IL VIAGGIO VERSO L’ESSENZIALE IN CORMAC MCCARTHY

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Stas’ Gawronski, autore televisivo e insegnante; Alessandro Zaccuri, scrittore. Introduce Martina Saltamacchia, distinguished Associate Professor di Storia Medievale, Università del Nebraska, Omaha

I romanzi di Cormac McCarthy sono per molti un’esperienza assoluta, capace di condurre sulla soglia incandescente del mistero dell’esistenza, non in termini astratti, ma attraverso una lingua aderente alla concretezza della materia e dell’agire degli uomini. Ne parliamo con due lettori d’eccezione, Stas’ Gawronski e Alessandro Zaccuri, stimolati dalle letture di brani tratti dalla grande letteratura dello scrittore americano.

Con il sostegno di Università Cattolica del Sacro Cuore

IL VIAGGIO VERSO L’ESSENZIALE IN CORMAC MCCARTHY

IL VIAGGIO VERSO L’ESSENZIALE IN CORMAC MCCARTHY

Martedì 20 Agosto 2024 ore 17:00
Sala Neri Generali-Cattolica

Partecipano:
Stas’ Gawronski, autore televisivo e insegnante; Alessandro Zaccuri, scrittore.
Introduce:
Martina Saltamacchia, distinguished Associate Professor di Storia Medievale, Università del Nebraska, Omaha

 

Saltamacchia. Buonasera a tutti. Siamo qui per l’incontro “Il viaggio verso l’essenziale in Cormac McCarthy”. Il titolo dell’edizione di quest’anno del Meeting di Rimini, la 45esima edizione, viene proprio da una frase dell’autore americano Cormac McCarthy: “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”. L’idea dell’incontro di stasera è proprio quella di provare ad approfondire il tema, percorrendo un cammino attraverso le letture dei libri del grande autore americano scomparso nel 2023. Lo facciamo attraverso una serie di brani che verranno letti e commentati in dialogo da due lettori di eccezione: Stas’ Gawronski, autore televisivo, insegnante di scrittura creativa alla LUMSA di Roma e al The Writers Studio e scrittore, e Alessandro Zaccuri, giornalista e scrittore, che dirige la comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e scrive regolarmente sul quotidiano Avvenire. Oltre a questo, ha pubblicato numerosi saggi e romanzi. Iniziamo subito entrando nel vivo della questione con la prima pagina del romanzo uscito nel 2023, Il passeggero. Iniziamo da questa lettura.

Gawronski. Nella notte era scesa una leggera nevicata e i suoi capelli ghiacciati erano aurei e cristallini e i suoi occhi gelidi e duri come pietre. Uno degli stivali gialli le si era sfilato e spuntava dalla neve sotto di lei. La sagoma del cappotto impolverata di neve si disegnava dove l’aveva lasciato cadere e vestita solo di un abito bianco lei pendeva tra i nudi e grigi tronchi degli alberi invernali con il capo chino e le mani leggermente rivolte all’infuori come quelle di certe statue ecumeniche la cui postura chiede che ne venga contemplata la storia. Che vengano contemplate le fondamenta del mondo poiché originano dal travaglio delle sue creature. Il cacciatore si inginocchiò e conficcò il fucile accanto a sé nella neve e si sfilò i guanti e li lasciò cadere e giunse le mani l’una sull’altra. Pensò che avrebbe dovuto pregare ma preghiere per una cosa simile non ne aveva. Chinò la testa. Torre d’Avorio, disse. Oro del Tempio. Rimase lì inginocchiato a lungo. Quando riaprì gli occhi, vide una piccola sagoma d’oro con una chiave d’acciaio, un anello d’oro bianco. Se li infilò nella tasca del giaccone da caccia. Durante la notte aveva sentito il vento, il lavoro del vento. Un bidone dei rifiuti che sbatacchiava sul laterizio dietro casa. La neve che turbinava nell’oscurità della foresta. Alzò lo sguardo in quei freddi occhi di smalto che scintillavano azzurri nella fioca luce invernale. Si era legata al vestito una fusciacca rossa perché potessero trovarla, una chiazza di colore nel rigore di quella desolazione. In quel giorno di Natale, quel freddo e appena accennato giorno di Natale.”
Nel 2022, quando è uscito Il passeggero, questa è la prima pagina, mi ricordo che cominciai a leggere il libro e fu come ricevere una sberla, uno schiaffone, perché la letteratura di Cormac McCarthy ha questa forza, come se ti investisse un colpo e ti costringesse a piegare lo sguardo e improvvisamente vedere le cose da una diversa prospettiva. Non è uno scrittore di intrattenimento: se avete un vuoto, Cormac McCarthy lo apre, lo allarga. Non è uno scrittore di evasione, perché vi porta in territori che sono disturbanti, a volte addirittura feroci. È uno scrittore di visione, che ci aiuta a penetrare la realtà e a coglierla in tutto il suo mistero. Questa è una scena che ti investe con una forza inaudita perché è l’immagine di una donna che pende da un albero. Nelle pagine successive scopriremo che si tratta di Alicia Western, la protagonista di Stella Maris, il romanzo successivo, una donna che si è suicidata. Eppure, il cacciatore che casualmente si imbatte in questa donna che pende dall’albero ha l’intuizione, ha la percezione di trovarsi di fronte a qualcosa di sacro, e si inginocchia e dice di fronte a questa statua “la cui postura chiede che ne venga contemplata la storia”, e insiste che “vengano contemplate le fondamenta del mondo poiché originano dal travaglio delle sue creature”. Dunque, McCarthy usa per due volte il verbo “contemplare,” cioè fissare lo sguardo. Fissare lo sguardo su una realtà disturbante, perché si tratta di una donna morta, ma che in fondo, dentro il suo abisso, ha una luce che ti fa uscire di bocca delle litanie lauretane, una preghiera mariana.

Zaccuri. Sì, questo sguardo…intanto buongiorno, buon pomeriggio a tutti. È bello vedere una sala piena quando si parla di letteratura, anche perché quella di Cormac McCarthy non è letteratura come ce l’immaginiamo, diceva appunto Stas’ non pensate di passare un’allegra serata insieme a un libro di Cormac McCarthy, passate una serata importante, che è una cosa diversa, perché in questa torsione, questa sberla che ti fa girare la testa, automaticamente la scrittura di McCarthy, anche proprio per come è fatta, per come risuona. Se uno lo legge in inglese, trova un sacco di termini gergali, per esempio, è una scrittura quasi sgrammaticata, non è quello che ci si aspetta di primo acchito dal bel scrivere, lo scrivere rifinito, ripulito. La scrittura è già violenta nella sua struttura, ma ti costringe a cercare l’essenziale, ti costringe in questa pagina a cercare i dettagli. Non c’è una descrizione completa della scena. C’è un accumularsi di dettagli, alcuni più significativi degli altri, altri apparentemente insignificanti: la fusciacca rossa, sì, vabbè, per farsi vedere, però tante piccole cose, che si capirà poi più avanti cosa significano. E con questo piccolo gioco di prestigio che solo i grandi scrittori sanno fare, facendo finta di descrivere in maniera un po’ sbrigativa, questa pagina è un dettaglio nel libro. È una pagina che il lettore si può quasi dimenticare fino alla fine del percorso che da Il passeggero porta a Stella Maris, ma quando te la ricordi, quando ti ricordi questo dettaglio, capisci che qua c’è l’essenziale, capisci che qua c’è qualcosa che ti interpella.

Saltamacchia. Ecco, è proprio per guardare insieme l’essenziale anche in quest’ora, l’invito che vi faccio è di non avere la preoccupazione di capire mentre Stas’ Gawronski legge i brani, mentre vengono commentati, ma proprio quella di seguire l’indicazione che viene data in questa prima pagina del cacciatore che si inginocchia. Vi chiederei proprio di ascoltare, di lasciarvi semplicemente colpire, senza appunto preoccuparvi di seguire tutti i particolari. E allora incominciamo questo percorso, questa strada nella grande letteratura di McCarthy. Stas’, chi è il protagonista?

Gawronski. Prendiamo l’inizio di un romanzo che si intitola Oltre il confine e vediamolo questo protagonista di questa grande narrazione. McCarthy, tra il 1965 e il 2022, ha scritto dodici romanzi che però possono essere letti come un’unica storia. In Oltre il confine lo dice chiaramente: “Tutte le storie sono un’unica storia. Se ascolti bene, sono un’unica storia.
“Una notte di quel primo inverno si svegliò udendo il latrato dei lupi delle basse colline a ovest e sapeva che con la nuova neve sarebbero scesi in pianura a cacciare le antilopi al chiaro di luna. Prese dalla sponda del letto i pantaloni e il giaccone di pelle foderato di lana scozzese e gli stivali da sotto il letto, e andò in cucina dove si vestì al buio, al debole tepore della stufa. Sollevò gli stivali alla luce della finestra per capire quale fosse il destro e quale il sinistro. Li infilò, si alzò, andò alla porta della cucina e uscì, richiudendosi la porta alle spalle. Quando passò accanto al fienile i cavalli si lamentarono appena nell’aria fredda. La neve scricchiolava sotto gli stivali e il respiro si condensava nella luce bluastra. Un’ora dopo era rannicchiato sulla neve del letto asciutto del torrente dove sapeva che erano passati i lupi. C’erano le loro impronte sulla sabbia e sulla neve. Erano già scesi nella pianura, e quando attraversò il ventaglio di ghiaia dove il ruscello deviava a sud nella valle, vide il punto in cui i lupi l’avevano attraversato prima di lui. Proseguì carponi con le mani dentro le maniche per ripararle dalla neve, e quando raggiunse l’ultimo dei bassi ginepri, oltre il quale si stendeva la valle aperta sotto gli Animas Peaks, si rannicchiò per riprendere fiato, e poi lentamente si alzò a guardare. Correvano nella pianura, tormentando le antilopi che si muovevano come fantasmi sulla neve, disegnando cerchi. Tutto intorno s’alzava una polvere bianca al chiaro di luna e il fiato degli animali saliva pallido, come fumo nell’aria fredda, come se dentro di loro ardesse un fuoco. Nel silenzio i lupi volteggiavano, si contorcevano e spiccavano balzi e parevano appartenere a un altro mondo. Scesero nella valle seguendo la curva e poi si allontanarono nella pianura, finché non furono che minuscole figure in quel biancore bianco e poi scomparvero. Aveva molto freddo. Attese. Tutto era immobile. Solo il fiato gli diceva da che parte tirava il vento e lo osservava apparire e svanire, apparire e svanire continuamente davanti a sé. Attese a lungo. Poi li vide arrivare. Saltavano e volteggiavano. Danzavano. Infilavano il muso nella neve. Volteggiavano e correvano e si alzavano a coppie in una danza su due zampe. Poi riprendevano a correre. Erano sette e passarono a poco più di sei metri da lui. Vide i loro occhi a mandorla alla luce della luna. Ne udì il respiro. Sentì la presenza della loro consapevolezza come elettricità nell’aria. Si raggrupparono, si fiutarono, si leccarono. Poi si fermarono con le orecchie dritte. Qualcuno si portò la zampa al petto. Lo guardavano. Trattenne il respiro. Trattennero il respiro. Immobili. Poi si voltarono e trotterellarono via quieti. Quando tornò a casa, Boyd era sveglio, ma non gli disse dove era stato né cosa aveva visto. Non lo disse mai a nessuno.
Chi è il protagonista della grande narrazione di Cormac McCarthy? È un uomo che ha incontrato il Mistero. E qui il mistero è incarnato da questi lupi. Improvvisamente questo ragazzo è chiamato dai latrati durante la notte, sale sulla collina a carponi, si mette a guardare i lupi che cacciano le antilopi e poi attende, aspetta. I lupi arrivano, lo guardano negli occhi e qualcosa succede. È come se quel fuoco che è dentro i lupi avesse incontrato il fuoco, il desiderio di questo ragazzo che da quel momento non sarà più lo stesso. Torna a casa con un segreto. Non lo dirà mai a nessuno che cosa ha visto, perché da quel momento è diventato un cacciatore del divino. Non troverà pace finché non troverà le tracce del Mistero.

Zaccuri. Sì, e questo è quello che succede per esempio nel Vangelo di Marco in particolare, no? Quando c’è un prodigio, un segno, Gesù dice: “Non ditelo a nessuno, non ditelo a nessuno, lasciate che questo segno stia dentro di voi, cresca.” Il problema è che il segno che molte volte il personaggio di Cormac McCarthy, incontra, è un segno non solo misterioso ma anche molto inquietante: perché un ragazzo deve essere attratto dai lupi? In un altro romanzo della Trilogia della Frontiera c’è un ragazzo che è molto bravo a domare i cavalli, e domare i cavalli è una bella cosa. Attratto dai lupi, perché? I lupi dovrebbero fare paura e invece questo ragazzo è attratto e questa attrazione poi si sviluppa nella storia e diventa quasi una forma di fratellanza. Ecco, io credo che una parte del segreto, una parte dell’essenziale che è testimoniato da McCarthy ed è uno dei motivi di gratitudine che devono avere i lettori nei suoi confronti, è che McCarthy libera il lettore e la lettrice dal pericolosissimo sospetto di essere buoni. Tu pensi di essere buono, e allora perché ti interessano i lupi? E allora perché ascolti questo richiamo? E questo non è pessimismo, perché se fossimo buoni in partenza non ci dovremmo più salvare. Potremmo rischiare di pensare che tutto quello che facciamo è una cosa buona, siamo buoni. Ma siccome abbiamo il dubbio di avere simpatia per i lupi, ecco che allora iniziamo a vigilare sulle nostre azioni, iniziamo a vigilare sui nostri pensieri, iniziamo a vigilare e sorprenderci dei nostri desideri. E quindi il segreto che si porta dentro Billy, il protagonista, è appunto quello di avere intuito una fraternità misteriosa e un po’ oscura con queste creature che sono percepite come una minaccia che però gli parlano. Tutti i romanzi di McCarthy sono in qualche modo romanzi di formazione. E questo momento in cui si capisce di non essere del tutto buoni e quindi di poter diventare un po’ più buoni di quello che si è, è un grande momento di formazione e di nascita interiore.

Saltamacchia. Dunque, dopo questo momento fondamentale, questa epifania, il ragazzo, il protagonista, si mette, come dicevi, come cacciatore del divino ad inseguire questo che ha sentito ardere in sé. Ci aiuti a capire che viaggio è questo?

Gawronski. Innanzitutto diciamo che è un viaggio quello del cacciatore del divino, di un uomo in cui arde una fiamma. C’è un brano di Cormac McCarthy in Cavalli selvaggi in cui dice esplicitamente questo a proposito del protagonista: “Ciò che amava nei cavalli era esattamente ciò che amava negli uomini. Il sangue e il calore del sangue. Tutta la sua stima, la sua simpatia, le sue propensioni andavano per i cuori ardenti. Così era e sempre sarebbe stato.” Quindi questo protagonista è un cuore ardente che si mette in cammino e varca una frontiera. Nel prossimo brano, tratto proprio da Cavalli selvaggi, vediamo questi ragazzi in cammino.
“Seguirono il recinto attraverso i pascoli, nel freddo del mattino il cuoio crepitava. Spinsero i cavalli al piccolo trotto, le luci scomparvero alle loro spalle. Si inoltrarono nella prateria mettendo le bestie al passo sotto il cielo nero trapunto di stelle. Da qualche parte nella notte vuota i rintocchi di una campana risuonarono e si spensero lontano dove campane non ce n’erano. Sulla superficie ricurva della terra buia e senza luce che sosteneva le loro figure e le innalzava contro il cielo stellato, i due giovani sembravano cavalcare non sotto ma in mezzo alle stelle, temerari e circospetti al contempo, come ladri appena entrati in quel buio elettrico, come ladruncoli in un frutteto lucente, scarsamente protetti contro il freddo e i diecimila mondi da scegliere che avevano davanti a sé.”
Dunque, sono dei giovani a cavallo che camminano verso la frontiera fra gli Stati Uniti e il Messico, e qui l’autore, la cosa interessante, è che li descrive non mentre cavalcano sotto le stelle, ma “in mezzo alle stelle”, come se la loro vita fosse veramente impregnata di Mistero, immersa nel Mistero. E cos’hanno di fronte? Questi “diecimila mondi da scegliere” davanti a sé. Sono due giovani che abitano la possibilità, sono aperti a quel che può accadere e per questo mettono in gioco tutto e varcano la frontiera. La frontiera che è naturalmente il simbolo di questo desiderio di andare oltre, di una Realtà che è oltre la realtà. Lasciano qualcosa di conosciuto per buttarsi in un mondo sconosciuto, oltre la frontiera, con quella fiducia che solo un cuore ardente può dare.

Zaccuri. Anche il cuore ardente, se uno fa un po’ risuonare…i discepoli di Emmaus: “non ci ardeva forse il cuore nel petto”. Uno dice: questo vede il Vangelo dappertutto! Cormac McCarthy è uno scrittore di profonda formazione cattolica, con la quale ha fatto un pochino a pugni, come capita a tante persone ma non l’ha mai dimenticata, e queste parole risuonano sempre, come parole fondamentali, quali sono. E se ci pensiamo, in effetti, i discepoli di Emmaus, quand’è che hanno il cuore ardente? Quando sono sulla strada, quando sono partiti da Gerusalemme e non ancora arrivati a Emmaus, sono su una frontiera. Non so se vi è capitato di leggere la lettera sul ruolo della letteratura nella formazione che ha pubblicato il Papa all’inizio del mese. In questa lettera c’è un passaggio che parla proprio del territorio, potremmo dire della frontiera. Il Papa ci dice: attenzione, perché non è che al lettore, attraverso la narrativa, attraverso la poesia, arriva un messaggio chiaro, consolante, rassicurante, eccetera. Al contrario, il lettore viene portato in una specie di terra di nessuno, in un territorio incerto, dove Bene e Male non sono stabiliti dall’inizio. Esattamente quello che succede nei romanzi di Cormac McCarthy. Lo diciamo, in fondo, del tutto come sorpresa, ma in realtà, in questi giorni al Meeting stiamo meditando sulla frase di un truffatore. Perché il personaggio che parla dell’essenziale è un truffatore ne Il passeggero, eppure è quello che dice la cosa più importante che va detta. Quindi la frontiera è la condizione di ciascuno di noi, la condizione dei personaggi di Cormac McCarthy, è una posizione scomoda ed è una posizione molto fortunata, molto felice, perché se sono sulla frontiera posso ancora fare un passo che mi porti a casa. Non sono rimasto indietro, sono comunque in viaggio.

Saltamacchia. In questo punto incerto, in questa frontiera in cui i due si incamminano aperti ai 10.000 mondi, a tutte le possibilità, che cosa succede?

Gawronski. Il cacciatore del divino deve affrontare delle tentazioni fondamentali. La prima consapevolezza che deve avere, ma che a Billy, protagonista di Oltre il confine, sfugge, è quella di essere un orfano, ovvero non puoi andare a caccia del divino se non entri in una relazione con il Padre. Fuori da questa relazione non c’è possibilità di ritrovare quello che tu hai incontrato quel giorno guardando, incontrando lo sguardo dei lupi. E il personaggio di Oltre il confine, lungo la strada, incontra degli altri personaggi che cercano di metterlo in guardia, di dirgli: “Guarda, sei un orfano.” Per esempio:
“Un vecchio si fece avanti e gli parlò con grande franchezza, in uno spagnolo che lui capiva a malapena, guardandolo negli occhi e aggrappandosi al pomo e all’arcione della sella, così da tenere il ragazzo quasi in braccio. Era vestito in maniera strana e vistosa. Indossava abiti ricamati con disegni geometrici che parevano istruzioni, forse un gioco. Portava gioielli di giada e d’argento. Aveva i capelli lunghi e più neri di quanto l’età sembrava consentirgli. Disse al ragazzo che pur essendo un huérfano, avrebbe dovuto smettere di vagabondare e trovarsi un posto nel mondo, perché quel vagabondare sarebbe diventato per lui una passione, e tale passione lo avrebbe estraniato dagli uomini e quindi anche da se stesso. Disse che il mondo poteva solo essere conosciuto come esisteva nei cuori degli uomini, perché per quanto sembrasse un luogo che conteneva gli uomini, in realtà era un luogo contenuto nei loro cuori, e quindi per conoscerlo era lì che bisognava guardare, imparare a conoscere quei cuori, e per far ciò si doveva vivere con gli uomini e non limitarsi a passare in mezzo ad essi. Disse che per quanto lo huérfano sentisse di non avere più nulla a che spartire con gli uomini, doveva mettere da parte quella sensazione, perché dentro di lui vi era una grandezza di spirito che gli uomini potevano vedere, e gli uomini avrebbero desiderato conoscerlo, e il mondo avrebbe avuto bisogno di lui, così come lui aveva bisogno del mondo, perché erano una cosa sola. Alla fine disse che mentre questo era di per sé una cosa buona, come tutte le cose buone costituiva anche un pericolo. Poi tolse le mani dalla sella del ragazzo, si allontanò e rimase fermo a guardarlo. Il ragazzo lo ringraziò per quelle parole, ma disse che in verità non era orfano. Poi ringraziò le donne, voltò il cavallo e si allontanò. Rimasero a guardarlo mentre se ne andava. Superando l’ultimo dei wickiups di arbusti, si voltò e in quel momento il vecchio si rivolse nuovamente a lui: Eres, disse. Eres huérfano. Il ragazzo alzò una mano, si toccò il cappello e proseguì.
Allora, il ragazzo incontra lungo la strada qualcuno che gli dice la verità su se stesso. Gli dice: “Tu sei un orfano.” Ma il ragazzo è ancora tentato da che cosa? Possedere il divino. Questa è la grande tentazione. Prima di mettersi in cammino alla ricerca dei lupi, va a trovare un altro cacciatore, un anziano cacciatore, per avere dei consigli su come catturare i lupi. E questo cacciatore gli dice: “Guarda che io ho capito che tu stai cercando altro, perché in una trappola quello che rimane sono i denti e la pelle del lupo, ma quello che stai cercando tu è altro, e quello che stai cercando tu è come un fiocco di neve,” un copo de nieve in spagnolo, “che quando stendi la mano e lo prendi sulla mano, e stringi il pugno, scompare.” Il Mistero non si può possedere. Qual è l’altra tentazione che l’orfano, il cacciatore del divino, deve affrontare? È quella che segue alla delusione di non poter possedere il divino. Guardate che ogni giorno il marketing oggi ci dice costantemente che noi il divino lo possiamo possedere. Qual è questa tentazione? Quella di credere che in fondo non ci sia nulla, che è stato un errore, che è stato un inganno, che davanti a noi non c’è che il nulla, che dietro di noi non c’è che il nulla. E allora questo personaggio di Oltre il confine, per esempio, comincia a vagare, tentato sempre di più da questa tentazione che nulla c’è a fondamento della vita.

Zaccuri. L’essenziale ha alcune predilezioni, una di queste è per il paradosso, lo accennavamo un po’ prima. Questa è una pagina molto paradossale, quella che ha appena letto Stas’. Intanto perché questo anziano dice delle cose che sono molto controintuitive: le cose belle, le cose buone, hanno un elemento di pericolo. Le cose brutte sono pericolose, le cose cattive sono pericolose, le cose buone sono buone, le cose belle sono belle, che cos’è il pericolo? Anche Dostoevskij quando diceva che la bellezza salverà il mondo ci aggiungeva però qualcosa su quanto la bellezza possa essere terribile. Quindi noi dobbiamo stare nel paradosso. Dobbiamo accettare il paradosso, dobbiamo accettare che l’essenziale si presenti come qualcosa che non riusciamo a comprendere in senso etimologico, cioè a tenere, a bloccare per noi. E poi in questo brano c’è un elemento che crescerà moltissimo nell’opera di McCarthy fino a esplodere negli ultimi romanzi, Il passeggero e Stella Maris, (dove è molto presente la meditazione sulla fisica quantistica, lui per molti anni ha vissuto in un istituto di ricerca scientifica, non amava gli scrittori, amava gli scienziati) ed è il paradosso del tempo: “Ma tu veramente ragazzo pensi che il fatto di non essere oggi orfano ti mette al riparo dal fatto che per forza sarai orfano? Che un pochino ha iniziato già adesso? Prima, dopo, durante?” Ciascuno di noi nella nostra vita ha questi momenti di malinconia dei bambini, in cui i bambini sembrano portarsi addosso una saggezza, una sapienza, quasi una stanchezza millenaria della consapevolezza del vivere. Sono momenti, specie per un genitore, un papà, una mamma, molto toccanti: “Dove sei finito? Cosa stai pensando?” Quei momenti in cui ciascuno di noi, indipendentemente dall’età, ritrova dentro di sé qualcosa di infantile, che può essere una paura, un entusiasmo, un ricordo. Esiste il tempo veramente come lo misuriamo noi con gli orologi in quel momento? Oppure in questa nostra esperienza dell’essenziale quello che abbiamo sperimentato quella volta nell’infanzia, al primo amore, il giorno del matrimonio, alla nascita del primo figlio, eccetera, è rimasto lì e non è né prima né dopo, è sempre qua. Questo Eres huérfano è questo. Oggi, prima, domani, l’importante è che tu la farai quell’esperienza, l’importante è che tu questa frontiera la supererai.

Saltamacchia. Tu parlavi di malinconia, di una certa stanchezza, echeggiando un po’ anche la parola che tu dicevi prima: nulla, questa tentazione del nulla. E di fatto McCarthy è conosciuto da molti per la crudezza delle sue descrizioni, per la crudezza delle osservazioni che fa sulla vita. Per cui è considerato da molti uno scrittore nichilista. Dunque, come entra l’esperienza del male dentro il viaggio di questo nostro protagonista?

Gawronski. L’esperienza del male in McCarthy è un’esperienza da cui non dobbiamo distogliere lo sguardo. È come se la letteratura di McCarthy fosse un continuo invito a bere nella nostra vita l’amaro calice del non senso quando si presenta davanti a noi. Perché in fondo, in fondo a quell’abisso c’è una luce. McCarthy mi fa pensare moltissimo a questo pittore che forse avete incontrato, Mark Rothko, che dipinge delle tele nere che emanano luce. Ecco, in McCarthy succede questo: il lettore legge anche di situazioni più che estreme, violentissime, di una ferocia inaudita, e però in qualche modo è attraversato da una misteriosa consolazione, perché in fondo a quell’oscurità c’è l’essenza, c’è l’essenziale. L’essenza ha deciso di abitare in fondo all’abisso. Il prossimo brano è tratto ancora da Cavalli selvaggi:
“Con l’ultima luce del giorno, quando il mirino del fucile era ancora visibile, cinque cervi entrarono nella bajada, drizzarono le orecchie e si misero a pascolare. Il ragazzo mirò alla femmina più piccola e sparò. Il baio di Blevins, pur legato, si impennò con un nitrito e i cervi fuggirono come il vento, svanendo nell’oscurità. La cerbiatta colpita restò a terra a scalciare. Lui la raggiunse nell’erba insanguinata, si inginocchiò appoggiandosi al fucile e le mise una mano sul collo. La bestia lo guardò senza paura con gli occhi caldi e umidi, e morì. Lui si sedette e la guardò a lungo. Il cielo era oscuro e tirava un vento freddo. Nella luce morente del giorno, un’ombra viola e fredda aveva trasformato gli occhi della cerbiatta in una delle tante cose fra le quali l’animale giaceva. Erba e sangue, sangue e pietre, pietre macchiate dalle prime gocce di pioggia. Ricordò Alejandra, e la prima volta che aveva visto le sue spalle curve per la tristezza, una tristezza che aveva creduto di capire, ma di cui non aveva capito nulla, e si sentì solo, come non gli era capitato da quando era bambino, totalmente estraneo al mondo che pure continuava ad amare. Pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore.”
Ecco, mi colpisce di questo brano, questo passaggio: “Pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile.” Che dentro la realtà l’essere è un essere ferito. È come se la letteratura di McCarthy nascesse da questo sguardo puntato sulla croce. Alla radice della realtà c’è una ferita. Come diceva nel primo brano che abbiamo letto, se ricordate: “Che vengano contemplate le fondamenta del mondo poiché originano dal travaglio delle sue creature.” Quindi un fuoco che è nelle cose e dentro questo fuoco il travaglio delle creature, quel travaglio che c’è in ciascuno di noi, che ci abita e all’interno del quale c’è l’essenza che McCarthy guarda e di cui i suoi personaggi vanno in cerca.

Zaccuri. Il nichilismo non è dire che il male esiste, il nichilismo è convincersi che il male è irrilevante, come il bene, che la realtà nella sua luce, nella sua tenebra, non ha significato, non ha importanza per me, non mi riguarda. La letteratura di McCarthy, la narrativa di McCarthy, ormai penso che anche chi non l’avesse mai letto lo inizia a intuire, dice esattamente il contrario, dice che tutto mi riguarda, tutto è rilevante per me, tutto è una porta verso quell’essenza, verso quell’essenziale, verso quel segreto di bellezza e sofferenza che sta appunto al cuore del mondo. E su questo vorrei richiamare l’attenzione su qualcosa che anche qua ci riporta al primo brano, cioè il tema dei dettagli. McCarthy è uno scrittore che è molto attento ai dettagli materiali: come sono fatti gli oggetti, come si usano gli oggetti, quanto è commovente l’abilità dell’essere umano nel momento in cui adopera uno strumento in maniera sapiente. È come se fosse una continua estensione del principio dell’incarnazione. Cioè, non è solo il corpo, ma come il corpo sta nel mondo, come il corpo sta nella storia, come lo modifica. Con tutti i rischi che questo comporta, perché uno dei più famosi assassini della narrativa di Cormac McCarthy, il serial killer di Non è un paese per vecchi, lui rispetta benissimo questo principio: il suo fucile se l’è costruito lui, ed è micidiale, perché l’ha fatto molto bene. È questa ambiguità, no? Nel momento in cui io accetto che la realtà può essere ambigua non sono più nichilista, quando dico “ma sì, c’è e non c’è, tanto che cosa mi interessa? che cosa interessa a chiunque che ci sia il bene, che ci sia il male? quello è il nichilismo. McCarthy è esattamente il contrario: è una sensibilità aperta a tutto quello che c’è di bello, di buono o di brutto e di terribile nel mondo, perché lo riguarda, perché ci riguarda.

Saltamacchia. Dunque, questa apertura anche a quello che è brutto, non solo a quello che è bello, ma a quello che è sofferente, a quello che è faticoso, sembra una condizione inevitabile che però può essere superata, attraversata, come dicevi, partendo dal capire che anche quella è per me, anche quella ha una rilevanza per me. Ma come fa il nostro protagonista, l’orfano, ad attraversare e a superare questa condizione del male?

Gawronski. Per McCarthy, l’orfano capisce la sua condizione nel momento in cui si mette in ascolto. Ricorre spessissimo nei suoi romanzi: i protagonisti si fermano e ascoltano. Addirittura ne La strada, questo romanzo in cui il mondo è completamente distrutto e ridotto a buio e cenere, il padre, quando non guarda il bambino, si mette in ascolto. E Alicia Western, la donna che abbiamo visto pendere dall’albero nella prima scena che abbiamo incontrato, lei ha una sua frontiera. Un giorno decide di investire tutti i soldi che ha ereditato, tutti i suoi averi, per comprare un violino e per ascoltare questo violino:
“Quando sono arrivata a casa, mi sono seduta sul letto con la custodia sulle gambe e l’ho aperta. L’odore di un violino vecchio di trecento anni non assomiglia a nessun altro. Ho pizzicato le corde ed era sorprendentemente intimo. L’ho tolto dalla custodia e mi sono messa ad accordarlo. Mi chiedevo dove gli italiani fossero andati a prendere del legno d’ebano per i bischeri e per la tastiera, naturalmente, la cordiera. Ho tirato fuori l’archetto, fabbricato in Germania, splendidi intarsi d’avorio. L’ho teso e poi ho semplicemente iniziato a suonare la Ciaccona di Bach. In Re minore? Non ricordo. Un brano così crudo, tormentoso. L’aveva composto per sua moglie, morta mentre lui era lontano. Ma non sono riuscita ad arrivare in fondo. E come mai? Perché mi sono messa a piangere. Mi sono messa a piangere e non riuscivo a fermarmi. Perché piangeva? Perché piange? Mi scusi. Per più motivi di quanti potrei dire. Ricordo di aver asciugato le lacrime del legno di abete, di aver messo da parte l’Amati e di essere andata in bagno a sciacquarmi la faccia. Ma il pianto è tornato. Continuavo a pensare al verso ‘che capolavoro è l’uomo.’ Non riuscivo a smettere di piangere e ricordo di aver detto: cosa siamo?” Seduta lì sul letto con l’Amati tra le mani, talmente bello da sembrare irreale. Era la cosa più bella che avessi mai visto, e non riuscivo a capire come una simile cosa fosse anche solo possibile.
Questo momento di intimità di Alicia Western con il violino corrisponde all’incontro che Billy ha avuto con i lupi. È l’inizio, è la conferma della sua ricerca. Sì, il Mistero esiste, il Mistero si rivela, il Mistero è in grado di toccarci, lo possiamo sentire, lo possiamo ascoltare. E qual è il frutto di questo incontro con il violino? McCarthy insiste sul fatto che questa donna piange. E anche il dottore che la sta intervistando le chiede: perché ha pianto? Perché sta piangendo adesso mentre lo racconta? Questo pianto è il frutto che il Mistero dona al cacciatore del divino che scopre di essere vulnerabile e quindi bisognoso di entrare in una relazione. È come se la fragilità che è rivelata dal pianto, è come se la debolezza, la vulnerabilità, fosse il grembo in cui il cacciatore del divino, l’orfano, finalmente può accogliere il Mistero. E per Alicia Western, nel racconto, ne Il passeggero e in Stella Maris, da quel momento, da quando questa vulnerabilità è uscita fuori, comincia un cammino di spogliazione, decide a poco a poco di lasciare andare tutto. E questo lasciare andare tutto è il lasciare andare di una persona che ha capito che il divino non si può possedere, ma si può ricevere perdendo la propria vita. Solo perdendo la propria vita si può ricevere quello per cui il nostro desiderio ci spinge a metterci in cammino, a varcare frontiere, ad attraversare il male. Solo questa consapevolezza porta alla spoliazione. A proposito della sua vita, Alicia Western dice questo al medico che la sta intervistando:
“Pensavo che sarei andata in Romania e che all’arrivo sarei andata in qualche cittadina e mi sarei comprata dei vestiti di seconda mano al mercato. Scarpe, una coperta. Avrei bruciato tutto quello che avevo. Il passaporto. Magari avrei semplicemente buttato i miei vestiti nell’immondizia, cambiato dei soldi per strada. Poi sarei salita sulle montagne, lontana dal passaggio, per non correre rischi. Avrei attraversato a piedi la terra dei miei avi, magari di notte. Ci sono orsi e lupi lassù, mi sono documentata. La sera uno poteva accendere un piccolo fuoco, magari trovare una grotta, un ruscello di montagna. Avrei avuto una borraccia con dell’acqua per quando sarei diventata troppo debole per spostarmi. Dopo un po’ l’acqua avrebbe avuto un sapore straordinario, avrebbe avuto il sapore della musica. La notte mi sarei avvolta nella coperta contro il freddo e avrei guardato le mie ossa prendere forma sotto la pelle e avrei pregato di poter vedere la verità del mondo prima di morire. Ogni tanto, di notte, gli animali sarebbero venuti fino al limite del fuoco e si sarebbero aggirati nei paraggi e le loro ombre si sarebbero spostate fra gli alberi e io avrei capito che quando il fuoco si fosse ridotto in cenere, sarebbero venuti e mi avrebbero portato via e sarei stata la loro eucaristia. E questa sarebbe stata la mia vita e sarei stata felice.”
Dunque, qual è la felicità a cui guarda Alicia Western? È la felicità che può avvenire solamente dall’offrire la propria vita, dal darsi in pasto. “Sarebbero venuti e mi avrebbero portato via e sarei stata la loro eucaristia.” Solo nel darsi in pasto si trova quel divino che il violino ha rivelato e per il quale si sono varcate le frontiere. Bellissimo anche questo passaggio quando dice: “Dopo un po’ l’acqua avrebbe avuto un sapore straordinario, avrebbe avuto il sapore della musica.” Il sapore, il Mistero ha un sapore.

Zaccuri. La particolarissima configurazione mentale e spirituale di Alicia, oltre a un’intelligenza fuori dal comune, c’è questa tendenza a quello che si chiama sinestesia. Per lei i colori hanno un sapore, la musica ha un odore, come se la trama nascosta della realtà si rivelasse. Alicia è un personaggio molto duro in realtà. Questo lo diciamo giusto per far capire che c’è anche una ricompensa di piacere nel leggere Cormac McCarthy. Ha un suo strano umorismo Cormac McCarthy. I fratelli, i due protagonisti de Il passeggero e Stella Maris, si chiamano Western di cognome, come il genere che lui ha frequentato per molto tempo. Il medico che ascolta Alicia durante quella che può sembrare addirittura una parodia dell’ascolto, sapete gli sketch con lo psichiatra, questo medico che annuisce, dice “mh mh”, e che ogni tanto è costretto dalla formidabile intelligenza di Alicia, a raccontare qualcosa di sé si chiama Cohen, come i due fratelli registi che hanno diretto il film. Ci sono tanti piccoli giochi di questo tipo e poi ci sono i giochi che uno scrittore riesce a fare attraverso la letteratura. Alicia cita un verso famoso di Shakespeare, “che capolavoro l’uomo”, peccato che Shakespeare stia citando i salmi: “mi hai fatto come un prodigio, poco meno degli angeli.” Quindi vedete che c’è tutto questo linguaggio continuo, che è un linguaggio in apparenza tecnico, torniamo a come è fatto il violino, eccetera, ma è anche il linguaggio, più che tecnico, è il linguaggio dell’esattezza e della precisione. Non c’è un’altra parola che Alicia possa usare per dire “eucaristia”. Quella è “eucaristia”. Non c’è nessun’altra parola, così come l’aggeggino che si usa per accordare le corde del violino si chiama “bischero”, e i toscani non ridano! Però è tutta questa precisione del linguaggio che è anche il motivo per cui molti dei suoi personaggi o parlano direttamente in un’altra lingua, molti parlano spagnolo, o parlano un loro inglese molto forbito, inesistente oppure parlano anche in inglese sgrammaticato, per esempio dicono “ain’t” anziché “isn’t”, usano le parole giuste in quel momento e la cosa strepitosa è che nel contesto che meno ti aspetti, la parola giusta, l’unica che dà il senso dell’essenziale può essere anche “eucaristia”

Saltamacchia. In questo viaggio c’è un momento in cui l’orfano ritrova il Padre?

Gawronski. Forse avete letto il romanzo La strada, perché è il romanzo più noto di Cormac McCarthy, è il romanzo per il quale ha vinto il premio Pulitzer. Ebbene, in quel romanzo, in quel momento, finalmente l’orfano smette di essere tale, perché entra in una relazione con il Padre, entra in una relazione con il divino. Il paradosso è che rispetto agli altri romanzi la natura ha smesso di parlare. Prima i personaggi attraversavano la frontiera, attraversavano queste praterie con il cielo che pulsava e che echeggiava il loro desiderio di infinito. Adesso improvvisamente la terra è ridotta da una catastrofe imprecisata a buio, cenere, freddo. E quello che rimane e che seguiamo per tutto il romanzo è la relazione tra questo padre e questo figlio che si trascinano lerci, sporchi, soli, infreddoliti, per questa terra, dove l’unico fuoco è quello che portano loro nella loro relazione. Ed ecco, l’orfano finalmente trova il divino, perché è entrato in rapporto con il Padre.
“Con la prima luce grigiastra l’uomo si alzò, lasciò il bambino addormentato e uscì sulla strada. Si accovacciò e studiò il territorio a sud. Arido, muto, senza Dio. Gli pareva che fosse ottobre, ma non ne era sicuro. Erano anni che non possedeva un calendario. Si stavano spostando verso sud, lì non sarebbero sopravvissuti un altro inverno. Quando ci fu luce a sufficienza per usare il binocolo, ispezionò la valle sottostante. Tutto sfumava nell’oscurità. La cenere si sollevava leggera in lenti mulinelli sopra l’asfalto. Studiò quel poco che riusciva a vedere. I tratti di strada laggiù fra gli alberi morti. In cerca di qualche traccia di colore. Un movimento, un filo di fumo. Abbassò il binocolo e si tirò giù la mascherina di cotone dal viso. Si asciugò il naso con il polso e riprese a scrutare la zona circostante. Poi rimase seduto lì con il binocolo in mano a guardare la luce cinerea del giorno che si rapprendeva sopra la terra. Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: “Se non è lui il Verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato.” Attraversarono cittadine dove i cartelloni pubblicitari erano scarabocchiati di messaggi che avvertivano di tenersi alla larga. I cartoni erano stati imbiancati con sottili strati di vernice per poterci scrivere sopra e sotto la vernice si intravedeva ancora la pubblicità sbiadita di prodotti che non esistevano più. Si sedettero sul bordo della strada e mangiarono le ultime mele. Cosa c’è? disse l’uomo.
Niente.
Vedrai che troveremo qualcosa da mangiare, lo troviamo sempre.
Il bambino non rispose. L’uomo lo guardò.
C’è dell’altro, vero?
Non importa.
Dimmelo.
Il bambino si voltò verso la strada.
Voglio che me lo dici, non c’è niente di male. Il bambino scosse la testa. Guardami, disse. Il bambino si voltò a guardarlo. Sembrava che avesse pianto. Dimmelo, forza.
Noi non mangeremo mai nessuno, vero?
No, certo che no.
Neanche se stessimo morendo di fame?
Stiamo già morendo di fame.
Hai detto che non era così.
Ho detto che non stavamo morendo, non che non stavamo morendo di fame
Ma comunque non mangeremmo le persone.
No, non le mangeremmo
Per niente al mondo?
No, per niente al mondo.
Perché noi siamo i buoni.
Sì.
E portiamo il fuoco.
E portiamo il fuoco.Sì.
Ok.”
È un dialogo che dice tutto di questo rapporto tra il padre e il figlio. Il figlio è colui che genera il padre, è colui che genera l’orfano, è colui che cerca continuamente di portare il padre a essere misericordioso con gli altri poveracci che vengono incontrati lungo la strada. È lui, il figlio, che chiede rassicurazioni dicendo allora noi “portiamo il fuoco” e che cos’è questo fuoco? È l’essenza, è l’essenza della vita. Che vive dove? Dove può vivere? Può vivere soltanto nella relazione fra il padre e il figlio. E questo Figlio, Cormac McCarthy lo dice chiaramente quando dice “Se non è lui il Verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato.”

Zaccuri. Il bambino l’ha capito, che lui potrebbe essere il lupo. Non sarà che finiamo anche noi a mangiare? Infatti il padre gli dice “siamo i buoni,” non che “siamo buoni.” Abbiamo scelto di stare da quella parte. Ed è vero che il figlio genera il padre, però il padre deve anche accettare di essere generato. Noi molte volte il rapporto tra padre e figlio lo guardiamo dalla posizione che c’è più naturale. Siamo tutti figli, non tutti sono padre e madre. E abbiamo sempre qualcosina da rivendicare, no? Cioè, quella volta, ma avevi la preferenza, eccetera. E così non se ne esce, se ne esce solo quando si accetta di diventare un padre. Noi non sappiamo quasi nulla di quello che è accaduto prima di questa parte, di questo viaggio in un mondo desolato. Sappiamo che è accaduto qualcosa di irreparabile e sappiamo che in questa famiglia dove c’era un bambino, il padre ha deciso di rimanere a fare il padre e la madre non ce l’ha fatta. È un personaggio molto tragico, veramente tragico. Non ce l’ha fatta, non è bastato neppure l’amore, non è bastato neppure l’istinto. E quindi il padre è diventato un padre, e solo quando il padre accetta di diventare un padre, io non sono più orfano. Tanto è vero che anche nel finale, quando il bambino si trova apparentemente solo, c’è una parola che gli ha detto il padre che torna. Ed è una parola che stranamente nella traduzione italiana secondo me è stata travisata, cioè, uno l’inglese mica lo deve studiare per ordinare un cheeseburger in Nebraska, quelle sono cose che si fanno anche col dito sul menù. Uno lo fa per capire quei tre o quattro che hanno scritto in inglese, Shakespeare, McCarthy, qualcun altro, eccetera. Il padre ne La strada, quando ormai sta finendo veramente la sua missione, sa che deve cedere la mano, deve affidare il bambino a qualcun altro, gli dice, nella traduzione italiana “ci penserà la bontà” che suona molto consolante. In inglese sono tre parole: “Mercy will come” Mercy è la Misericordia, non è la bontà, è qualcosa di più largo, è il respiro di Dio. Mercy will, il futuro, “eres huérfano”, “will” è sicuro, andrà così, “come” viene, come qualcuno, non è un astratto, è qualcuno che viene. E avete letto La strada? Sennò non lo dico perché… però viene esattamente Chi deve venire. Cioè, alla fine quella mancanza divorante che c’è in tutto il libro in qualche maniera viene colmata e al posto del Verbo di Dio, che forse è diventato troppo impegnativo per questo mondo, c’è il respiro di Dio.

Saltamacchia. Alla fine. Dunque, siamo giunti alla fine di questo percorso, ma qual è la destinazione, qual è il punto di arrivo di questo viaggio?

Gawronski. Il punto di arrivo è il fuoco. Il punto di arrivo è quell’essenza che brucia al cuore di tutte le cose e che si manifesta, si rivela nella relazione fra il padre e il figlio. Il padre dice a questo bambino: “Io ho te.” Questi due sono l’uno il mondo dell’altro, ci dice McCarthy. E questo padre ripete: “Io ho te,” perché è giunto al limite estremo, il cacciatore del divino, l’orfano, è giunto al limite estremo della sua condizione. È come se noi, alla fine della nostra vita, quando non ci potremo più aggrappare a nessun’altra cosa, diremo “io ho Te.” Il fuoco è il simbolo per eccellenza di McCarthy, e ricorre in tutti i suoi romanzi. C’è una descrizione in particolare tratta da Meridiano di sangue che adesso vorrei leggervi.
“Si accamparono su una bassa terrazza rocciosa, dove pareti di aggregato asciutto segnavano l’antico corso di un fiume, e accesero un fuoco, intorno al quale sedettero luccicanti e rossi, come carboni accesi nella testa quando si voltavano. Le fiamme oscillavano nel vento e i tizzoni impallidivano e si incupivano, e impallidivano e si incupivano, come la pulsazione del sangue di un essere vivente sventrato sul terreno davanti a loro. E guardavano tutti il fuoco, che è in sé qualcosa degli uomini stessi, poiché senza fuoco essi sono più piccoli e sono separati dalle proprie origini e sono esuli. Perché ogni fuoco è tutti i fuochi, il primo e l’ultimo.”
Fra queste fiamme, McCarthy ci dice, è come se ci fosse la pulsazione del sangue di un essere vivente sventrato. Ancora una volta, la ferita. Al centro del fuoco c’è una ferita. Un essere vivente sventrato, scannato, appeso alla croce. “Guardavano tutti il fuoco, che è in sé qualcosa degli uomini stessi, perché senza fuoco essi sono più piccoli, sono separati dalle proprie origini. Queste origini che l’orfano, il cacciatore del divino, hanno ricercato per tutta la loro avventura. E dice sono esuli, senza questo fuoco siamo stranieri. Senza questo fuoco siamo irrimediabilmente orfani. O entriamo in questa relazione con questo fuoco, che è il primo e l’ultimo, oppure restiamo soli e soggetti a quelle tentazioni che possono fare di noi dei divoratori di uomini. Il cacciatore rimane cacciatore, ma se non volge lo sguardo verso il fuoco, rischia di diventare, e McCarthy ce lo dice in modo molto chiaro, diventa divoratore di uomini.

Zaccuri. Quindi siamo in fondo. In fondo vorrei tornare su quello a cui accennavo prima, da dove viene fuori questa frase ne Il passeggero. Viene fuori proprio nelle ultimissime pagine. Le ultimissime pagine in cui questo personaggio, Bobby, che in maniera diversa ma analoga ad Alicia, la sorella, ha perso tutto, ha sacrificato tutto, inizia ad avere delle visioni, ad essere visitato da dei personaggi. C’è un personaggio in particolare che chi leggerà il romanzo non riuscirà a dimenticare: il Kid, che è una specie di mostriciattolo eloquente e sapiente e molto insinuante. E c’è il fatto che Bobby riceve la visita di un amico che è morto. E l’amico è questo John, un nome ricorrente nei romanzi di McCarthy, nome molto semplice, che è stato un grandissimo truffatore, ma proprio di quelli molto professionali e molto fieri di sé, insomma uno di quelli che traffica con le ricette mediche false, che negli Stati Uniti specialmente hanno un ottimo mercato, che va nei migliori ristoranti pagando sempre con la carta di credito di qualcun altro, eccetera eccetera. E questo in realtà è un uomo coltissimo, molto sensibile, è anche come capita a volte, un po’ turbato da se stesso, e alla fine in quest’ultimo dialogo improbabile, impossibile, paradossale, fuori dal tempo appunto, in cui uno è morto e l’altro invece no, gli dice questa strana frase: “Ma non andiamo alla ricerca nel libro dell’essenza, in realtà, sere, messere,” perché lui usa questo intercalare, quindi c’è anche un’ombra di ironia nel momento in cui lo dice, “ma di che cos’è che andiamo in cerca? Che cosa andiamo a fare?” E questo, secondo me, è una grandissima lezione, perché noi a volte pensiamo che l’ascolto sia dovuto solo a chi se lo merita, mentre invece la realtà è selvaggia, è imprevedibile, parla il linguaggio che vuole e parla il linguaggio della verità nel momento e attraverso chi vuole, quello che vuole. C’è chi conosce la verità attraverso la bellezza, c’è chi la conosce attraverso la sofferenza, c’è chi trova la bellezza sofferenza, però è assolutamente imprevedibile. E infatti è già presente in altra parte dell’opera, ma negli ultimi due romanzi, Stella Maris e Il passeggero, questo tema della scienza, della fisica quantistica in particolare, è molto presente, perché è vero che tutti abbiamo un padre, tutti abbiamo bisogno di un padre, tutti invochiamo un padre buono, ma se tuo papà sono di quelli che hanno costruito la bomba atomica con Oppenheimer, sei ancora sicuro che il tuo papà sia stato così buono? E questa è una domanda che si portano dietro questi orfani, non orfani, fratelli, non fratelli. L’essenziale ci prende di sorpresa, questa è forse la notizia più bella di tutte.

Saltamacchia. Dicevi, giustamente nell’originale questo essenziale è “essence”, e di fatto mi sembra che questa sera, questo pomeriggio, ci abbiate aiutato a entrare dentro questo titolo di questo Meeting che si apre oggi, a capire che questo essenziale non è tanto in contraddizione con superfluo, non è il contrario di superfluo, ma è piuttosto l’essenza, cioè questo punto infuocato, questo fuoco che è al cuore di ogni cosa. E non è assolutamente astratto, assolutamente. Ha la precisione, l’esattezza che tu ci ricordavi, anche nei dettagli, nella concretezza in cui questa trama dell’esistenza si va a incarnare. E dunque, allora, questo cercare, mi sembra che anche questo venuto fuori molto chiaramente stasera, guardando di nuovo all’originale inglese in cui usa “be after”, essere dietro, essere a caccia, alle calcagna, inseguire. Se questo viaggio di cui abbiamo parlato stasera è partito da un punto infuocato che il nostro protagonista si è trovato dentro e che l’ha sospinto, allora non è un cercare che ci mettiamo in testa noi, ma è un seguire qualcosa che c’è già, qualcosa che viene prima e che ci attrae.
Prima di concludere vorrei dire due cose. La prima è che ognuno di noi può dare un contributo decisivo al Meeting e a questa grande avventura umana, anche attraverso la donazione. In tutto il Meeting sono presenti i punti Dona Ora, e sappiamo che il Meeting si sostiene proprio grazie a questo. La seconda cosa è che, visto che questa sera abbiamo voluto lasciar parlare Cormac McCarthy, mi sembra giusto che lasciamo a lui anche l’ultima parola.

Gawronski.
Ogni tanto la donna gli parlava di Dio. Lui ci provava a parlare con Dio, ma la cosa migliore era parlare con il Padre, e infatti ci parlava e non lo dimenticava mai. La donna diceva che andava bene così, diceva che il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all’altro in eterno. Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini, li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiavano piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio, erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire, mappe e labirinti di una cosa che non si poteva rimettere a posto, che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo e vibrava di Mistero.

Data

20 Agosto 2024

Ora

17:00

Edizione

2024

Luogo

Sala Neri Generali-Cattolica
Categoria
Incontri