dove la propria insufficienza non è fonte di disperazione ma di ricerca e di apertura e può essere una domanda veramente feconda per la vita di tutti. Credo ci sia ancora un altro passo da fare, un passo importante, ce ne sarebbero altri mille, ovviamente, ma non vogliamo stare qua fino a domani. Tante volte, quando si propone una certa concezione di matrimonio, di famiglia, di relazione, è come se si prendesse già una posizione, ci si ponesse da una certa parte delle famose barricate che spesso si mettono davanti alle relazioni umane. E’ una cosa che sento abbastanza: mentre ho una concezione forte della vita, della religione, mi piacerebbe essere più in relazione anche con altri, perché dagli altri si impara, si impara sempre, indipendentemente da dove si parte. E quindi, vorrei che Chiara, da sociologa della comunicazione ma anche da persona profondamente impegnata con un’esperienza familiare seria, ci aiutasse a capire. È solo una questione di comunicazione? Possiamo capire di più quello che facciamo? Possiamo comunicarlo meglio? Possiamo essere più interessanti per posizioni diverse, possiamo non tirar su barricate ma abbatterle? In fondo, questo è un problema aperto e tutti dobbiamo essere coscienti che dobbiamo lavorare su questo tema. Perché non sono dogmi, non è la proposizione di proposizioni che può aiutare un dialogo costruttivo. Penso che la professoressa Giaccardi possa darci una mano a fare un passo avanti, quindi do a lei la parola.

CHIARA GIACCARDI:
Intanto spendo due parole per ringraziare di questo invito che ci tenevo moltissimo ad onorare, nonostante non sia in condizioni di salute proprio eccellenti: mi scuso se magari non riuscirò ad essere lucidissima. In ogni caso, quello che voglio dire è già scritto in gran parte in un testo che è stato pubblicato oggi dal Sussidiario, per cui chi vorrà potrà magari riprendere alcuni passaggi. Io svilupperei il mio intervento in una piccola premessa e in tre punti: la premessa risponde in parte alla domanda di Lorenza. Oggi diventa sempre più difficile parlare di famiglia per chi vuole parlarne bene, perché occorre la capacità di non lasciarsi intrappolare nei rischi più comuni che sono, da una parte, le retoriche edificanti, dall’altra le crociate contro, come se per affermare una cosa in cui si crede fosse necessario combattere chi la pensa diversamente. Io credo profondamente nel detto che dice: “Se vedi le tenebre, non imprecare contro il buio ma accendi una candela”. Se abbiamo una luce, facciamola brillare invece di lamentarci del buio che sta intorno. C’è la tentazione, in un mondo sempre più liquido, di fare riferimento a qualcosa di estremamente solido: la famiglia non è un blocco solido, la famiglia è una carne in mutazione, è un “concreto vivente”, come la chiama Guardini. E questa pretesa di solidità, di chiarezza, di distinzione è qualcosa che in questo momento credo non aiuti a parlare della famiglia nel dibattito pubblico. La famiglia non è un ideale, la famiglia è una realtà, come dice bene Anna, una realtà imperfetta, una realtà mancante, una realtà che fa dell’errore e del fallimento il suo pane quotidiano. Ciononostante è una realtà resiliente, che è capace di ospitare l’errore, di andare avanti grazie al perdono, di non cedere alla stanchezza e di rimanere aperta. È uno stare dinamico, è uno stare aperto, è uno stare avventuroso, se si riesce a viverla pienamente. Quindi, impariamo ad usare un altro linguaggio che non sia né quello dell’astrazione un po’ edificante, né quello della battaglia ideologica. Non ci sono schieramenti, se abbiamo un’esperienza da comunicare raccontiamola, è la cosa che possiamo fare. Il primo punto dopo questa premessa è una realtà di cui dobbiamo renderci conto: lo diceva Guardini negli anni ’50, nel suo libro L’etica: “La famiglia è sotto attacco, c’è una tendenza secondo le più diverse prospettive a mettere in discussione la famiglia, anzi a dissolverla”. Quindi, l’attacco alla famiglia non è qualcosa di questi giorni, c’è sempre stato perché la famiglia è il luogo della resistenza alla colonizzazione individuale, è il luogo dove ci si oppone all’assorbimento dell’individuo nel sistema e per questo rappresenta un pericolo per il sistema: è molto più comodo frammentare, secondo l’antico detto “divide et impera”. Quindi, non pensiamo che ci sia un’età dell’oro da rimpiangere, dove tutti sostenevano la famiglia. Non è così. Però credo che ci possiamo dire, con un po’ di umiltà e di onestà, che i nemici della famiglia non sono soltanto fuori ma che noi stessi spesso siamo pessimi difensori della famiglia, perché la rappresentiamo come un ideale astratto, come un modello normativo migliore di altri. Mi ha colpito una frase di Dietrich Bonhoeffer, dice che chi ama il proprio sogno di comunione più della comunione è destinato ad essere distruttore di comunione. Vale anche per la famiglia. Se amiamo un modello astratto più della famiglia nella sua concretezza, rischiamo di essere distruttori di famiglia perché la famiglia non è un modello astratto, non è un ideale. La famiglia è un’alleanza molto concreta. E quindi, quando ci facciamo paladini della purezza di questo modello, credo facciamo un pessimo servizio alla famiglia. Prima Orlando parlava di questo individualismo radicale: la famiglia non si oppone di per sé all’individualismo radicale, anche la sua crisi, più che ai nemici esterni è legata al fatto che non è riuscita a non assorbire questo modello iper individualistico che per certi versi l’ha svilita, sbiadita, snaturata. Quante volte vediamo al ristorante famiglie in cui ognuno guarda il suo smartphone o famiglie che sono semplicemente nidi in cui ciascuno conduce la sua vita, massimizzando i vantaggi personali? Non è questo il modello di famiglia che dobbiamo difendere. La famiglia non è il nucleo ristretto dei legami di sangue, chiuso nel suo appartamento con la porta blindata: non è questa la forma famiglia che dobbiamo difendere, questo è uno snaturamento della famiglia. La famiglia è aperta alla vita: non significa solo che è contro l’aborto, significa che è aperta all’accoglienza, per esempio, significa che tiene le porte aperte e non ha paura dell’alterità, significa che costruisce solidarietà con ciò che le sta intorno. E vedere per esempio le reazioni di tante famiglie cattoliche alla questione dei migranti, dal mio punto di vista dimostra come noi per primi tradiamo la famiglia. Allora, i nemici della famiglia non sono solo fuori, preoccupiamoci prima di tutto di come noi non sappiamo valorizzare questa ricchezza enorme che dovremmo custodire. E qui passo al secondo punto del mio piccolo percorso. La famiglia va custodita perché è ormai l’unico o uno dei pochissimi luoghi in cui è ancora possibile non dico imparare in astratto ma sperimentare alcune verità e alcune dimensioni profondamente umane, il cui accesso altrove è quasi impossibile. Ne cito qualcuna, ce ne sono moltissime: in un mondo in cui vale solo l’efficienza, in cui tutto è organizzato, pianificato, la famiglia è un luogo di inefficienza, è un luogo in cui non funziona niente, è un luogo in cui si perde del tempo, in cui i piani saltano regolarmente: questo ci fa sperimentare, da una parte, il limite ma dall’altra anche la nostra libertà rispetto al modello astratto della pianificazione, dell’autoregolamentazione, dell’autorealizzazione secondo piani da noi prestabiliti e secondo un modello di efficienza che in realtà è costruito sul modello tecnico-economico. In famiglia si sperimenta una dimensione diversa, una dimensione più umana, dove il tempo si scandisce diversamente, dove il tempo è ostaggio dell’altro. Non posso andare in vacanza perché i miei bambini si sono ammalati ma questa non è una tragedia, mi apre un orizzonte diverso, mi insegna che non è la soddisfazione del mio piano ciò che mi rende felice. E questa è una grandissima scuola di libertà. La famiglia è uno dei pochi luoghi di concretezza in un mondo in cui tutto è sempre più astratto, perfino l’essere umano diventa astratto. Ormai perfino l’omosessualità è obsoleta perché c’è il neutro e il neutro è esattamente il sesso della macchina, è l’astrazione massima. Noi pensiamo che non discriminare significhi costruire delle equivalenze inesistenti, che sono pure astrazioni. Allora, in un mondo che diventa sempre più astratto, dove il transumano è disumano, dove si profila un nuovo dualismo che non è più corpo e spirito ma è corpo e potenza, dove il corpo, la mia carnalità, il mio essere diventa un ostacolo allo sviluppo della potenza e dove devo superare individualmente i miei limiti attraverso un enhancement, un potenziamento datomi dalle sostanze per aumentare le performaces, attraverso la tecnica o le biotecnologie. Ecco, la famiglia è il luogo dove supero la mia mancanza con l’aiuto dell’altro, in maniera relazionale e non autistica, individualistica. Uno dei pochi luoghi dove sperimentiamo la potenza di questa alleanza che mi aiuta a superare il mio limite senza cancellarlo ma rendendolo occasione di relazione. In un mondo in cui tutto si conta – noi contiamo ogni cosa, misuriamo tutto a partire dal nostro peso, dalle nostre frustrazioni, dai nostri battiti cardiaci che controlliamo quando andiamo a correre, a partire dai likes, dai followers, dai tweets, da tutto quello che va sotto il nome di quantified self -, il mio self vale nella misura in cui è sostanziato dai numeri. In un mondo in cui tutto si conta e si accumulano dei frammenti slegati fra loro, semplicemente accumulati, la famiglia è il luogo invece dove si racconta, dove si ri-lega, dove si tiene insieme la narrazione, è qualche cosa di fondamentale che noi abbiamo disimparato perché abbiamo messo i figli davanti alla televisione prima, davanti al tablet dopo, ed è un errore grandissimo, perché la narrazione è il modo di tenere viva la memoria di ciò che ci ha consentito di essere qui e di consegnare, di trasmettere una eredità che è anche una responsabilità. Poi i figli la giocheranno come vorranno, ma senza questa trasmissione manca proprio un pezzo della nostra umanità. Maria Zambrano scrive così: “Si vive per davvero soltanto quando si trasmette qualche cosa. Vivere umanamente è trasmettere, offrire, radice della trascendenza e suo compimento a un tempo”. Papa Francesco dice che il tempo è superiore allo spazio, la famiglia non è solo per le persone che vivono insieme, la famiglia è anche una storia che ci precede e che ci seguirà, di cui noi siamo un anello, e fare memoria di questa continuità è qualche cosa che ci rende molto più umani. In famiglia lo impariamo, altrove no. In un mondo dove tutto è scelto e dove la libertà è intesa come quantità di possibilità di scelta – quindi io sono libero se posso scegliere più cose possibili, se posso scegliere tutto -, ecco che la famiglia ci dice che invece si può essere massimamente liberi in situazioni di non scelta, e anzi, i legami che contano di più, gli psicanalisti lo sanno molto bene, sono quelli che non abbiamo scelto e di cui non ci possiamo liberare anche se vogliamo, quindi tanto vale valorizzarli, essere grati e nella gratitudine costruire qualche cosa di buono. Non vale solo ciò che viene scelto perché la scelta è una proiezione del nostro io mentre è sempre l’altro il non io che mi libera da questa prigione. E naturalmente l’altro è scomodo, l’altro rompe le scatole, l’altro mi disturba quando vorrei stare in pace, l’altro mi chiede il mio tempo quando io vorrei usarlo per qualche cosa d’altro. Però, questa che apparentemente è una situazione limitante, in realtà è un’occasione enorme di libertà da se stessi, perché quando noi diciamo che facciamo quello che vogliamo in realtà siamo agiti per la maggior parte dalle nostre paure, dai nostri traumi, dalle nostre abitudini, dal mimetismo sociale di cui siamo vittime. Quindi, che cos’ è la libertà? Scegliere tra 100 prodotti piuttosto che 50, quando poi siamo bombardati dalla pubblicità che ci dice esattamente che cosa scegliere di questi 100 prodotti? La scelta è importante ma è importante giocare la propria libertà nella situazione in cui si è, e la famiglia è il luogo in cui lo impariamo. Mi piace molto un’espressione di Hannah Arendt che dice che l’unica libertà che ci è concessa è la libertà in condizione di non sovranità, mentre le sirene della cultura contemporanea ci raccontano di un io padrone di se stesso, del tutto intorno a te, del power to you, dell’io che può decidere di tutto, compreso se essere maschio o femmina, se essere fluido, come se ciò che siamo fosse totalmente indipendente dalla relazione che ci ha costituito, dalle relazioni con gli altri che si aspettano delle cose da noi. Ma questa aspettativa non è un’oppressione della nostra libertà, è una custodia della nostra identità, caso mai, è un dialogo che ci aiuta a rimanere dentro una sensatezza, a dare una continuità alla nostra vita. Quindi, questo delirio di onnipotenza è veramente il contrario della libertà e la famiglia ci insegna che cosa significa vivere la libertà in condizioni di sovranità, che è l’unica che realisticamente ci è stata data. E infine, in un mondo di individui – appunto Orlando parlava di individualismo radicale – la famiglia ci insegna, ma ce lo insegna con l’esperienza, con la memoria corporea, che la relazione precede l’individuo,. Noi siamo individui perché siamo stati accolti in un grembo e perché siamo nati dall’incontro di un seme maschile e un seme femminile. Oggi si può comprare, mescolare, affittare, ma ciò nonostante questo è il modo in cui nasciamo. Nasciamo dentro la pancia di una mamma e secondo me il surrogato è chi ha comprato, non chi ci mette la pancia, perché comunque un legame si crea, perché comunque chiunque abbia avuto dei bambini sa che dialogo c’è tra la mamma e il bambino che porta nel ventre. Questa non è ideologia, questa è esperienza, tutti noi siamo nati da una madre. Ideologia è il contrario, è chi dice che questo non conta. Questo conta perché è l’esperienza di tutti. Siamo relazione prima che individui e siamo individui perché veniamo da una relazione, quindi la relazione è un prius e la famiglia ci dice questo, la famiglia è il secondo grembo, il grembo della seconda nascita dove impariamo un linguaggio, dove impariamo un sapere esperienziale, dove ci si trasmettono delle cose, delle competenze. Ma questo lo impariamo, la famiglia è ormai l’unica scuola che ci dice che la relazione precede l’individuo. E passo al terzo punto. Il primo è la concretezza, non combattiamo battaglie ideologiche, parliamo dell’esperienza, raccontiamola bene e non contro, portiamo le nostre storie che non vogliono sminuire o mortificare le storie di nessuno ma che vogliono condividere una ricchezza. E parliamo della concretezza, dell’esperienza, non abbiamo bisogno di invocare la dottrina lasciamolo fare ai teologi. Concretezza è il punto fondamentale. L’altro punto, secondo me, è comunità: la famiglia non è un nido ma un nodo, la famiglia non è una tana in cui ci rifugiamo ma deve essere il nodo di una rete. Dobbiamo reimparare l’alleanza tra le famiglie, l’accompagnamento delle famiglie tra loro, l’ospitalità di situazioni fragili, perché non è la buona azione che dimostra che siamo bravi ma il cammino che ci educa ad essere ciò che dobbiamo essere, che ci impedisce di ricadere in quelle forme impoverite in cui la famiglia è caduta oggi nel 90% dei casi: e sinceramente non vedo perché un ragazzo debba prenderle come desiderabili. Allora, il terzo punto è se, come dice Papa Francesco, tutto è connesso. Credo che la famiglia non soltanto sia l’unica scuola in cui impariamo alcune cose ma sia anche, in questo momento di grandissime sfide, un laboratorio dove sperimentare soluzioni nuove per affrontare le questioni. Io, per esempio, credo che la crisi della famiglia e la questione emergenza immigrazione non siano necessariamente due problemi separati, che vadano affrontati in maniera settoriale, ma possono benissimo essere due questioni importanti che si illuminano a vicenda e che possono offrire occasioni di sperimentazione di forme nuove di accoglienza diffusa: famiglie che sostengono i centri di accoglienza, di accompagnamento dei minori non accompagnati in forme diverse, anche leggere. Questa cosa fa bene alla famiglia perché la restituisce alla sua vocazione di grembo che ospita la vita in tutte le sue forme e che l’accompagna. La famiglia esce dalla sua crisi se respira oltre se stessa, se si apre all’esterno, se offre il proprio contributo per rispondere alle sfide del presente, incominciando col pensare a nuove forme dell’abitare. L’idea dell’appartamento è un’idea funzionalista individualista, i soldi sono pochi, le case costano tanto, chi non ha tanti mezzi – lo diceva anche Anna bene prima – si trova poi in difficoltà. Le famiglie si alleino, imparino un vicinato attento, si mettano in condizione di costruire forme di coabitazione, di vicinanza solidale. Ci sono moltissimi modi, c’è una creatività che possiamo esercitare come famiglia in questa direzione, uscendo dalla replica del già visto e avendo il coraggio di sperimentare. Concludo con una citazione di Giussani che ho trovato molto bella. Papa Francesco dice che “tutto è connesso”, e credo che questa sia un’affermazione ontologica fondamentale, perché noi abbiamo imparato a parcellizzare tutto, a frammentare, a perdere la promessa di connessioni. Questo ci ha reso veramente miopi e incapaci di affrontare le sfide del presente. Ma Giussani dice che non soltanto tutto è legato ma che c’è una dimensione sponsale della realtà: è un legame particolare, un legame che ha dentro una promessa. Allora, io credo che questa promessa sia una promessa di felicità, una promessa di salvezza, una promessa di cui noi siamo eredi, che dobbiamo saper trasmettere e che comunque dobbiamo riuscire a custodire, aiutandoci tra di noi perché nessuna famiglia, da sola, oggi ce la fa. Grazie.

Data

26 Agosto 2015

Ora

19:00

Edizione

2015

Luogo

Salone Intesa Sanpaolo B3
Categoria
Incontri