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INCONTRARSI IN PERIFERIA
Partecipano: José Maria “Pepe” di Paola, Prete villero e Coordinatore della commissione episcopale contro la tossicodipendenza, Argentina; Jean-François Morin, Direttore Association Le Rocher Oasis des Cités, Francia. Introduce Monica Poletto, Presidente Compagnia delle Opere Sociali.
INCONTRARSI IN PERIFERIA
MONICA POLETTO:
Buongiorno a tutti e benvenuti. L’incontro si intitola “Incontrarsi in periferia”, è legato al tema dell’integrazione. Speso infatti le nostre città sono contenitori privi di vasi comunicanti. Nei dibattitti serpeggia l’idea che si possano integrare le tante persone che abitano nelle periferie, che spesso e sempre di più sono migranti ma non solo, dando loro dei servizi, come succede in tanta parte dell’Europa e ce lo racconta Jean-François, ma senza mai realmente incontrare queste persone, senza porre attenzione al problema che nell’incontro bisogna mettere in gioco se stessi e accettare di cambiare. Così si ha un’idea astratta delle persone che pure vivono nelle nostre città, non le si conosce veramente. Ci viene in aiuto anche questa volta Papa Francesco, perché nel messaggio che ci ha mandato per il Meeting di quest’anno ci dice questo: “C’è una parola che non dobbiamo mai stancarci di ripetere e soprattutto di testimoniare, dialogo; scopriremo che aprirci agli altri non impoverisce il nostro sguardo, ma ci rende più ricchi, perché ci fa riconoscere la verità dell’altro, l’importanza della sua esperienza e il retroterra di quello che dice, anche quando si nasconde dietro atteggiamenti e scelte che non condividiamo. Un vero incontro implica la chiarezza della propria identità, ma al tempo stesso la disponibilità a mettersi nei panni dell’altro per cogliere al di sotto della superficie ciò che agita il suo cuore. Questa è la sfida davanti alla quale si trovano gli uomini di buona volontà”. Qui abbiamo due uomini di buona volontà, due persone che hanno accettato questa sfida, in due contesti apparentemente molto diversi. Alla mia sinistra c’è Jean-François Morin, Direttore di una rete di comunità che si chiama Le Rocher, in Francia, che si è implicata nelle periferie più estreme. Hanno una presenza, come ci racconterà, di famiglie, di persone che vivono insieme proprio nella banlieu di Saint Denis, che è conosciuta soprattutto per tristi ragioni. Alla mia destra, abbiamo padre Pepe, che non è nuovo come ospite del Meeting, che invece ha deciso di vivere nelle periferie – quest’anno fa 20 anni – più povere di Buenos Aires. Adesso sta a Villa Carcova, che è una città di 50.000 abitanti e la prima chiesa l’ha costruita lui un anno e mezzo fa. Allora, i nostri ospiti si presenteranno, per cui non voglio farla più lunga di così. A Jean-François, che ho conosciuto quando ho avuto modo di stare nella sua banlieue, avevo chiesto di raccontarci un pochino com’è la situazione delle banlieue di Parigi, anche perché un gruppo di loro amici ha deciso di viverci e questo fa parte del loro metodo, vivere insieme alla gente. Poi gli ho chiesto come quello che loro vivono genera la comunione, la comunità. Soprattutto, vedendo le condizioni non facili in cui vivono, gli ho chiesto che cosa permette loro di restare. Dopodiché, ci racconterà tutto quello che vuole, come sempre. Grazie, Jean-François.
JEAN-FRANÇOIS MORIN:
Grazie, Monica. Innanzitutto volevo dirvi che abbiamo tutti delle debolezze. Io ne ho molte, ma una in particolare: fondamentalmente, non so parlare le lingue straniere, non capisco l’italiano, non capisco Pepe quando parla lo spagnolo e tuttavia ho studiato spagnolo quattro anni a scuola. Buongiorno, cari amici, e grazie a Monica per avermi invitato qui e per la sua pazienza, grazie anche a Elena che questa mattina è venuta a prendermi in aeroporto e grazie a tutti quelli che mi hanno accolto con molto piacere. Volevo affidare questa mia testimonianza alla Vergine Maria: “Ti saluto, Maria, piena di grazia, che Tu sia benedetta tra tutte le donne, Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen”. Mentre venivo in Italia questa mattina credevo che ci fosse un miracolo perché non mi sentivo stressato. Appena passata la frontiera sull’autostrada, avevo dimenticato lo stress e mi dicevo: “Dio è grande perché in Italia non c’è stress”. Ma da questa mattina le cose sono cambiate: vedendo tutti voi qui davanti, credo che Dio questa volta mi abbia lasciato un po’ di stress addosso. Ho la gioia di testimoniare a nome della nostra associazione, Le Rocher, creata 16 anni fa, a nome di tutti i dipendenti, di tutti i volontari che vivono nei quartieri cosiddetti sensibili e che quindi sono quotidianamente a contatto con gli abitanti di questi quartieri dove operiamo. A essere onesto, io personalmente non vivo in un quartiere sensibile: passo circa il 60% del mio tempo in un quartiere sensibile ma abito a 1 km da un quartiere popolare di Parigi. Prima di iniziare, volevo raccontarvi un bellissimo incontro che ho fatto questa mattina: grazie all’organizzazione, sono andato a visitare lo stand dell’APAC e ho avuto la gioia di avere una visita guidata privata in francese grazie a Paola, una brasiliana appassionata che mi ha accompagnato. Sono rimasto colpito da questa esperienza, sono rimasto colpito dalla somiglianza tra queste prigioni di cui uomini e donne hanno in mano le chiavi e i quartieri sensibili che abbiamo in Francia, dove operiamo. Molti abitanti non escono mai da questi quartieri, come se avessero perduto le chiavi. L’anno scorso, a Bondy, avevamo fatto suonare della musica a dei bambini e il responsabile del presidio aveva trovato dei posti per andare a un concerto a Parigi: da Bondy a Parigi ci sono circa una decina di km, ma sono due mondi completamente diversi. Uno dei padri non voleva che il figlio andasse al concerto perché diceva che Parigi era pericolosa. Quando parlate ai parigini e gli dite “vado a Bondy”, dicono: “No, non ci vada perché è molto pericoloso”. Come sapete, Bondy nel 2005 è stata al centro delle sommosse in reazione alla morte di Zyed e di Bouna. Come dicevo, Le Rocher, la nostra associazione, è nata 16 anni fa grazie alla comunità dell’Emmanuel, un movimento molto carismatico creato da Pierre Goursat, che fondamentalmente si appoggia su tre pilastri: l’adorazione, la compassione e l’evangelizzazione. Adorare, guardare il Cristo, soffrire per gli altri e, in questa sofferenza, trovare la forza di aprire il nostro cuore alla compassione; accogliere la tristezza e la miseria che ci circondano e testimoniare, sempre e comunque, che tutto è possibile e che sempre c’è una speranza. La Comunità quindi si è detta: come possiamo arrivare nelle periferie e non rimanere una comunità chiusa, non aperta agli altri?. Quattro sorelle della Comunità si sono trasferite a Bondy: la prima idea è stata quella di vivere con l’altro, essere in mezzo alle persone, portando avanti diverse attività. Quasi contemporaneamente, Cyril Tisserand, all’epoca un ragazzo, oggi un uomo pieno di talento, molto impetuoso, molto appassionato, un bravo boxer, nel ’97 è stato colpito da una frase di Papa Giovanni Paolo II, rivolta ai giovani: “Siate portatori della civiltà dell’amore”. Anche lui ha voluto farlo. E’ sempre stato un educatore esperto, formato da un padre salesiano molto conosciuto in Francia: adesso lavora con noi e tutte le mattine gli chiediamo di pregare per noi, per darci una mano. Le Rocher è quindi un’associazione cattolica di educazione popolare. Come sapete, innanzitutto la Francia è un bel Paese, io lo adoro ma a volte giochiamo un po’ sulle parole: c’è la laicità, la fede, ecc.
Ci siamo detti di essere un’associazione cattolica e lo siamo a tutti gli effetti, e siamo anche un’associazione di educazione popolare, ma questa è una cosa prettamente francese, quindi il nostro motore è la fede. Venire ad abitare in un quartiere sensibile richiede veramente una grande passione. Ad esempio, a Marsiglia abbiamo trovato delle situazioni tremende, ci siamo installati in un palazzo all’undicesimo piano, senza ascensore. Oppure a Tolone, non c’era acqua calda. Le cose prima o poi si risolvono ma ogni giorno, prima dell’apertura, nei sette luoghi dove operiamo facciamo un momento di preghiera, di adorazione, perché il nostro compito sarebbe umanamente impossibile. Non è facile sopportare tutti i giorni quello che accade, qui non racconto i dettagli. Io seguo questa associazione ormai da 12 anni e tutti i giorni vedo la potenza del Signore all’opera perché da noi c’è sempre gioia, anche se lavoriamo in quartieri difficili, ci sono sempre dei sorrisi. Qui non mi sento giudicato: c’è Sonia, ad esempio, al caffè delle donne che dice: “Qui non mi sento mai giudicata dagli altri”. Quando arrivano nuovi volontari, chiediamo che “con il loro sorriso” ci aiutino. Noi non siamo straordinari, siamo assolutamente ordinari, abbiamo una serie di limiti, ma il fatto di pregare tutte le mattine ci aiuta moltissimo. Operiamo in sette quartieri e siamo veramente calati nella realtà quotidiana. Niente di teorico, la nostra attività è molto pratica, segue la vita quotidiana, quella di tutti i giorni. Cerchiamo di essere con l’altro, non siamo là per le persone ma con le persone: è una delle cose, credo, che ci rende simili agli altri: quando c’è una festa, c’è una festa, quando c’è un problema c’è un problema, viviamo insieme nella vita quotidiana e questo ci lega a tutti.
La grande differenza con i centri sociali è che noi ci siamo 24 ore su 24: dopo le cinque, quando tutti i giovani invadono le strade, noi ci siamo e c’è sempre la possibilità di venire a Le Rocher. È un luogo più o meno grande, una città, più o meno lussuosa, quasi sempre sotto la chiesa, il segnale è molto chiaro: il padrone è in alto, noi siamo invece in basso. Normalmente, là dove operiamo, l’80, il 90% delle persone sono musulmane, ma Dio ovviamente è ovunque. Quindi, siamo sempre con gli altri: vivere con l’altro è l’elemento che può cambiare tutto. L’ultimo presidio che abbiamo aperto è stato quello di Grenoble: c’è voluto un anno per farsi accettare, perché un bianco che arriva in questo quartiere non piace, i poliziotti e la gente ci guardano con sospetto, non veniamo accolti bene e capiamo anche il perché. Ma il fatto di lavorare sulla gratuità è fondamentale: non ci aspettiamo niente dalle persone, non abbiamo dei piani, semplicemente siamo a disposizione per fare delle cose con loro, ma sempre con loro. Se un ragazzo arriva e mi chiede: “Mi aiuti a trovare lavoro?”, gli rispondo: “No, lo troviamo insieme, il lavoro”. “Cosa bisogna fare innanzitutto?”. “Innanzitutto dovresti avere un curriculum”. “Ok, cominciamo col curriculum”. Prendiamo appuntamento per il giorno dopo e facciamo il curriculum: la pazienza, quindi, ma anche il rispetto reciproco. Si fa tutto quello che si deve fare. Fondamentalmente, cerchiamo di mostrare concretamente a queste persone che le amiamo e che possiamo amarle gratuitamente, e ovviamente preghiamo tutti i giorni, perché senza preghiera non sarebbe possibile fare niente. Le persone sanno che noi preghiamo. Spesso, i genitori musulmani a cui chiediamo: “Dove sono i vostri figli?”, ci rispondono: “Sono in chiesa”. Però non è che facciamo del proselitismo, siamo lì per dare una testimonianza, perché c’è qualcosa di più grande e di più forte di noi, che ci permette di vivere in condizioni che a volte sono difficili, che ci permette di andare aldilà delle nostre divisioni. E dopo gli attentati che ci sono stati in Francia quest’anno, ad esempio, c’era un ragazzo che ci voleva dimostrare che era fiero di essere francese, comunque: sono con noi e bisogna costruire la Francia insieme. Mizar, ad esempio, non si sente né francese né tunisino né di Tolone, non si sente veramente musulmano perché in realtà non è un grande praticante della religione. Lo conosciamo, abbiamo voluto dargli il gusto della Francia, questa fierezza di appartenere ad una patria con dei valori per i quali bisogna battersi, perché ci sono delle tradizioni che sono anche molto simboliche. C’è la festa delle luci a Lione, l’8 settembre, che è stata annullata e a Tolone si era deciso di fare qualcosa. Abbiamo venduto i lumicini nel quartiere dove il 90% delle persone sono musulmane: costavano 1 euro, una cifra simbolica. Qualcuno di loro ci ha detto: “Aiuteremo Lione perché in questo momento non può celebrare la sua festa. Insieme, vogliamo fare un gesto simbolico per la pace che unisce tutti noi. Non vogliamo promuovere la violenza”. Essere musulmani, quindi, vivere in Francia e amare la Francia, non promuovere questa forma di violenza. “Crescere con” significa fare delle piccole attività, ad esempio facciamo un accompagnamento scolastico, aiutiamo i bambini a studiare a casa loro oppure da noi, in base al numero dei bambini ; abbiamo creato un piccolo movimento che si
ispira allo scoutismo e si chiama “Gli avventurieri”, dove prendiamo dei bambini e facciamo scoprire loro la natura. Scoprire ad esempio che il piccolo Kahid di 12 anni, che vive in uno di questi quartieri, se va nel bosco non è più Kahid, perché prima non aveva mai visto una foresta, non era mai stato in un ambiente che gli sembrasse totalmente ostile. Facciamo anche dei workshop e poi cose molto, molto semplici come, ad esempio, attività in strada: quando arriviamo in un posto, ci insediamo e poi cominciamo a giocare con i bambini nelle strade, perché le strade, in questi quartieri svantaggiati, sono veramente un luogo molto pericoloso, dove i bambini possono rapidamente essere rapiti da queste reti che chiedono loro all’inizio di fargli un favore: “Vammi a prendere delle sigarette, poi ti dò le caramelle”. Quando il ragazzino ha 13, 15 anni, gli si danno magari 50 euro al giorno, e invece di andare a scuola lui fa altro. Quando si comincia a perdere la scuola, molto presto si cade nell’oblio e a 18 anni ci si ritrova per strada con un’unica competenza, arrivare alla fine della giornata.
L’attività in strada, fondamentalmente, significa cercare di giocare con un pallone e una corda e i bambini arrivano ed è incredibile – vedere per credere – perché ci sono dei bambini che non possono uscire da casa quando noi non ci siamo. Facciamo queste attività due volte alla settimana. E poi facciamo le visite a domicilio, andiamo a trovare le persone a casa loro, facciamo praticamente del porta a porta per le persone più povere dei quartieri svantaggiati. Arriviamo in luoghi in cui veramente c’è una grandissima miseria: grazie alla nostra associazione, ho capito che ci sono molte povertà diverse e che la povertà materiale, in realtà, non è la peggiore: ci sono persone che non sanno niente, ed è drammatico, ma non bisogna farle diventare vittime, bisogna proporre loro qualcosa. E poi bisogna sempre rimanere umili, perché adesso operiamo in sette quartieri ma in Francia ci sono 1200 quartieri prioritari individuati dallo Stato, dove le persone vivono in condizioni pericolose e complicate. E poi, crescere con significa cercare di fare uscire le persone dal quartiere, fare scoprire loro la bellezza dell’incontro, per andare a cercare un lavoro, per esempio, per andare a fare del volontariato, oppure per andare semplicemente in vacanza.
Vi racconto un aneddoto che è successo a Marsiglia: ho assistito al ritorno di una donna che era rientrata nella sua famiglia, una signora molto espansiva, di 50 anni, velata. Ci ha raccontato la sua settimana: era andata in vacanza, era andata a trovare qualcuno da cui era stata accolta molto bene, c’erano in questa famiglia persone dell’Algeria, del Mozambico, dell’etnia Rom e la donna ci ha detto “Siamo stati ricevuti meglio in questa famiglia che nella nostra tribù, sicuramente queste persone che mi hanno accolto andranno in paradiso”. E alla fine ha commentato: “Qui è veramente una luna di miele”. Era da noi. Erano andati a 15 km da Marsiglia, ma lei non era mai uscita dal suo quartiere prima, è stata un’esperienza straordinaria. Per concludere, vorrei citarvi alcune persone, a cominciare dal nostro Papa Francesco: “Senza la misericordia, non si può comprendere questa dinamica dell’incontro, che suscita la meraviglia e l’adesione”. Una seconda citazione che leggo spesso quando mi chiedono “a che cosa serve la vostra associazione?” è di Fabrice Hadjadj che dice: “La fede in Dio implica la fede nella sorte di essere nato in un tale secolo ed in mezzo a una tale perdizione, che comanda una speranza ma vieta qualsiasi nostalgia e qualsiasi utopia. Noi siamo là perché il Creatore ci vuole là, noi siamo in un tempo di miseria, è questo il tempo benedetto per la misericordia, occorre tenere il nostro posto ed essere certi che non potremmo fare di meglio”. Una piccola di otto anni, Esmeralda, mi dice: “Sai, non volevo venire più da te perché mi avevi fatto arrabbiare, mi avevi preso il cellulare e non me lo volevi più ridare, però poi ho riflettuto e ho capito una cosa: anche se a volte non mi sei troppo simpatico, è semplicemente perché vuoi che io cresca e perché tu mi piaci e io ti piaccio. Perché tu credi in me, no?”. E una bella mamma, che cucina benissimo, ha detto a un volontario: “Sei come il pepe nel couscous, ce n’è poco ma profuma”. Grazie.
MONICA POLETTO:
Grazie, per introdurre padre Pepe facciamo partire un video che ci fa immedesimare con la sua Villa Carcova.
Viene proiettato il video.
Padre Pepe, tu vivi nelle Villa da vent’anni, adesso da qualche anno a Villa Carcova. I punti di metodo che avete espresso bene in questo documento, Reflexiònes sobre la urbanización de las Villas, sono molto interessanti, perché dicono innanzitutto che l’unica possibilità per una reale integrazione è vivere insieme, e che questa integrazione si fonda su una reciprocità: non sono io solo portatore di valori positivi ma si tratta di un incontro in cui entrambi diamo il meglio di noi. Io ti chiedo, come sempre, di dire quello che vuoi, però le domande che ti avevo fatto erano: perché hai scelto di andare a vivere lì? Cosa scopri di te e di loro, nell’incontro con queste persone? Che cosa vedi cambiare in te e in loro? E poi ti chiedo come questo vostro metodo sia anche una risposta al cambiamento che la società vive in questo periodo, e alla paura che tutti noi abbiamo di questo cambiamento. Grazie.
JOSÈ MARIA “PEPE” DI PAOLA:
Innanzitutto voglio ringraziarvi per l’invito. Sono davvero felice di essere qui di nuovo a condividere il Meeting con tutti voi. Il video è stato realizzato da alcune persone e mostra momenti importanti della Villa Ventuno e della Villa la Carcova. Soprattutto abbiamo visto Jorge, il nostro Vescovo, che era venuto a difendermi quando ho ricevuto minacce di morte da parte dei narcotrafficanti. Rispetto alle domande che mi ha posto, Monica, cosa posso dire? C’è qualcosa di importante nei sacerdoti di Buenos Aires, questa cosa che da cinquant’anni abbiamo ereditato, questa buona tradizione, e cioè che il sacerdote deve vivere all’interno del quartiere: non è che si aiuta a partire da una parrocchia del vicinato, ogni Villa ha la sua parrocchia, il suo sacerdote, la sua guida spirituale. E questo ha fatto sì che i sacerdoti – io sono presente con loro all’interno delle Villa – abbiano un punto di osservazione particolare. Perché gli osservatori che propongono dati sono importanti – per esempio, posso riferirmi all’università Cattolica argentina, che ci offre dati molto importanti per capire il lavoro -, ma la particolarità del nostro punto di osservazione è che noi viviamo all’interno dei quartieri. Quindi, di sicuro non sarà un punto d’osservazione professionale o politico o sociologico. Noi siamo grati di vivere nella Villa, veramente lo percepiamo come una grazia di Dio. È un ambito in cui impariamo una vita più umana di quella che si vive nel resto delle grandi metropoli, vediamo valori importanti tra le persone con cui condividiamo la quotidianità. Ci sono valori specifici, che hanno a che vedere con tutto quello che le persone si portano dietro dall’origine, dal luogo di nascita, i costumi, le tradizioni, la religiosità popolare. Quasi tutti i nostri migranti provengono dall’Argentina o dal Paraguay, dalla Bolivia o dal Perù. Quindi, man mano c’è una trasformazione di una cultura particolare all’interno della cultura urbana che è la cultura villera, la cultura della Villa. Per questo, quando ci chiamano preti villeri, noi ci sentiamo identificati proprio nella cultura che si propone in quel luogo, e non perché siamo nati all’interno della Villa ma perché tutti i valori che lì sono condivisi sono valori che anche noi prendiamo in carico nella nostra vita.
È diverso dalla società liberale in cui siamo nati, abbiamo studiato, e dove la maggior parte o quasi tutti i sacerdoti si sono formati. È una cultura che ha più affinità con aspetti nazionalpopolari o latinoamericani, dove i valori cattolici sono stati trasmessi di generazione in generazione, e ci sono tantissime persone che non sanno né leggere né scrivere, eppure hanno trasmesso la fede ai loro figli, e questo fa sì che oggi la fede cattolica e cristiana sia vissuta nel nostro quartiere. Il Papa ha citato un documento che ha ritenuto molto importante e che ha a che fare con questo modo di vivere. Il video che abbiamo appena visto parla di un Vescovo che non rimaneva nel centro del potere, cioè la città di Buenos Aires o la Plaza de Mayo, ma che si spostava in periferia: era un Vescovo che ovviamente era facile trovare in un video o in una foto, perché era sempre presente. In questo caso, era venuto a difendermi, in altre occasioni era venuto a condividere battesimi, comunioni, cresime. Quando abbiamo redatto il documento, noi del gruppo della Villa, si stavano svolgendo le elezioni amministrative, stavano per scegliere un Capo governativo, e i giornalisti chiedevano: “Che cosa ha intenzione di fare per risolvere il problema della violenza, della droga? Cos’ha intenzione di fare per occuparsi del crimine organizzato? Che cosa ha intenzione di fare rispetto alle Villas?”. Non è stata colpa dei candidati ma i giornalisti davano la loro interpretazione, e tutta la parte più incosciente della società bonaerense pensava che, andando a eliminare le Villas, si sarebbero potuti risolvere tutti gli altri problemi: la violenza, la droga e tutti i modi negativi di vivere. Dato che noi viviamo lì, ci siamo resi conto che c’erano dei valori positivi nella quotidianità, valori legati al lavoro, alla salute, alla solidarietà, che non si vivevano in altri posti, e non c’era corrispondenza con le domande che venivano poste ai candidati. Quindi abbiamo redatto un documento che si intitolava: “Sull’integrazione urbana”. E al Vescovo Jorge è piaciuto questo documento a tal punto che mi chiese di presentarlo, io ero il coordinatore del gruppo. In quel momento, pensai: “Sicuramente farà delle correzioni o degli interventi editoriali”, ma l’unica cosa che fece fu correggere gli errori ortografici. Mi colpì il fatto che non fece nessuna correzione ma oggi non mi colpisce più, perché era parte anche del suo pensiero, quando parla delle periferie. In quel documento, redatto da venti preti villeri, che offrivano un punto di vista diverso ai candidati sindaco della città di Buenos Aires, lui si era sentito interpretato. Noi pensavamo che la parola integrazione urbana fosse diversa da sradicamento, un termine che invece veniva usato dalla dittatura militare e che in certi spiriti xenofobi è presente: “Si deve togliere, sradicare”. La parola urbanizzare, anche se veniva considerata un termine superiore – era vista come un termine positivo, cioè il povero poteva vivere nella città, e attraverso l’aiuto dello Stato poteva avere un alloggio, una forma di vita migliore – non smetteva di essere comunque una parola che non veniva vista bene dal potere. Era come una svalutazione della cultura della Villa.
Quando parliamo della villa, parliamo di un quartiere fatto di donne e di uomini che hanno vissuto lì solo da una cinquantina d’anni, senza alcun tipo d’aiuto da parte dello Stato. Non è che le persone vogliono vivere male: amano quel quartiere perché lo hanno costruito con le loro mani, pertanto la parola integrazione ci sembrava la più corretta, perché ci aiutava a vedere i valori dell’uno e dell’altro, ci consentiva di guardare in faccia i cittadini di Buenos Aires, al di là del luogo di provenienza, e potevamo apprendere quali erano le cose positive dell’uno e dell’altro. In pratica, cercavamo di instaurare un dialogo culturale per poter risolvere un problema presente nella città di Buenos Aires, che non era certo una novità in Argentina, nel contesto di cui ha parlato il Papa in Kenya, cioè di aiutare i poveri. Uno deve sempre trovare una soluzione che sarà provvisoria nel risolvere le urgenze, l’obiettivo deve essere sempre quello di una vita dignitosa, del lavoro tra i movimenti popolari. Lui propone le tre “t”: “techo, tierra y trabajo”, “tetto, terra e lavoro”.
Di fatto, nella nostra ultima dichiarazione come preti della Villa della città di Buenos Aires, anche dei dintorni di Buenos Aires, dove ci sono venti milioni di abitanti, c’è la nostra adesione a questa necessità, in cui l’abitante della Villa deve avere per iscritto la possibilità di usare il suolo urbano e di avere un tetto, cioè un alloggio, che è una questione centrale dell’ecologia umana, e poi il lavoro, proprio per quello che ho detto prima in riferimento al Papa in questo contesto, un luogo vulnerabile come poteva essere il Kenya o qualsiasi favela o villa di Buenos Aires. Uno dei temi importanti che desideriamo sottolineare in questo dialogo culturale è che, al di là delle tre “t” che ha proposto il Papa, per poter realizzare questa integrazione urbana noi parliamo di tre “c”: uno è il “colegio”, cioè la scuola: ci troviamo in luoghi dove per poter andare a scuola bisogna uscire e allontanarsi molto, cioè attraversare altri quartieri. Quindi stiamo parlando di quartieri dove mancano le istituzioni, che si trasformano in ghetti, e i colpevoli sono gli Stati, i Governi, quando creano dei ghetti in certi luoghi invece di realizzare una vera urbanizzazione attraverso la presenza seria delle istituzioni. Parliamo quindi delle tre “c”: “c” come “colegio”, cioè scuola, quindi la formazione, l’istruzione, che è fondamentale; l’altra “c” è il “club”, cioè l’associazione, un luogo in cui si possano sviluppare le capacità donate a ogni individuo, dove lo sport, ad esempio, si trasforma in scuola di vita e trasmette valori più che concorrenza. E la terza “c” è la “capilla”, cioè la cappella, che è il luogo religioso, il luogo dell’identità. È importante che in tutte le villa di Buenos Aires la prima cosa che viene fatta è proprio la capilla, la cappella che la gente del quartiere costruisce con le sue mani. Per esempio, la cappella che abbiamo visto nel video è stata costruita in onore della Vergine dei Miracoli di Caacupè. Noi pensiamo che la vera urbanizzazione si crei attraverso questa realtà, attraverso la capacità cioè di creare un circolo virtuoso, in cui queste centinaia di migliaia di bambini e giovani che né studiano né lavorano – molti di loro vivono nel nostro quartiere – possano avere la scuola, la cappella, e il club.
Di fronte alle sfide poste dall’epoca in cui viviamo, e che mettono a repentaglio la cultura e l’istruzione, ci sono due grandi problemi, che hanno a che vedere con la violenza generata dall’ incredibile traffico d’armi e dal traffico di droga, un grande business che è diventato quasi una nuova schiavitù per i bambini e per i giovani dell’America Latina. In questa realtà possiamo parlare di una medaglia con due facce: da un lato, ci sono tutti i valori positivi, che fanno parte di una cultura che possiamo ancora percepire; e dall’altro lato una realtà che va a distruggere la vita umana e sociale, il tessuto sociale, perché dietro il narcotraffico ci sono tutti i valori dei trafficanti che vanno a distruggere i valori della società, della cultura dei quartieri in cui viviamo, attraverso la vendita al dettaglio della droga. Per questo è importante per noi creare con creatività un meccanismo che mantenga questo circolo virtuoso. Quando uno di questi anelli si rompe, quando non c’è il club, l’associazione sportiva, la scuola, la cappella, e i giovani cominciano a vivere senza questi punti di riferimento per la loro vita, ecco che iniziano i problemi gravi, ed è lì che la droga e la violenza cominciano a essere un elemento di seduzione. In tutto questo, la creatività di tutti gioca un ruolo fondamentale. Francesco ci ha detto che la creatività dovrebbe portare all’integrazione nei quartieri precari all’interno di una città accogliente. Che belle che sono le città che vanno al di là della sfiducia, che integrano i diversi e che fanno di questa integrazione un fattore di sviluppo! Che belle sono quelle città che nei loro sogni architettonici sono piene di luoghi che mettono in collegamento e favoriscono il riconoscimento dell’altro! Se guardiamo la periferia come un punto d’osservazione importante, ecco che riusciamo a vivere meglio la nostra fede cristiana. Nella nostra realtà argentina, dove pure troviamo il narcotraffico ben radicato, troviamo anche un cristianesimo fondamentalista, dove ci sono realtà complesse, perché alcuni dicono: “Se non cresci in Cristo, non ti puoi salvare”. Non è la predica creativa, la predica dei nostri padri o delle nostre parrocchie, però, sì, ci sono delle sette, che sono sempre più importanti in America Latina. Per questo sono davvero grandi le sfide che si trovano ad affrontare i nostri quartieri: una è la predica fondamentalista del cristianesimo, che va a creare segregazione e che è un fondamentalismo cattolico. Dall’altra parte, abbiamo poi un altro fondamentalismo, che ha a che fare con una vita facile attraverso la droga. Crediamo anche che le periferie siano luoghi di incontro e sviluppo per realizzare un cambiamento. In Argentina siamo passati attraverso una mescolanza: quando arrivarono i colonizzatori spagnoli, in poco tempo, nel 1880, siamo passati dall’essere poco più di un milione e mezzo di creoli, appunto la mescolanza tra gli indios e gli spagnoli, a cui si aggiunsero tre milioni e mezzo di persone. Pensate un po’ all’impatto che ha portato l’arrivo di due milioni di Italiani! Io sono discendente di questi italiani: erano napoletani e li chiamavano lo Stanos. Gli spagnoli li chiamavamo tutti galiziani. Oppure c’erano persone che provenivano dall’impero ottomano, erano libanesi ma noi li chiamavamo tutti turchi. In poco tempo, l’Argentina è cambiata molto e ha insediato nelle periferie questo incontro tra l’italiano, il creolo e il russo. Poi c’è stata un’ulteriore tappa: di fronte all’aumento del giustizialismo del governo Perón, cominciarono ad arrivare i nostri fratelli dalla Bolivia e dal Paraguay, aggiungendo altri cinque milioni di abitanti, senza contare anche le migliaia di peruviani e di cileni. Ebbene, quando si attraversano le periferie dell’Argentina, uno si rende conto che la maggior parte di questi incontri durante la storia si è svolta proprio lì. Ed è lì che è nata una comunità molto più a favore dell’ integrazione e molto più inclusiva, è per questo che, a partire dalla nostra storia nazionale fino ai giorni d’ oggi, abbiamo fatto una scommessa sull’ integrazione, perché l’integrazione è l’unico percorso che ci potrà far superare tutte le differenze. Rispetto alla domanda che mi ha fatto Monica, siamo molto felici, molto contenti di poter vivere nelle villas dove tutti i giorni possiamo imparare qualcosa di nuovo dai suoi abitanti, e possiamo costruire la Chiesa, non da fuori ma insieme a loro. Molte grazie.
MONICA POLETTO:
Mentre parlavate, mi veniva in mente quello che il Papa ha citato quando è stato nella repubblica Centroafricana, quando ha visitato il quartiere povero di Kangemi: diceva che c’è una creatività che viene dalla cultura popolare, una saggezza che viene dai quartieri popolari, ed è una saggezza che viene dall’ostinata resistenza di ciò che è autentico. E diceva alle persone che vivono lì in situazione poverissime: “Voi siete in grado di tessere legami di appartenenza e di convivenza che trasformano l’affollamento in un’esperienza comunitaria, in cui si infrangono le pareti dell’io e si superano le barriere dell’egoismo”. Mi sembra sia la descrizione di quello che ci avete raccontato oggi. Per cui io ringrazio tantissimo i nostri due interlocutori. Anche oggi vi ricordo velocemente che bisogna continuare la campagna di fundraising. Adesso usciamo e lo facciamo tutti, incoraggiati dall’ esperienza positiva dell’anno scorso, dobbiamo continuare. In tutti i punti che ci sono per il Meeting è possibile liberamente donare e così costruire questa nostra possibilità di fare il Meeting e di continuare a dialogare. Grazie.