IL VALORE DEL LAVORO: UNA RICERCA URGENTE

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In collaborazione con Compagnia delle Opere
Alessandro Bracci, presidente e amministratore delegato Teddy Group; Maurizio Gardini, Presidente di Confcooperative; Jacques Moscianese, Direttore Esecutivo degli Affari Istituzionali di Intesa Sanpaolo; Cristina Scocchia, amministratore delegato Illycaffè. Introduce Francesco Cassese, consulente manageriale, Miror Consulting

La pandemia di COVID-19 ha profondamente trasformato il nostro modo di vivere e lavorare, portando alla ribalta nuove domande sul senso e sul valore del lavoro nella nostra esistenza quotidiana. Questo incontro si propone di esplorare se il lavoro sia ancora oggi una vocazione che risponde a un bisogno umano profondo o semplicemente uno strumento per soddisfare necessità materiali. Particolare attenzione sarà rivolta alle nuove generazioni, che cercano un equilibrio tra vita privata e impegno professionale, riflettendo un desiderio di armonia e significato nel loro percorso lavorativo.

Con il sostegno di isybank

IL VALORE DEL LAVORO: UNA RICERCA URGENTE

IL VALORE DEL LAVORO: UNA RICERCA URGENTE 

In collaborazione con Compagnia delle Opere 

Martedì 20 agosto 2024 ore 15:00 

Sala Conai A2 

 

Partecipano: 

Alessandro Bracci, presidente e amministratore delegato Teddy Group; Maurizio Gardini, Presidente di Confcooperative; Jacques Moscianese, Direttore Esecutivo degli Affari Istituzionali di Intesa Sanpaolo; Cristina Scocchia, amministratore delegato Illycaffè.  

Introduce:  

Francesco Cassese, consulente manageriale, Miror Consulting 

 

Cassese. Buon pomeriggio a tutti, grazie per la partecipazione. Ci accingiamo all’inizio di questo incontro e parto esattamente dal titolo. Il titolo mette a tema il valore del lavoro. La sinossi di questo incontro recita così: “La pandemia di Covid-19 ha profondamente trasformato il nostro modo di vivere e lavorare, portando alla ribalta nuove domande sul senso e sul valore del lavoro nella nostra esistenza quotidiana. Questo incontro si propone di esplorare se il lavoro sia ancora oggi una vocazione che risponde a un bisogno umano profondo o semplicemente uno strumento per soddisfare necessità materiali. Particolare attenzione sarà rivolta alle nuove generazioni che cercano un equilibrio tra vita privata e impegno professionale, riflettendo un desiderio di armonia e significato nel loro percorso lavorativo.” 

Io mi presento, sono Francesco Cassese, mi occupo di consulenza organizzativa e ho l’onore di moderare questo incontro. Parto subito con la presentazione dei nostri ospiti, i relatori. Alla mia destra, troviamo Jacques Moscianese, Direttore Centrale Affari Istituzionali di Intesa Sanpaolo, che si occupa di relazioni con le pubbliche istituzioni, con le autorità regolatorie e con le autorità antitrust, nonché avvocato in Francia e in Italia. Lo accogliamo con un applauso. Subito alla sua destra, Alessandro Bracci, Amministratore Delegato di Teddy S.p.A., società che opera nel mercato dell’abbigliamento fast fashion ed è titolare, tra gli altri, dei marchi Terranova, Calliope e Rinascimento. Ha iniziato nel 2007 a lavorare con un incarico dirigenziale in Teddy, per poi assumere la posizione di Direttore Generale. Poi abbiamo Maurizio Gardini, Presidente di Confcooperative. È stato riconfermato alla Presidenza di Confcooperative per il mandato 2024-2028. È Presidente del Gruppo Cooperativo Conserve Italia, che ha i marchi Cirio, Valfrutta, Yoga, Derby e così via. Accogliamo con un applauso anche lui. Dulcis in  fundo, abbiamo Cristina Scocchia, Amministratore Delegato di Illy Caffè. Ci sono tante cose da menzionare, ma magari seleziono solo alcune. Cristina è membro del Consiglio di Amministrazione e del Comitato Audit di Essilor Luxottica e, da maggio 2022, del CDA, del Comitato Rischi e del Comitato Nomine di Fincantieri, di cui è anche Presidente. Ha vinto parecchi premi; ne voglio menzionare solo alcuni: il titolo di Miglior CEO per la categoria Retail al CEO Italian Awards nel 2019 ed è inclusa da Forbes & Fortune nella prestigiosa classifica delle 100 donne leader più influenti sia nel 2019 che nel 2022. Ha scritto recentemente un libro che si intitola “Il coraggio di provarci” ed è riuscita a trovare il tempo anche di scriverlo. Lavoreremo con un giro di tavolo, quindi 5 minuti a testa di domande e risposte. La prima domanda è una domanda comune a tutti e quattro, poi invece ci saranno delle domande personalizzate per ognuno di loro. Il titolo del Meeting di quest’anno ripropone una provocazione lanciata dallo scrittore americano Cormac McCarthy nel suo libro “Il passeggero”: “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?” Proviamo a seguire il suggerimento di McCarthy e partiamo dalla domanda essenziale. Prima di parlare delle realtà, dei giovani, del lavoro, vorrei fare una domanda personale. Che significato ha per te il lavoro? Che valore ha? Cioè, cosa cerchi nel lavoro? Partiamo da Jacques. 

Moscianese. Grazie. Se tracciamo un continuum fra chi lavora per bisogno, per rispondere alle esigenze della quotidianità, e chi lo fa come una vocazione, per mia fortuna mi colloco più verso quelli che lavorano per una propria passione. Vivo il mio lavoro quasi come una vocazione e questo mi fa evidentemente capire che faccio parte di una cerchia molto ristretta di persone estremamente fortunate, che hanno avuto la possibilità di realizzare il proprio desiderio e di lavorare, realizzando per certi versi un sogno. Questo è dovuto anche al fatto che, per fortuna, ho avuto una famiglia alle spalle che mi ha aiutato molto nel coltivare i miei interessi, ha investito sui miei studi, sulla mia preparazione e soprattutto mi ha trasmesso dei valori che sono fondamentali quando si entra nel mondo del lavoro: il senso del dovere, la serietà, l’umiltà, la dedizione, tutti valori che oggi ovviamente sono fondamentali nel mondo del lavoro. Tuttavia, la mia professione, il lavoro, oggi mi definisce meno di quanto probabilmente definiva mio padre o comunque le generazioni precedenti. Adesso faccio un esempio un po’ sciocco per farmi capire: mentre preparavo la chiacchierata di oggi, ho riguardato un po’ la mia bio su Twitter, o su X come si chiama ora, e mi sono accorto che mi sono dato un ordine di priorità: ho scritto prima che sono un padre, poi che sono un marito e poi che sono un avvocato. Questo per dire che oggi il lavoro è sicuramente qualcosa che mi dà un senso di realizzazione, ma c’è prima l’aspetto familiare che è importante. Continuando sulla bio c’è scritto che sono juventino e per questo prendo insulti tutti i giorni…  Penso che in astratto il lavoro sia uno strumento che, più di ogni altro, ti consente di entrare nella vita adulta. Un ragazzo quando esce dall’università ed entra nel mondo del lavoro, diventa un adulto, è il momento in cui comincia ad affermare se stesso, a essere autonomo rispetto alla propria famiglia. E secondo me il lavoro può anche divenire uno strumento… Mi verrebbe quasi da dire l’ultimo baluardo, ma uno strumento che ti consente di essere connesso, in senso fisico, alla realtà, connesso al mondo reale. Oggi i ragazzi purtroppo non giocano più nei campetti di calcetto, tranne che qui ho visto dei campi bellissimi; sono sui social network, vivono nel metaverso, vivono nella realtà virtuale. Ecco, il lavoro ti consente di rimanere attaccato al mondo reale. È quello che ti porta ad allargare la tua comunità: non è più solo la comunità familiare, ma è la comunità sociale. Noi siamo degli animali sociali, abbiamo bisogno di essere in contatto con le persone, ce lo ricordiamo tutti durante il Covid. Ecco, il lavoro è un mezzo, uno strumento che ti consente di viaggiare con la mente, con le gambe e che ti consente di conoscere le persone e ovviamente di imparare cose nuove. Grazie. 

Bracci. Io investo gran parte dei minuti di questa risposta, se mi consenti, per attaccarmi alla seconda. Per me il lavoro è sempre stato un luogo privilegiato, anche solo per il tempo che ci si dedica, di emersione dei talenti che ti sono stati dati, dei limiti che ti sono stati dati e dei desideri con cui vivi. Quindi, per me il lavoro è sempre stato il luogo della sfida di questi tre elementi e, quindi, è stato per me sempre un luogo di conoscenza di me stesso innanzitutto. Con questo passo la parola. 

Gardini. È chiaro che ognuno parte dalla propria esperienza personale. Completato il percorso universitario, che ho avuto la fortuna di poter fare, anche se sono il più datato qui, per non dire il più vecchio, provenivo da una famiglia di umili origini dove non era sempre scontato poter avere l’accesso universitario. Mi ritengo un uomo molto fortunato, prima per avere la possibilità di studiare, di acquisire una professionalità e poi di poter lavorare nell’impresa, nell’azienda agricola di famiglia. E poi il grande incontro con l’amore della mia vita, con la grande esperienza della cooperazione, con la cooperativa. E quindi, da un lato, parlando con i miei figli e cercando di fargli capire anche con degli stereotipi, che magari non sono più odierni, dico: “Papà non ha mai avuto un padrone”, nel senso che ha avuto la fortuna di essere un lavoratore autonomo, ha avuto la fortuna di lavorare in cooperazione e soprattutto ha avuto la fortuna di vivere e approcciare un lavoro che era un’esperienza di comunità, era un’esperienza condivisa, un’esperienza che metteva al centro non solo l’aspetto tipicamente professionale, ma anche un aspetto con un forte contenuto sociale e che nel mix fra questi due aspetti creava valore vero. Penso che questa sia l’esperienza più bella che mi fa ritenere di essere un uomo molto fortunato e di dover, in qualche misura, trasmettere la bellezza di questo percorso. 

Cassese. Grazie Maurizio. 

Scocchia. Buon pomeriggio a tutti e grazie anche da parte mia per l’invito. Io devo dire che per me il lavoro non è mai stato la cosa più importante, però è sempre stato importante. Non è mai stato l’elemento che mi ha definito, ma è uno degli elementi che ha contribuito a definirmi. E lo dico perché per me il lavoro, così come la scuola, sono stati un ascensore sociale, quell’ascensore sociale che mi ha permesso di realizzare i miei desideri. Lo cito anche nel libro che hai menzionato tu prima. Sono nata in un piccolo paesino di provincia, di 2000 anime. In questo paesino c’erano la scuola elementare, la scuola media, due negozi di alimentari e l’edicola. Quindi, quando volevi fare qualcosa di stravagante, andavi a fare un giro a l’edicola. Sono nata da una famiglia normalissima: mio padre era professore di tecnica alle medie, mia madre era maestra d’asilo. Non ci è mai mancato nulla, però io la prima vacanza l’ho fatta a 23 anni col mio primo stipendio, perché prima i soldi per andare in vacanza semplicemente non c’erano. In più, sono nata donna in un paese che certamente non fa delle pari opportunità il suo vanto e, nonostante questo, io volevo viaggiare, volevo vedere il mondo, volevo diventare un manager, volevo fare un lavoro da uomo, perché fare l’amministratore delegato mi veniva detto che era un lavoro da uomo. Ecco, io grazie alla scuola e al lavoro, nel mio piccolo, sono riuscita a realizzare questi miei sogni. Non ero sicura di farcela, però ho voluto con tutto il cuore trovare il coraggio di provarci. Per me non era solo la realizzazione di un mio sogno personale, era anche il desiderio di dare una testata forte e decisa al soffitto di cristallo, perché io mi sono detta: “Va bene, non possiamo cambiare il punto di partenza. Non puoi decidere se sei uomo o donna, se sei ricco o povero, se nasci in città o in provincia”. Però, quello che ho sempre pensato è che il tuo punto di partenza non debba definire chi sei o chi vuoi diventare. Ecco, per me il lavoro è sempre stato questo: è stata la possibilità di lavorare e cambiare il punto di partenza, e non solo per me, ma anche per chi viene dopo. Perché sono consapevole dell’impegno e dei sacrifici che questo lavoro mi è costato, e sono anche consapevole che ogni volta che do’ una testata al soffitto di cristallo ci sarà un conto da pagare, ci sarà una difficoltà da superare. Però ogni volta che lo faccio dico: “Va bene, ma magari questo soffitto di cristallo ora ha una crepa in più e questa crepa è a beneficio di tutte le giovani donne, delle ragazze, delle bambine che un giorno magari non si sentiranno più dire che questo è un sogno da uomo, che questo è un lavoro da uomo, che questo è qualcosa che ti è precluso per il semplice fatto che sei nata bimba invece che bimbo”. Quindi, per me, lungi dall’essere la cosa più importante, perché la cosa più importante della mia vita è mio figlio Riccardo, e sono fierissima che oggi sia qui ad ascoltarmi, il lavoro è stato ed è una parte importante di quello che faccio, ma anche di quello che sono. 

Cassese. Grazie. Bene, parto con il secondo giro di tavolo con domande personalizzate. Il tavolo lo apparecchio un attimo dicendo che mi pare che oggi le riviste e anche i giornali, ma non solo oggi, negli ultimi due anni, uno dei temi più dibattuti, copiosamente ripetuti all’interno di queste riviste, è il tema delle grandi dimissioni. In un mercato altamente competitivo, dove la capacità attrattiva e la capacità di retention dei grandi talenti è un grandissimo problema per i datori di lavoro, questa è la narrativa che recitano i giornali, dove sostanzialmente c’è un trade-off, c’è un cambiamento di importanza di valore dalla retribuzione alla flessibilità, quindi la possibilità di un work-life balance o comunque una situazione di remote working, qualcosa che permetta di gestire meglio anche la vita personale. Ma la domanda che pongo è: è ancora vero? È vero in Italia che questo è lo spaccato che abbiamo davanti agli occhi? Ho avuto in più occasioni, l’ultima volta davanti a un bel piatto di risotto ai funghi, con un po’ di ragazzi che hanno iniziato a lavorare negli ultimi 3-4 anni, e gli elementi che hanno messo in evidenza rispetto al valore del lavoro erano anche elementi legati all’opportunità di sviluppo, alla possibilità di crescere. C’era un tema di connessione, la possibilità di un’appartenenza a una comunità, c’erano temi di significato o finalità, quello che in inglese chiamano “purpose”, cioè l’idea di poter partecipare al “proposito”, al perché dell’azienda a cui appartengono. Parto con Jacques: dal punto di vista di una grande istituzione bancaria, quali sono state le principali sfide e opportunità nel supportare i dipendenti nel post-pandemia? 

Moscianese. La prima sfida che abbiamo affrontato in Intesa San Paolo quando è scoppiata la pandemia è stata quella di garantire la continuità operativa. La continuità operativa vuol dire la continuità del servizio, soprattutto per la clientela retail, la clientela dei consumatori, ma anche per le imprese. Se ci pensate, le banche non sono di fatto un servizio pubblico, ma se andiamo a guardare bene, lo sono a tutti gli effetti perché dovevamo rimanere aperti. Per fortuna siamo rimasti aperti, abbiamo presidiato il territorio, quindi tutte le caratteristiche del servizio pubblico di fatto noi, come banca, le abbiamo. Non prendiamo il compenso che lo Stato dà ai servizi pubblici, ma questo va bene. Quindi il presidio del territorio è stato qualcosa di estremamente importante per noi; abbiamo garantito la continuità. Devo dire, e qui approfitto per ringraziare di nuovo i colleghi che durante il lockdown sono andati al lavoro, molti si sono anche ammalati in quel periodo, ma abbiamo garantito la continuità del lavoro. Questo è stato possibile perché l’azienda ha capito subito che era fondamentale investire in tecnologia per consentire ai colleghi di andare al lavoro e a quelli delle direzioni centrali di rimanere a casa e lavorare a tutti gli effetti. Abbiamo avuto le filiali che sono rimaste aperte con i colleghi fisicamente presenti nelle filiali e i colleghi delle direzioni centrali che hanno lavorato da casa. Proprio perché la banca, l’azienda, ci ha messo nelle condizioni di poter lavorare da casa e continuare a fare esattamente quello che facevamo in presenza. Voglio ricordare che durante il periodo del Covid, in pieno lockdown, abbiamo fatto l’operazione UBI. Abbiamo lanciato l’OPA qualche giorno prima che scoppiasse il Covid e venisse chiusa l’Italia, e abbiamo chiuso l’OPA con le mascherine, in pieno lockdown. Quindi abbiamo fatto tutto quello che c’era da fare in quel periodo, e quindi è stato in qualche modo reso fattibile qualcosa che prima era assolutamente impensabile: lavorare da casa. Anzi, di fatto è anche diventato, per certi versi, inevitabile. Oggi lavoriamo molto serenamente da casa, sia perché durante il lockdown i colleghi hanno dimostrato grandissima serietà e hanno continuato a lavorare portando a casa esattamente gli stessi risultati che venivano prodotti durante le fasi normali, sia perché il gruppo Intesa ha saputo coadiuvare i suoi dipendenti in questa sfida tecnologica e organizzativa. E attenzione, quando parlo di organizzazione, non parlo solo di organizzazione aziendale, parlo anche di organizzazione familiare. Chi può dimenticare i giorni in cui si lavorava, si era in conference call, magari mia moglie contemporaneamente era in conference call e avevamo i bambini in DAD. Sono momenti straordinari. Se l’azienda non avesse investito in tecnologia per consentirci di fare questo, sarebbe stato certamente molto più complicato. Per realizzare questi risultati, in Intesa San Paolo abbiamo deciso, finita la pandemia, di continuare a investire in questa modalità di lavoro. Infatti, dal 2023 abbiamo introdotto diverse novità che ritengo estremamente innovative rispetto al panorama italiano: abbiamo stabilito 120 giorni di smart working durante l’anno; quindi, sui 300 giorni lavorativi, 120 si possono fare da casa. Abbiamo introdotto una flessibilità di orario di ingresso in azienda, che va dalle 7 alle 10, mentre prima si doveva timbrare il cartellino al più tardi alle 9. E soprattutto, questa è stata secondo me la grande innovazione: la settimana corta. In Intesa San Paolo oggi si lavora quattro giorni su sette. Quando abbiamo annunciato questa novità, abbiamo ricevuto una quantità enorme di curriculum. In realtà, non è cambiata la quantità di lavoro che viene prodotta dal lavoratore: prima la giornata era di sette ore e mezzo, ora è diventata di nove, su quattro giorni. Posso dire, e qui chiudo, che a due anni dall’avvio di questa rivoluzione in Intesa e a quattro anni dall’inizio della pandemia, i risultati sono esattamente gli stessi di quelli che avevamo quando il lavoro si svolgeva in maniera “normale”, cioè andando fisicamente in ufficio. Quindi una grande innovazione che sta portando grandi risultati. 

Cassese. Grazie. Alessandro, mi sembra che Teddy Group sia uno spaccato abbastanza ampio. Quali cambiamenti hai osservato nelle aspettative dei lavoratori riguardo al significato del loro lavoro nel contesto dell’organizzazione? Se hai visto un’evoluzione. 

Bracci. Allora, secondo me ci sono dei dati oggettivi e c’è una narrativa da considerare sulla percezione del lavoro e del suo senso. I dati oggettivi sono tre, fondamentalmente, soprattutto per i giovani, ma non solo, perché impatta sui giovani ma il riflesso c’è anche sulle persone più mature. Primo dato, l’inverno demografico. I giovani sono pochi; essendo pochi, sono molto contendibili. Come dico sempre ai miei figli, ho quattro figli, di cui tre stanno per approcciarsi al mondo del lavoro: “Voi siete molto fortunati perché avete meno concorrenza rispetto a noi nell’entrare nel mondo del lavoro, ma siete anche più sfortunati perché avete meno concorrenza per entrare nel mondo del lavoro”. Questo è un dato di cui tener conto. Poi c’è un altro dato: con la vita lavorativa che si allunga fino ai 70 anni ormai, questi ragazzi, che sono contesi e quindi possono scegliere, dicono anche: “Cavolo, ma a me mi aspettano 40 anni e passa di lavoro, quindi cerchiamo di non bruciarci tutte le energie, visto che è una maratona, nei primi 10 km.” E questo determina anche un po’ un’idea di come loro approcciano il lavoro. Non voglio generalizzare, ma dico gli elementi che compongono oggi una narrativa. Poi c’è la narrativa vera e propria. Io sono 25 anni e passa che sono nel mondo del lavoro, quando ci sono entrato, la narrativa raccontava che eri “figo” se al lavoro facevi carriera, se eri super performante, se lavoravi 24 ore su 24, 7 giorni su 7, se a un certo punto arrivavi subito. E questa era la narrativa, diciamo così, fino all’ante-Covid. La narrativa post-Covid è completamente cambiata. La narrativa post-Covid è quella di una rivoluzione, intesa come liberazione del tempo dell’uomo dal tempo del lavoro. Chiaramente entrambe le narrative partono da un punto di verità. La prima, quella del carrierismo, parte da un punto di verità: uno desidera nella vita realizzarsi, costruire qualcosa di grande, lasciare un segno. La seconda parte dal punto di vista vero che uno, nella vita, non desidera che un aspetto della vita diventi totalizzante sul tutto. Qual è il problema? Anche poi questi punti di verità impazziscono in una teorizzazione che fa dimenticare l’origine da cui sono partiti. Quindi oggi, quando ci troviamo di fronte alle persone, dati oggettivi e narrative sono elementi da considerare. Il problema a questo punto diventa non tanto la narrativa, perché la narrativa cambia, ma che proposta fai tu come datore di lavoro, diciamo così, alle persone. Perché comunque le persone, anche se cambia la narrativa, restano sempre le stesse, con lo stesso desiderio. Il problema è che qualche volta si fossilizza in teorie strane. Allora, la grande sfida che io vedo oggi è che la proposta di lavoro sia chiara, affascinante, intrigante dal punto di vista professionale e affascinante dal punto di vista dello scopo. La proposta che nella nostra azienda facciamo è quella del nostro fondatore, che ha scritto il sogno della nostra azienda, che è attaccato su tutti i muri, ovunque nei quaranta e passa paesi in cui siamo. È a tutti gli effetti una proposta del tipo di azienda che si vuole costruire e del tipo di chiamata che si fa a chi ci lavora. Il sogno è quello di costruire una grande azienda globale che guadagni molto per ingrandirla, creare occupazione e destinare una fetta degli utili netti ogni anno a opere di carità in Italia e nel mondo. Il sogno è quello di costruire un’azienda in cui giovani e meno giovani, attraverso il lavoro, possano trovare un senso alla loro vita. Il sogno è quello di costruire un’azienda in cui ogni cinque persone “normali” lavori una persona che ha dei problemi e in cui le cinque persone “normali” possano aiutare la persona che ha dei problemi a realizzarsi. Il sogno è quello di creare una classe dirigente competente, coraggiosa, proiettata al futuro, che possa trasmettere questi valori a tutti nel tempo. Questa è la proposta lavorativa che costituisce la proposta che Teddy fa a chi viene a lavorare da noi. Tanto che nei pochi colloqui che faccio, quando arriva una persona, tendenzialmente vuol dire che tecnicamente va bene. L’unica cosa che gli dico è: “Hai letto il sogno? Perché se l’hai letto e c’è qualcosa che ti risuona dentro, anche poco, questa è l’azienda giusta per te, qui ti divertirai come un matto. Se leggi quel sogno e non ti risuona niente, siccome quello è il principio, non ideale appena, ma il principio operativo con cui facciamo le scelte dentro l’azienda, qui soffrirai come un cane. Quindi valuta bene la proposta che ti facciamo.” Di fronte a questa proposta così chiara, ho sempre visto che le narrative si smontano, sia quella carrierista che quella liberazionista. Perché alla fine l’uomo, come ho detto prima, cerca sempre nel lavoro un luogo di conoscenza di sé e di realizzazione di sé. E tutte le persone che incontro hanno lo stesso identico desiderio. 

Cassese. Grazie. Maurizio, andiamo sulle cooperative. Come vedi il ruolo della cooperativa nel promuovere un modello di lavoro che risponda non solo alle necessità materiali ma anche ai bisogni più profondi delle persone? 

Gardini. Per rispondere a questa domanda bisognerebbe partire dalla diversità cooperativa, dalla diversità del modello imprenditoriale dal modello societario. La cooperativa non è mai un’impresa che massimizza il dividendo, che massimizza l’utile. È un’impresa che quasi sempre nasce dalla risposta a un bisogno: che sia il bisogno di un lavoro dignitoso e soddisfacente, che sia la ricerca di una casa in cui vivere a propria dimensione, che sia la ricerca di un servizio, di un prodotto, che sia la necessità di avere anche del credito giusto. E quindi c’è questa forte visione, connotazione, che cambia un po’ i paradigmi di mutualità interna, come generalmente la chiamiamo, che si coniuga con la visione di mutualità esterna, che è questo forte connotato che guarda le comunità, che guarda i territori, che guarda il benessere dei territori e che legittima il pieno riconoscimento costituzionale che i nostri costituenti hanno voluto riconoscere con l’articolo 45 nel riconoscimento della funzione sociale e nella promozione. Qui c’è il grande senso, come dicevo prima, anche della diversità, che riposiziona il senso vero del lavoro e riposiziona quello che è un equilibrio e una volontà anche diversa di rapporto col lavoro. E questo è tanto più incidente nella nostra storia, nei nostri giorni, anche a seguito di alcuni fallimenti che in qualche misura abbiamo registrato, frutto di un capitalismo esasperato, che ha troppo spesso forse guardato all’ottica del dividendo e ha perso di vista un po’ la funzione sociale. Non a caso dall’Europa arriva un richiamo forte al senso dell’economia sociale, come quell’economia che deve riconnettere i territori, riconnettere le fratture, aiutare a tenere insieme la coesione sociale. In queste cose risiede il senso più autentico del lavoro e risiede il senso più autentico di un lavoro a misura di donna e di uomo che genera valore vero di convivenza e di partecipazione. È chiaro che poi attorno a questo, che può sembrare forse un po’ troppo bucolico, un po’ troppo ideale, ci sono tante questioni che attengono strettamente alla vita di tutti i giorni. Ci sono questioni che attengono a quelli che sono i cambiamenti nel mondo del lavoro, lo si è citato, non è solo un problema di domanda e offerta, non è solo un problema che fino a pochi anni fa c’era un eccesso di offerta, oggi è l’opposto, e quindi oggi si è creata anche una maggiore selettività, e quindi è anche giusto che si introducano nuovi elementi di contesto che guardano alla partecipazione dei lavoratori e anche alla vita dell’impresa. Noi abbiamo condiviso come Confcooperative questa esperienza che la CISL ha voluto portare avanti, questo modello che si richiama anche a delle esperienze in altri paesi europei, che in qualche misura fa compartecipare alla gestione degli obiettivi e rende partecipi; è in qualche misura anche un ampliamento del concetto cooperativo dove il socio è chiamato a condividere con gli altri soci, nell’assemblea dei soci, quelle che sono un po’ le esperienze aziendali. E poi c’è dell’altro, perché siamo in prossimità di una legge di bilancio che in qualche misura deve porsi il problema di mettere più soldi in busta paga e, quindi, deve porsi non solamente il problema del cuneo fiscale, ma deve porsi il problema della produttività, perché si possono mettere più soldi in busta paga se si crea ricchezza, e per creare ricchezza abbiamo visto come la compartecipazione o il richiamo a elementi di salario variabile sui secondi livelli di contrattazione contribuisce in maniera molto significativa e si conquista anche la possibilità di condividere e di partecipare a degli obiettivi molto concreti. Penso che questi siano elementi che si intrecciano e che ci danno in qualche misura la strada da seguire. 

Francesco Cassese 

Grazie. Cristina, completiamo il giro di tavolo e gli applausi li prende tutti Cristina, ma sono per tutti, diciamo così. In qualità di leader di un gruppo di un’azienda storica italiana, come hai percepito il cambiamento nel modo in cui i dipendenti vedono il lavoro e il loro ruolo all’interno dell’azienda? 

Scocchia. Sicuramente negli ultimi anni, anche prima della pandemia, c’è stato un cambiamento. Un cambiamento del peso che il lavoro ha nella vita di ciascuno di noi e del peso che il lavoro ha nel definire chi siamo e qual è il nostro ruolo, qual è la nostra identità sociale. Poi certamente la pandemia, con lo smart working, ha permesso a tanti di sperimentare cosa significasse conciliare meglio la vita professionale e quella personale. Quindi, dopo la pandemia, sicuramente non solo i giovani ma anche tutte le generazioni hanno iniziato a chiedere una maggiore flessibilità, hanno iniziato a chiedere di poter conciliare meglio questi due mondi, il mondo lavorativo e il mondo personale. Oggi, quando i candidati, ripeto, giovani o meno giovani, vengono in un’azienda, quello che si aspettano è di trovare un’azienda che sia veramente flessibile, che permetta questa conciliazione. Si aspettano di trovare un’azienda che sia inclusiva, che sia diversa, che sappia valorizzare la diversità in tutte le sue forme. Si aspettano un’azienda che riesca a offrire loro delle opportunità di realizzare le proprie ambizioni, il che significa anche fare un lavoro, svolgere delle mansioni che siano in linea con i propri studi, con le proprie passioni, con i propri interessi; quindi non solo un lavoro che ti dia uno stipendio, un posto fisso, ma un lavoro che sempre di più ti dia la possibilità di realizzarti, la possibilità di fare qualcosa che ti dia soddisfazione a livello personale. E poi chiedono soprattutto un’azienda che sia valoriale. Tutti noi vogliamo riconoscere nell’azienda, concretamente, non nelle parole ma nei fatti, quei valori etici, morali, sociali e ambientali nei quali noi crediamo. Quindi sicuramente tutte queste istanze sono molto più forti e questa per noi è una bellissima sfida: per noi manager, per noi leader aziendali, a qualunque titolo e con qualunque ruolo, è una bellissima sfida perché significa che quell’intelligenza cognitiva che negli anni ’80 e ’90 era la cifra distintiva del leader oggi non basta più. Perché oggi, come allora, è importante che il leader aziendale sappia avere una visione strategica, sappia pensare in maniera strategica, che significa pensare a 360 gradi, che significa pensare con un orizzonte temporale di medio-lungo termine. È importante che il leader sappia prendere delle decisioni, anche difficili, talvolta impopolari, e lo sappia fare senza scaricare a valle il peso della decisione. Ma oggi questo non basta più. Oggi il leader è soprattutto colui o colei che sa creare un team compatto, forte, motivato, diverso, un team in cui le persone siano contente di lavorare, di venire in ufficio o di lavorare da casa e di dare il meglio per il raggiungimento di un successo collettivo che è più importante di quello individuale. C’è meno attenzione all’io e c’è più attenzione allo spirito di squadra, allo spirito di spogliatoio, al tempo e alla qualità del tempo che si investe nel nostro lavoro. E quindi questa per noi è la sfida più importante, saper mettere in campo l’intelligenza emotiva oltre a quella analitica e strategica. Tra l’altro, l’intelligenza emotiva non è altro che saper andare al di là del proprio ruolo e saper ascoltare le persone per conoscerle appunto come persone prima che come collaboratori, perché tutti noi siamo delle persone con i pro e con i contro, con i punti di forza, con i punti di debolezza, con le giornate in cui tutto va bene e le giornate in cui invece abbiamo il cuore pesante perché magari a casa, in famiglia, abbiamo dei problemi più importanti. Ecco, questa capacità dei manager di capire in maniera empatica, sincera, autentica, le persone con cui si lavora tutti i giorni fa la differenza. Però mi piace anche sottolineare che questo ruolo  non è un cambiamento che noi ci possiamo aspettare solo dalle aziende. E questo è un messaggio che mi sento di dare ai giovani. Io devo dire la verità, ogni tanto leggo che ci sono giovani che alla fine di un colloquio dicono “Grazie mille, vi faremo sapere”. Io onestamente lo leggo, ma non mi è mai capitato. Non mi è mai capitato perché magari sono stata fortunata, ma io vedo giovani che hanno voglia di fare, voglia di cambiare, giovani che non sono affetti dal sonnambulismo con cui certe volte vengono descritti, ma sono giovani che, se vogliono trovare un’azienda più meritocratica, più valoriale, si impegnano per cambiarla. Ecco, io mi auguro che sempre di più passi questo messaggio. C’è una frase bellissima di Sant’Agostino che dice: “I tempi siamo noi. Se i tempi sono cattivi, le persone vivano bene, i tempi diventeranno buoni”, diceva Sant’Agostino. Questo succede anche per il lavoro, succede anche per l’azienda. Se noi, al di là di essere giovani o meno giovani, ci impegniamo per trasformare il lavoro e le aziende in cui lavoriamo in quello che vogliamo siano, allora il cambiamento può essere veramente duraturo, profondo, strategico. E concludo; permettetemi anche di dire che al di là di chi si interroga e ha la fortuna di potersi interrogare sul senso profondo del lavoro, su quanto vogliamo dedicare al lavoro e quanto vogliamo dedicare ad altri aspetti della vita, comunque ancora oggi, nonostante i tassi di disoccupazione siano ai minimi storici da dieci anni, ci dice l’ISTAT, ancora oggi ci sono tante persone, giovani che escono dal percorso formativo senza quelle competenze di cui il mondo del lavoro ha bisogno e quindi il lavoro non lo trovano. Ancora oggi ci sono tanti cinquantenni, cinquantacinquenni, sessantenni che non sono pensionabili e che, non per volontà loro, sono stati espulsi dal mondo del lavoro. Ecco, noi a queste persone dobbiamo una risposta perché nel lavoro c’è dignità, che tutti vogliano riconoscere o meno. Nel lavoro, che tu voglia considerarlo una priorità o meno, c’è dignità, c’è la possibilità di pagare i conti, di farsi una famiglia, di mantenerla. Ecco, a me piacerebbe vedere un impegno profondo da parte di tutti, a partire dalle istituzioni e dalle imprese, per fare un percorso vero di re-skilling dei giovani e dei meno giovani che non stanno riuscendo a trovare un loro posto nel mondo del lavoro, perché da lì si parte poi per potersi realizzare a 360 gradi. 

Cassese. Grazie. Faccio l’ultimo giro di tavolo e approfitto della presenza di Jacques per toccare il tema della politica di responsabilità sociale. Ti chiedo come si è evoluta questa politica, ad esempio nella promozione di condizioni di lavoro sicure e salutari rispetto ai diritti umani e ai diritti dei lavoratori. Come si è evoluta la politica in Intesa San Paolo in risposta alle nuove esigenze e aspettative dei lavoratori? 

Moscianese.  Intesa è un’azienda che ha, proprio nel suo DNA, come è stato detto, una grandissima attenzione verso le questioni sociali in generale, quindi questo vale sia per i nostri dipendenti sia ovviamente per la comunità. Noi oggi siamo vigilati da una grande istituzione, che è la Banca Centrale Europea, che ci chiede di essere ESG compliant, di avere una grande attenzione alle questioni sociali, sia verso l’interno sia verso l’esterno della banca. La banca negli anni si è evoluta, quindi ovviamente c’è grande attenzione verso queste tematiche, però lasciatemi dire che in Intesa sono quasi, come si può dire in italiano, uno “state of mind” l’essere ESG compliant, cioè l’essere attenti alle questioni sociali. Io adesso non voglio fare un po’ di self marketing, però noi durante il Covid abbiamo fatto qualcosa che non ha fatto nessuno in Italia: abbiamo donato 100 milioni di euro allo Stato per potenziare le strutture ospedaliere e riuscire ad avere più letti di terapia intensiva. Se vi ricordate, durante il Covid il tema era: “Abbiamo 2.500 letti in Italia e ne serviranno 5.000, ne servono di più”. Noi abbiamo fatto questa grande donazione agli ospedali italiani, al Commissario della Protezione Civile, per potenziare e così è stato; anche grazie al nostro contributo abbiamo potenziato. Intesa San Paolo è molto attento alle questioni sociali e di governance, tantissimo verso l’esterno, e su quello mi vorrei focalizzare. Investiamo e sponsorizziamo la maggior parte delle scuole e delle università italiane, anzi credo tutte le università italiane siano in qualche modo supportate da Intesa San Paolo. Questo fa sì che molti studenti riescano a studiare grazie a quello che fa la banca. Racconto un aneddoto che, devo dire, mi ha riempito il cuore di gioia. Noi abbiamo questo prodotto che si chiama “PerMerito”. PerMerito è un prestito d’onore per gli studenti che non riescono a pagarsi gli studi. Noi gli facciamo un prestito a tasso zero, quasi zero, di una durata lunghissima, che comincia a rimborsare tra tanti anni. Ecco, questo aneddoto che volevo raccontare: mi sono trovato di recente a Londra, a un evento all’Università di Oxford, dove tra i relatori c’era l’ambasciatore italiano nel Regno Unito, e nel suo staff c’era questa ragazza di 24 anni che è venuta da me e mi dice: “Dottore, la devo ringraziare”. Io non capivo perché, pensavo fosse legato al rapporto che abbiamo con Oxford, e lei mi dice: “Grazie a Intesa ho avuto la possibilità di studiare, di andare al King’s College, e oggi a 24 anni sono nello staff dell’ambasciatore italiano nel Regno Unito”. PerMerito l’abbiamo lanciato 4-5 anni fa, quindi i primi effetti di quest’attività li cominciamo a vedere adesso e vedere questi primi ragazzi che entrano nel mondo del lavoro, che hanno avuto la possibilità di studiare perché Intesa San Paolo li ha sostenuti, vi garantisco che è una fonte di soddisfazione incredibile per chi lavora in banca. Tra l’altro, proprio su questo, sulla scuola, mi voglio riagganciare perché mi viene da dire che io sono qui un po’ per caso perché qualche anno fa ho avuto il grande piacere di conoscere una persona del movimento, una persona straordinaria che mi ha spiegato un po’ cos’è il movimento e quanto il movimento è attento alle questioni della scuola e alla formazione dei ragazzi. E in questo caso abbiamo trovato proprio una comunione di intenti tra quelli che sono gli obiettivi sociali della banca e quelli che sono gli obiettivi, in questo caso, del movimento. E quindi insieme abbiamo cominciato a lavorare su come sostenere alcune scuole, su come pensare di andare a colmare il gap che c’è in Italia in alcune professioni. Parlavi molto giustamente prima del gap demografico che abbiamo, dell’inverno demografico che stiamo vivendo. Ci sono pochi giovani e molte professioni stanno scomparendo. Allora, noi vogliamo investire insieme agli amici della Compagnia delle Opere, insieme agli amici del movimento, insieme alle persone del Meeting, su come fare una scuola degli ETS che consenta in qualche modo di andare a colmare quel gap di professioni e di conoscenze che mancheranno di fatto nel nostro Paese. Intesa San Paolo è un’azienda molto attenta all’ESG, sia all’interno sia all’esterno, abbiamo una struttura che è dedicata completamente alle questioni di sostenibilità, è un tema di grandissimo interesse per noi e quando possiamo essere di supporto per il territorio o di supporto per i colleghi, Intesa San Paolo non si tira indietro. Noi siamo riconosciuti tra i best employer in Italia e in Europa da anni. 

Cassese. Grazie. Alessandro, allora, un tema che abbiamo già toccato, ma mi piacerebbe, come dire, fare un affondo, è un po’ una provocazione. Parto da una frase di Aristotele: “Lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi il tempo libero”. Aristotele credeva che il lavoro fosse un mezzo per raggiungere un fine più alto, ovvero la possibilità di dedicarsi ad attività contemplative e intellettuali, considerate essenziali per la realizzazione del pieno potenziale umano. La domanda è questa: la forte esigenza di riequilibrio nel work-life balance è reale o semplicemente un capriccio passeggero? In ogni caso, in che modo le aziende possono supportare i dipendenti nella ricerca di un equilibrio tra vita privata e professionale mantenendo al contempo alti livelli di produttività? 

Bracci. Io ho fatto il liceo linguistico e in filosofia ero una capra; quindi, sono stato bersagliato sia da destra che da sinistra. Allora, nemmeno noi riminesi riusciamo a dire che Aristotele ha detto una cavolata, una sciocchezza. Sicuramente c’è un fatto: ad Aristotele vanno concesse un po’ le attenuanti generiche, essendo vissuto prima di Cristo. Io credo che dopo 2000 anni e passa di cristianesimo si possa, come dire, mettere come ipotesi almeno che un luogo possibile della piena realizzazione del proprio potenziale sia anche il lavoro, che è quello che abbiamo detto più o meno tutti fino ad adesso. Qui al Meeting l’anno scorso c’era una mostra bellissima sul senso del lavoro e su San Benedetto che ho visto tre volte, dove è stato documentato il fatto che questo anelito dei cristiani alla realizzazione di sé e alla ricerca del senso della propria vita ha generato una civiltà. L’Europa come la conosciamo oggi, l’economia come la conosciamo oggi, la scienza come la conosciamo oggi, la tecnica come la conosciamo oggi, è frutto di questo anelito. È chiaro che non può esserci una separazione come quella che Aristotele, giustamente vivendo in un tempo precristiano, indicava. Chiaramente però c’è da fare anche qualche considerazione di realismo. Il lavoro è l’azionista di maggioranza relativo delle nostre giornate. Come ogni azionista di maggioranza relativo, tutti gli altri tempi devono un po’ fare i conti col tempo del lavoro, e quindi è evidente che, come diceva anche prima Cristina, le aziende sono chiamate a uno sforzo di comprensione di questo. Io vorrei aggiungere però una cosa: io non amo moltissimo la terminologia “work-life balance” perché balance, per noi che siamo anche di estrazione giuridica, è sempre stata quell’immagine fuori dai tribunali della dea giustizia con due pesi contrapposti che si confrontano, un compromesso. Ecco, io ho sempre vissuto la vita più che come un balance, un equilibrio, come un dialogo tra il tempo del lavoro e gli altri tempi. Credo di essere diventato un padre migliore diventando un manager migliore e credo di essere diventato un manager migliore facendo il padre. Quindi una teorizzazione di una separazione netta come quella, perdoniamo Aristotele che ne ha dette tantissime anche più giuste, ma anche come certa narrativa tende a porre, io non la riscontro proprio nei fatti, cioè non è proprio così. La modalità con cui i figli ti insegnano il perdono, i figli ti insegnano la comprensione del limite dell’altro, i figli ti insegnano la pazienza e sono tutte cose che, avendole imparate da uomo, pratichi nel lavoro. Al lavoro ti insegnano la sfida ed è una cosa che tu porti a casa e sfidi i tuoi figli sulla loro libertà, sui loro talenti, sulle loro capacità. Quindi per me bisogna proprio cambiare un po’ la prospettiva. È un dialogo. Il tempo del lavoro con gli altri tempi è dentro un dialogo, un dialogo frizzante, un dialogo spesso con i toni accesi, e un dialogo nel quale, perché non diventi monologo, occorre una compagnia, occorre un punto esterno. Per esempio, per me sono gli amici, per me è mia moglie; mia moglie è stata fondamentale per me per fare in modo che non prevalesse quel tempo rispetto agli altri, non tanto come minuti o ore spese, perché quello è impossibile, ma come presenza. Presenza lì dove sei, quando ci sei. Secondo me questa è la grande sfida da accogliere, e le aziende devono affrontare questa sfida in qualche modo. Come è che possono aiutare questo dialogo? Certamente con tutto quello che è stato detto prima, in particolare da Cristina, poi io credo anche che approcciarlo come dialogo, anche dal punto di vista delle soluzioni, aiuta a essere più creativi. Tu approcci questo tema come dialogo, la formazione che fai alle tue persone ha un po’ dentro anche questa preoccupazione di allargamento dell’umanità delle persone, perché sai che poi quelle persone vanno a casa. Passi da questo agli strumenti, gli asili nido, i doposcuola, gli orari flessibili, tutti strumenti che non sono auto funzionanti, hanno sempre bisogno di una cultura d’impresa che affermi che quel tempo è  un tempo di dialogo e su questo le aziende sono chiamate, secondo me, a una grande sfida perché fare le cose, fare le iniziative, è facile, portare avanti una cultura per cui quello che stai facendo al lavoro, se lo fai in un certo modo, costruisce la personalità dei tuoi figli a casa, questo secondo me c’è da lavorare, ed è una bella sfida. 

Cassese. Maurizio, che tipo di iniziative ha implementato Conf Cooperative per aiutare i giovani lavoratori a trovare significato e armonia nel loro percorso professionale. 

Gardini. Proprio come caratteristica intrinseca la cooperazione ha una sua intergenerazionalità. Io cooperatore non lavoro per consegnare ai miei figli il frutto di quello che ho prodotto, ma ogni cooperatore lavora per la comunità, per un territorio, per consegnare ai giovani, per consegnare alle generazioni che verranno il frutto del lavoro. È una caratteristica particolare che spinge di più e meglio a interpretare questo impegno di missione nei confronti dei giovani. Ma poi c’è dell’altro. Stiamo in qualche misura approcciando un grande sforzo per consegnare anche ai giovani la possibilità della restanza nei territori delle aree interne, nei territori dimenticati, dove lo stato arretra, in 5.000 comuni in Italia, e dove si rischia di essere solo condannati all’emigrazione e allo spopolamento. Lì, attraverso le cooperative di comunità dove prevalentemente ci sono dei giovani, quei pochi giovani che decidono di investire nel loro territorio per valorizzare quel tanto di buono e non rassegnarsi allo spopolamento, all’esodo e all’emigrazione. Anche questo ha una missione fortemente economica che si identifica anche in una funzione sociale, che mantiene la vita in un territorio, che mantiene in qualche misura l’equilibrio e la sopravvivenza. Sappiamo cosa succede quando c’è lo spopolamento, il degrado e tutto il resto. Ma poi c’è anche dell’altro: c’è il sostegno che in qualche misura abbiamo voluto mettere in campo sulle worker buy-out, laddove il lavoro precipita e la ricostituzione di una cooperativa che riprende in mano il lavoro e riconsegna alla proprietà dei lavoratori questa nuova missione e questo nuovo obiettivo. E poi altri bandi che, attraverso il fondo mutualistico, perché la cooperazione è l’unico sistema di imprese dove per legge si destina il 3% degli utili, gli altri non vengono suddivisi ma vanno a fondo di riserva indivisibile, il patrimonio della comunità, ma il 3% va fuori dall’azienda e va in un fondo mutualistico che gestisce gli interventi di promozione su tutto il territorio, prevalentemente quelli più, consentitemi uno slang, un po’ più sfigati, che avrebbero meno opportunità e lì si va a concentrare questa azione anche di sviluppo con dei bandi, con delle opportunità di trasformare in qualche misura il lavoro in cooperativa come una missione di vita. Ma se mi consentite, proprio come ultimissima battuta prima di chiudere, proprio perché sono un abitué – la mia età mi ha consentito di vedere tante edizioni del Meeting – il Meeting ha sempre avuto un minimo comune denominatore: guardare all’orizzonte e guardare lontano. Saper in qualche misura ricostituire degli scenari, delle visioni su cui costruire una modalità di vita. Allora, cosa cerchiamo? Potrei anche dire cosa cerchiamo e cosa sogniamo e cosa ci consegniamo, proprio per il ruolo che il lavoro assume nel nostro Paese con tutto quello che ci siamo detti. Io allora sogno un Paese dove sia data maggiore opportunità di lavoro alle donne, dove ci siano delle politiche di conciliazione che consentano veramente di fare in modo che le donne possano partecipare di più a essere attive e non essere costrette solo a essere gli angeli del focolare. Sogno un Paese dove in qualche misura sia data la possibilità ai giovani e anche ai meno giovani di essere parte attiva nel governo delle imprese, nella partecipazione delle imprese. Sogno un Paese dove in qualche misura l’intelligenza artificiale non è un elemento che mette a rischio il lavoro di tanta gente e che rischia di essere un sistema di espulsione dal mercato del lavoro. E quindi, conseguentemente, tante politiche attive che mettano veramente in condizione di poter traguardare e non di dover richiedere la pensione anticipata o l’ammortizzatore sociale, che per quanto possa essere un elemento di sostegno economico non è certamente un elemento di valorizzazione mentale e di valorizzazione della personalità e del proprio modo di realizzarsi attraverso il lavoro. E da ultimo un sistema, un lavoro, che non faccia dello sfruttamento e in qualche misura del superamento delle logiche della sicurezza sul lavoro un elemento competitivo e che non debba registrare tante morti sul lavoro. Ecco, penso che questi siano gli elementi che devono in qualche misura ancora una volta, in maniera forte, dal Meeting, da questo laboratorio di pensieri e di cultura, essere lanciati con forza al nostro Paese. 

Cassese. Cristina, chiudiamo con te. Tu credi fortemente nella meritocrazia, nella leadership inclusiva, nella responsabilità sociale delle aziende, valori su cui imposti l’attività manageriale in Illy Caffè. Quali strategie hai adottato per creare un ambiente di lavoro che favorisca sia il benessere dei dipendenti sia l’efficienza aziendale? 

Scocchia. Guarda, io credo fortemente che la leadership non sia potere, ma sia responsabilità. Se uno ha una posizione di leader, che sia in un’azienda, in un’organizzazione, in qualunque contesto, ha la responsabilità di prendersi cura delle persone, delle persone che gli sono state affidate, che a lui o lei si affidano nei momenti difficili, nei momenti complessi come quelli che stiamo vivendo in questo momento. Quindi il ruolo del leader è quello di integrare all’interno dell’azienda il valore con i valori. Il valore economico, che è importante perché un’azienda che non fa profitto è un’azienda che fallisce e che poi manda a casa tutti i suoi collaboratori, e quando qualcuno perde il lavoro non ti ringrazia di certo. Quindi il lavoro è importante, l’abbiamo detto prima, il profitto è importante per un’azienda per avere una sostenibilità di lungo termine, però il profitto non può essere il fine ultimo. Da qui la necessità, quando sei un leader, di integrare il valore economico con i valori, i valori etici, i valori morali, i valori sociali, i valori ambientali. Perché le aziende sono un attore sociale, e se le aziende hanno una responsabilità sociale, questo significa che possono impattare sul benessere delle persone. Se tu puoi impattare sul benessere delle persone, allora hai il dovere di fare la differenza in senso positivo, in termini positivi. Ed è per questo che a me piace sempre dire che noi manager, noi leader aziendali, con qualunque titolo e ruolo, dovremmo fare, così come lo fanno i medici, una sorta di giuramento di Ippocrate. Anche noi dovremmo legare le nostre decisioni, anche noi dovremmo legare il nostro agire a un codice etico più elevato, che ci ricordi sempre che il valore economico non è il fine ultimo, ma va integrato appunto con i valori etici, sociali, morali ed ambientali. Ecco, questa è la filosofia con cui io cerco di entrare ogni giorno in ufficio. Questa è la mentalità, la cultura che mi piace diffondere nelle organizzazioni che ho il privilegio di poter gestire, in questo momento la Illy Caffè. E questo significa tanto anche investire nel merito, perché se tu vuoi costruire una squadra forte, compatta e motivata, devi partire da quello: dal merito, dal contributo, non dalle affiliazioni, non dalle etichette. Che siano etichette politiche, che siano etichette di genere, che siano etichette di nazionalità, non importa nulla, importa il merito, l’impegno, la passione con cui ognuno dà il proprio contributo. Ecco, questa cultura del merito, questa cultura di una leadership etica e partecipativa, secondo me, fa la differenza poi nell’agire concreto dell’azienda. In Illy proviamo a mettere tutti questi concetti a terra, cercando sempre di essere una stakeholders company, cioè un’azienda la cui finalità è creare valore e redistribuire questo valore lungo tutta la catena, partendo dai collaboratori, partendo dai fornitori, partendo dai produttori di caffè. E mi piace concludere, perché vedo che il tempo a disposizione è finito, con un aneddoto, perché forse sono quelli che più toccano il cuore e più riusciamo a ricordare. Cosa vuol dire per noi essere una stakeholders company? Cosa vuol dire per noi essere vicini ai produttori di caffè? Vuol dire capire che queste persone molto spesso vivono in condizioni difficili, vicino alla sussistenza, vicino al limite minimo della povertà. Io sono andata a marzo in Brasile ed era la mia prima volta in una piantagione. Ho chiesto di poter visitare alcune di queste comunità che sosteniamo da tanti anni. Mi hanno portato in una scuola, una scuola gestita solo da volontarie, e queste volontarie mi hanno fatto vedere gli alunni. Gli alunni erano innanzitutto solo bimbe, erano 40 bimbe tra i 4 e i 14 anni, tutte figlie di ragazze madri o di famiglie molto povere. La prima domanda che ho fatto è stata: “Dove sono i maschietti? Perché solo femmine?” E loro mi hanno spiegato che in certi paesi, in certi contesti, se una ragazza madre aspetta un bimbo è più probabile che lo tenga perché potrà andare a lavorare prima; se aspetta una bimba è più probabile che abortisca o la abbandoni. E quindi da qui la necessità di sostenere soprattutto le bimbe. Queste bimbe ovviamente lavorano per cercare di costruirsi un futuro e allora vanno a scuola quattro ore e le altre quattro ore però non saprebbero dove andare. Allora questa scuola cosa fa? Gli offre dei corsi di danza, di giardinaggio, gli insegna a cucire, gli insegna a fare tante piccole cose che poi un giorno aiuteranno queste ragazze a trovare un lavoro. Al termine della presentazione, anche un po’ per rompere il ghiaccio, ho chiesto alla più grandicella di queste bimbe: “Ma cosa ti piace di più di questa scuola? Che ti insegnino a cucire, a cucinare, che ti insegnino a ballare, a disegnare, che cosa?” E lei mi ha guardato con uno sguardo da adulta e mi ha detto: “La cosa che mi piace di più di questa scuola è che, sai, mi danno da mangiare pranzo e cena. E sai, noi possiamo anche farci la doccia qui, e la maggior parte delle volte la doccia è anche calda”, perché è vero, nelle case di questi contadini la doccia non c’è e, se c’è, decisamente non è calda. Questo per me è stato un esempio che mi ha segnato, e la prossima volta che andrò nelle piantagioni cercherò di andarci con mio figlio, perché c’è tanto da imparare: la responsabilità sociale non è teoria. La responsabilità sociale è stare vicino a queste persone e ricordarsi che ci sono tanti bimbi per cui un pasto caldo, una doccia calda possono ancora fare la differenza. 

Cassese. Visto che il tempo è terminato, faccio una chiosa velocissima. Mi sembra che siano emerse due parole ricorrenti. Una è la narrativa, l’altra è il sogno, il valore, l’ideale. Ecco, mi sembra che l’esercizio che abbiamo fatto oggi, e vi ringrazio per questo esercizio, questo dialogo, sia stato quello di bucare la narrativa. La narrativa che ci può portare lontano, in posti diversi da quelli che sono invece la realtà. Quando Maurizio diceva che il Meeting ha l’obiettivo di lanciarci nell’orizzonte, per lanciarci nell’orizzonte occorre avere un ideale presente, un ideale presente al momento, e mi sembra che il modo con cui possiamo stare in rapporto con questo ideale sia esattamente questo esercizio che invito tutti a fare: bucare alcuni adagi, alcune narrative che girano su alcuni temi per andare con la mano a riafferrare la realtà e le situazioni così come sono. Grazie ancora ai relatori e buon Meeting a tutti. 

 

 

Data

20 Agosto 2024

Ora

15:00

Edizione

2024

Luogo

Sala Conai A2
Categoria
Incontri