Chi siamo
Il tempo dell’attenzione
Mike Caulfield, Director of Blended and Networked Learning at Washington State University Vancouver; Giuseppe Riva, Docente di Psicologia della Comunicazione, Università Cattolica di Milano. Introduce Martina Saltamacchia, Distinguished Associate Professor di Storia Medievale all’Università del Nebraska, Omaha.
Cosa intendiamo quando parliamo di economia dell’attenzione? E perché ci sembrano ancora più decisive, dopo due anni di pandemia, relazioni umane autentiche? È possibile tornare ad esser protagonisti della nostra vita, o incominciare ad esserlo? Che ruolo gioca l’utilizzo consapevole della tecnologia e dei social media, in questo? Quali rischi e quali opportunità si prospettano all’orizzonte di una vita che esige di essere vissuta adesso?
Con il sostegno di Università Cattolica.
IL TEMPO DELL’ATTENZIONE
Martina Saltamacchia: Buonasera a tutti e benvenuti a questo incontro “Il tempo dell’attenzione”. Nel marzo di quest’anno la rivista americana Diantic ha pubblicato un articolo con questo titolo: “La grande frantumazione dell’attenzione, perché resistere alla distrazione è una delle sfide fondamentali in questo momento”. Questa è la domanda che vorremo esplorare questa sera insieme, e per farlo abbiamo invitato due ospiti d’eccezione. Dall’altra costa dell’Atlantico, da Washington State abbiamo Mike Caulfield, che lavora all’Università di Washington dove dirige il Center for an Informed Public Rapid Response Effects. Mike ha collaborato a diverse iniziative di alfabetizzazione digitale per combattere la disinformazione tra cui l’American Democracy Project dell’American Association of State Colleges and Universities, il National Writing Project and Civics Canada. Ha sviluppato un metodo, SIFT, per il fact checking delle fake news digitali, e questo metodo è ora utilizzato in centinaia di università e scuole negli Stati Uniti e nel Canada, attualmente è ricercatore principale responsabile di una sovvenzione della National Science Foundation che esplora l’utilizzo di questo tipo di insegnamento di fact checking per gli adulti e come membro dell’Election Integrity Partnership nel 2020 ha monitorato e risposto alla disinformazione in particolare sulle procedure di voto nelle elezioni degli Stati Uniti. E poi, più vicino a noi ma nuovamente collegato, abbiamo il Dottor Giuseppe Riva, Professore ordinario di psicologia della comunicazione all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dove dirige lo Showman Technology Lab, il laboratorio dell’Università cattolica che ha come principale obiettivo quello di proporre una riflessone scientifica e culturale sull’impatto delle nuove tecnologie sulle diverse dimensioni dell’esperienza umana. È autore di numerosi volumi, tra cui probabilmente il nostro pubblico è familiare con fake news, nativi digitali, realtà virtuali, e oltre, attenzione, 800 articoli scientifici sull’argomento. Ed è attualmente il presidente dell’associazione internazionale di cyberpsychology. Cyberpsychology è una branca della psicologia che si occupa in particolare di andare a guardare qual è l’effetto delle tecnologie, e dunque anche dei nuovi media sull’uomo e come impatta sul cervello. Grazie ai nostri ospiti in collegamento e iniziamo subito. Siamo in un momento in cui abbiamo un’esplosione di quella che chiamiamo big data, cioè l’informazione, che è un po’ il cavallo di battaglia ora della scienza e della società moderna. Una stima fatta dal professor Riva ci dice che stiamo accumulando dati a una velocità totalmente senza precedenti nella storia. Attualmente, giusto per darvi una cifra, valutata a 2.5 exabyte al giorno, cioè 2.5 quintilioni di byte, che ancora non ci dice niente, dunque per noi soprattutto italiani, questo corrisponde a testa, pro capita al giorno, alla produzione di 100 Divine Commedie. Questa è la produzione di dati nel mondo giornaliera, per un totale di circa 30 zetabyte che corrisponde a un 30 seguito da 21 zeri. Di fronte a questo accesso assolutamente senza precedenti di informazioni e dati che sembrano fruibili da tantissime persone, non è questa forse una ragione per festeggiare questo progresso? Mike, cosa ci dici rispetto a questo?
Mike Caulfield: Abbiamo questa stragrande quantità di dati che è a nostra disposizione e questo davvero ci dà tante possibilità per essere più informati, per essere anche persone migliori nel mondo, ma il problema è che quando si è travolti da così tante informazioni, allora l’attenzione diventa un bene prezioso, a cosa bisogna dare attenzione? ebbene la tensione non va sprecata e quindi c’è una riscoperta di questa tematica che in realtà era già stata considerata appunto negli anni 70, c’era stato un teorico che aveva notato che quando c’è un boom di qualche cosa c’è un problema poi di scarsità di attenzione. Quindi bisogna in un certo senso educare gli studenti a elaborare le informazioni che incontrano, ma bisogna anche fornire agli studenti i metodi per cercare di determinare che cosa vale la pena di considerare, a cosa rivolgere l’attenzione, questo è il vero problema perché ci sono tante informazioni rispetto alle quali non c’è la giusta attenzione e viceversa.
Saltamacchia: Capisco bene quello che dici, chiaramente dal punto di vista di riferimento tuo di osservazione, che è principalmente il rapporto nelle università statunitensi con gli studenti. Il problema non è quello di avere accesso alle informazioni, ma di filtro di queste informazioni. Allora mi viene da domandarmi: se è solo un problema di filtro e questo forse Giuseppe tu ci puoi aiutare, se è solo un problema di filtro non possiamo, con tutta la capacità che abbiamo per esempio di sviluppare l’intelligenza artificiale, sviluppare un filtro artificiale che ci aiuti a navigare, questo mare magnum di dati e di informazioni. Non possiamo risolvere così questo problema?
Giuseppe Riva: Sarebbe molto bello! Il problema è che, in realtà, è molto più complicato anche perché il grande mito dei big data, i big data sono sicuramente una fonte di informazione molto più potente, ma ad oggi sono molto più bravi ad aiutarci a predire di quanto lo siano ad aiutarci a spiegare. Sembra una cosa paradossale che si possa predire senza spiegare ma in realtà è quello che sanno fare i big data. Cerco di fare un esempio molto pratico. Un bambino di sei anni, guardando fuori dalla finestra, dopo qualche mese capisce che dopo l’alba c’è il tramonto e dopo il tramonto ci sarà il buio, poi ci sarà la luce ed è in grado di prevedere senza nessun problema che quando sono le sei di sera, tra un po’ arriverà il buio. Il problema è che questo bambino non è in grado di spiegare perché c’è il buio e c’è il sole. I big data ci mettono nella stessa situazione, noi siamo perfettamente in grado di fare previsioni usando le reti neurali ma non siamo in grado di spiegare. E dove sta il problema? Siccome le reti neurali imparano dall’esperienza, dagli atti che viviamo, non essendo in grado di spiegare, se c’è un evento che non è presente nei dati precedenti che hanno analizzato e su cui sono state addestrate queste reti neurali, per le reti neurali questo evento non sarà possibile. Quindi il vero problema dei big data e delle reti neurali che cercano di usare il potenziale dei big data, è che è molto più facile prevedere dei comportamenti, e in effetti l’ambito in cui l’intelligenza artificiale funziona meglio è quello della predizione dei comportamenti umani dove effettivamente la capacità di predire il comportamento è ormai diventata un elemento chiave che spiega il successo di Facebook, di Google, che grazie a una serie di dati raccolti quotidianamente sulla nostra attività, sono in grado di incanalare la nostra attenzione dove vogliono loro. In realtà però la spiegazione dei comportamenti che noi facciamo quotidianamente i big data non ce la danno e non è un caso che una delle aree più interessanti, più affascinanti oggi del mondo artificiale è quella dell’explainable AI e cioè del riuscire a creare dei meccanismi che siano in grado di spiegare il perché delle loro scelte. Perché l’altro problema è proprio questo, che le reti neurali fanno delle scelte ma non spiegano il perché e questo diventa problematico in tutte quelle situazioni in cui la vita reale chiede una spiegazione. Se io uso il sistema di intelligenza artificiale per dare un mutuo a una persona e questo mutuo non gli viene dato, e poi non gli so spiegare il perché ecco che come direttore di banca mi troverò in difficoltà. Quindi, sicuramente la sfida delle reti neurali e digitate su cui le reti neurali sono strutturate è proprio quella di averci dato un potere enorme di predizione senza però averci aiutato a spiegare il perché. E questo che sembra un paradosso in realtà è il principale limite del mondo dei big data che rende difficile usare le reti neurali al di fuori degli ambiti in cui noi oggi le utilizziamo, cioè mentre una rete neurale sa predire molto bene come farmi stare su Facebook più ore al giorno, non è in grado di spiegare il perché c’è un aumento della temperatura nel nostro cosmo oppure a spiegare come riuscire ad ottenere una fusione nucleare.
Saltamacchia: Chiedo ancora una cosa rispetto a questo. Tutti questi dati che dunque in un certo senso non riusciamo a navigare in maniera effettiva rispetto a quello che ci dicevi nel rapporto causa effetto soprattutto, quali sono le conseguenze per noi che ci troviamo di fronte a tutte queste informazioni e che l’osservazione più oggettiva ci troviamo sempre più distratti. Io insegno storia medievale in Nebraska e quando ha iniziato il PhD 15/16 anni fa nello spiegarci come approcciare gli studenti ci raccontavano di come dovevamo tenere presente che l’attention span, cioè l’arco di attenzione dello studente era circa di 45 minuti, 40/45 minuti e dovevamo modulare la nostra lezione tenendo conto di questo. Adesso, quando noi facciamo corsi di formazione, ci dicono: mi raccomando, tenete conto che l’attention span è di circa 10/15 minuti, per cui cercate di cambiare il modo di comunicare o di fare attività in classe, per esempio 10 minuti di un video, poi una spiegazione, un’attività di gruppo e via dicendo. Questo è solo un esempio di tanti che si potrebbero fare di come in realtà ci troviamo sempre più distratti e sempre meno capaci di stare attenti di fronte alle cose. Mi chiedo: è solo un problema nostro o quello che accennavi prima rispetto appunto ai big data e a questa modalità con cui l’intelligenza artificiale approccia il problema di filtrare i dati, ha qualcosa a che fare? Giuseppe se ci puoi aiutare a capire meglio questo.
Riva: Assolutamente sì, ha molto a che fare. Da una parte i sistemi di intelligenza artificiale ci aiutano a capire che cosa può attrarre l’attenzione e questi meccanismi sono utilizzati dalla società tecnologica per cercare di mantenere all’interno dei loro siti, dei loro contenuti, le persone il più possibile. Allo stesso tempo quindi c’è stata una maggiore capacità del mondo tecnologico di attrarre l’attenzione, di avere dei meccanismi mirati che attirino l’attenzione dei soggetti, e dall’altra parte abbiamo una maggiore competizione. Cioè io posso vedere quello che succede su Instagram, posso vedere quello che succede su Tik Tok, mi arriva un messaggio su Twitter, quindi abbiamo due problemi: da una parte una tecnologia che, grazie all’intelligenza artificiale, è in grado di capire come riuscire ad attrarre la mia attenzione, e dall’altra parte una serie di tecnologie che contemporaneamente usano questi algoritmi. È chiaro che in questo contesto il mondo reale è ciò che paga. Mentre una volta io ero in una stanza, l’unica fonte di distrazione, di attenzione poteva essere la televisione, oggi ho il mio telefono cellulare non solo, all’interno del telefono cellulare ho poi una, due, tre, cinque app che possono attirare la mia attenzione e quindi qual è il problema? Che l’attenzione, che è un bene scarso, progressivamente si riduce, noi lo spalmiamo il più possibile su tante cose, per questo i più giovani sono diventati degli esperti del multitasking, ma ovviamente questo ha avuto un prezzo nel senso che l’attenzione sostenuta, che è quella più importante per la costruzione della nostra identità, per la nostra capacità di dare un senso alla nostra quotidianità, ecco l’attenzione sostenuta oggi viene a mancare.
Saltamacchia: Mike, quali sono le conseguenze di questo negli studenti ma anche a livello sociale, quali sono le conseguenze del fatto che tutto quello di cui abbiamo parlato fino adesso, questa overdose di informazioni, questa quantità incredibile di dati che l’intelligenza artificiale non è comunque in grado di restituirci con queste relazioni causa-effetto, queste app o media che comunque cercano di catturare la nostra attenzione in tutti i possibili modi. Quali sono le conseguenze di questo a livello sociale?
Caulfield: Una delle conseguenze che conosciamo tutti è questa: quando appunto le persone sono sopraffatte dalle informazioni, anche così sollecitate da tante informazioni, si generano delle situazioni conflittuali e non dedicano tempo a capire che cosa è credibile e cosa non lo è, che cosa è vero e cosa non lo è, quindi una delle reazioni più comuni è questa: beh, magari non è possibile sapere qual è la verità, magari in un certo senso in tutto c’è un po’ di non verità e quindi le persone si confrontano con le informazioni in questo modo c’è una sorta di compressione della verità, invece di distinguere ciò che vero da ciò che non lo è, molte persone in un certo senso cercano una via di mezzo come risposta e dicono: ma ci sarà una parte di vero e una parte di falso, e questo atteggiamento sembra guidare le persone attraverso questo sovraccarico di informazioni, anche perché non c’è più tempo, l’attenzione è continuamente sollecitata da nuovi fatti, quindi non c’è un approfondimento vero rispetto a tutte queste informazioni. Questo non significa che dovremo dedicare profonda attenzione a tutto, quello che succede è che la nostra attenzione viene davvero frammentata fra centinaia, migliaia di cose, la maggior parte delle quali in realtà richiederebbero molta meno attenzione e quindi dovremo fare una selezione fra quello che davvero è una fonte utile di valore quindi anche basandoci sulle cose che ci stanno più a cuore e cercare quindi magari di verificare maggiormente quelle informazioni anche da un punto sociale, cercare di capire che cosa è vero e cosa non lo è dovremo anche cercare di interrogarci di più su ciò che è davvero credibile ciò che non lo è affatto, ma questo si può fare solo se si dedica meno attenzione ad una vasta gamma di cose che ci vengono proposte e quindi dovremo in un certo senso salvaguardare la nostra attenzione per le cose invece che hanno davvero importanza per noi.
Saltamacchia: E rispetto, Mike, a questo punto che sottolineavi di questo atteggiamento che abbiamo rispetto alle informazioni, ci sarà qualcosa di vero, ci sarà qualcosa di falso, secondo te è un problema di essere ingenui rispetto alle informazioni, cioè in un certo senso di finire un po’ per credere a tutto?
Caulfield: Io penso… una sorta di scenario per essere creduloni e ci sono persone anche molto ciniche, che però allo stesso tempo sono molto credulone, il loro cinismo li porta alla fine a credere che tutti siano là fuori per raccontare falsità, per manipolare l’altro, ma questo in realtà li rende incredibilmente prede facili di qualsiasi cosa, è facile convincerli e a volte, proprio a causa di questo profondo cinismo, in realtà credono a tutto quindi diventa un boomerang, e questo è un fenomeno molto diffuso di questi cinici creduloni e il modo per uscire da questa situazione è quello davvero di dedicare più tempo a meno cose cercando di approfondire di più. Il cinismo può essere un meccanismo di filtro in un certo senso, può essere quasi un meccanismo automatizzato, si è talmente sopraffatti da centinaia e migliaia di cose ogni giorno che si sviluppa quasi un senso di responsabilità individuale rispetto alla valutazione del livello di importanza di questi elementi, ma con un atteggiamento cinico questo filtro diventa di facile portata, perché allora di fronte a ogni cosa si dice: ma chi lo sa poi alla fine, ma qualcuno sta cercando di manipolarmi l’ho capito. Ebbene questo cinismo funziona come un filtro, quindi pensare che qualsiasi tipo di informazione che ci raggiunge racchiude qualcosa di fallace e in questo modo si riesce a sopravvivere a questo sovraccarico di informazioni, però bisognerebbe trovare modi alternativi perché in realtà questo cinismo produce poi anche teorie complottiste e anche in un certo senso modi di travisare la realtà, quindi in questo modo si è più facili preda anche di persone che vogliono convincerci che nulla di quello che ci viene proposto in realtà ha un fondo di verità.
Saltamacchia: Questo è assolutamente affascinante Mike, perché è in un certo senso molto controintuitivo, cioè tu stai dicendo per non essere preda di tutto la soluzione non è diventare cinici, mentre invece tendiamo a pensare che il cinismo è il filtro più efficace. Tu invece mi sembra stai dicendo una cosa differente, che la soluzione non è non fidarsi di nessuno, ma allora in che direzione andiamo, per esempio la verifica diretta, allora quello che possiamo usare come antidoto a questo? Per esempio mi viene in mente rispetto ai numeri del covid piuttosto che a grandi problemi come il cambiamento climatico, il surriscaldamento globale, e via dicendo. Se non è con il cinismo che combattiamo la disinformazione in questo senso ma, come dici tu, con un’attenzione mirata, si tratta di verificare in prima persona noi stessi se queste sono informazioni e dati che hanno una verità?
Caulfield: Sinceramente ritengo che verificare di più e meglio, più in profondità, possa essere di grande aiuto, ad esempio se si comincia a fare questo in modo regolare, vediamo che effettivamente il nostro atteggiamento cambia, non è che bisogna fare indagini lunghissime, parlo anche solo di dedicare qualche minuto in più semplicemente che guardare lo schermo pochi secondi e credo che questo ci aiuti anche a ridurre il cinismo, abbiamo analizzato ad esempio le reazioni degli studenti, quando gli studenti verificano le cose effettivamente diventano meno cinici, hanno più fiducia in alcune cose e quindi davvero cambiano il loro comportamento. Questo atteggiamento di comprensione della verità tende a scomparire o a diminuire, quindi abbiamo osservato anche dei motivi alla base di questo cambiamento, ma soprattutto, come dicevo, le persone usano il cinismo come meccanismo di protezione, si sentono sopraffatte e quindi adottano la via più facile, ma se si incoraggiano le persone a usare altre tecniche per gestire questo sovraccarico di informazioni si ripuò diventare scettici, essere scettici non è una cosa negativa ma in questo modo ci si disfa del cinismo che può diventare invece molto radicato e quindi minare tutti in ultima analisi, in questo modo si diventa anche meno manipolabili e meno creduloni.
Saltamacchia: In questo senso, insisto ancora rispetto a questo perché mi sembra un punto cruciale, si tratta di fidarsi solo di sé stessi o di fidarsi di più di altri, come questo viene giocato di fronte a tutte queste informazioni o cose che richiedono la nostra attenzione e richiedono un vaglio da parte nostra.
Caulfield: Sì hai centrato proprio il punto principale poiché a volte in questa economia dell’informazione dell’attenzione pensiamo che siamo super intelligenti e quindi siamo in grado di districarci tra le informazioni e i senza doverci fidare di altre fonti, ma questa è solo una fantasia impossibile quindi tendiamo a essere autoreferenziali ma non funziona così, e spesso non ci rendiamo conto che noi non siamo esperti medici e a volte pensiamo di essere perfettamente in grado invece di interpretare dati, grafici sul covid o su altro, pensiamo di essere perfettamente in grado di gestire tutte queste informazioni in modo autonomo, semplicemente con le nostre capacità, pensiamo di poter capire tutto da soli. In realtà dobbiamo fidarci di qualcuno alla fine, dobbiamo capire di chi fidarci e per farlo bisogna appunto prendersi il tempo per capire di chi fidarsi. Nel nostro lavoro cerchiamo proprio anche di analizzare questa sorta di epistemologia individuale sviluppata dalle persone, che si concentra sul fatto che gli individui senza riferimenti ad altre persone della società possono raggiungere alla verità e la contrapponiamo invece a una epistemologia sociale che si basa sull’idea che il miglior filtro per gestire l’eccesso di informazioni consiste proprio nello sviluppare relazioni di fiducia con esperti, fonti affidabili, persone che magari condividono i tuoi stessi valori o che gestiscono e considerano la verità con grande importanza ed attenzione, e in questo modo anche non si prova vergogna nel fidarsi di qualcuno tutt’altro, vediamo che questi meccanismi sono più necessari che mai oggi, perché ci sono tanti fenomeni che vanno oltre la nostra comprensione individuale. Internet ci da l’illusione di poterci destreggiare da soli in questo mare di informazioni, ma non è così, ecco perché dobbiamo invece andare verso una epistemologia sociale che non è così centrata sull’individuo e che quindi non ritiene l’individuo perfettamente in grado di gestire le informazioni da solo, e noi stiamo proprio lavorando su questo perché l’idea è quella di lavorare di più proprio insieme per capire quali sono i nostri limiti.
Saltamacchia: Giuseppe, a livello sociale mi sembra molto interessane quello che sta venendo fuori, a livello personale come centra l’attenzione in questo discorso, perché l’attenzione è fondamentale?
Riva: L’attenzione è fondamentale, in particolare l’attenzione sostenuta, quella che la tecnologia ci ha rubato, è importante perché è il meccanismo che ci consente di costruire un’identità. Noi psicologi parliamo di identità facendo riferimento al concetto di memoria autobiografica, l’insieme delle memorie che riguardano la nostra quotidianità. E sappiamo bene che la nostra memoria è complessa, cioè una memoria a breve termine che racchiude le cose che facciamo e ha una durata temporale di qualche secondo o al massimo un minuto. E poi c’è una memoria a lungo termine che ci permette di fissare gli eventi della nostra vita e progressivamente costruire un senso. Ecco quello che ci accorgiamo è che la tecnologia rende sempre più difficile riuscire a costruire una memoria episodica di quello che noi facciamo che poi passa alla memoria autobiografica. Faccio un esempio. Sono alla festa di mia figlia di fine anno, suona il telefono, ecco che non sono più in grado di far attenzione a quello che sta succedendo sul palco della festa di mia figlia e devo sentire il telefono, rispondere al collega che mi ha chiamato oppure vedere una notizia che è comparsa sui social e così via. Per cui io c’ero alla festa di mia figlia però in effetti il rischio è che questa festa di mia figlia scompaia, non abbia un senso per me, non rimanga fissata nella mia quotidianità, e a rendere ancora più complicato il problema dell’attenzione sostenuta nel momento in cui siamo online è che il mondo online ci ha rubato anche il senso del luogo. Noi sapevamo benissimo che nel momento in cui io mi trovo adesso non con voi in una stanza al Meeting di Rimini ma sono a casa mia, ecco il fatto di non essere con voi in realtà genera un cambiamento radicale del tipo di relazione che si crea tra di noi. Se io fossi stato insieme a voi all’interno di questa stanza voi avreste potuto vedere il mio corpo, vedere come mi muovevo, analizzare la mia postura e soprattutto collegare la vostra attenzione sostenuta al luogo in cui siete. Perché una cosa che hanno scoperto le neuroscienze negli ultimi cinque, sei anni è che in effetti all’interno del nostro cervello, proprio per aiutare le persone a costruire una memoria di sé, esistono dei neuroni particolari che sono chiamati neuroni GPS, questi neuroni GPS si attivano nel luogo in cui noi siamo e mentre all’inizio quando furono scoperti alla fine degli anni 70 si pensava che servissero soprattutto per l’orientamento spaziale, un po’ come il GPS che abbiamo all’interno della nostra auto, ci si è accorti proprio nell’ultimo decennio che in realtà questi neuroni avevano un ruolo centrale nell’aiutarci a organizzare le nostre memorie. Cioè noi praticamente fissiamo i luoghi alla nostra identità, io sono un professore universitario perché vado all’università tutti i giorni, sono uno studente perché vado a scuola. E cosa ha fatto il covid? Il covid ci ha rubato i luoghi e rubandoci i luoghi ha reso ancora più difficile mantenere l’attenzione sostenuta nel lungo termine, e questo ha portato a questo senso di disagio molto forte che tanti di noi hanno sperimentato perché, pur continuando a fare tante cose, pur continuando a essere online tutta la giornata alla fine della settimana ci si sentiva vuoti e senza un senso, perché? Perché accanto all’attenzione rubata dalla tecnologia c’erano anche i luoghi che purtroppo la tecnologia e la pandemia progressivamente ci hanno rubato.
Saltamacchia: Interessantissimo perché penso che sia un’esperienza un po’ di tutti quello che stai raccontando rispetto a straniamenti che abbiamo tutti sperimentato e continuiamo a sperimentare, tutto il tempo che passiamo su zoom e anche con i collegamenti come questi che chiaramente hanno il vantaggio di poter permettere a noi tre di conversare oggi e allo stesso tempo non è la stessa identica cosa di quello che succede nella sala a me che ho di fronte questa platea. Ma l’importanza del luogo, tu spiegavi che questo ci permette di ancorare le memorie autobiografiche, pensa in un certo senso come anche l’olfatto, giusto? come l’olfatto anche aiuta ad ancorarci ai luoghi e a costruire le memorie, corretto?
Riva: Assolutamente sì, in realtà è proprio attraverso i processi evolutivi il nostro sistema cognitivo e sensoriale ha costruito una serie di meccanismi che ci aiutassero a fissare gli eventi più importanti per noi, quelli che poi ci permettono di riconoscersi in chi siamo, e sicuramente questi meccanismi, l’olfatto, i luoghi, il corpo, la corporeità e i suoi movimenti son tutte dimensioni che la tecnologia ci ha tolto, e paradossalmente cosa è successo? Che noi siamo bravissimi a prevedere che per ottenere l’attenzione della persona dobbiamo fare questo, ma non potendo spiegare perché questo succede non sappiamo anche gli effetti collaterali di questi processi. Uno dei problemi più grandi dell’uso dell’economia dell’attenzione è che le grandi aziende usano le tecnologie per capire come manipolare l’attenzione, ma non sanno quali sono gli effetti della manipolazione di questa attenzione. E quello che noi vediamo è che in effetti gli effetti vanno a toccare il senso più profondo dell’essere, vanno a toccare il nostro senso di umanità, il fatto di sapere chi siamo e di riconoscerci all’interno di un gruppo. Per questo dobbiamo essere consapevoli che tornare nei luoghi, essere presenti al Meeting fisicamente, non solo online, questo purtroppo per motivi personali non sono riuscito a essere con voi, però quello che volevo sottolineare è che il ritorno ai luoghi e alla corporeità e alla fisicità rappresentano uno degli strumenti fondamentali per riuscire a riprenderci l’attenzione che le tecnologie ci hanno tolto.
Saltamacchia: E dunque tu colleghi allora luogo con attenzione con la costruzione della persona, cioè collegandomi al titolo di questo Meeting “Passione per l’uomo”, quello che tu mi sembra stai accennando è che l’attenzione, e un’attenzione sostenuta, che è anche in un luogo preciso per cui che ha una fisicità e una corporeità, è fondamentale non solo per seguire la lezione o per continuare a leggere il capitolo, ma perché questo è essenziale per la costruzione di questo uomo, di questa persona. È corretto?
Riva: Assolutamente, quello che noi ci siamo resi conto è che il Meeting come forma di aggregazione primaria è una forma di aggregazione che consente, facilita una costruzione dell’identità, anche perché io non sono da solo all’interno del Meeting, io non sono da solo nel momento in cui mi trovo in un luogo. Infatti la caratteristica principale del luogo è che obbliga le persone a stare insieme. Noi sappiamo, tutti noi abbiamo tante cose da fare. Io qualche mese fa sono andato a portare mia figlia in una pizzeria per la festa di fine anno e quello che mi ha colpito è che nonostante fossero tutte insieme queste ragazze all’interno del luogo, ognuna usava il suo cellulare. Purtroppo oggi anche stare nello stesso luogo non è più una fonte di capacità di condividere un’attenzione, di accorgersi dell’altro. Cosa succede oggi? Io sono in pizzeria se sono fortunato ho trovato la mia amica davanti a me e inizierò a parlare con la mia amica, se invece non son stato fortunato ho trovato una persona non particolarmente simpatica, tirerò fuori il mio cellulare per arrivare subito su Instagram e non accorgermi di lui. Quello che la tecnologia ha fatto è quello di togliere nei luoghi l’attenzione condivisa, l’attenzione nei confronti dell’altro che rappresenta il meccanismo di base per la costruzione di una socialità. Quello che diceva Mike in realtà è supportato dalle ricerche della neuroscienza, cosa ci dice infatti la neuroscienza? ci dice che nel momento in cui noi riusciamo a costruire un’attenzione condivisa con un’altra persona, le nostre menti si uniscono, c’è un fenomeno che è misurabile oggettivamente attraverso i meccanismi delle neuroscienze, in particolare attraverso una tecnologia che si chiama hyperscanning che noi abbiamo in Università Cattolica, in cui facciamo diversi studi che consente di analizzare contemporaneamente l’encefalogramma di più persone. E quello che ci siamo accorti, e che è stato dimostrato anche da una serie di studi, è che il momento in cui io riesco a fare attenzione sull’altro i cervelli si sincronizzano, è un sistema innato che noi abbiamo per riuscire a ridurre le distanze interpersonali. Accanto all’empatia che nasce da un altro tipo di neuroni, che sono i neuroni specchi, che sono presenti all’interno del cervello e che ci permettono di cogliere immediatamente quello che l’altro fa, esiste proprio un meccanismo di sincronizzazione cerebrale che consente di creare il senso del noi, perché in effetti, non l’abbiamo ancora detto, ma la socialità non è tutta uguale, ci sono i loro e ci sono i noi, perché riusciamo a creare i noi, che sono poi le persone che ci danno la fiducia, la fiducia di cui parlava Mike, noi non l’ abbiamo con i loro, ce l’abbiamo con quelli che riteniamo essere uguali a noi. E questi noi nascono attraverso la condivisone dell’attenzione, attraverso l’attenzione condivisa, e questo tenete presente che è fondamentale non solo per gli adulti ma anche a livello di bambini, cioè senza la capacità della madre di creare un’attenzione condivisa nei confronti del figlio non si crea il legame materno. Il caso di Alessia, quella donna milanese che ha abbandonato sua figlia per una settimana, quello che mi colpisce da psicologo è che non c’è una foto dopo un mese, io ho provato a cercarla su tutti i social, non c’è una foto di Alessia con sua figlia, apparentemente lei non ha mai condiviso l’attenzione con sua figlia, eppure ha diciotto mesi. E questo ci fa capire come riuscire a dedicare l’attenzione anche ai nostri figli, io sono genitore di due figlie so benissimo che l’attenzione nei confronti dei figli è qualcosa di scarso, di difficile oggi, però bisogna tener presente che senza questa capacità di creare un’attenzione condivisa, di creare un meeting tra persone che sono in grado di accorgersi dell’altro e di avvicinarsi all’altro, la fiducia non riuscirà mai a esserci.
Saltamacchia: Provo a condensare i tantissimi spunti che stanno cominciando a venire fuori. L’attenzione è fondamentale per, siam partiti da capire di chi fidarsi, Mike diceva la soluzione non è il cinismo perché ad essere cinici rischiamo di credere a tutto, ma essere selettivi e dunque capire chi può essere una fonte attendibile, poi tu Giuseppe proseguivi dicendo l’attenzione è fondamentale per costruire quest’uomo, per far sì che ci possa essere una costruzione della personalità e non solo per l’uomo con se stesso ma perché quest’uomo possa avere relazioni autentiche con gli altri, relazioni che non sono come l’esempio che citavi delle ragazzine in pizzeria ognuna sul proprio Instagram. Dunque fondamentale per la democrazia stessa, per la costruzione del sé, dell’identità e della propria autobiografia, e per relazionarci con gli altri. Mi sembra che in questi quaranta minuti che abbiamo cominciato a toccare questo argomento sia chiaro che non si tratta semplicemente di un problema per l’insegnante che non riesce a farsi seguire dagli studenti o per quelli tra noi che non riescono più a seguire un film di Tarkovskij o a leggere un romanzo di Dostoevskij perché sono troppo lenti. Mi sembra che sia chiaro da tutto quello che sta emergendo, che questa attenzione è presupposto fondamentale per questa passione per l’uomo, perché io mi possa relazionare con l’altro e con la realtà, in una maniera non cinica, non preda di qualsiasi distrattore che mi arriva dal di fuori, Ma allora vorrei concludere con un’ultima domanda a entrambi: come facciamo allora a ripartire dall’attenzione, cioè, in mezzo a tutte queste distrazioni, in mezzo a tutti questi tentativi che abbiamo capito, anche da quello che ci spiegavano sia Mike che Giuseppe, non sono semplicemente un problema nostro ma sono architettati, ci sono meccanismi studiati a tavolino per farci sempre più distrarre, come diceva Hanna Arendt nelle Origini del totalitarismo, perché una propaganda possa aver successo la chiave fondamentale è distrarre i cittadini e vediamo tutti gli effetti. Allora in questo contesto come ripartiamo dall’attenzione? Mike, tu prima parlavi di un problema di attenzione come risorsa scarsa, dunque non del problema in un certo senso di dare più attenzione ma meno attenzione, ci aiuti con quest’ultimo passaggio a capire meglio che cosa intendi.
Caulfield: A volte le persone pensano che il problema sia proprio il fatto di dare attenzione a troppe cose e che non si approfondiscano le questioni, diciamo che è vero fino a un certo punto poiché alla fine l’attenzione è un gioco a somma neutra, nel senso che prima di tutto dovremmo chiederci a cosa vale la pena dare meno attenzione, questo è il vero punto di partenza, e questo però richiede a livello sociale, tecnologico e personale, un sistema di filtro veloce e soprattutto avere un sistema da utilizzare subito e abbiamo visto che ad esempio rispetto a internet e a come ci bombarda di informazioni, veniamo sollecitati continuamente, e quindi se qualcosa ci infastidisce a volte ci sentiamo sollecitati a interagire, ma in realtà non dobbiamo farlo per forza. Una delle cose più semplici da fare e che suggerisco sempre alle persone è proprio questa, cioè una delle cose più semplici che si può fare per appunto migliorare la nostra gestione dell’attenzione è proprio questa: ok, c’è una notizia non sappiamo se vera o falsa, chiediamoci: ho davvero bisogno di conoscere questa informazione adesso? È questa l’idea, quindi in un caso specifico vale la pena aspettare, in questo modo magari ci sarà un’altra informazione che invece dopo qualche ora o dopo qualche giorno ci sarà un’informazione che invece varrà la pena di avere la nostra attenzione, quindi bisognerebbe essere in grado di aspettare, di non reagire subito, per poi fare una selezione fra le informazioni davvero migliori. Quindi ci sono a volte informazioni che possono sembrarci interessanti subito, ma se ci prendiamo appunto il tempo invece di rifletterci possiamo renderci conto che non tutto merita subito attenzione ma dobbiamo anche abituarci a farlo, dobbiamo allenarci a farlo, e dobbiamo proprio quindi esercitarci per poi dedicare più attenzione a meno cose. E questo lo dico non solo a livello personale ma proprio anche a livello di piattaforme, mi spiego meglio, cioè proprio a livello di tecnologia. Noi possiamo fare la nostra parte per migliorare, per dirci: ma vale davvero la pena dedicare attenzione a queste informazioni? Ad esempio le persone vengono ai miei corsi pensando: “Ah, capirò cosa è vero e cosa è falso”, no, non è questa la prima domanda, la prima domanda è: questa cosa vale il tuo tempo, la tua attenzione sì o no? È questa la prima domanda e non se quella cosa è vera o falsa, e bisogna che le persone si allenino a fare questo, devono imparare a farlo, devono esercitarsi, ma anche le piattaforme tecnologiche devono fare la loro parte, perché capisco anche che sia difficile uscire da questi meccanismi da soli e ormai è diventato un problema sociale che richiede veramente proprio anche delle soluzioni sociali per così dire end to end.
Saltamacchia: Giuseppe, stessa domanda, a continuazione di quello che Mike suggeriva adesso ovvero una attenzione più mirata a quello che più ci interessa, una criticità maggiore nello scegliere dove dirigere il nostro sguardo. Come ripartiamo dall’attenzione?
Riva: Quello che è interessante è che in effetti l’evoluzione ha dato al soggetto degli strumenti per capire se quello che sta facendo è per lui davvero rilevante o meno e questo strumento non sono le emozioni, come alcuni pensano, non è che io devo seguire soltanto ciò che mi piace ed escludere quello che non mi piace. In realtà l’attività di ricerca di un collega americano, il professor Csíkszentmihályi, che purtroppo ci ha lasciato qualche mese fa, ha dimostrato che esiste uno stato di esperienza ottimale che si chiama flow, in cui il soggetto riesce a rendere al massimo e non è poi così difficile accorgersi se siamo in flow o non siamo in flow. Quello che ha scoperto la ricerca di Csíkszentmihályi è che questo stato di flow, di esperienza ottimale indipendente dalle culture, cioè esiste dappertutto ed è anche indipendente da ciò che viene fatto. Non conta che io faccia una specifica cosa, conta che quello che io faccio, in realtà mi riesca a produrre uno stato di assorbimento. Quello che succede quando noi sperimentiamo il flow è che perdiamo il senso del tempo, non ci accorgiamo più del tempo che passa e riusciamo a fare le cose in maniera intuitiva. Una delle caratteristiche fondamentali del senso del flow è che io ho un obiettivo da raggiungere, ma sono in grado di raggiungerlo senza dover richiedere al mio cervello di intervenire dal punto di vista pratico. È il tennista che sa dove dirigere il colpo con la racchetta, è il pianista che sa come muovere le mani. Se noi ci pensiamo, ci sono tante cose che noi abbiamo imparato a fare che una volta non erano intuitive. L’esempio che faccio sempre ai miei studenti è quello della scrittura. Noi adesso siamo in grado di scrivere in maniera totalmente intuitiva, ma mia figlia, che è andata alle scuole elementari, ha dovuto passare tre anni a scrivere a, b, c, e io stesso quando l’ho fatto per imparare. Quello che succede è che quando siamo in grado di usare uno strumento intuitivamente, questo strumento ci consente di fare delle cose che prima non ci permettevano di fare e noi ce ne accorgiamo perché improvvisamente siamo in grado di accorgerci del fluire delle cose che facciamo senza nessun problema. Quindi da una parte dobbiamo cercare il flow, cioè se noi facciamo cose che generano flow e non ci fanno sentire stressati alla fine della giornata, vuol dire che abbiamo fatto qualcosa che veramente vogliamo fare. Perché l’altro punto critico è la consapevolezza, quello che oggi viene chiamato mindfulness Cos’è la mindfulness? È la consapevolezza delle scelte che facciamo perché quello che succede oggi sempre più spesso, e Mike lo ha spiegato molto bene, è che la tecnologia è in grado di farci fare delle cose che noi non vogliamo, di toglierci l’attenzione quando noi non vogliamo dare l’attenzione veramente a quella cosa. Per cui un passaggio fondamentale che come singoli possiamo fare è cercare di capire dove dedichiamo la nostra attenzione. Oggi tutti i telefonini hanno gli strumenti che ci permettono di capire quanto tempo dedichiamo al nostro smartphone e dove dedichiamo questo tempo. Avere la consapevolezza che io passo cinque ore del mio tempo usando i social è qualcosa che mi fa pensare e mi fa chiedere: ma veramente volevo spendere cinque ore e passare il mio tempo sui social? Quindi lavorare sul flow e cercare di aumentare la propria consapevolezza, sono i due strumenti che come individui possiamo utilizzare per cercare di riguadagnarci l’attenzione che ci hanno strappato.
Saltamacchia: Interessantissimo perché questo punto che assegni adesso rispetto al flow, questo stato di flusso di assorbimento totale, capisco che non è semplicemente qualcosa che ha a che fare con una maggiore produttività, capiamo tutti benissimo che evidentemente senza essere continuamente distratti dal telefonino piuttosto che da altre cose, lavoriamo meglio. Ma da quello che stai dicendo si tratta di un assorbimento che ci porta ad un significato più profondo. Mi viene in mente un altro autore americano Cal Newport che ha studiato quello che lui chiama invece di flow deep work, che è però la stessa esperienza, e nel momento in cui Cal si trova alla fine del PhD, lui aveva studiato per diventare professore di scienze informatiche, arriva verso la fine del PhD, sta per entrare nel mondo del lavoro e si rende conto che ci sono pochissimi posti come professore accademico in America. Allora lui parte per un anno e va a osservare per 3/4 giorni decine di persone che fanno professioni tra le più disparate, dai brokers di Wall Street al contadino della fattoria ecologica, cioè gente che per varie ragioni o per sentito dire era contenta del proprio lavoro e le va ad osservare per un anno intero, 3/4 giorni per ciascuna persona per cercare di carpire qual è il segreto dell’essere felici lavorando. Perché pensa: magari non riesco a fare quello che volevo fare, cioè il professore universitario, allora tanto vale che scopra come fare un lavoro che mi faccia felice, e c’è un libro in cui lui racconta tutte queste esperienze, e all’inizio del libro che poi l’ha reso famoso, Deep work, che parla di questo stato di assorbimento, lui racconta di un episodio che l’aveva folgorato. A un certo punto lui osserva un fabbro del Wisconsin in America che forgia spade vichinghe. C’è un documentario interessantissimo che potete trovare su YouTube se vi interessa. E allora osserva come questo fabbro arriva da un lingotto d’acciaio, un pezzo unico, alla spada finita. È un lavoro lunghissimo, sono otto ore di concentrazione assoluta con tantissimi passaggi in cui ci vuole tutta una forza particolare e allo stesso tempo un’attenzione minutissima perché basta un minimo colpo sbagliato o un’estrazione della lama dall’olio bollente un attimo dopo o un attimo prima, che la spada va in frantumi. E lui, osservando quest’uomo, rimane completamente folgorato da come lo vede totalmente uno con quello che sta facendo, e osserva: questo è uno che chiaramente si gode il suo lavoro, capisce qual è il significato della sua vita e del suo lavoro, non è uno che dà picconate sulle pietre in modo annoiato. E mi sembra che questo sia quello che veniva fuori anche da quello che voi dicevate: non semplicemente un’attenzione come nuovo muscolo, non una mindfulness perché adesso è la nuova moda e allora facciamo tutti un po’ di meditazione orientale e ci sentiamo più a nostro agio nel mondo, ma qualcosa che va ben oltre e che secondo me stasera nel dialogo fittissimo ha lasciato tanti spunti aperti ma che sarebbe bello poi continuare come conversazione in futuro. Per cui vorrei lasciarvi con un invito attraverso le parole di una poetessa americana che è una delle poetesse più conosciute e più famose in America, Mary Oliver, che in un libriccino scritto alla fine della sua vita ha una brevissima poesia intitolata: “Istruzioni per vivere una vita” e dice così: “Presta attenzione, stupisciti e raccontalo.”
Con questo vorrei concludere anche ricordandovi che il Meeting è da sempre un luogo di cultura che rende possibile incontri come questi e che rende possibile l’inizio anche di questa attenzione nel senso di cui abbiamo parlato stasera, ciascuno di voi può contribuire a fare grande questa storia a cominciare anche da tutti i vari punti di “DonaOra” che sono disseminati nei padiglioni con la novità che da quest’anno la Fondazione del Meeting è un Ente del terzo settore e ci dona potrà usufruire dei benefici fiscali. Vorrei ringraziare innanzitutto i nostri ospiti che ci hanno raggiunto grazie alla tecnologia dai punti più disparati, fusi orari molto differenti, grazie Mike per la levataccia questo sabato, e vorrei anche ringraziare tutti voi che ci avete seguito questa sera, che avete partecipato a questa conversazione con noi in questa sala e a tutti quelli che ci hanno ascoltato in diretta e nei prossimi giorni. “presta attenzione, stupisciti, e raccontalo.” Buona serata a tutti.