INNOVARE: UNA QUESTIONE DI METODO

In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Gabriella Alemanno, Direttore Agenzia del Territorio; Carlo Camnasio, Presidente e Amministratore Delegato Philips Italia; Carlo Castellano, Presidente e Ceo Esaote; Stefano Storti, Amministratore Delegato Y2K Communication. Introduce Pietro Bazzoni, Amministratore Delegato Know-Net.

 

PIETRO BAZZONI:
Gentili signori e signore, benvenuti a questo incontro della trentesima edizione del Meeting per l’amicizia tra i popoli. “La conoscenza è sempre un avvenimento”, ovvero è il dato che si impone all’individuo, è il modo con cui la realtà provoca ciascuno di noi e nell’impatto con la realtà, con ciò che accade, con le persone che incontriamo, siamo chiamati ad agire e ad essere vivi. L’incontro di oggi, dal titolo “Innovare: una questione di metodo”, è una grossa provocazione perché se il dato della conoscenza attinge a questo incontro continuo con la realtà, qual è il metodo con cui noi rispondiamo, ovvero qual è il modo con cui conoscendo noi usiamo della nostra conoscenza? Perché conoscere implica poi l’uso che di questa conoscenza si fa nella nostra attività, nella nostra professione, nella nostra vita, nel fare una famiglia, nel vivere una comunità, nel lavorare. Per conoscere è sempre importante incontrare qualcuno. L’incontro di oggi ci onora della presenza di quattro testimoni, di quattro uomini – e donne, perdonami Gabriella. Quindi è anche un onore poter incontrare personaggi che affrontano delle sfide belle e affascinanti, donne e uomini. Con noi ci sono poi Carlo Castellano, un altro uomo che ha vissuto un’esperienza di innovazione continua, da anni, segnato anche nella sua persona dal suo essere vivo, dal suo essere uomo mai domo; uomini come Carlo Camnasio, che porta avanti in Italia, in Grecia, in altri Paesi dell’area a Sud dell’Europa un’azienda importante come Philips, oltre che nel suo incarico specifico nell’ambito delle cure mediche; uomini come Stefano Storti, che lavora nell’ambito delle telecomunicazioni. Tutti uomini che la realtà provoca continuamente e che sono chiamati a reagire su questo. Allora non voglio più togliere tempo alla loro testimonianza e chiedo subito a Gabriella di raccontarci di lei, di raccontare come lei usa la sua conoscenza. La sua è una storia interessante, poteva essere la storia di una donna che poteva accontentarsi, poteva rimanere in posizioni di altissimo prestigio, di altissimo valore e poteva non accettare il rischio di andare continuamente oltre. Invece lei ha accettato questo rischio, quindi la domanda che io giro a tutti voi è proprio questa: come si fa a usare della conoscenza continuamente, per non essere mai domi e per andare ad innovare, cioè ad aderire alla realtà?

GABRIELLA ALEMANNO:
Allora grazie dell’opportunità che mi hai offerto, grazie a tutti voi per essere presenti. Le provocazioni sono varie, la prima che mi viene in mente è quella al femminile, però magari ne parliamo dopo anche perché, siccome abbiamo già chiacchierato con Bazzoni prima di questo incontro, si era parlato di differenza uomini – donne, io ritengo sempre che ci sia nel mondo maschile una componente maschilista molto predominante e citavo l’episodio di una persona che ho incontrato ieri e che mi comunicava che Gianluca aveva partorito, quindi questo per dire che c’è sempre questo aspetto. La conoscenza è sempre un avvenimento, lo è assolutamente, perché ogni giorno in cui si incontra qualcuno, si è a contatto con una realtà nuova, con una situazione nuova, c’è sempre la capacità di coglierla questa conoscenza, c’è sempre la possibilità di innovarsi e di crescere. Io credo che questo sia l’aspetto importante, la conoscenza è un avvenimento ma io credo che dia in modo particolare la possibilità ad ognuno di noi di crescere, perché la conoscenza è un modo per acquisire una crescita in tutti campi, professionale e personale. Direi che quindi è fondamentale il confronto con gli altri, il dialogo, la comunicazione con tutti coloro che noi incontriamo. Ovviamente il tema della conoscenza e quindi dell’arricchimento che noi possiamo acquisire attraverso la quotidianità, introduce il concetto di innovazione, che è quello che dobbiamo affrontare nella giornata di oggi. Devo dire che innovazione secondo me vuol dire tante cose, perché è chiaro che se dovessi dare una definizione di innovazione in quanto tale, potrei dire che è aggiungere elementi nuovi al già esistente o creare qualcosa di completamente nuovo mai visto prima, possibilmente con un valore economico rispetto a quello che esisteva prima del momento in cui abbiamo aggiunto qualcosa, ma io credo che al di là di questa definizione più o meno approssimativa, innovare per me vuol dire più o meno declinare questo termine in diversi modi. Innanzitutto per me innovare, e poi posso raccontare quello che realmente sto facendo nel mio mondo professionale, per me innovare è sicuramente un aspetto importante, avere la volontà di cambiare ma attraverso valori e principi etici, è uno degli aspetti fondamentali che ritengono siano da perseguire, perché è chiaro che se io parlo di innovazione la coniugo al termine tecnologia, perché ormai si pensa che l’innovazione sia solo tecnologica. Io inserisco nel termine innovazione, un meccanismo, che è quello dell’applicazione informatica che sicuramente può migliorare o che introduce un processo o che può anche essere un meccanismo per migliorare l’organizzazione di un determinato processo, ma io ritengo che il termine innovazione debba essere non rapportato soltanto a qualcosa di materiale, ad un elemento contingente che sicuramente può migliorare l’organizzazione o il processo di un sistema, ma debba essere qualcosa che deve essere strettamente connesso a valori e principi. Nello stesso tempo innovare può essere espressione di crescita culturale, quindi voglio dire, quando noi parliamo di innovazione, quindi anche di conoscenza, dobbiamo mettere insieme tutta una serie di sistemi che appunto sono di diversa natura e che non sono necessariamente acquisizione di elementi nuovi rispetto a quello che avevamo già acquisito, vuol dire coniugare tutta una serie di altri fattori che per me danno completezza ad un obiettivo che uno vuole perseguire. Questo è un concetto un po’ generale che io ho cercato di dare o come io sento l’innovazione, la conoscenza, il rapporto con gli altri. Se questi concetti che ho buttato giù in maniera sintetica e immediata, se poi devo anche declinarli o comunque spiegarli rispetto alla mia esperienza professionale, devo dire che ho dimostrato con i fatti di aver avuto la volontà di volermi mettere sempre in discussione, quindi di fare una conoscenza che per me è stata un avvenimento e che sicuramente mi ha innovato, perché io ho tutta una storia che è una storia nella pubblica amministrazione e legata al Ministero dell’Economia, ex Ministero delle Finanze, adesso Ministero dell’Economia e della Finanza, ma che, per una serie di circostanze che si sono verificate, che forse mi hanno anche favorito, mi ha obbligato a rimettermi sempre in discussione. Io ho fatto delle esperienze diverse nel mio percorso professionale, partendo da una mia storica vocazione al tributario per poi invece gestire altri settori del mondo dell’economia, che erano completamente diversi da quelli per i quali ritenevo di avere una certa vocazione professionale. Il fatto oggi di essere una donna a capo di una struttura importante, un’agenzia fiscale fatta da 10.000 uomini e donne, è per me una grande sfida e la ritengo anche una grande opportunità e sono anche molto onorata di questo, anche perché ho conosciuto una nuova realtà che mi ha dato altri stimoli e volontà di innovazione, sono messa in contatto con una realtà diversificata sul territorio, caratterizzata da 103 uffici provinciali e 15 sezioni regionali, che ha un sistema di informatizzazione assolutamente sofisticato. Se voi vi connetteste al nostro sito (www.agenziaterritorio.it), avreste a disposizione un cosiddetto ufficio virtuale, dove tutti i vari servizi collegati al catasto, alla pubblicità immobiliare, all’osservatorio del mercato immobiliare, alla cartografia, li potreste trovare da casa e avere tutte le informazioni che vi interessano. Quindi io devo dire che è una realtà che ho trovato, quindi non c’è più niente di quello normalmente che il termine catasto evoca all’immaginario collettivo, cioè polvere, cataste di libri e quant’altro. Oggi il sistema catastale italiano è un sistema assolutamente sofisticato e molto informatizzato, dove l’uso della tecnologia ha dimostrato di aver fatto dei percorsi assolutamente innovativi, anche proprio in ambito europeo. Io mi sono trovata in una realtà molto maschile, ho cominciato a pensare che fosse importante l’ascolto dei dipendenti e quindi lavorare più che sulle strutture informatiche e i servizi che sono già all’avanguardia e che comunque devono essere migliorati e perfezionati, lavorare molto sul personale, sulla realtà operativa e questo lo sto facendo introducendo dei linguaggi che per l’Agenzia del territorio sono assolutamente nuovi. Ho introdotto una missione, una visione e stiamo lavorando, anche perché questo è in totale sintonia con quello che il ministro Tremonti ha lanciato, alla declinazione di una serie di principi, quelli di responsabilità dei dipendenti, attraverso ……

PIETRO BAZZONI:
Faccio subito il provocatore con te: ma non ti è venuta la tentazione, all’interno del tuo percorso di crescita, ad un certo punto di fermarti, non l’hai mai avuta?

GABRIELLA ALEMANNO:
No, perché? Perché mi devo fermare?

PIETRO BAZZONI:
Bene, poi cercheremo di capire perché sei così, è una domanda un po’ a bruciapelo, però è proprio la questione che secondo me interessa ciascuno di noi, cioè a ciascuno di noi interessa il fatto di non essere mai domo. L’innovazione è questo processo con cui costantemente mi rimetto in gioco. Gli antichi greci avevano un detto: quando gli dèi vogliono la fine di un uomo, gli garantiscono 40 anni di successi. Al giorno d’oggi basta probabilmente molto meno, forse uno o due anni, però il punto di criticità per ciascuno di noi è interrompere il processo di conoscenza, ritenere di sapere, di essere arrivati. Allora, passo subito la parola a Carlo Camnasio perché ci racconti della sua esperienza.

CARLO CAMNASIO:
Buongiorno a tutti, grazie dell’invito al Meeting per questo lavoro di oggi, che da quanto ho capito nella piccola discussione fatta precedentemente all’incontro, vorrebbe essere anche proprio un lavoro, quindi aperto a domande. Io mi limito ad introdurre l’argomento partendo da una premessa: io lavoro in Philips da tanti anni, facendo prima lavori tecnici poi un pochino più legati al marketing e adesso di gestione globale della nostra attività. Però vorrei partire da questo: secondo me l’innovazione è un termine che è molto di moda, lo sta diventando sempre di più, l’importante è capire che, essendo molto di moda, rischia di diventare un termine generalizzato, mentre secondo me per capire bene che cos’è innovazione, bisogna andare nello specifico delle attività delle persone e delle società, per capire fino a che livello il termine innovazione viene modificato. Devo dire che parto da un punto di vista un po’ privilegiato, perché lavorare in una società come Philips per tanti anni, che è una società che ha un po’ nel suo DNA la questione dell’innovazione, mi ha permesso di capire un pochino meglio che cosa vuol dire, che cosa può portare, che miglioramenti può dare alla vita anche delle persone. Dico quindi qualche concetto all’inizio, che l’innovazione sicuramente costituisce nello scenario economico globale uno degli elementi decisivi per la competitività delle imprese, non se ne può fare a meno, perché se non si innova, le imprese si fermano. Oltre tutto in un momento come quello attuale, dove ci sono già difficoltà molto importanti da un punto di vista generale, economico e finanziario. L’innovazione può aiutare ad uscire da questo stand-by, quindi sicuramente l’innovazione non è un di più ma è la condizione perché l’attività economica possa crescere. L’innovazione per essere realmente utile, non può essere un concetto generico, utilizzato ultimamente un po’ come il toccasana di molti problemi, ma è un’opportunità per rispondere in maniera adeguata ai bisogni reali delle persone, partendo dalla conoscenza della realtà. Per cui io lego molto il fatto innovativo e quindi la parola innovazione proprio alla parola innovazione, per cui io credo che la parola innovazione non venga utilizzata a sproposito nella misura in cui è legata alla conoscenza. E’ dalla conoscenza che l’innovazione può prendere vigore e aiutare anche in un clima generale di preoccupazione come quello attuale. Ma per questo occorre capire che la conoscenza e quindi l’innovazione non sono riducibili al solo ambito scientifico e tecnico, questo è un punto molto importante, ma mettono in gioco il soggetto, cioè mettono in gioco la persona, chi fa l’innovazione e anche gli enti che fanno innovazione. Si mette in gioco la persona che fa innovazione, quindi è un approccio nuovo che dobbiamo sostenere, che scardina magari il modo di lavorare di tanti anni passati, dove questo modo di lavorare non era così chiaro. Per questo il titolo dato oggi da Buzzoni, “Innovare: questione di metodo”, io lo vedo in questo modo, che innovare è una questione di metodo, perché richiede sempre la verifica attraverso la conoscenza. Ecco se voi siete stati al Meeting in questi giorni o siete arrivati oggi, secondo me dovreste andare a vedere la mostra di Galileo, perché la mostra di Galileo è proprio l’esempio di questo, del fatto che è una conoscenza che crea innovazione, tant’è che ricorrono quest’anno i 400 anni dell’anniversario dell’utilizzo del cannocchiale di Galileo, e Galileo ha impostato proprio la sua attività da questo punto di vista, nel lasciar parlare la realtà, nell’osservare la realtà, trarne delle conseguenze e quindi muoversi di conseguenza dal punto di vista di quello che lui aveva capito. Quindi conoscere vuol dire lasciar parlare la realtà ed essere così in grado di fare previsioni e innovazioni. Faccio un piccolo nota bene: ad esempio è possibile, nel mondo attuale, calcolare e misurare, questo permette all’uomo moderno di costruire ad esempio i ponti, noi non dobbiamo costruire tre ponti cercando di vedere se stanno in piedi prima di fare il quarto, noi possiamo calcolare e misurare, questo vuol dire conoscere e innovare, quindi trovare il modo di dare spazio ad un’attività con un sostrato oggettivo concreto. Però oltre a questo volevo soffermarmi un pochino di più su quello che è stata anche la mia esperienza, visto che il dibattito di oggi è aperto anche a raccontare l’esperienza di testimonianza personale. Io in tutti questi anni ho lavorato molto nel settore della sanità, e devo dire che le tecnologie medicali sono molto l’occasione per definire e determinare questa metodologia dell’innovazione. Pensate ad esempio quando si pensa ad un nuovo prodotto, ad un nuovo processo di utilizzo nel settore della sanità, sicuramente da che cosa bisogna partire? Dal paziente, da chi lo utilizza, per cui bisogna tenere conto che l’obiettivo finale è sicuramente il benessere del paziente, quindi non solo il prodotto da fare, da costituire, da produrre, quindi con tutto quello che serve nella complessità di quello che c’è all’interno, ma anche a chi serve e quindi come serve, come deve essere sviluppato. Sicuramente poi deve essere anche sviluppato tenendo conto di chi lo sviluppa, quindi del medico; come sapete in questo momento abbiamo la possibilità, attraverso l’informatica, di milioni di dati disponibili, quando andate in ospedale e fate un esame il medico può avere a disposizione esami di tutti i tipi che deve valutare, deve integrare con altri, deve alla fine fare una diagnosi, quindi si può innovare cercando di dare un aiuto al medico nel semplificare il modo con cui fa le cose, poi ne vedremo degli esempi. Quindi innovare non vuol dire soltanto creare un prodotto nuovo, innovare vuol dire un modo con cui si legge la realtà, un modo con cui si risponde ai bisogni delle persone a partire dalla conoscenza e così le aziende, non solo la nostra, non possono che stare legate a questo modo di lavorare e sempre di più in futuro sarà così, perché le innovazioni, i prodotti nuovi, i processi nuovi, dovranno essere legati ai bisogni reali delle persone, oltre tutto, nel momento attuale, in cui stiamo vivendo una crisi molto forte molto importante, si vede che tanti problemi laterali vengono sfrondati e si va sul cuore di quello che interessa. Vi faccio solo due o tre esempi. Dico cosa può voler dire questo nel settore che ho seguito tanti anni, il settore medicale. Ad esempio, nella costruzione e definizione di sistemi che noi chiamiamo ibridi, vuol dire che quando voi andate in ospedale e vi fate un esame diagnostico, normalmente fate una radiografia, una risonanza magnetica, una tac, adesso è possibile con i nuovi strumenti fare degli esami contemporanei, combinati, che vengono appunto chiamati ibridi. Qual è il vantaggio di questo? Che il paziente va una volta sola in ospedale, ma soprattutto che il medico può comparare direttamente ad esempio problemi di tipo anatomico, come si possono vedere da una risonanza magnetica, con problemi di tipo funzionale, come quelli che si possono vedere da una medicina nucleare, vederli contemporaneamente, vedere le due immagini e questo già oggi esiste. Se voi chiedete in una clinica di farvi questo tipo di analisi sono disponibili, si chiamano tac pet oppure risonanze con la pet, ma ciò che è nuovo e sarà disponibile non immediatamente, ma diciamo nel giro dei prossimi due o tre anni, sono addirittura sistemi che permettono di fare la diagnosi e la terapia immediatamente, quindi con un vantaggio ancora più grande. Questi sono le risonanze con gli acceleratori lineari, quindi ad esempio una risonanza vede l’immagine, vede dov’è il problema oncologico e immediatamente subito può fare la terapia, col grosso vantaggio di fare la terapia ad un tumore immediatamente, senza dover aspettare una settimane, due, tre o quattro e verificare subito se l’effetto è positivo o no, quindi con un grossissimo vantaggio per i pazienti e per i medici. Ma era solo un esempio, per far vedere come l’innovazione deve essere applicata. Un altro esempio, sempre stando legati al campo della sanità, è quello che noi chiamiamo ambient- experience: ad esempio, quando vengono portati in ospedale i bambini nella pediatria per fare degli esami diagnostici, il problema è sempre quello di tenere fermi questi bambini, perché se si muovono non è possibile fare l’esame. È stata pensata la possibilità di creare degli ambienti dove questi bimbi vengono inseriti, per fare questi esami, all’interno di un contesto che li rende più tranquilli. Abbiamo fatto un accordo con Disney per poter creare delle sale dove all’interno di una risonanza magnetica, dove i bambini vengono inseriti per fare l’esame, ci siano dei filmini di Topolino e Paperino che vanno, della musica, delle luci particolari. Quindi l’innovazione non è soltanto nel senso di costruire un nuovo prodotto, ma anche di come questo viene utilizzato, viene installato nella struttura dove lo portiamo. Dico solo un’ultima cosa. Mi sembra di poter dire che in questi anni, sicuramente nel settore tecnologico e dell’innovazione, sono stati fatti sicuramente dei passi da gigante. Se penso, guardando non solo il settore medicale ma in generale, se penso a mio nonno, a mio padre, non avrebbero mai pensato di avere a disposizione un telefono cellulare, pensate oggi col telefono cellulare che cosa riusciamo a fare, possiamo connetterci da qui agli Stati Uniti, da tutte le parti immediatamente oppure a Internet, a come internet permette di fare questo tipo di collegamenti in modo immediato. Quindi vorrei dire questo, che innovare non significa necessariamente inventare qualcosa di nuovo, ma di certo significa cambiare le cose che già conosciamo, sfruttando le conoscenze disponibili per generare un significativo miglioramento nel benessere della vita di tutti. Questo è quello che secondo me dovremmo tendere sempre di più a fare e da questo punto di vista le società, oggi, non solo la nostra, lavorano su questo principio della opening innovation, cioè la possibilità di essere aperti, di collaborare con l’Università, gli istituti di ricerca, anche con altre società, per sviluppare insieme, perché oggi non esiste più il genio che fa l’invenzione, ma esiste chi all’interno di una struttura può sviluppare questo tipo di approccio.

PIETRO BAZZONI:
Approfitto di questo momento, tra i primi due interventi e i secondi due, per scusarmi con tutti quelli che ci stanno seguendo nelle sale collegate qui lateralmente e all’esterno della sala; purtroppo abbiamo avuto una quantità di partecipanti a questo incontro, superiore al previsto e di conseguenza stiamo andando in mondovisione, quindi non preoccupatevi; un saluto però a tutti quelli che fuori al caldo ci stanno seguendo in questo momento e un ringraziamento a loro. Adesso lascerei la parola a Carlo Castellano, presidente di Esaote Italia, ricordandovi anche che questo è un focus, per cui alla fine di questo primo giro di domande, chi di voi volesse porre delle domande ai nostri relatori ha la possibilità di farlo, per cui abbiamo l’occasione di interagire direttamente. Carlo Castellano.

CARLO CASTELLANO:
Grazie, grazie per l’invito, ma io volevo fare una breve premessa e poi rapidamente dirvi un po’ la nostra esperienza come Esaote. Qual è la premessa che volevo fare? Io volevo in qualche modo porre in discussione l’assunto che è stato dato al titolo di questo nostro incontro. L’innovazione, secondo me, non è una questione di metodo ma di persone, cioè vorrei in qualche modo rovesciare il discorso che è stato indicato come punto di partenza. O meglio, proviamo un po’ a spiegarci: il metodo consiste nel valorizzare le capacità innovative e cooperative delle persone che lavorano nell’impresa. Questo si può ottenere in modo diverso, è evidente, ma soprattutto, direi, scegliendo le persone con potenziale e creando le condizioni per far sì che queste possano lavorare al meglio, organizzando il lavoro di squadra e l’integrazione tra i gruppi e le funzioni diverse in un’azienda. Ma per far questo è decisivo individuare degli obiettivi forti, delle sfide impegnative, e sentirsi partecipi di un grande progetto innovativo. Quindi potrei dire in qualche modo che il metodo è un modo di lavorare, non è soltanto un fatto tecnico e organizzativo, e sia chiaro, le imprese non sono certo un luogo idilliaco, tutt’altro, l’azienda è la sede di continui confronti e anche direi di conflitti a volte durissimi, e chi ha ruoli apicali, chi ha responsabilità apicali, di comando e decisione, deve essere in grado di svolgere questo suo ruolo, diventando autorevole nei confronti di tutti coloro che lavorano con lui, soprattutto con coloro che lavorano, diciamo, al di sotto della sua realtà. Operare in squadra e fissare target difficili, alimenta tensioni e conflitti, ma proprio questa è l’impresa creativa, quella che riesce a mettere insieme da un lato un lavoro di squadra, riesce a fissare dei target impegnativi e in questo modo riesce a gestire il conflitto, e in questo modo c’è creatività nell’impresa. Lavorare insieme vuol dire riconoscere ruoli e responsabilità di ciascuno, esaltando il fattore umano per far sì che tutti si sentano coinvolti e partecipino attivamente per un obiettivo comune. Ho voluto fare questa premessa perché fa parte in qualche modo della storia della nostra azienda, di cui in pochi minuti vi darò qualche elemento di riferimento. Senza questa premessa a mio avviso non si potrebbe capire che cosa è successo in questa azienda, Esaote e comprenderne il successo. Esaote è un acronimo in cui ci sono tante cose: Elsag Seleni Ansaldo Officine Toscane Elettromeccaniche, quindi un grande casino, ma un casino creativo. Come nasce Esaote? Esaote nasce a Genova all’inizio degli anni ’80, nell’ambito dell’Ansaldo, allora gruppo Iri Finmeccanica. L’iniziativa partì da zero, non esisteva allora alcuna esperienza nel nostro gruppo di elettronica biomedicale, di diagnostica medicale, di apparecchiature medicali. Io ho assunto la prima persona nel marzo 1981 e le ho dato l’incarico, ero allora responsabile della pianificazione degli studi del gruppo Ansaldo, mi era venuta questa idea balzana di dire che forse allora c’era qualche possibilità di fare qualcosa nel settore dell’elettronica biomedicale, e le ho dato l’incarico di studiare la fattibilità di questa iniziativa. Oggi è l’amministratore delegato dell’azienda, e nel giro di pochi anni questa azienda italiana punta su apparecchiature diagnostiche, siamo concorrenti con l’amico carissimo Carlo Camnasio, ma non soltanto con lui, con altre aziende anche, e abbiamo individuato dei settori nei quali potevamo diventare in qualche modo protagonisti a livello internazionale, il settore dell’ecografia e poi della tomografia, risonanza magnetica dedicata e infine successivamente l’information technology per la sanità. Ecco, noi investiamo subito in attività di ricerca e sviluppo, nel 1982, nel giugno, quindi un anno dopo aver iniziato lo studio, siamo riusciti a firmare un accordo con l’Hitachi medica di Tokio per vendere in Italia le apparecchiature dell’Hitachi con marchio Ansaldo. Però sapevamo che quello era soltanto il modo per capire quello che stava succedendo, evidentemente il nostro compito non era quello di vendere apparecchiature di terzi, ma quello di produrle noi direttamente e abbiamo investito pesantemente nella ricerca e sviluppo e nella storia di Esaote è stata determinante la ricerca di leadership, sia in Italia che a livello mondiale, perché soltanto a livello mondiale c’era la possibilità di giocare una partita e già alla fine degli anni ’80 abbiamo comprato una prima azienda negli Stati Uniti. Ma l’elemento fondamentale della nostra key story è stato costituito dal fattore umano: da subito tutte le persone di Esaote si sentirono coinvolte e partecipi di un progetto fortemente innovativo: lavorare in squadra per una sfida difficile ma di straordinario interesse. Noi volevamo allora, e continuiamo oggi a crederlo, che potevamo essere un protagonista a livello mondiale nelle tecnologie diagnostiche della salute, e abbiamo quindi ricercato da subito una flessibilità nell’organizzazione aziendale, nella compattezza del management, nell’entusiasmo e nella dedizione di tutti coloro che lavorano in questo gruppo. E non è un caso che Esaote è stata l’unica esperienza di successo di uscita dalle partecipazioni statali nel 1994, tramite un management by out, ci siamo comprati l’azienda. Quando la Finmeccanica ha messo in vendita l’azienda, l’abbiamo comprata, evidentemente mettendo i nostri risparmi che erano pochi rispetto a quello che era il totale del capitale necessario, ma tutti i 24 dirigenti di allora hanno partecipato a questa iniziativa. Ora siamo uno tra i dieci Top Ten World Leading Diagnostic Imaging Company, insieme ai mostri sacri dell’imaging diagnostico, abbiamo qui a fianco la Philips ma c’è la Siemens, Toshiba, Hitachi, che sono grandissimi e poi abbiamo Shimatzu. Noi siamo l’unica azienda totalmente italiana, valutata tra le prime dieci al mondo come società che opera nel settore della tecnologia. Alcuni dati rapidissimi, vado veloce. Nel 1983 abbiamo fatto neanche 2 milioni di euro, allora erano in lire, li abbiamo evidentemente convertiti tutti quanti con apparecchiature dell’Hitachi; l’anno scorso abbiamo fatto 295 milioni di cui le apparecchiature di terzi contano neanche il 10%. Il 90% è nostra tecnologia, quest’anno supereremo i 300 milioni di euro. Il fatturato Italia / estero, prediamo i dati degli ultimi 15 anni: nel 1993 era 40 milioni all’estero, oggi siamo arrivati a 170 e quest’anno andremo a 190 milioni dell’attività all’estero. Ho detto prima che nel luglio 1994 abbiamo fatto un innovativo management by out e siamo usciti dal gruppo Finmeccanica, abbiamo, i 22 dirigenti di allora, assunto complessivamente il 16% del capitale della società, nei mesi successivi abbiamo lanciato un prestito obbligazionario che stato sottoscritto dal 53% dei dipendenti. Nel gennaio del 2006 abbiamo fatto un secondo management by out, con capofila Intesa San Paolo, al quale questa volta hanno partecipato 100 tra dirigenti e manager del gruppo, i quali sono azionisti della società. Noi abbiamo, andiamo avanti rapidissimi, tanto per dare alcune idee dei dipendenti: il primo dipendente l’ho assunto in Ansaldo nel 1981, oggi siamo oltre 1300, di cui 720 in Italia e 560 all’estero, quasi 200 in Cina. Dei dipendenti nell’attività di ricerca e sviluppo, abbiamo 260 persone che sono nella ricerca e sviluppo, l’anno scorso abbiamo prodotto 9000 ecografi e siamo tra i primi protagonisti insieme Philips, Siemens del settore dell’ecografia e abbiamo prodotto e abbiamo installato oltre 100 tomografi a risonanza magnetica dedicata, l’anno scorso e di questi ne abbiamo installati circa 350 negli Stati Uniti. Nel 1993, quando abbiamo fatto il primo by out, avevamo Genova e Firenze come due siti e avevamo comprato un’azienda a Indianapolis, una a Monaco in Germania, una a Parigi. Oggi è un gruppo a livello multinazionale, di cui la Cina per noi rappresenta una grandissima realtà in fortissima crescita e investiamo ogni anno 27 milioni.
Noi in tutti questi anni, abbiamo sempre chiuso i bilanci in utile. E oggi abbiamo una redditività, nonostante gli investimenti in ricerca e sviluppo, che è rilevante e significativa. E nei primi mesi di quest’anno, nonostante la crisi drammatica a livello mondiale, abbiamo già registrato nel primo semestre una crescita del fatturato consolidato del 7% e questo rappresenta quello che stiamo facendo nei paesi come la Cina, l’India e il Brasile. Da alcuni anni stiamo investendo in questi paesi, la Russia ci sta dando delle sofferenze in questo momento, ma Cina, India e Brasile sono per noi punti di riferimento importanti. Arriviamo alle conclusioni. Noi pensiamo che si può competere con i grandi gruppi multinazionali, partendo dall’Italia, a patto di avere alcuni punti fondamentali: una chiarezza strategica e una capacità di valutare e accettare alti rischi di impresa, scelte di prodotti di mercato. Noi eravamo ad esempio nella Risonanza Magnetica Total Body e siamo usciti; abbiamo visto che era impossibile per noi competere con Siemens e Philips e Generale Electric e siamo usciti di lì e abbiamo dedicato i nostri sforzi su apparecchiature specifiche, in cui siamo leader a livello mondiale, nella RM dedicata alle articolazioni. Una capacità di gestire processi mutevoli in velocità, facendo della flessibilità un cardine della prassi aziendale (noi siamo piccoli ma dobbiamo competere con dei grandi colossi e possiamo essere competitivi), la capacità di produrre ricchezze innovando e gestendo prodotti e servizi ad alto valore clinico e infine questo straordinario spirito di squadra e un forte coinvolgimento e motivazione di tutte le persone. Un’ultima considerazione e ho finito: nel nostro Paese, il settore delle tecnologie medicali è purtroppo in larghissima parte dipendente dall’importazione. Oltre l’80%, possiamo dire anzi l’85%, per pudore ho scritto l’80%, delle apparecchiature installate negli ospedali e nelle cliniche italiane è di produzione estera. Alcune delle aziende estere, e qui c’è Philips, in passato producevano, avevano delle attività in Italia; poi sono andate via. E questo è un motivo per il quale c’è un grosso interrogativo: perché è difficile investire in Italia nell’ hi-tech? Ecco noi siamo tra le poche realtà industriali del biomedicale, realtà industriali italiane; nelle tecnologie che produciamo siamo leader in Italia e di gran lunga siamo i principali esportatori – oltre il 36% del totale export del nostro settore è fatta da Esaote. Noi pensiamo che il mondo medico-scientifico italiano possa avere, ed è importante che abbia, un interlocutore tecnologico industriale che sviluppa innovazione e progetta soluzioni tecnologiche in Italia. E questo è importante per noi, perché abbiamo un riferimento nel mondo medico-scientifico, ci sono delle eccellenze medico-scientifiche in Italia e cliniche, ma è importante anche per il mondo italiano. Noi vogliamo continuare a lavorare in questo modo, però il Paese deve rendersi conto che bisogna investire nell’hi-tech. Vi ringrazio.

PIETRO BAZZONI:
Grazie, professore. Passo ora la parola a Stefano Storti, amministratore delegato di Y2K Communication.

STEFANO STORTI:
Correggo subito Pietro, visto che si dice Y2K Communication, così visto che non è conosciuta finiamo male… ringrazio da subito il Meeting, che ha voluto farmi la sorpresa di questo invito. Quando ho visto il titolo sotto il quale avrei dovuto tenere la mia relazione, pensavo avessero sbagliato, perché in realtà questa è una parola che a me non piace molto. In realtà, come diceva prima il collega di Philips, è una parola parecchio utilizzata e spesso abusata. Normalmente viene anche usata come escamotage per parlare di qualcosa che poi nella sostanza non si realizza. Però mi ha incuriosito, perché man mano che cercavo di affrontare le due parole che sono nel titolo, cioè innovare come metodo, mi accorgevo che c’era qualcosa di interessante e di comune tra le due parole. E mi accorgevo che questo legame è dato dalla parola guardare. Ho avuto un’ulteriore conferma, venendo al Meeting, che la possibilità di innovare, di imparare un metodo, siano possibili a partire da come si guardano le cose. Quindi il titolo la “conoscenza è sempre un avvenimento” è pertinente, nel senso che è solo un occhio attento, come ci ricordava prima Carlo rispetto alla mostra di Galileo, o alle belle cose che abbiamo visto in questi giorni, un occhio e un cuore attenti che possono rendersi conto, imparare qualcosa dalla realtà e forse imparando, ascoltando, osservando, possono permettere un cammino di conoscenza che è anche innovativo. Cerco di raccontare in breve quali sono le parole chiave…perché mi servono per ancorare alcuni concetti che nella mia esperienza personale sono stati importanti e lo sono tutt’ora. Io ho iniziato a lavorare nel 1986, prima dicevo che era un’epoca in cui si usava ancora il termine impiegato, adesso non si usa più, si usa manager, uno il primo giorno di lavoro è già manager, poi si rende conto che in realtà non ha ancora imparato a usare la macchinetta del caffè. Ma per me quell’epoca è stata un’epoca di grandi occasioni, perché mi è capitato di fare l’esperienza di dovere obbedire, la quale, mi sono reso conto qualche anno dopo, è un’esperienza che è fondamentale nella vita, perché l’avventura del lavoro per uno che inizia, è un’avventura nella quale davvero tutto è da scoprire. Tu non sai nulla, cosa puoi imparare? Puoi imparare da qualcuno che incontri. In quegli anni, all’inizio, ho dovuto obbedire, è stata una grazia e di questo ne sono consapevole oggi. Il percorso è stato questo: due piccole agenzie di comunicazione, poi una decina d’anni in due multinazionali, nell’ambito della comunicazione e del marketing, che in quegli anni era particolarmente in spolvero, cioè erano anni nei quali la comunicazione e la pubblicità vivevano un momento di grande gloria. Nel 1994, rispondendo casualmente a una telefonata, tra l’altro era l’anno in cui aspettavamo il primo figlio e quindi avevo anche esigenza di migliorare la condizione economica della famiglia, decisi di interrompere la carriera di impiegato, non di smettere di obbedire, ma di affiancarmi a una iniziale avventura imprenditoriale che poi, nel 1999, è diventata Y2K. Accadde che incontrai un nostro fornitore che aveva l’azienda di pre-stampa e aveva in mente di mettere in piedi una società di comunicazione diversa da quelle che in quel momento si trovavano nel mercato. Vi spiego cosa accadeva in quegli anni. C’erano le agenzie di comunicazione e le aziende di produzione. Le aziende di produzione lavoravano in maniera verticale su media diversi. Allora internet era solo una parola, ma il nostro sogno fu quello di mettere insieme tutto questo livello di competenze. Questa cosa non era mai accaduta in Italia. Devo dire che per molti anni siamo rimasti da soli, e anche oggi non sono tantissime le esperienze. Quindi è nata con questa intenzione. La prima parola che ho usato è la parola “obbedire”, alla quale si lega la parola guardare, perché obbedisci a qualcuno, vai dietro. Cercando di recuperare l’etimologia della parola “metodo”, ho scoperto che dal greco vuol dire “andare dietro”. E questo aspetto nel lavoro è decisivo. Così come un’altra parola, che devo dire emerge in qualsiasi esperienza innovativa, l’uomo normalmente si trova a fare l’innovatore quando fa i conti sinceramente con il bisogno che ha. Moretti Polegato ha inventato le Geox, che hanno le fessure per far respirare le scarpe, dopo aver fatto un viaggio nel deserto del Nevada nel quale gli sudavano i piedi. Non si è messo a studiare una scarpa innovativa perché voleva fare una scarpa innovativa. Steel Jobs, che ha inventato la Apple, primo sistema di grafica al computer, di fatto aveva partecipato casualmente a un corso di costruzione di “grafico del carattere”, così ha scoperto che le regole lì imparate potevano essere straordinariamente applicate all’ambito dell’informatica per la creazione dei primi computer dedicati alla grafica e alla comunicazione. L’invenzione delle patatine fritte, nel 1853, nasce perché un ristoratore indiano, sottoposto alle continue richieste di una intransigente avventore del suo locale, le voleva sempre più sottili…quindi lui per fargli un dispetto le fece così sottili che vennero fuori quelle che poi voi avete conosciuto come chips. Potrebbero esserci tanti altri esempi. Il bisogno però è una cosa che hanno anche gli animali. Esopo poeta greco, circa 600 anni prima di Cristo, raccontava la favola dei corvi, che per bere dell’acqua in un bicchiere che aveva il collo troppo lungo vi buttarono dei sassi dentro. I corvi, se li sottoponete a questo esperimento, effettivamente si comportano così. Il bisogno però è sintomo di una dimensione di bisogno più grande, che a mio giudizio ha un particolare giudizio con la parola “innovare”, e così senza anticiparvi nulla di così straordinario, mi viene da dire che in realtà l’esperienza dell’innovazione è una possibilità data a tutti coloro che hanno desiderio di far nuove le cose di tutti i giorni. E come un uomo può far nuove le cose di tutti i giorni? Scoprendo che non si è mai finito di conoscere. Questa è l’avventura della conoscenza per me. Anche io e Daniele Magni, che è il mio socio, ed è l’imprenditore del gruppo, siamo partiti 10 anni fa, ora fatturiamo 20 milioni di euro e siamo in 150, in realtà siamo partiti da un bisogno, non fu un’intuizione particolarmente geniale. Lui aveva il bisogno di innovare la sua azienda, perché il mercato al quale la sua azienda partecipava lasciava poco spazio a creare un business utile ad andare avanti. Io avevo bisogno di guadagnare qualche soldo in più, perché facevo l’impiegato, ripeto che il manager è una categoria che si guadagnava dopo lunghi anni di esperienza, avevo bisogno di fare qualcosa che mi permettesse di migliorare le condizioni economiche, ma a partire da questa esperienza del bisogno primordiale, man mano è stato possibile scoprire qualcosa di più. Come vedete l’esperienza di lavoro che noi abbiamo introdotto nel nostro mercato è un’esperienza che è partita dall’osservazione della realtà, cioè il reale e il bisogno sono stati i primi dati da cui siamo partiti. È l’impatto col reale: le prime due cose da guardare sono te stesso e la realtà, te stesso, cioè ascoltare anche ciò che ci spinge. Perché abbiamo questo bisogno di conoscere, che cosa cerchiamo? Non posso trattenervi per lungo tempo parlandovi del fatto che in quegli anni avevo incontrato degli amici che avevano introdotto nella mia vita l’ipotesi che la realtà avesse un autore, ci fosse qualcuno che la realtà la faceva. Perché un metodo per diventare metodo ha bisogno di un’ipotesi, e quindi senza accorgermi, per particolare attitudine al senso religioso, mi rendevo conto che stare con quelle persone mi faceva affrontare il lavoro sempre cercando qualcosa dentro, qualcosa oltre, qualcosa di più, così che nessuna esperienza diventava noiosa. Mi sembra che questo sia un elemento che al Meeting è emerso, cioè partire dalla realtà, e quello che c’è sei tu e con questa prospettiva di significato. Dico senza accorgermene, perché non iniziavo la mia giornata in questo modo, ma senza accorgermene, per un contagio positivo, il modo con cui guardavo le cose era questo. Vorrei leggervi una citazione che mi aveva molto colpito di Lewis, lo stesso autore delle Cronache di Narnia, che dice: “più entri nel cuore delle cose, e più grandi diventano”. Questa è la citazione che mi permette di associare alla parola “bisogno” la parola “desiderio”. Il bisogno è come un sintomo di un’altra cosa. Se voi ci pensate, nessuna esperienza lavorativa, nessuna esperienza che facciamo nella vita, anche quelle di maggior soddisfazione, soddisfano un bisogno ultimo. Allora vuol dire che la realtà e le cose che incontriamo sono solo segno di un’altra possibilità. Allora l’avventura della conoscenza anche nel solito lavoro diventa affascinante. Uno che fa il bibliotecario tutta la vita, una volta che ha informatizzato tutti i servizi, una volta che ha organizzato i processi e la sua squadra, che cosa si dovrebbe inventare di più per fare meglio il suo lavoro? Lo hanno già detto le persone che mi hanno preceduto. Ci sono le persone. Il crocevia decisivo, dove la scoperta che la realtà può diventare nuova, è la persona, che rende possibile l’esperienza della novità, in famiglia e nel lavoro. Dico l’ultima cosa. A novembre del 2008, noi abbiamo ricevuto la sorpresa di un incendio doloso nella nostra azienda, che ha distrutto più del 50% dei nostri uffici. Ma lì si è per me reso evidente questo aspetto che dicevo, cioè che quando va in fumo tutto quello che tu hai organizzato, o accade qualcosa di nuovo, o accade che tu hai un modo di guardare le cose che è nuovo perché intravede oltre, o altrimenti tutto appare distrutto. In quell’occasione, dentro il limite, perché il limite è l’elemento che assieme al bisogno fa scattare il desiderio, uno ha il desiderio dove c’è il limite, le persone, senza bisogno di chiederlo, si sono mosse per questo desiderio. Allora un’azienda può fare un’esperienza innovativa se sa lavorare su questo aspetto.

PIETRO BAZZONI:
Ringrazio i nostri 4 testimoni, perché in tutti è emerso in modo evidente un aspetto fondamentale: innovare è una questione di metodo. Innovare è l’azione che l’uomo compie incessantemente per dire di sì alla realtà. Altrimenti se uno rimane chiuso in sé, alla sua soggettività, può tranquillamente spegnersi. Questa è un’esperienza che vediamo e sperimentiamo spesso, la provocazione continua di momenti come questo, di momenti come il Meeting, la provocazione continua di incontri come questi nella nostra vita riapre, spalanca la ragione, la riapre continuamente. Per donne e uomini che sono chiamati a condurre altre donne e altri uomini, la prima sfida è tenere aperta questa posizione per sé e quella di quelli che lavorano con loro. Adesso lascerei a voi la parola, vi lascerei reagire se avete domande da porre agli interlocutori, concise e precise, con cui approfondire i contenuti emersi.

DOMANDA:
Sono uno studente di ingegneria al politecnico di Milano. Volevo fare una domanda alla signora, spero di non fare una gaffe assurda. Alemanno, a un certo punto, ha parlato di innovazione a livello culturale e volevo capire un po’ meglio cosa diceva, perché a livello tecnologico, va beh ci sono, anche per gli studi che faccio, a livello culturale invece volevo capire, anche rispetto a quello che diceva il prof. Castellano, che parlava di aumentare la dedizione degli impiegati come valore aggiunto.

GABRIELLA ALEMANNO:
Allora, futuro ingegnere, ti faccio tantissimi auguri. Io cercavo di spiegare dal mio punto di vista che il concetto di innovazione non poteva essere soltanto una declinazione tecnologica come nella maggior parte dei casi viene fatta. Io credo che l’innovazione deve essere una componente della nostra vita, di maggiore conoscenza, che deve toccare tutti i campi dell’agire, e quindi anche la cultura. Perché io credo che conoscere vuol dire migliorare, vuol dire creare un innalzamento del livello culturale personale, che deve essere poi trasmesso a un gruppo di persone col quale ci sia interscambio, quindi può essere in un ambito ristretto, privato, ma anche più ampio, come quello del lavoro, per creare una crescita culturale, un percorso comune di un certo gruppo di persone. Io credo che la cultura sia la maggiore conoscenza di un particolare, è un metodo per acquisire conoscenza di un determinato settore, o realtà. Io credo che abbia un valore particolare quando poi la inseriamo, la applichiamo a certe realtà, come possono essere il nostro patrimonio artistico e culturale, che specialmente nel nostro paese ha creato un marchio di fabbrica particolare, nazionale. La cultura è espressione di innovazione, perché è espressione di conoscenza. Il termine della cultura è strettamente connesso anche ad una declinazione etica dell’innovazione. È tutto un po’ complesso, perché è chiaro che quando io innovo, lo faccio con determinati processi tecnologici, ma anche inserisco un meccanismo etico ulteriore nelle conoscenza di un determinato percorso, quindi stabilisco dei valori, una visione di insieme, o un obiettivo da raggiungere. In tal modo io creo una crescita culturale di un certo gruppo di persone, di una certa organizzazione.

DOMANDA:
Insisto sulla stessa domanda. Te la declino in altri termini. Tu ti trovi a condurre un’organizzazione di 10.000 donne e uomini; la tua cultura, il tuo essere così costantemente pronta a dire di sì alla realtà, tu come, nella tua esperienza anche di mamma, come riesci a trasmetterla a chi lavora con te, a chi ti lavora accanto?

GABRIELLA ALEMANNO:
Forse bisognerebbe chiederlo a loro, qui ci sono vari rappresentanti che ringrazio. Io credo di farlo con molta umiltà, ma mettendo a disposizione anche quelle che sono le mie conoscenze, e comunque con un’elevata capacità di ascolto. Perché mi sono resa conto che anche nella quotidianità forse non sempre riesco a risolvere i problemi. Perché certe volte i problemi sono complessi e i colleghi vengono a chiederti qualcosa e non sempre tu puoi riuscire a realizzare quello che loro ti chiedono. Però secondo me la capacità di ascolto è già un meccanismo importante per far sentire l’interlocutore una persona che ha un suo potenziale, che deve essere raccolto e ascoltato. Io devo dire che per me è importante il confronto con le persone con cui mi incontro quotidianamente, specialmente nel mondo del lavoro penso sia un’esperienza importante. Lo sto, credo, dimostrando con i fatti, può essere un percorso di incontri di vario tipo, proprio perché voglio conoscere la realtà, voglio confrontarmi con tutti i colleghi che lavorano nelle diverse parti di Italia, penso che questo mi permetta di conoscere quelli che sono i diversi problemi. Perché chi ha un ruolo alto, non sempre conosce tutti i problemi che ci sono nei diversi uffici, sul territorio. Poi la nostra realtà italiana è molto diversificata, i problemi, le situazioni, le possibilità che possono essere al nord, sono molto diverse da quelle che ci possono essere al sud d’Italia. È sempre un’esperienza di arricchimento che viene data dall’incontro con le altre persone.

CARLO CASTELLANO:
Mi ha colpito il tipo di domanda che faceva. Hai cercato di esprimere un po’ il concetto, però su questa cosa qui io non mi risento, non è questo lo spirito con cui in questi anni abbiamo cercato di lavorare. Anche io riprendo il discorso che abbiamo fatto. L’innovazione è un fatto culturale, nel senso che un progetto che abbiamo definito, cerchiamo di renderlo comprensibile a tutti quelli che lavorano in azienda. Quindi con responsabilità diverse. Abbiamo coinvolto le persone e cerchiamo di coinvolgerle in maniera più ampia possibile. Quindi non è un problema di fare in modo che gli impiegati si sentano così partecipi, quindi rendano di più. Soprattutto in un’azienda tecnologica che lavora di più, è la qualità del lavoro che è la cosa importante. Perché la professionalità si esprime in questo contributo che ognuno sente e a cui può dare un progetto comune in cui ci sono responsabilità diverse, in cui ci sono ruoli diversi, culture diverse. Il gruppo dirigente è fatto da persone completamente diverse le une dalle altre, ci confrontiamo fra di noi. Abbiamo degli scontri anche durissimi. Però è la chiarezza davanti a questi obiettivi che noi cerchiamo di esprimere e sulla quale noi coinvolgiamo al massimo le persone. Questa è la cosa importante. È un modo di lavorare. L’innovazione è una partecipazione, un coinvolgimento, questo è il punto, non il fatto di cercare di coinvolgere gli impiegati perché allora rendono di più. No! È un fatto molto difficile, molto impegnativo. Il coinvolgimento è una sfida durissima, perché l’azienda creativa è un’azienda in cui c’è il conflitto. È il conflitto non viene nascosto, viene portato in evidenza, discusso, confrontato. Non è un modo per addormentare e dire di tirare avanti, è il contrario. Sia chiaro che non è facile, soprattutto in un’azienda di media dimensione, in una realtà come quella italiana che si confronta con degli straordinari colossi come i nostri concorrenti, dei mostri sacri. Infatti quando siamo andati in borsa, nel 1996, abbiamo fatto la presentazione del nostro caso in giro. Siamo andati in America, nella west e east coast, e dicevano: “siete matti, pensate di essere in grado di essere competitivi con i grandi del settore che sono qui, delle bestie?”. E noi spiegavamo il nostro progetto con cui, con molta lucidità, avevamo trovato dei settori nei quali potevamo essere competitivi. Ho detto che abbiamo abbandonato la risonanza magnetica total body perché abbiamo visto che lì era assolutamente impossibile, c’era una massa critica di conoscenza che loro avevano avuto, col fatto che avevano investito nelle tac, nelle radiologie convenzionali, per cui era impossibile per noi competere lì. Nell’ecografia siamo diventati oggi il quinto produttore mondiale, con 9000 apparecchi. Ecco questo è il modo che abbiamo portato avanti; sia chiaro continua la sfida, che è molto dura e difficile, ma è un fatto culturale. È la cultura dell’azienda che si gioca su queste cose.

PIETRO BAZZONI:
Ringrazio il professore. Rilancio la domanda di Marco anche agli atri due testimoni. Volevo chiedere a Stefano se ci raccontava cosa vuol dire per lui cultura di innovazione. In che modo riesci a tenere desti i tuoi 150 collaboratori, come riesci a trasmettere loro, e come riesci a ottenere questo coinvolgimento, questa posizione, questa partecipazione?

STEFANO STORTI:
È come diceva Castellano. Si riesce nella misura in cui hai imparato e sviluppato tu un approccio culturale nuovo e una passione per il gusto del vivere. La cultura è il gusto del vivere secondo un’ipotesi, allora laddove c’è una responsabilità di governo di un’azienda, o di un gruppo di persone, è questo il primo interesse, ancor prima dei risultati, perché i risultati sono una conseguenza dell’approccio culturale, non sono un frutto di un’alchimia matematica. Nel lavoro il risultato numerico nasce dalla filosofia d’approccio, non il contrario. Per un percorso di lungo termine. Io sto pensando a un’esperienza che duri nel tempo, che non affronti il mercato in termini speculativi nel brave, esattamente come ho sentito raccontare da Castellano, cioè che abbia una visione del presente che guarda al futuro. Molti testimoni prima di noi sono venuti al Meeting a dire cose straordinarie in questo senso, per esempio nel 2004 François Michelin. E le tre parole chiave che lui metteva alla base dei valori aziendali erano: clienti, perché senza cliente l’azienda non esiste, persone, perché senza persone l’impresa non esiste, futuro, perché senza un futuro l’impresa non esiste. Ecco, questo è un modo di guardare, ma lo diceva a partire da un’ipotesi, e l’ipotesi di Michelin era che la realtà avesse un autore. Allora affrontare la realtà diventa andar dietro a qualcuno, che ti svela passo dopo passo, anche nella circostanza più apparentemente più difficile, a fare questa esperienza innovativa. Racconto una cosa di Steve Jobs per collegarmi al tema della crisi, perché non voglio far finta che questo sia qualcosa che con l’argomento della crisi di oggi non abbia nulla a che fare. C’è un modo di dare il giusto significato alle parole che si usano nel lavoro. Noi per molti anni abbiamo sentito utilizzare occupazione, risorsa umana, spesso è sparita la parola lavoro, mestiere, persona. Per esempio, la crisi ci costringe, anche non lo volessimo, a rifare i conti con queste parole, riappropriandoci di un significato. E quindi rimettendo a tema la questione, e come è possibile rimetterle a tema? Se uno ha un’ipotesi culturale. Per questo che la cultura è tutto nel lavoro e la cultura è il gusto del vivere, è uno sguardo sulle cose. Steve Jobs, parlando in una sua presentazione agli universitari di Stanford nel 2005, parlava di una sua crisi personale in termini positivi, mettendo a tema che non fosse del tutto un danno quello che gli era accaduto. Aveva fondato la Apple, era la sua azienda. “All’epoca non me ne accorsi, ma il mio licenziamento dalla Apple fu la cosa migliore che poteva capitarmi, il peso del successo fu rimpiazzato dall’illuminazione di essere un principiante ancora una volta, con molta meno sicurezza su tutto. Questo mi liberò e mi consentì di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita”. L’uomo si riappropria di un’ipotesi culturale adeguata quando capisce di essere precario, di dipendere. La parola precarietà è una buona parola per il lavoro, non è una parola negativa, questa è la mia esperienza personale.

PIETRO BAZZONI:
La parola adesso a Carlo Camnasio, al quale vorrei girare la domanda sul tema della cultura con i tuoi collaboratori.

CARLO CAMNASIO:
Sì, io parto in questo modo, con due punti. Allora, prima accennavamo al fatto della persona, secondo me non basta, non basta dal punto di vista del modo innovativo con cui lavorare. Non basta se non è legata a una modo umano della persona, che guarda la realtà da un’evidenza positiva, da un desiderio di costruire e da un gusto e una ricerca del bello. Io dico così che il punto non è avere la persona, il punto è che ci sia una persona che abbia ancora voglia di rischiare nella vita, nel lavoro, nelle cose che fa, questo desiderio di costruire e della ricerca del bello in quello che si fa, del bello o dell’utile, di quello che risponde ai bisogni del mondo. Quindi io capisco che da punto di vista culturale la capacità innovativa è molto legata sia all’idea innovativa sia al modo in cui questa si sviluppa. E vorrei sottolineare una parola che a me sta molto a cuore e che anche in questi due giorni che ho potuto stare qua, ho sentito più volte, che mi chiarisce cosa vuol dire questa posizione umana: la parola stupore. Perché lo stupore è la rottura con ciò che sta prima e ti apre a qualcosa di nuovo. Io dico così che lo stupore è la meraviglia per il mondo che ci circonda e ciò che ci deve muovere, e questo ha un’influenza determinante su tutte le nostre scelte, sulle scelte del futuro. Quindi all’origine della conoscenza – la conoscenza è sempre un avvenimento, anche quella scientifica, tecnologica, dell’attività del lavoro, delle aziende – c’è lo stupore della realtà, se noi non guardiamo a questo dimentichiamo qual è il contenuto vero. Uno stupore che non si riduce a curiosità momentanea, ma è l’inizio di un processo, quindi accende il desiderio di entrare in rapporto con il mondo e con ciò che lo circonda. Lo stupore accompagna ogni passo della ricerca, della conoscenza, dell’innovazione, ogni passo è sempre un inizio. Non è mai finita. Lo stupore diventa desiderio di vedere di più, di scrutare, di osservare i particolari. E così a sua volta anche l’osservazione non fa che accrescere lo stupore. Ecco, ci tenevo a dire questo perché secondo me questo è il punto di partenza di tutta la questione. È il motivo per cui ci si muove e si lavora in un certo modo, si fanno le aziende, si costruisce, si cerca ciò che risponde ai bisogni che ci sono. Dal punto di vista di questa seconda cosa, secondo me, c’è bisogno di avere dei maestri in questo senso, c’è bisogno di incontrare dei maestri che ci aiutino e che aiutino a capire, non soltanto i giovani, ma anche noi, all’interno del nostro lavoro, che ci aiutino a capire cosa vuol dire questo, che esperienza si fa di questo, come questo cambia la vita. E nei tempi passati, nell’antichità, ma anche nei tempi passati, se pensiamo quando eravamo giovani, erano i vecchi quelli più saggi, quelli che passavano la saggezza alle persone. E credo che oggi noi abbiamo veramente ancora bisogno di maestri che ci insegnino questo, e poi da parte nostra una disponibilità, un’apertura davanti al reale. Queste due cose, avere dei maestri da seguire e un’apertura davanti al reale, davanti al bello, davanti alla positività. Insomma la vita non è fatta solo di problemi per fortuna, bisogna guardare avanti, guardare al dopo, perché secondo me le parole marketing e innovazione sono molto legate a questo. Su questo punto di vista credo che per i giovani questo sia molto importante. Io incontro molti giovani quando facciamo delle sessioni di assunzione, di talenti. Lì è veramente importante capire quanto le persone…ora a me non interessa assumere il giovane neolaureato che sa tutto del particolare di quello 0,5 che ha studiato. Mi interessa assumere quella persona che ha una visione della realtà in questo modo. Certo deve essere educato, deve aver studiato, deve essere andato fino in fondo alle cose, ma avere questa disponibilità, perché questo è ciò che caratterizza e fa poi muovere l’azienda. Noi assumiamo 40-50 persone all’anno, giovani che sono una cosa strabiliante, perché soprattutto i giovani di oggi cambiano il modo con cui le aziende lavorano, se disponibili a questo lavoro, disponibili alla curiosità, e allo stupore che dicevo prima. Quindi la capacità di fare domande, di far domande, di cambiare, di mettere in discussione, di chiedere come si può fare una cosa in un modo nuovo, per questo, ed è la terza cosa, la parola che viene dopo è educazione. Noi purtroppo in Italia non abbiamo ancora una scuola adeguata, abbiamo una scuola che se la confrontiamo con altri paesi europei non è fatta e sviluppata in modo adeguato. Noi dobbiamo anche investire di più in questo, dare delle risorse alle scuole per questo, alle scuole, alle università. Ne avremo sempre di più bisogno, in futuro, di persone che hanno anche un livello di istruzione veramente importante, alto. In questo senso il legame fra le aziende e le università, la ricerca, lo sviluppo, bisognerà cercare di svilupparlo in modo molto più strutturato di come viene fatto adesso, quasi in modo casuale.

PIETRO BAZZONI:
Grazie Carlo, innanzitutto per la temperatura che stanno sopportando i nostri amici che sono collegati in video fuori da questa sala, ma soprattutto perché mi sembra che i contenuti che i nostri quattro testimoni hanno posto alla nostra riflessione, rispetto al contenuto di questo Meeting, siano assolutamente preziosi. Chiuderei qui questo incontro ringraziando assolutamente la dr.ssa Alemanno, il professor Castellano, Carlo Camnasio e Stefano Storti per il contributo che ci hanno dato. Ci hanno dato la certezza della loro esperienza, ce l’hanno comunicata raccontandoci delle scelte che hanno fatto, di come ciascuno di loro ha giocato la prospettiva che la realtà gli ha dato. E volevo chiudere con una citazione che è cara al nostro presidente Scholz, è una citazione di John Henry Newman: “San benedetto trovò il mondo materiale e sociale in rovina e la sua missione fu di metterlo in sesto non con mezzi scientifici ma con mezzi naturali, non con la pretesa di farlo entro un tempo determinato o facendo uso di un rimedio straordinario, o per mezzo di grandi gesta, ma in modo così calmo, paziente, graduale che ben sovente s’ignorò questo lavoro, fino al momento in cui lo si trovò finito. Si trattò di un restauro piuttosto che di una operazione caritatevole, di una correzione o di una conversione”.
Il lavoro è il modo con cui ciascuno di noi dice di si alla realtà. L’augurio che vi lascio è proprio che tutti i giorni noi abbiamo ad avere maestri, luoghi, una compagnia che ci sostengano in questo lavoro costante di dire di sì alla realtà. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

28 Agosto 2009

Ora

15:00

Edizione

2009

Luogo

Sala Tiglio A6
Categoria
Focus