Chi siamo
IMPEGNO E RESPONSABILITÀ: LA “CARITÀ POLITICA”
Partecipano: Francesco Gagliardi, Direttore Eptaforum; Mauro Magatti, Docente di Sociologia Generale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Luigi Manconi, Presidente della Commissione Straordinaria per la Tutela e la Promozione dei Diritti Umani del Senato della Repubblica italiana; Eugenio Mazzarella, Docente di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi Federico II di Napoli. Introduce Costantino Esposito, Docente di Storia della Filosofia all’Università degli Studi di Bari.
Impegno e responsabilità: la “carità politica”
COSTANTINO ESPOSITO:
Apriamo questa giornata colpiti dalle drammatiche notizie del terremoto di questa notte. Il nostro pensiero come Meeting va alle vittime e alle loro famiglie, desideriamo essere vicini a loro e disporci a questo incontro con ancora maggiore serietà. Per questo vi invito a raccoglierci in un minuto di silenzio, associandoci, in piedi, alle preghiere del Papa di questa mattina. Benvenuti a questo momento di approfondimento e di lavoro sul tema “impegno e responsabilità: la carità politica”. Mi piace il fatto che questo incontro cada dopo aver già vissuto insieme cinque giorni pieni di Meeting, perché ci darà la possibilità di ridire certe parole, di riaprire certe prospettive, avendo negli occhi anche fatti, incontri, volti che sono accaduti, si sono sviluppati e ci hanno sorpreso in questi giorni. Come più volte è stato detto sin dal discorso del Presidente Mattarella, poi anche nel messaggio del Santo Padre e in tanti incontri, parrebbe che dire “Tu sei un bene per me” sia la cosa, oggi, più strana nel campo della politica, perché sembrerebbe che la politica sia quel campo entrato nel quale non si possa più dire “Tu sei un bene per me”. E se anche lo si fosse detto prima, appunto c’è un confine, quello della politica, attraversato il quale bisogna fare i conti con altre delle personalità tra noi che possono sicuramente aiutarci a fare questo percorso. Partendo dalla mia sinistra, vi presento il professor Francesco Gagliardi, che è giornalista e che insegna Media Relations alla Pontificia Università della Santa Croce ed è direttore di questo think tank, di questo centro studi, centro cervelli sull’economia, sulla politica, sulle riforme costituzionali che si chiama Eptaforum, gli diamo volentieri il nostro benvenuto. Alla mia sinistra, Eugenio Mazzarella, che è una, ormai, presenza di casa, ha già partecipato sette volte al Meeting di Rimini, è ben conosciuto da tanti, ricordo che Eugenio Mazzarella è Ordinario di Filosofia Teoretica all’Università Federico II di Napoli, ha fatto anche vita parlamentare e che è particolarmente attento alla fondazione antropologica della politica, grazie per aver partecipato. E continuo ancora salutando un altro graditissimo amico del Meeting che è il senatore Luigi Manconi, che insegna Sociologia dei Fenomeni Politici presso lo IULM di Milano, è senatore della Repubblica, e si occupa appunto di quali siano le vicende personali della gente che sta dietro l’avventura della politica: grazie Luigi per aver partecipato anche quest’anno. Da ultimo, saluto Mauro Magatti, molto noto a tanti di noi, sociologo, economista, Ordinario presso l’Università Cattolica di Milano, a capo di tante intraprese nazionali e internazionali, editorialista del Corriere della Sera che ha sempre, con i suoi saggi e con i suoi contributi giornalistici, dato una prospettiva acuta per capire cosa succedeva ai nostri tempi, molte grazie. Faremo due giri di domande, comincerei con Mauro Magatti. Questo primo giro di domande è un po’ personalizzato perché parte dalla cultura di provenienza, dalla storia, dalle pubblicazioni, dai temi, dagli interessi di ogni singolo relatore. Ed io vorrei partire chiedendo a Mauro Magatti – cito soltanto il suo ultimo libro, Prepotenza, Impotenza e Deponenza, ma forse quello più noto al grande pubblico è quello scritto con Chiara Giaccardi, Generativi di tutto il mondo, unitevi! Manifesto per la società dei liberi. Nei tuoi studi vi è come una tensione sempre sottolineata, che delinea un fattore dinamico e spesso drammatico delle nostre società contemporanee. Da una parte quello che chiami il “tecno-nichilismo”, un assetto socio-economico-politico che gira attorno al consumismo e all’individualismo, e che è per così dire imploso in sé stesso, travolgendo istituzioni, rappresentanze, mercati e significati simbolici. Una crisi che significa paura, insicurezza e omologazione. Dall’altra parte una sempre maggiore accelerazione della libertà, o meglio delle libertà, che rischia però, paradossalmente, di non liberare l’esperienza dell’umano, anzi di asservirlo ad una “volontà di potenza” indotto in maniera esponenziale da chi detiene le diverse leve del potere. Il nesso tra questi due fattori va dunque ripensato, non solo per ri-centrare la vita sociale, economica e politica sul valore fondamentale della libertà (la “libertà generativa” rispetto a quella semplicemente “performativa”), ma anche per dare nuovo senso alla democrazia. Come è possibile questo nuovo incontro tra società politica e libertà personale?
MAURO MAGATTI:
Grazie, Costantino, si vede che sei un filosofo perché sei riuscito a fare una domanda che ha raccolto, diciamo così, anni e anni di studio.
COSTANTINO ESPOSITO:
Te la propongo poi come tua cartella stampa.
MAURO MAGATTI:
Grazie. Sono molto contento anche di tornare qui a Rimini, e ringrazio gli organizzatori di questa possibilità di prendere la parola. Questa è una tavola rotonda, quindi ci siamo messi d’accordo per fare degli interventi brevi, e come è noto chi dice “parlerò poco” è temibile. Quindi non lo dico, ma cercherò di ricordarmi di questo invito. Il tema che ha posto Costantino Esposito è quello attorno a cui, insieme a tante altre persone anche ben più autorevoli di me, si sta lavorando da tempo, e cioè che tutto, i problemi della nostra società contemporanea, del nostro tempo – li potremmo vedere ai vari livelli dalla nostra famiglia al condominio, alla città, alla nazione, al continente, al mondo intero – hanno a che fare con la libertà. La libertà è in questione. Non è una novità, naturalmente, ma noi credo tendiamo a dare troppo per scontato questo termine. Invece la libertà, che per un credente cristiano è uno dei tratti che ci rende simili al Creatore, e per un laico è ciò che ci dà la dignità e la qualità di persona umana, deve essere sempre rimessa in discussione perché ha un tratto abissale, nel bene come nel male. La libertà ha a che fare con una liberazione, per così dire, di energia, e questo credo che sia la ragione fondamentale per cui il ’900 è stato un secolo così disastroso, perché più libertà vuol poter dire più felicità, più gioia, più umanità, ma può voler dire anche più disastri, più distruzione, più annichilimento, e le due cose non sono separabili così facilmente. E credo che questa crisi, c’entri con noi personalmente, con l’idea di libertà che abbiamo elaborato e ci stia ponendo domande fondamentali. Su questa matrice di pensiero, aggiungo solo due elementi e poi commento il titolo di questo Meeting. E osiamo dire, lo abbiamo sentito tutti, che con il 1989, la caduta del muro di Berlino, c’è stata la fine delle ideologie; adesso non ho tempo di giustificare questa affermazione: dato che siamo in una tavola rotonda, vi chiedo di ascoltarla e meditarla, ma credo che il 1989 segni veramente una stagione di transizione, un cambio storico rilevante, perché con il 1989 si conclude un lungo ciclo storico – poi nella storia tutto continua e tutto cambia – in cui la politica, nel bene e nel male, è stato il luogo della liberazione umana. Con il 1989 la politica, così come la religione, si devono ridefinire in rapporto a dei cambiamenti che vengono da un’altra matrice, che diciamo è la matrice tecno-economica. Oggi nessuno, quasi nessuno, francamente, sì, qualche reduce c’è sempre, nessuno pensa più che la sua salvezza venga dalla rivoluzione politica. Per qualche secolo, attraverso la nazione, l’idea di classe, la rivoluzione, questo è stato il pensiero di molti. La politica ha perso quella centralità che ha avuto per alcuni secoli, e nello stesso tempo è del tutto evidente che noi abbiamo bisogno di politica, perché restiamo uomini e donne politici, evidentemente abbiamo questioni che riguardano il nostro stare insieme. Quindi siamo in una stagione in cui la politica è in crisi, la politica si deve ripensare, la politica non si può più concepire com’è stata concepita negli ultimi secoli, come il fondamento, diciamo così, della nostra convivenza. Era una pretesa esagerata della politica, bene, quella pretesa oggi non si legge nemmeno più. Chiudo questo brevissimo accenno dicendo, voi lo vedete benissimo, da una parte abbiamo la tecno-scienza, dall’altra parte abbiamo la grande questione delle religioni, che nel bene e nel male rientrano nella sfera pubblica. E in mezzo, c’è questa politica che non sa bene dove andare. Il rischio qual è? Il rischio che la politica torni in campo, soprattutto dopo la crisi del 2008, in una forma regressiva. E qual è la forma, per me, scusate anche questa affermazione che adesso butto lì, regressiva, molto problematica della politica? Quando tu concepisci la politica in uno schema amico-nemico. E quindi tu riscrivi un bello schema amico-nemico e hai la sensazione che la politica torni ad essere capace di decidere i destini della storia delle popolazioni. Ecco, in questo contesto, nel mio secondo intervento sarò più positivo e mi concentrerò su questo tema, “carità”, che sembra un po’ una stranezza, in questo contesto di crisi di trasformazione. Il titolo del Meeting, che da un certo punto di vista fa un po’ ridere questa gente, “tu sei un bene per me” è una bella frase, da Baci Perugina, siamo tutti contenti, no, io vi propongo di leggerla rispetto all’incontro di oggi, rispetto alla crisi di cui sto parlando, cioè di leggerla all’opposto di come ci viene naturale leggerla. La questione politica contemporanea è che io, Mauro Magatti, devo avere qualcun altro che pensa “tu, Mauro Magatti, sei un bene per me”: questa è la questione della cittadinanza oggi. Il problema della politica oggi è che la cittadinanza l’abbiamo sempre vista come qualche cosa – un insieme di diritti – da cui come cittadini siamo tutelati ed è giusto perché dovevamo conquistarli, questi diritti, e non ci siamo accorti che il nostro problema contemporaneo è che i diritti non si reggono se (come avrebbero detto mia mamma, mia nonna, quindi niente di nuovo sotto il sole) il diritto non ha a che fare anche con il dovere. E se qualcun altro pensa che io sia un bene per lui, lo deve dire lui, non lo devo dire io: questo è il principio della democrazia e di un sistema politico nuovo che è esattamente quello che ci manca. Cioè, lo sfondamento nichilistico, individualistico, tecnocratico, proceduralistico delle nostre democrazie è evidente, perché la politica, dal 1989 in avanti, ha chiaramente ceduto il passo al sistema tecno-economico e non ha avuto più nulla da dire rispetto all’idea di libertà. Allora, se non ci si riappropria discutendo, questionando, confrontandosi, se non ci riappropriamo di questo tema della libertà che ci riguarda tutti come persone umane, come cittadini, io credo che avremo dei problemi. Allora, diciamolo, la striscetta da Bacio Perugina diventa una cosa un po’ più seria, diventa una questione rilevante per il tempo che viviamo.
COSTANTINO ESPOSITO:
Grazie, Mauro. Luigi, c’è un aspetto che colpisce, non solo nella tua biografia ma anche nella tua bibliografia, ed è che il motore della politica – come concezione e come azione – è costituito sempre dalle persone in carne ed ossa, perché è lì, nella loro “carne”, che si capiscono le idee e gli ideali, le ingiustizie e le speranze. E che questa è, semplicemente, l’unica reale motivazione per cui fare politica. A fronte di tutta una riflessione assai diffusa in ambito filosofico, per cui la politica contemporanea sarebbe necessariamente una “biopolitica”, come sistema per il controllo della vita e dei corpi, tu rivendichi la possibilità e la necessità di ripartire da quelle vite e quei corpi (come i profughi, i richiedenti asilo, gli immigrati, i carcerati…) per capire cosa siano i “diritti”, cosa la giustizia e la solidarietà. Che tipo di percorso la politica oggi è chiamata a fare per comprendere il suo vero scopo ideale e pragmatico, partendo da questi casi sempre “singolari” e irripetibili, cioè partendo dalle persone?
LUIGI MANCONI:
Grazie e buon pomeriggio. E grazie al Meeting per avermi voluto qui anche quest’anno. Partirò da una vicenda pubblica e dunque per me anche privata e privatissima e da alcune parole pubbliche pronunciate alcuni mesi fa da Paola Regeni, madre di Giulio. “Il volto di mio figlio era diventato piccolo piccolo. Ho potuto riconoscerlo solo dalla punta del naso e nel suo volto ho visto tutto il male del mondo”. Con parole che esprimono una forza letteraria e se posso dire una potenza politica rare, la madre di Giulio Regeni, ucciso a ventotto anni tra la fine di gennaio e i primi di marzo nel 2016 in Egitto, ci parlano di uno straordinario percorso umano che quelle parole rivelano: lo strazio personale, quello più atroce che si possa vivere, la morte e quella morte del figlio, e combinata con quello strazio la consapevolezza che quel martirio faccia parte, allo stesso tempo, evochi tutto il male del mondo. E qui, in questa frase, tutto il male del mondo, c’è un riferimento che tra un attimo riprenderò a una questione, forse la più efferata tra quelle che vengono poste alla nostra attenzione, quella della tortura e allo stesso tempo la partecipazione di quella madre alla sorte che centinaia e centinaia di egiziani anonimi hanno subito e subiscono, così simile a quella di Giulio Regeni. Perché considero quelle parole e quella vicenda come la risposta che io posso dare oggi alla domanda che mi viene posta? Perché vedete, io ritengo che gli scenari internazionali, la geopolitica, l’analisi del contesto mondiale noi lo possiamo considerare attraverso molti approcci e attraverso molti punti di vista. E però quello scenario, quello del Medioriente, nel caso concreto che qui consideriamo, ha alcuni sviluppi che è possibile leggere attraverso una vicenda personale, un nome e un cognome, una biografia, un corpo e un’anima e una sofferenza incancellabile. Perché dico questo? Perché pensate, tematiche sempre vive e sempre incandescenti quale nelle relazioni tra uno Stato democratico, uno Stato di diritto come l’Italia e un regime dispotico come quello di Al-Sisi che domina adesso l’Egitto, quale può essere il ruolo della tutela dei diritti fondamentali della persona? Possiamo considerarla come tematica politologica, come tematica del diritto internazionale, oppure possiamo vederla attraverso questa vicenda dolente così vicina a noi, quella di un nostro connazionale di ventotto anni. E ancora, persino più drammatico e inquietante, un altro dilemma. L’Egitto oggi gioca un ruolo strategico nella lotta contro il califfato e quindi a noi viene restituita una questione che è vecchia di secoli ma che in epoca contemporanea ha assunto una intensa tragicità. Nella lotta contro il nemico principale, è lecito ottimizzare qualunque mezzo ed è auspicabile qualunque alleanza e dunque l’Egitto di Al-Sisi, obbligatoriamente nostro alleato secondo le logiche geostrategiche, secondo i rapporti di forza, secondo le esigenze di stabilità di quella Regione, è un partner al quale dobbiamo rivolgerci come un alleato affidabile oppure quel regime presenta, unitamente a quel luogo militare politico, a quella regione, problemi enormi che oggi dobbiamo affrontare, senza rinviarli a dopo, quando la lotta contro il califfato sarà finita? E di conseguenza, qual è lo spazio che nelle relazioni tra l’Italia e l’Egitto, tra l’Europa e l’Egitto, noi attribuiamo alla tutela dei diritti umani in quel Paese? Perché vedete, non si mette in discussione in alcun modo l’importanza delle relazioni istituzionali, diplomatiche, economiche, commerciali e militari. Ma la tutela dei diritti umani degli egiziani è priorità tra le priorità nel sistema di relazioni che l’Europa intrattiene con l’Egitto o è fatalmente destinata a rappresentare l’ultimo punto di un’agenda politica, di un sistema di rapporti che fatalmente porterà a trascurare la qualità democratica di quel sistema, che oggi vede Al-Sisi rafforzare sempre più il suo ruolo dispotico? E ancora, dicevo prima, nelle parole di Paola Regeni c’è quel riferimento davvero atroce perché è fatto da chi ha visto un corpo che ha subito sevizie, mutilazioni, crudeltà. E c’è sullo sfondo, incombente, minaccioso come un male assoluto, come il male assoluto, la questione della tortura. Cioè, non solo della violenza fisica su corpi fisici, sugli organismi umani, sulle membra. Ma ciò che quella violenza esercitata sul corpo rappresenta: una volontà di degradazione dell’altro. Perché, guardate, questo è il senso di quella parola terribile, tortura. È volontà di sopraffazione che diventa degradazione del corpo altrui. E attraverso quella degradazione del corpo altrui, mortificazione, annichilimento della sua personalità. E allora, lo dico proprio pudicamente, dentro una parentesi, sarà o non sarà un problema vero e pesante il fatto che nell’ordinamento dello Stato italiano, nei nostri codici, a ventotto anni dalla ratifica da parte dell’Italia della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, quella fattispecie penale non è ancora presente, non è ancora reato nei nostri codici? Sarà un problema o non è un problema, e grande? Davvero, esito a buttarla nella politica politicante così attuale perché è tema di dibattito parlamentare esattamente di queste settimane e dello scorso mese, ma lo voglio richiamare dentro questa dimensione umana, dentro a questa analisi sintetica, come è obbligatorio fare per rispetto del tempo concessomi, delle procedure di mortificazione dell’altro, di umiliazione dell’identità altrui attraverso la violenza nei confronti del suo corpo. Ancora, altra tematica, che attraversa la vicenda di Giulio Regeni, quindi rispondendo a quanto mi proponeva di affrontare Costantino: nome, cognome, vicenda individuale, biografia. Ancora quella madre ha detto di suo figlio – pensate, forse arriverete a condividere con me quanto ho detto della potenza letteraria e politica di quella donna: “Mio figlio era un giovane contemporaneo”. Io penso che qui davanti a me, per quel che riesco a vedere nella mia cecità, vi siano tantissimi giovani contemporanei. Tantissimi giovani profondamente dentro il proprio tempo, immersi nel proprio tempo e nella società del proprio tempo, pieni di curiosità, di voglia di fare, di voglia di conoscere. Giulio Regeni, ventotto anni, studi brillantissimi, conoscenza delle lingue, gusto della ventura, del movimento, capacità di attraversare i confini, di cercare nuovi spazi, che va in Egitto come tantissimi di voi. Lo posso indovinare senza conoscere personalmente nessuno. Matilde, penso che Matilde sia una giovane contemporanea, come una giovane contemporanea Federica, quella che collabora con me. Persone cioè che hanno fatto di una voglia di libertà – ecco quello che diceva prima Mauro Magatti, che io condivido pressoché incondizionatamente – non un piacere privato, senza che il piacere privato debba essere sconfessato, condannato, penalizzato, sanzionato moralmente o tanto meno penalmente, ma hanno fatto di questa voglia di libertà una formidabile capacità di movimento, una formidabile domanda di conoscenza. Ecco, dobbiamo ancora indagare meglio questo, è un compito dei sociologi, dei filosofi. Io lo faccio transitoriamente attraverso la politica, l’ho fatto e lo voglio fare attraverso la mia attività di sociologo. Cos’è davvero la libertà? Certo è una domanda imperiosa e prepotente che a mio avviso continua ad essere, come lo è stata a partire dall’800, la prima fondamentale ragione della politica.
COSTANTINO ESPOSITO:
Francesco Gagliardi ha pubblicato l’anno scorso un libro a più voci intitolato Una buona stagione per l’Italia. Idee e proposte per la ricostruzione del paese dell’Europa, con un focus in particolare che sono i settant’anni, oltre che della Repubblica, del cosiddetto Codice di Camaldoli, che era un documento in cui alcuni uomini di cultura, di pensiero, di azione, di politica, di storia e di pratica cattolica avevano messo a punto, proprio per comprendere in un momento cruciale della storia del nostro Paese, in che modo il corpus della Dottrina Sociale della Chiesa fosse chiamato a verificarsi e a mettersi alla prova nella costruzione del bene comune. Da sempre, anche se con forme espressive ed esiti diversi, nel mondo cattolico italiano si è prestata particolare attenzione alla Dottrina Sociale della Chiesa come motivazione ideale di una responsabilità sociale condivisa. Eppure questo non ha impedito (anzi, secondo alcuni l’ha addirittura favorito) un processo di progressivo disinteresse, se non di pregiudizio e di sfiducia diffusa nei politici e nella politica in quanto tale. Tanto che Papa Francesco, nel recente convegno della Chiesa italiana a Firenze, ha dovuto quasi scongiurare: “Per favore, non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico”. Come è potuto avvenire questo scollamento? La visione cristiana della società e dell’impegno politico, che da molti è vista espressione di una precisa posizione ideologica, se non di determinati interessi politici, in che modo può essere ricompresa e rilanciata oggi come risposta adeguata alle sfide sociali e alle insicurezze personali degli uomini del nostro tempo? In che modo in essa può trovare nuova acqua per crescere la pianta della democrazia?
FRANCESCO GAGLIARDI:
Grazie agli organizzatori per avermi Invitato a partecipare al Meeting. Provo a dare qualche risposta. Io credo che le ragioni per cui ci sia stato un allontanamento, un disinteresse, forse una repulsione nei confronti della politica, anche da parte dei cattolici, ovviamente non solo, perché se no non si spiegherebbero i numeri dell’astensione, siano tante, sicuramente, per quanto riguarda noi, c’è stata una scarsa attenzione alla formazione per quanto riguarda la morale sociale, si è data molta attenzione alla morale della vita e alla morale sessuale, poca attenzione alla morale sociale, se non fosse stato, fortunatamente, per molti Papi, che hanno scritto molte encicliche sociali, forse non ci sarebbe stato tutto questo disinteresse. Ricordo che sono nate nel corso del tempo tante scuole di formazione politica, però nel corso del tempo altrettante ne sono state chiuse, alcune sono sopravvissute e questo ha determinato in un qualche modo una sottovalutazione da parte di molti di questo elemento, cioè dell’attenzione a questa necessità. Probabilmente un altro motivo saranno state le condizioni storiche che citava Magatti prima, forse un altro motivo è stata l’incapacità della politica di rispondere a bisogni reali delle persone, di riuscire a fare sì, fra i diversi interessi, tutelando quelli dei più deboli, che si realizzasse il fine proprio della politica che è il bene comune. Io credo che le persone, i cittadini, questo l’abbiano percepito, anche i cattolici, ed è per questo che se chi è deputato a tutelare gli interessi di tutti non è in grado di farlo, magari tutela soltanto gli interessi di alcuni, che spesso sono i più forti, allora non serve, anzi, spesso l’impressione che ha dato la politica è di essere stata governata da piccole oligarchie, quando non da singoli satrapi. E quando è così, quando si trasforma in tirannia, non è più democrazia. Stamattina, non mi ricordo se era Casavola che citava un passo della Costituzione dove si diceva che la sovranità appartiene al popolo, ma davvero appartiene al popolo la sovranità? O siamo in un regime di democrazia formale dove i cittadini contano poco o nulla, come altrettanto contano poco i parlamentari, e a colpi di fiducia si fa passare la qualunque, e i cittadini si sentono semplicemente spettatori? Io condivido profondamente l’affermazione di Papa Francesco: “Non si può stare alla finestra, non si può stare a guardare”, però servono le condizioni per poter partecipare. La qualità della democrazia dipende dal tasso di partecipazione, se non c’è partecipazione è evidente che riescono a determinare l’incidere sui processi i poteri più forti o quelli meglio organizzati. Hannah Arendt scrive che “il potere scaturisce dagli uomini quando vivono insieme e agiscono insieme e svanisce appena si disperdono”: è proprio così, cioè se noi non vogliamo stare alla finestra, non abbiamo alternativa che provare ad incidere sui processi in maniera collettiva partecipando alla politica. Non c’è altra strada, poi è anche legittimo scegliere di disinteressarsi, però non ci si deve lamentare se le cose non vanno nella direzione in cui vorremmo. La seconda domanda era se la visione della società cristiana, la visione cristiana della società è vista in maniera ideologia: a me sembra che sia vista e descritta in maniera ideologica da quelli che si sono abbeverati da ideologie anticlericali, spesso fallite, e invece potrebbe davvero costituire, quella visione cristiana, un fertilizzante eccezionale per la democrazia, perché potrebbe influire su alcune tendenze che sono in atto come l’eccessiva verticalizzazione del potere che annulla la democrazia, come l’impoverimento del ceto medio, delle famiglie che sono la spina di qualsiasi sistema democratico, e diciamo potrebbe essere il carburante per la buona politica, nel senso che potrebbe riportare la politica, riorientarla verso il bene comune, verso il bene di tutti, cosa che al momento non sembra che sia proprio così. Chiudo qui, così cerco di rispettare i tempi, spero di aver risposto alle tue domande.
COSTANTINO ESPOSITO:
Mazzarella, alla luce della tua riflessione (accompagnata per un certo periodo anche alla pratica in prima persona) sulla politica come luogo in cui si trasmette, si tutela e si tramanda la vita, e ancor più un possibile senso del vivere, vorrei chiedere: come si incontra “l’altro” in politica? E cosa è l’altro in politica? Nell’impegno politico, l’altro non è solo l’altro personale al presente – singolo o collettività -, di cui cerco il consenso e che voglio rappresentare nei suoi interessi, bisogni, speranze. Ma è anche l’altro al passato e al futuro: e qui rientrano l’identità e la storia di cui mi faccio carico, ma anche il futuro di chi verrà, e le condizioni (sociali, materiali, ambientali) in cui un futuro chi verrà potrà averlo. Insomma, che cosa significa assumersi la responsabilità in politica di rappresentare qualcuno di cui affermo di voler fare il “bene”? Cosa significa la politica come servizio e responsabilità? E la distanza sempre in agguato tra le parole e le cose su questo terreno?
EUGENIO MAZZARELLA:
Grazie, Costantino, che mi ha dato la possibilità di continuare una gratitudine, cioè stare qui con voi a ragionare un po’ insieme. Cos’è l’altro in politica, l’altro che si vuole rappresentare? Di cui si cerca il consenso. Partirei da qui, dal consenso, ciò che in democrazia legittima a rappresentare, degli altri, gli interessi, i bisogni, le speranze. Come pretendono, sempre, interrogati sul loro ruolo, i “politici”. Anche quando fanno tutt’altro, alimentando una crisi della rappresentanza, in democrazia il cuore stesso della politica, che ne genera la crisi, oggi così evidente nella deriva populistica in cui è impantanata. Perché la politica è, dovrebbe essere, questo: capacità e vocazione di rappresentare, di far presenti gli altri nella costruzione delle decisioni politiche che impegnano tutti, come se fossero loro a prendere parte alle decisioni che riguardano la loro vita. Penso che il punto sia proprio questo: che rapporto ha un politico con il consenso che cerca, con l’affidamento politico a me, che pretendo di rappresentarlo, di chi mi dà il suo consenso?
Il consenso è per lo più interpretato come un patrimonio di consensi, di delega politica, da conquistare per gestire il “potere”. È l’oggetto delle campagne elettorali, della lotta politica, il cui esito nelle urne legittima pro tempore l’azione di governo. Il problema è però, soprattutto con una politica troppo spesso ridotta a marketing, a pura comunicazione, piuttosto che ancorata a visioni e proposte di interesse pubblico, che non basta conquistare il consenso degli altri per rappresentarli davvero. Per averlo davvero, il consenso degli altri, più che averlo, conquistarlo, bisogna stare in consenso con gli altri. Mi spiego: consenso significa cum-sentire, sentire insieme agli altri, consentire, idem sentire quanto a qualcosa. Mantenere questo sentire comune, anche dopo la sua “conquista” nelle urne, e forse partire da questo sentire comune, senza perderlo per strada, fa la differenza tra un buon politico e un cattivo politico. Senza questa capacità di tenuta del consenso, di tenersi in un comune sentire con chi si rappresenta, il consenso scade a un mero capitale di like ottenuto nelle urne, per lo più gestito a proprio vantaggio.
Consenso viene dal latino consénsus che è participio passato di consentire, concordare, adesione all’altrui volontà, lo stesso che consentimento: un’adesione all’altrui volontà che parte dal cuore, un sentire con lo stesso cuore; soprattutto quando te lo hanno consegnato, affidandosi a te per rappresentarlo nei suoi interessi, nei suoi bisogni, nelle sue speranze. Credendo in te, come si dice. E ancora una volta, credere significa porre il proprio cuore su qualcosa, o qualcuno. Come si vede nel lessico sostanziale del consenso, sotto la necessaria scorza dei processi politici con le loro durezze e le loro arti che si apprendono e che fanno il “politico”, gratta gratta riemerge la necessità dell’umano, l’altro come un bene. Riemerge, nella delega politica e nella lotta per conquistarla, un lessico relazionale, fiduciario, un lessico di affidamento umano, che chiede di essere onorato. Anche con i giusti compromessi tra interessi rappresentati diversi, che sono – come ricordava Ratzinger in un famoso discorso del 1981 ai deputati cattolici del Parlamento tedesco nella chiesa di San Winfried a Bonn – l’arte della politica come capacità di mediazione politica degli interessi legittimi cui ci si impegna coram populo, popolo davanti a cui si promette insieme, ci si com-promette (cum-promissio), l’impegno al bene comune. Immagino che a quelli che in politica la sanno lunga, questo discorso potrà sembrare buonista, velleitario, con qualche imprestito di filologia moraleggiante che alla fine chiede alla politica che rappresenta gli altri qualcosa come un sentimento, una simpatia, un’empatia con quelli che rappresenta, Mentre politica è ben altro: capacità di analisi, competenze, “soluzioni”. L’empatia con gli altri di cui governi le vite è roba da convegni, magari di chi di politica ne capisce poco. Non penso proprio che sia così, e proprio questa mancanza di empatia fa spesso la “cattiva” politica. Lo illustro con una polemica estiva, che mi ha molto indignato. Il modo in cui è stata trattata sui media la protesta degli insegnanti meridionali per i trasferimenti al Nord, fondamentalmente legata a qualche persino ovvia possibilità di errore dell’algoritmo ministeriale usato per l’assegnazione delle cattedre. In un Paese politicamente civile, almeno come lo intendo io, la questione doveva essere confinata in una rapida verifica a sanare eventuali errori. E magari, in prospettiva, in qualche misura di sostegno ai trasferimenti nella Pubblica Amministrazione, in un regime noto a tutti di bassi stipendi, che ad una certa età, soprattutto con una famiglia sulle spalle, è certamente un peso importante per la vita di chi deve farsene carico per lavorare. E invece è finita con autorevoli paginate, con commentatori dal reddito annuo pari a diverse decine di insegnanti, che era il solito piagnisteo dei professori meridionali, perché era un dato di fatto che su dieci insegnanti a trasferirsi otto erano meridionali e solo tre posti su dieci sono al Sud; quindi che volevano, ringraziassero il governo che finalmente li sistemava, e tacessero con pronte le valigie. Insomma, il lavoro quasi come favore di Stato, e non come diritto. Ma la cosa più indecente è stata la comparsa come funghi sui giornali di articoli che ricordavano che i giovani meridionali alla maturità prendono il 100 in percentuale maggiore dei giovani del Nord, e questo risultato alla maturità collima con i test Invalsi. Non entro qui nel merito della questione, che è poi stata lucidamente sciolta, numeri alla mano, da un sociologo di valore, Viesti, ma è partito il solito circo di giudizi e pregiudizi per delegittimare la scuola del Sud e i suoi insegnanti che si lamentavano. A suscitare la mia indignazione è stato un incontro umano, qualche giorno prima di queste polemiche di Ferragosto, con un giovane operaio, passato a casa a sistemare una lavastoviglie, che aveva dovuto lasciare gli studi per consentire alla moglie di laurearsi e insegnare. Avevano avuto un matrimonio per così dire affrettato, per tenersi il bambino. E ora dopo anni di precariato la moglie aveva avuto una cattedra in una cittadina del Nord, e lui era rimasto a casa con il figlioletto di sei anni che aveva ricominciato a bagnare il letto, e aveva davanti a sé il dilemma di come portare avanti quella famiglia che aveva scelto sacrificando i suoi studi. Mi è venuto dal cuore un commento su un giornale della mia città per chiedere a troppi commentatori della domenica, e magari alla politica cui vogliono tenere bordone, di scambiarsi di posto per un anno con un insegnante, di cui condannavano gli immotivati lamenti contro l’algoritmo ministeriale; per un anno solo, non una vita, con stipendi e sistema di relazioni, però, inclusi. E poi di tornare a commentare tra un anno. Insomma che prima di parlare, facessero per un anno gli inviati speciali nella vita degli altri. Avrebbero rischiato di diventare migliori nel “sentimento” che dovrebbe animare la rigorosa “intelligenza” delle loro analisi. Non so se ho reso l’idea di cosa intendo per sentimento nell’azione politica: la ricerca forse, anche quando gli algoritmi sono necessari, di un algoritmo dal volto umano; la capacità di tenere davanti agli occhi le persone di cui si decidono le vite. Se lo si fa, come che si decida, si deciderà in modo migliore. Anche nelle situazioni più complesse e scabrose, la politica, quella vocata e non solo tecnicamente capace, assolverà al suo ufficio, anche quando, quasi sempre, non tutto può risolvere, di “limitare il disonore”, per usare una bella citazione con cui Luigi Manconi chiude un suo recente libro. Sapendo infine che impegnarsi al bene comune significa impegnarsi al bene comune non solo al presente. Che il bene comune non è la trimestrale di cassa da presentare a chi voterà alle prossime elezioni; ma è anche il passato dei valori, di una storia, di un ambiente da tutelare e il futuro delle nuove generazioni; il bene di chi non vota più e persino non ha mai votato e pure ci ha lasciato il Paese e la storia che abitiamo e il bene di chi non vota ancora. Una politica empatica con l’umano che vuole rappresentare, deve saper rappresentare questo.
COSTANTINO ESPOSITO:
Siamo al secondo rapidissimo giro, Negli ultimi anni, più volte Papa Francesco ha ripreso la visione della politica proposta da Paolo VI come “la forma più alta di carità”. Un ideale che ha rilanciato nel recente discorso per il conferimento del Premio Carlo Magno (6 maggio 2016), affermando che oggi l’Europa è chiamata dalla sua stessa memoria storica a vivere la sua crisi (crisi delle migrazioni, delle emergenze economiche e occupazionali, delle istituzioni politico-amministrative, dei riduzionismi culturali, degli sfruttamenti ambientali ecc.) senza cadere nella “stanchezza” o cedere alla “rassegnazione”, ma “imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale”. L’incontro e il dialogo con l’altro non è appena una mossa compassionevole, ma una possibilità di ritrovare noi stessi, che la nostra identità ci sia restituita, come un talento da trafficare e far fruttare nel mondo. In questa prospettiva l’apertura al diverso – quale che sia il connotato di questa diversità, dagli stranieri e dai migranti ai giovani senza lavoro e agli “scarti” dell’economia del mero profitto finanziario -, non solo non compromette l’identità e la storia delle nostre persone e delle nostre nazioni, ma è addirittura l’unica possibilità di riconquistarla: “Il volto dell’Europa non si distingue infatti nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure”. Come risuona oggi nella vostra sensibilità questa politica come “carità”? Certo, è una parola impegnativa e bruciante, per tutti, per chi è cristiano ma penso anche per chi non lo sia. Perché suggerisce appunto che in gioco nella politica è innanzitutto il riconoscere un bene comune e condiviso da tutti, un bene ricevuto e in qualche modo sempre più grande di noi e dei nostri sforzi; ma implica anche riconoscere ciascuno come un bene irriducibile per sé e nel rapporto con gli altri esseri umani. Che significato ha per voi, oggi, in una società così frammentata e attraversata da differenze e diseguaglianze, questo “bene” di tutti? E cominciamo da Francesco Gagliardi.
FRANCESCO GAGLIARDI:
Per me è indubbiamente l’attenzione a quegli scarti dell’economia di cui parla il Papa. Dove ce ne sono tanti, di immigrati, di giovani senza lavoro. Io penso che la visione cristiana è la politica come carità, dovrebbe proprio ribaltare alcune concezioni. Soprattutto quella dell’economica che è a servizio del danaro, dell’accumulazione di denaro e non al servizio della persona, del bene delle persone. Prima mi colpiva quello che ha detto Manconi sulla mamma di Regeni, giustissimo, verissimo, è la cosa peggiore che possa capitare a un genitore, però mi domando quanti genitori sono tranquilli e sereni avendo figli in casa che non hanno un lavoro, che non hanno la prospettiva di un reddito e di conseguenza non hanno la prospettiva di crearsi una famiglia, di arrivare alla felicità della persona. Perché questa cosa prolungata nel tempo è davvero una mortificazione delle persone. Per come io vedo la situazione attuale, è possibile per noi accettare – non voglio personalizzare e non voglio criminalizzare nessuno – che per mantenere retribuzioni alte ai top manager di alcune aziende, nel mio settore, quello giornalistico, ci sono delle cose che…, colleghi che vengono messi in cassa integrazione per mantenere retribuzioni milionarie di quotidiani importanti nazionali, basta leggere i giornali e si capisce immediatamente quali sono, è possibile accettare una cosa del genere? È possibile accettare che società con nomi anglofoni si dedichino a massimizzare i profitti degli azionisti, ottimizzando la redditività, sapete che vuol dire? Licenziare le persone, far calare il costo del lavoro, aumentare i dividendi per gli azionisti. È possibile accettarla? Io ho qualche dubbio. Io penso che quello che dice il Papa, di incontrarsi con l’altro, di accoglierlo, dovrebbe spingere la politica, come diceva prima Mazzarella, anche se non puoi fare tutto il passo che vorresti fare, ma almeno uno fallo, o almeno prova a farlo nella direzione giusta. Un’altra domanda: il recente provvedimento sui mutui è un vantaggio per i mutuatari, che se perdono il lavoro di conseguenza perdono anche la casa, perché se non hanno modo di pagare le rate la banca interviene direttamente senza passare per l’ufficiale giudiziario e mette in vendita la casa, oppure è un regalo per le banche? Ripeto, io non voglio criminalizzare nessuno, però le banche non hanno mancato di sostegni, no? Draghi è stato tipo Babbo Natale per le banche, le banche sono importantissime nell’economia di un Paese, dipende da come vengono usate. Se vengono usate per far star meglio le persone, tutte – le imprese, le piccole imprese, se gli viene dato il credito, se il credito viene dato alle famiglie, se viene dato a giovani che magari vogliono sposarsi -, oppure se vengono utilizzate come è stato per fare speculazione finanziaria, e fare arricchire quelli che sono già ricchi. Io penso che, soprattutto la politica come carità, la carità, deve risuonare soprattutto come giustizia sociale. Se non risuona così, non vedo il significato di carità. Grazie.
LUIGI MANCONI:
Mi piace pensare come strettamente e intimamente integrati l’uno nell’altro, la frase di Paolo VI, ripresa da Papa Francesco, e il titolo di questo Meeting. Alla prima affermazione, quella pontificia, io rispondo immediatamente sì, sono incondizionatamente d’accordo e non metto in campo cautele e prudenze e ipocrisie, come forse almeno una delle culture delle quali sono espressione suggerirebbe, chiedendo: sì, ma di quale carità qui si parla? Cosa si intende per carità? No! Io accetto incondizionatamente questa formula proprio pensando a come la fonte di quella affermazione pensa la carità. La carità è, se non sbaglio, una virtù teologale, qualcosa cioè di fondativo di un intero universo di pensiero e di azione nel mondo. Ma ci interessa poco di conseguenza considerare i cattivi usi che è possibile fare di una frase come quella. Personalmente da 25 anni mi esercito nel criticare la categoria di solidarietà che è in qualche modo interpretata come versione laica, mondana, secolarizzata di carità, proprio perché si ha il rischio frequente di una retorica della solidarietà, così come di una retorica della carità. Ma se invece noi andiamo al nucleo essenziale, al corpo vivo, al cuore pulsante, bene, carità e “tu sei un bene per me”, cioè l’accento, l’enfasi, l’intera elaborazione è concentrata sulla carità come relazione, e dunque come reciprocità, non come elargizione bensì come scambio che è quanto ha detto poi Costantino, riprendendo le parole di Papa Francesco a proposito dell’incontro, dell’ascolto, della disponibilità verso l’altro e verso l’altro come ricchezza, non come oggetto della nostra tolleranza, bensì come opportunità offerta alla nostra identità, al suo arricchimento. Allora io, probabilmente qui mi trovo in una condizione singolare perché la definizione che ho elaborato in questi ultimi tempi per un’autodefinizione è quello di dirmi né agnostico, né ateo, né credente bensì io sono un pococredente, tutto attaccato, ma me ne vanto nel senso che è un itinerario di cui non so l’esito, ma è, come dire, un’acquisizione, un’esperienza che vado facendo. E allora, quando vengono riportate le parole di Papa Francesco, a me viene in mente un’esperienza umana, intellettuale e politica. Proprio a partire dalla mia condizione di pococredente, io ho un orientamento sulle questioni di fine vita che non sono quelle maggiormente condivise, aggiungerei dalla maggioranza della cultura cattolica e insisto ad usare questi termini indicando maggioranza perché, ad esempio, il filosofo Giovanni Reale ha detto cose che non sono poi così infinitamente diverse da quello che dico io, ma, ecco il punto, cosa ha insegnato a me l’idea così forte che “tu sei un bene per me”, se lo consideriamo nell’ambito del fine vita, delle terapie per i malati terminali, della dignità del morire? Mi ha insegnato che esiste un valore della persona, della sua irriducibilità, della sua irripetibilità, che non può essere valutato né secondo criteri e parametri economicistico-consumistici, ma nemmeno tramite parametri rigidamente sanitari, rigidamente terapeutici, e che dunque c’è una dignità della persona che può sopravvivere oltre il dolore incancellabile, oltre il dolore indicibile, oltre il decadere del suo corpo, oltre l’esaurirsi della sua capacità di relazione e di sentimento. Bene, questo è qualcosa che a me ha insegnato, non so bene come chiamarlo, la cultura cattolica, devo usare questa formula perché è quella più semplice da intendere. Bene, se questo è vero, vedete a quali conseguenze si può arrivare, pensando che “tu sei un bene per me” e che dunque la tua persona mi può insegnare qualcosa, può arricchirmi in qualunque momento del percorso, in qualunque momento dell’esistenza, della sua fatica, del suo dolore, e della sua sofferenza? Ecco, su questo, tenendo rigorosamente conto di un fatto, che la politica poi non solo non è tutto ma è una cosa parziale, una cosa piccola, una cosa che non può risolvere i mali del mondo, né garantire la felicità, però è uno strumento utile. Bene, se questo è la politica, questa idea di reciprocità e dunque pensare che essere un bene per me ha un significato giuridico, sociale, normativo, per esempio sotto il profilo dell’inclusione all’interno del sistema della cittadinanza, ma ha anche un significato filosofico all’interno di un’idea di comunità, per come la evocava prima Mazzarella, mi sembra un fondamento importantissimo della politica. Solo un’annotazione, permettimi ma proprio per curiosità, non ho capito se prima tu hai citato Papa Francesco alla lettera: se così fosse è molto divertente che Papa Francesco, con un guizzo anticonformista che io apprezzo infinitamente, abbia utilizzato una parola che oggi viene dannata, addirittura, quella di “multiculturalismo”, che nel discorso pubblico, chissà perché, è diventata una parolaccia, qualcosa di cui vergognarsi e che nella parole di Papa Francesco è stato restituito alla sua autenticità. Grazie.
COSTANTINO ESPOSITO:
Grazie. La citazione era letterale. Mauro Magatti.
MAURO MAGATTI:
Naturalmente la domanda è che cosa c’entra la carità con la politica moderna che dopo Macchiavelli significa raggiungere il fine della politica utilizzando i mezzi necessari. Dobbiamo porcela, questa questione. Se siamo gente strana perché è qualche secolo che Machiavelli ci ha detto: “fare politica significa dotarsi dei mezzi necessari per raggiungere il fine che la politica si dà”. In questa espressione di Machiavelli c’è un punto che è il fine della politica. Dove siamo noi oggi? Siamo in un momento in cui lo schema politico è diviso tra la tecnocrazia e il populismo. In tutto il mondo occidentale, impressionante. Il resto del mondo è in guerra. Dopo i grandi venti anni della globalizzazione, c’è mezzo mondo in guerra dove sta succedendo di tutto, nei paesi occidentali c’è la tecnocrazia da una parte, che vuole andare avanti com’è andata avanti negli ultimi trenta anni, e il populismo, cioè una generica evocazione di qualcosa di diverso che non si sa bene cosa sia. Non abbiamo un fine. Allora qui, secondo me, salta fuori la questione della carità. Nel senso che la carità, cioè l’interrogazione che ci viene dal volto di altri, per citare Levinas, che non potremo mai soddisfare completamente, è il fine della politica in ultima istanza, nelle sue tante forme. È l’unico fine che la politica moderna, anche quella laica di Machiavelli, in fondo può provare a dire, se vuole legittimarsi in democrazia. Questo secondo me è molto prezioso, perché se voi staccate la democrazia, la politica, le istituzioni da questo fondo, da questa istanza che ci supera, badate, perché abbiamo da lavorare i prossimi dieci secoli per costruire delle democrazie decenti in grado di creare contesti dove l’istanza che ci viene dal volto dell’altro, dalla marginalità, dai Guido Regeni, dalla tortura, dall’ingiustizia sociale, da tutto quello che volete voi, non potrà essere soddisfatta ma in qualche modo appunto ci spingerà sempre avanti. Ecco, la mia riflessione è questa, che in un momento in cui chiaramente rischiamo di andare fuori strada, perché negli ultimi trent’anni abbiamo pensato che fondamentalmente la politica fosse una tecnica, allora noi abbiamo bisogno di rigenerare le basi della democrazia, richiamando il nostro senso di cittadinanza a questa istanza che non possediamo ma che è l’unica istanza, quella della carità, che può rimettere in moto dei processi storici.
EUGENIO MAZZARELLA:
Parlare di “bene” di tutti, di un universale sentimento di benevolenza umana che dovrebbe animarci, traducendo un po’ alla buona la carità politica che siamo invitati ad esercitare, sembra di primo acchito, e in effetti lo è, un progetto temerario. In una sociologia che ci descrive impantanati in una società della paura, che non è solo un’impressione, ma un fatto – dal perdere il lavoro per la crisi economica, al perdere la vita per un attentato per ragioni che neanche sappiamo bene, salvo che, come ci dicono, “quelli ci odiano” e siamo imbelli se non li ripaghiamo della stessa moneta, mettendo a repentaglio la nostra civiltà -, un paesaggio sociale reale e percettivo insieme che spinge a una generale risposta securitaria, a chiusure individuali e collettive, quando non di Stati e di politiche nazionali; in un paesaggio sociale di questo tipo ci vuole un bel coraggio a parlare di “bene di tutti”, a essere disposti a dire non a tutti e a nessuno, ma a ognuno che incontri, ad ogni altro reale – da chi ti può “rubare” il lavoro, connazionale o extracomunitario che sia, i terroni del mondo sono tanti, a chi ti dorme nei suoi stracci in una aiuola della zona residenziale dove abiti, a chi ti sbarca dai barconi e ti viene alloggiato dove sei in vacanza -, “tu sei un bene per me”. Dirlo a ogni Tu, anche ai tanti Tu da cui ti senti infastidito o minacciato, alla seconda persona concreta degli incontri reali, e non al Tu di categorie filosofiche pur benemerite; e proporselo come linea di condotta individuale, sociale e politica. Ci vuole un bel coraggio. Francesco l’ha notato nel titolo del Meeting di quest’anno. Incoraggiandoci ad averlo questo coraggio di un esercizio – che si faccia storia, pensiero e azione, prassi quotidiana e approccio strategico ai problemi sociali e geopolitici del mondo globalizzato – di carità politica. Un invito, anche quello del Papa, abbastanza temerario. Carità, benevolenza, accoglienza. È una parola, in un contesto in cui anche nelle società più ricche ci si sente, e per molte fasce sociali effettivamente si è, impoveriti; e si vive nell’evanescenza di norme sociali vissute come benevole, o quanto meno capaci di garantire un quadro di riferimento sostenibile ai propri progetti di vita. Con effetti macro-sociali di immediato rilievo politico nella conflittualità sociale e nella collisione tra culture che così si genera in una società sempre più multiculturale. E pure intrupparsi nelle proprie paure chiedendo sicurezza, chiusure, in nome di un’identità da difendere dagli “altri”, non solo non risponde alla storia dell’Europa, che l’ha fatta quella che è (l’Europa è stata fatta con tutti i suoi drammi da reciprocamente altri che alla fine si riconosciuti, e se l’Europa qualcosa può dare, con le sue radici cristiane, alla storia in fieri del mondo è proprio la lectio magistralis che alla fine la soluzione è l’accoglienza, la capacità di accogliersi e convivere, nonostante i tanti demoni di divisione che pure ha conosciuto e conosce), ma non è neppure efficace. E’ come nuotare contro il vento. Un errore di luogo, di tempo, di azione. Un errore che rischia di essere tragico. Ci salverà da questo errore la carità, la carità politica? Questa è la domanda. Può sembrare la scorciatoia di una parola. Un’esigenza morale che dice insieme troppo e troppo poco, ammesso che voglia ascoltarla, a una politica, che se vuole assolvere al suo ufficio ha da cercare un diagramma di leggibilità del futuro, dove la “società del rischio” (Ulrich Beck) non venga vissuta, e gestita politicamente, come una “società della paura” (Zygmunt Bauman). Può bastare la carità, un generico appello alla benevolenza gli uni verso gli altri, per affrontare il disorientamento cognitivo e valoriale di un presente che corre troppo avanti alle capacità di afferrarlo? Un presente che ha il volto di futuro ignoto e temibile, ben più facile da gestire con soluzioni securitarie, che da cogliere come opportunità di riscoprire in una presunta “natura” umana – come ha indicato Francesco nel messaggio al Meeting – la più larga comunità necessaria del noi al presente di una società che si è fatta globale, e che non tornerà “locale”; dove è sempre più urgente un bisogno di comunione, di un noi più largo del noi a noi prossimo cui siamo abituati. Certo, se per carità si intende una generica benevolenza che tutto risolverebbe, l’obiezione avrebbe il suo senso; il senso della realtà, che poi le cose vanno in un altro modo, un po’ più complesso di una pur lodevole esortazione morale. Insomma la carità è una bella parola, ma non conosce la realtà della politica, e in definitiva la realtà dell’uomo, di cui la politica è espressione. E invece non è così: troppo facile questa riduzione moraleggiante della carità. La carità sa benissimo di che si tratta con l’uomo, e con la politica. E lo sa nella sua stessa parola. Carità viene dal latino caritas, che deriva a sua volta dall’aggettivo carus. In origine questo aggettivo aveva il significato di costoso, che costa molto, nel senso in cui ancora oggi si dice che un oggetto è troppo caro. Tuttavia già in latino carus aveva assunto anche un valore più ampio, indicando non solo ciò che oggettivamente aveva un alto prezzo, ma anche, soggettivamente, un grande pregio: cosa o persona cara, particolarmente stimata e amata; e come oggi i cari erano soprattutto i parenti più stretti, i membri della propria famiglia verso i quali si nutre maggiore affetto. Va da sé ricordare che nel cristianesimo il termine “carità” come amore nei confronti degli altri, anche di chi non mi è prossimo, rappresenta la più alta perfezione dello spirito umano, che rispecchia e glorifica la natura di Dio, e nelle sue forme più estreme può raggiungere il sacrificio di sé. E chi la carità cristiana l’ha portata nel mondo su questo sacrificio, come è noto, ci è salito, oltre ad averlo predicato. Questo per dire che la carità è costosa, che la fede e la speranza nell’uomo hanno un prezzo, e un prezzo caro, difficile da pagare. Ma se vogliamo continuare ad avere fiducia e speranza negli uomini che siamo, questo prezzo dobbiamo essere disposti a pagarlo. La carità non è pietistica benevolenza sentimentale. Certo meglio che niente. Ma sarebbe poca cosa. La carità è il lavoro della mente, dell’intelligenza, del cuore per restare umani nell’incontro con l’altro, anche quando non ci è caro, non è il prossimo facile dei “miei”, del “noi” nativo. La carità è la scommessa della “famiglia umana”: oggi l’empatia intelligente di una necessità storica.
COSTANTINO ESPOSITO:
Insomma, in una battuta finale, è chiaro che per molti oggi la politica è qualcosa di incomprensibile e di insopportabile, è quella tecnica che pensava di poter produrre la liberazione e la felicità dell’umano, ha perso, ha fallito. Gli uomini, chiusi in questo orizzonte, per questo orizzonte non arrivano al loro compimento, ma sono in qualche modo giocati dal potere e questo potere, una cosa importantissima nella vita degli uomini, nel suo senso pieno, si riduce a egemonia. Non a quello che dovrebbe essere, cioè la capacità di auto compimento, che già il vecchio Aristotele diceva e che è lo sguardo con cui Cristo guarda le cose, allora è interessante perché dobbiamo buttarla nel cestino la politica, deleted, non ci interessa? Oppure è possibile avviare un processo di liberazione, non dalla politica, ma della politica, cioè, che possa diventare di nuovo non una utopia, o un desideratum, ma come un bisogno del nostro stare insieme? Ma io credo che la politica possa essere liberata solo se c’è un uomo già libero che fa politica, che non aspetta di essere liberato dalla politica, ma la possa riaprire perché c’è un piccolissimo seme di liberazione, che è il fatto che qualcuno, che lui, che ciascuno di noi accetti di essere un bene per qualcun altro, prima ancora del fatto che noi generosamente diciamo ad un altro: ti considero un bene per me, questo è possibile, perché io accetto di essere voluto, amato da qualcuno. Mi ha molto colpito, girando nelle mostre di questi giorni, leggere questa frase di Dostoevskij, con cui vorrei chiudere: “Io mi sento responsabile appena un uomo posa il suo sguardo su di me”. E’ perché io mi sento oggetto di una preferenza che scopro che tra di noi c’è qualcosa, il mistero è la cosa più politica che c’è, perché riconoscendo che c’è qualcosa che non faccio io, che mi è dato, che mi unisce a te, posso costruire con te. Grazie a tutti, alla prossima.