IL SISTEMA PAESE

Il sistema Paese

22/08/2011 ore 15.00 In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Raffaele Bonanni, Segretario Generale CISL; Claudio Gagliardi, Segretario Generale di Unioncamere; Giuseppe Recchi, Presidente di eni. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Raffaele Bonanni, Segretario Generale CISL; Claudio Gagliardi, Segretario Generale di Unioncamere; Giuseppe Recchi, Presidente di eni. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

 

BERNHARD SCHOLZ:
Buona sera e benvenuti a questo incontro dal titolo “Il sistema Paese”. Sistema, etimologicamente, vuol dire mettere insieme delle forze altrimenti divergenti, e proprio nei momenti di crisi ci accorgiamo, prendiamo atto del fatto che la coesione, all’interno di un Paese è fondamentale per poter affrontare i problemi che si presentano, perché quando facciamo una passeggiata possiamo anche andare un po’ in ordine sparso, quando cominciamo a fare una scalata bisogna essere molto, molto insieme, coordinati.
E noi dobbiamo fare una bella arrampicata per affrontare i problemi che ci aspettano, quindi bisogna lavorare insieme. E c’è tanta critica rispetto a questa mancanza di coesione, però voglio far notare che, dal mio punto di vista, questo Paese ha fatto un grande passo negli ultimi anni, dei quali ci siamo accorti troppo poco: è nato Reti imprese Italia, che mette insieme le grandi associazioni, le Confartigianato, Casa artigiani, CNA, Confcommercio, Confesercenti. È nata l’alleanza delle cooperative, superando tutte le barriere ideologiche si comincia a lavorare insieme; si è arrivati all’accordo di Confindustria con i tre sindacati a luglio, abbiamo diversi tavoli nei quali si comincia a parlare insieme dei problemi, il Forum delle associazioni cattoliche – ha pubblicato a giugno un manifesto che ritengo fondamentale nelle sue esposizioni – fra le banche e le imprese è nato un dialogo che ancora cinque anni fa non si poteva immaginare, è nata la moratoria, quindi ci sono tanti segnali importati che dicono che è importante superare vecchie barriere ideologiche, i concetti logistici, dove ognuno autoreferenzialmente cerca di portare a casa un risultato rispetto al proprio interesse, senza tener conto dell’insieme. E io ritengo questi dei passi fondamentali che stanno portando anche già i primi frutti. Di questo e di che cosa si vuol dire creare sistema, anche dal punto di vista imprenditoriale, dal punto di vista camerale? Parleremo in questo incontro con Raffaele Bonanni, Segretario Generale della CISL; purtroppo Ferruccio Dardanello, Presidente Uniocamere non poteva partecipare e viene al suo posto il Segretario Generale di Unioncamere, Claudio Gagliardi e il Presidente dell’Eni, Giuseppe Recchi. Cominciamo subito con una domanda a Raffaele Bonanni: rispetto a questi problemi che dobbiamo affrontare, come tutti ormai dicono, ieri il Presidente della Repubblica lo ha sottolineato in un modo molto chiaro, molto forte, rispetto a questa sfida, è sufficiente quello che sta accadendo o bisogna fare ulteriori passi per creare maggiore coesione?

RAFFAELE BONANNI:
E’ molto facile rispondere che è insufficiente e d’altronde non può essere diversamente, perché tutto ciò che muove, tutto ciò che sta dietro a ciò che si sta muovendo è una realtà che ha una visione sbagliata per i tempi che stiamo attraversando, che è impostata su criteri davvero molto diversi da quelli che servirebbero per affrontare una cosa che non è una cosa qualsiasi – tu stesso nella conferenza stampa parlavi di crisi strutturale non congiunturale. Se le cose stanno come stanno, non ci vengano a raccontare la barzelletta che tra quelli, che hanno pure fatto così, lo ha detto ieri il Presidente, che hanno cercato di sminuire, ci siamo noi, anche se abbiamo cercato di non suscitare mai un sentimento diverso dall’ottimismo della volontà che ci serve. Tutti sanno il segreto di Pulcinella che il Paese non poteva che andare a finire in questo modo, i debiti che abbiamo sono intoccati da 30 anni: conoscete una famiglia che ha un debito rilevante e che se lo tiene per 30anni sul groppone? E per quale motivo un Paese importante come il nostro si è tenuto un debito così vistoso? Vuole dire che è accaduto ciò che molto bene ha sottolineato l’altro ieri Galli della Loggia sul “Corriere della sera”, che abbiamo una classe dirigente che pensa di fare politica governando con elargizioni, spendendo, aumentando la spesa pubblica, senza avere il coraggio di affrontare temi che, tra l’altro, sono incancreniti da molto tempo. Se il criterio è questo, che non si affrontano i problemi, pur di continuare a vedere la politica come occasione per elargire e non per fare ciò che serve anche di molto forte e vigoroso, è chiaro che non si va sa nessuna parte. Con un debito così persistente, noi perdiamo la fiducia dei mercati e si riduce il prezzo dei nostri titoli. I prodotti italiani hanno avuto un accrescimento di costo di 10 punti, mentre i nostri concorrenti in Europa, solo in Europa, i tedeschi e i francesi, lo hanno diminuito, i francesi addirittura hanno migliorato il loro costo con un -17 e i tedeschi con un -20. E’ chiaro che un fatto del genere presuppone che nessuno si è occupato di energia, nessuno si è occupato di infrastrutture, nessuno si è occupato di tasse, nessuno si è occupato di servizi comuni, nessuno si è occupato di amministrazione, nessuno si è occupato di tenere a bada il malaffare e le mafie e così via. Quindi un Paese che ha introdotto elementi di questo tipo, strutturali, non può che creare, in un tormento internazionale così ampio, non che può far piombare il Paese nella situazione in cui si ritrova. Quindi, se non si parte da una visione diversa e nuova, non se ne può uscire. Io ho apprezzato molto ciò che ha detto Napolitano ieri, perché ha dato una bastonata al Governo, ma ha dato una bastonata anche all’opposizione, e la qualità di quello che ha detto mi basta e avanza per non mettere altri argomenti da parte mia, ma è chiaro che con questa premessa noi non possiamo stare in queste condizioni. Quindi, prendere delle misure vere, significa uscire da questa logica. Ancora in questi giorni alcuni dicono che ci vogliono degli investimenti, cioè ci vogliono degli investimenti con altri soldi, ma tutti sanno che non li abbiamo, e nessuno, ma è un riflesso condizionato di quella cultura, parla di come ottimizzare quei pochi soldi che abbiamo. È una vergogna la gestione, spesse volte, delle risorse, altro che ottimizzazione. Non è che qualcuno entri dentro gli sprechi e le inefficienze, non è che si entri dentro le ruberie, non è che si entri dentro le inefficienze di sistema, non ci si entra. Faccio un esempio: è normale che in Val di Susa continui quella vergogna che ci permette di perdere un appuntamento di quattro anni con i francesi che hanno già bucato per collegarsi con noi, che dovremmo collegarci con persone e merci in tutta Europa? Avete visto qualche preoccupazione particolare? Non si sono preoccupati neanche delle violenze che ci sono state e della forzatura sull’ordine pubblico, nessuno ha avuto modo di preoccuparsi, per esempio, della difficoltà di portare avanti progetti che dura da anni, anni e anni, e di come riconvertire, per esempio, le centrali a olio combustibile rispetto al carbone pulito, nessuno si è preoccupato. Avete visto qualcuno che si è preoccupato di ottenere questo, come si era detto da 10 anni, programmato da 10 anni, relativamente alle cinque centrali che hanno un investimento privato di circa 10miliardi di euro, in una congiuntura economica come quella che abbiamo? Avete visto qualcuno che si è preoccupato, avete visto qualcuno che si è preoccupato, per esempio, di ciò che avviene nella pubblica amministrazione, al di là dello scandalismo dei fannulloni e così via, coprendo tutte le malefatte che si fanno fino ad arrivare ad un dirigente ogni sette persone, avete visto qualcuno che ha cambiato opinione? E potrei continuare all’infinito. Questo accade proprio per la visione che si ha, quindi se non si cambia l’impostazione, è chiaro che noi andremo a sbattere. Le misure che si stanno prendendo, che sono comunque misure indigeste, perché non sono misure che portano qualcosa a qualcuno, sono misure che dovranno togliere qualcosa a qualcuno e quindi noi abbiamo detto dal primo momento fate presto e siate rigorosi, ma utilizzate anche equità, questo lo abbiamo detto dal primo momento. Allora, per la verità, rapidità c’è stata, il rigore lo voglio vedere fino alla fine, ma dall’equità siamo lontanissimi, perché non condividiamo quello che sta venendo fuori, perché vedo che c’è un bel gioco dentro il ceto politico, tra maggioranza e opposizione, pur di scansare il calice amaro. La mia organizzazione sono tre anni che fa questa battaglia, che non è una battaglia qualunquista, vorrei dire a qualche mia collega che si inventa ogni giorno una discussione, pur di sfuggire ai nodi veri dell’economia italiana, non è un fatto di qualunquismo, noi non lo reggiamo, non finiremo mai di ripeterlo, un Paese con regioni che vogliono assomigliare a stati, con province che per tre funzioni che hanno devono stare in piedi con tutto quello che ci costano, con comuni anche di 500 abitanti. Adesso si stanno ribellando. Come vedete alla prima protesta si stanno rinchiudendo, mio zio l’altro ieri mi diceva “stai attento che cane non mangia cane”, questi si sono messi d’accordo e quindi fanno il discorso delle pensioni. Fanno il discorso delle pensioni, la CISL, sia chiaro, mai è stata irriducibile su niente, nel senso che tutto è negoziabile e discutibile, poi ha delle sue convinzioni fortissime, ma voi mi dovete dire per quale motivo, lo dicevo a Lupi adesso, per quale motivo noi dovremmo dire sì alle pensioni. Le abbiamo riformate quattro volte nel corso di dieci anni, le abbiamo riformate, abbiamo fatto l’ultima operazione a collegamento della aspettativa di vita con l’uscita di anzianità, l’abbiamo fatto senza un battito di ciglia, per quale motivo dovremmo ritoccare un’altra volta le pensioni cui abbiamo dato una stabilità? L’intervento non sarebbe per rendere più stabile il sistema previdenziale, sarebbe per prelevare dei soldi da lì, e per quale motivo dovremmo dire sì? Questo decisionismo che alcuni vorrebbero, quando ho visto che su province, comuni, regioni e così via non si dovrebbe muovere una foglia e anche sulle municipalizzate, lo voglio ripetere apposta, perché voglio usare argomenti forti, che spesse volte sono le discariche dei politici trombati, per quale motivo noi dovremmo accettarlo? Per quale motivo noi dovremmo acconsentire che, a chi prende 90mila euro lordi all’anno, che significa 4mila-5mila euro al mese, che magari ha 4-5 persone in famiglia e che poi, tra l’altro, è un quadro, è una persona che svolge una funzione importante e così via, perché dovremmo acconsentire a caricare di più lui di contributo di solidarietà, uno che al massimo, al massimo, si può dire che è un benestante e non toccare per niente chi ha barche, auto di lusso, ville e così via? Noi stiamo dicendo che per un fatto di equità, il contributo di solidarietà deve essere fatto in rapporto ai valori immobiliari e mobiliari. Siamo con l’acqua alla gola, allora si fa per prima chi a di più, per quale motivo dovremmo oberare ancora di più chi paga le tasse fino all’ultimo centesimo e lì far finta di niente? Vedo che c’è un gioco sostanzialmente bipartisan, che non ci piace. Noi, ve lo assicuro, scioperi generali non ne faremo, perché non siamo impazziti in piena crisi, e non abbiamo neanche l’intenzione di copiare i greci, i sindacati greci, che si commentano da soli. Noi le proteste le faremo lo stesso, come abbiamo fatto fino adesso, di sabato e di sera, non vogliamo creare dei problemi alle imprese né creare problemi alle buste paghe dei lavoratori, anzi è più efficace una iniziativa di sabato e di sera, magari senza bandiere di partito, uomini politici, come è abituata a fare la CISL, manifestazioni di protesta senza nessuno di loro. Noi pensiamo che bisogna cambiare profondamente l’approccio su questi problemi, che il Paese debba avviarsi verso una nuova condizione dove ognuno si prenda le proprie responsabilità, anche i sindacati, come alcuni hanno saputo fare nel corso degli anni. Però, come si dice, non si mette vino nuovo in botti vecchie, non si affida il Paese a una classe dirigente uguale a stessa, come è stato nell’ultimo ventennio. O questa cambia o altrimenti ha ragione Bernhard, diamo fondo ancora di più al nostro impegno, per esempio con l’associazionismo, che ha dato una sua vitalità al Paese, gli ha dato una propria vitalità, secondo me e questa vitalità fa bene, se è chiara fino in fondo la finalità di questa vitalità, fa ancora più bene al Paese. L’altro ieri, non so se lo hai visto, De Rita, che io stimo moltissimo, ha avuto modo di dire e criticare il comportamento dei soggetti sociali. Ha detto: all’inizio, hanno avuto l’intuito di chiedere conto e ragione e di dare una spinta a che si facesse presto e si affrontassero dei temi importanti per dare segni importanti ai mercati, poi alla fine hanno perso tutto quel vantaggio o comunque hanno contraddetto questa iniziativa attraverso un documento che parlava di tutto per non parlare di niente. Io sono rimasto molto colpito, mi è dispiaciuto anche, perché ripeto, io sono una forza sociale, rappresento una importante forza sociale, e ci sono rimasto molto male, poi detto da De Rita, sono rimasto ancora più male, perché è un amico che io stimo davvero tanto. Ma De Rita ha ragione, ecco perché io ritengo che queste forze sociali in queste ore, in queste giornate, debbano incontrarsi di nuovo e dire le tre cose più importanti in questo periodo. Dice De Rita, se non è possibile dirle tutte insieme, le dica chi vuole dirle, perché penso, e questo mi è dispiaciuto, che quel documento che è uscito, è uscito proprio in quel modo perché c’era chi non voleva pronunciare alcune parole, che invece vanno pronunciate. Perché quando accade una vicenda come in Val di Susa, bisogna dire chiaro e tondo che è sbagliato, per l’ordine pubblico, per l’economia, per l’avvenire del Paese. Quando accadono le vicende sulle energie, bisogna dirlo chiaramente, quando ci sono vicende di storture nella gestione delle istituzioni e delle amministrazioni, va detto chiaro e tondo. Quindi io spero che con le forze sociali, con gli imprenditori si possa ritornare, e lo dico per prima a Emma Marcegaglia, che rappresenta la realtà più importante, nelle prossime giornate incontriamoci per rifare il punto, perché a noi non interessa portare tutto in casino per non fare niente e non ci interessa neanche portare tutto nel generico per non fare niente. Le forze sociali diano il coraggio alle parti politiche o ai soggetti politici o agli uomini politici più coraggiosi, diano lo spunto per muoversi, è un fatto molto, molto importante. A quel punto quella vitalità, di cui parlava Bernhard, diventa una vitalità davvero, davvero utile al Paese. Penso che questa vitalità sia ancora più importante che in altri momenti, proprio perché si vede la difficoltà che c’è nella realtà politica, si vede proprio, quindi ancora più importante. Ti voglio dire questo, siccome noi stiamo insieme e collaboriamo insieme nel Forum – dove, come tu sai, c’è la Compagnia delle Opere, c’è la CISL, c’è la Confcoperative, c’è la Confartigianato, c’è la Coldiretti, c’è ACLI, MCL, che sono organizzazioni che rappresentano una realtà sociale pesantissima, molto, molto forte, tutti riconducentisi alla dottrina sociale della Chiesa -, abbiamo delle responsabilità forti, e penso che nei prossimi giorni dovremmo arrivare anche noi a notificare alla realtà pubblica italiana le intenzioni che abbiamo. Credo che questo sia molto importante anche per tutto il mondo cattolico, perché noi rappresentiamo una realtà davvero significativa e molto, molto, molto densa di valori di cui il Paese ha bisogno e dobbiamo metterci ancora più coraggio delle altre volte e far vivere una cosa, cui mi sono affezionato molto negli ultimi tempi, un concetto molto semplice, quello della persona al centro. Chiunque del mondo cattolico dice la persona deve essere al centro, figurati chi può dire niente.
Io ultimamente ho detto che questa cosa qui comincia a diventare ambigua, perché la persona al centro, sì, ma chi la dovrebbe mettere al centro, la persona? I governanti, un sindaco, il Presidente del Consiglio, un assessore, un sindacato, una associazione come la CDO e così via? Chi ce la mette al centro è la persona stessa, la persona sta al centro se essa stessa, in comunione con gli altri, provvede a se stessa e agli altri e attraverso la sussidiarietà crea quelle condizioni di responsabilità e di gestione concreta che possano provvedere alla persona. La mette al centro perché essa stessa produce centralità, perché la fa lei e diventa in quel modo una realtà responsabile e anche dirigente. Noi, Bernhard, la dobbiamo sentire questa responsabilità, la responsabilità di dare un esempio molto, molto forte ed essere rigorossissimi nei confronti del resto, che se cambia paradigma il Paese avrà futuro, diversamente non lo avrà. Qual è allora la manovra che uscirà fuori? La manovra che uscirà fuori sarà esattamente equivalente alla maturità di coloro che la produrranno. E’ molto, molto semplice, noi lo vedremo, staremo molto attenti, certo si può migliorare sempre, però è chiaro, se si pensa ancora che gli investimenti si fanno con soldi nuovi, campa cavallo, se invece lo sviluppo viene da tutto ciò che siamo capaci di rimediare, di ottimizzare, recuperando soldi dagli sprechi, dalle inefficienze e così via, a quel punto il Paese si rimetterà in moto. Eravamo distrutti dopo la guerra, con poche risorse, abbiamo fatto un grande Paese, quindi è possibile fare tutto, qualora si voglia davvero. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie Raffaele, penso sia chiara la stima profonda per l’imprenditorialità, non dico solo per l’impresa, ma per l’imprenditorialità di ogni singola persona che è stata espressa in queste parole. O si riparte da lì o non si può andare da nessuna parte e quindi è anche importante l’idea di parlare prima di quello che possiamo fare noi e poi chiedere alla politica e alle parti sociali di dare un sostegno, perché è facile fare appelli, richieste prima ancora di mettersi in gioco in prima persona. Parliamo delle imprese perché è evidente che in tantissime imprese non sono solo gli imprenditori ma anche i collaboratori ad aver fatto grandi sacrifici, in questi tempi, per portare avanti le imprese e le aziende sia nel settore profit sia nel settore non-profit. Claudio Gagliardi, l’Unioncamere ha fatto assieme con la Fondazione Simbolo una grande ricerca dal titolo: “L’Italia che verrà. Industria culturale, made in italy e territori”, dove emerge con chiarezza la grande radice culturale che permette all’Italia di affrontare, con un alto livello di creatività e di impegno personale, le sfide del mercato sempre più difficile, sempre più complicato. Però il vostro presidente ha poi detto: queste imprese hanno gambe che spesso non riescono a proiettarle lontano, è necessario una logica di net-working ed in questo campo le camere stanno già portando avanti accordi di collaborazione con atre istituzioni e associazioni per sensibilizzare la creazione di reti orizzontali intersettoriali. Quindi anche qui è all’opera l’idea di fondo di creare reti, creare sistema per sostenere, non per sostituire il singolo nel suo sforzo imprenditoriale. A te la parola.

CLAUDIO GAGLIARDI:
Grazie Bernhard, per me è un piacere particolare oggi prendere la parola in questa tavola rotonda, perché la realtà del Meeting per noi è una realtà vitale e una realtà in cui l’esperienza delle persone, l’abbiamo constatato in tutti questi anni partecipando attivamente ai lavori del Meeting, l’esperienza delle persone si incontra e nasce qualcosa di nuovo. Io quindi credo, che anche la riflessione sull’esistenza che diventa una certezza, nel momento della crisi, sia veramente una riflessione stimolante. Il Presidente della Repubblica ieri ci diceva di parlare il linguaggio della verità, guardando in faccia i problemi, per trovare insieme le soluzioni. Io credo che le imprese e le istituzioni delle imprese questo sforzo lo hanno fatto e lo stanno facendo. Per capire veramente che cosa sono le Camere di commercio, bisogna ricollegarsi al ragionamento che un attimo fa si faceva, che faceva Raffaele Bonanni, che riprendeva Bernahard Scholz e cioè il ragionamento sulla sussidiarietà. Le Camere di commercio sono istituzioni nel Paese che non appartengono al circuito della politica, che non appartengono al circuito dei partiti ma appartengono alle imprese, appartengono alle forze sociali del Paese e queste imprese se le finanziano, non un euro viene dalle finanze dello Stato, queste imprese se le autofinanziano autonomamente e gestiscono quindi la destinazione di queste risorse. Sono istituzioni quindi di sussidiarietà vera, ma istituzioni. E’ il momento in cui la sussidiarietà si fa capace di gestire funzioni pubbliche, funzioni per il bene comune e io credo che questo sia molto importante ed in un momento in cui si ragiona di semplificazione del sistema pubblico, di recupero di tutte le inefficienze, come diceva un attimo fa Raffaele Bonanni, per trovare le risorse dello sviluppo, beh istituzioni come le camere di commercio possono essere davvero preziose. Sono infatti istituzioni che già al loro interno mettono insieme tutte quelle forze sociali che hanno fatto un grande sforzo di coesione. Si diceva di rete-impresa Italia, si diceva dell’alleanza delle cooperative, ma tutto il mondo associativo è rappresentato sui territori dentro le Camere di commercio. Io non vorrei che in questi ragionamenti di semplificazione che si stanno facendo, uscisse fuori un, come dire, un desiderio recondito, anche del mondo della politica, di, in qualche maniera, non valorizzare questi strumenti che invece appartengono alle imprese, appartengono ai loro momenti rappresentativi. Sono spazi di libertà, sono spazi di libertà importanti per il Paese, se è vero come è vero che la risorsa imprenditoriale è la risorsa da cui dobbiamo partire. Parlare un linguaggio di verità quindi. I nodi critici li conosciamo tutti: l’indebitamento si diceva, la credibilità del Paese, le riforme incompiute, quella fiscale, la riforma della giustizia, la riforma della pubblica amministrazione, la riforma della politica. Ebbene, nelle Camere di commercio questi ragionamenti calano nei territori, però cala anche un altro di ragionamento che dice: partiamo dalle cose che ci sono, dall’esistenza, dall’esperienza delle imprese e vediamone i punti di forza. Bene, un punto di forza: la vitalità del nostro sistema imprenditoriale e la sua capacità di rigenerarsi. Io qua vorrei dire qualcosa che forse non sempre incontra il pensiero comune. Da gennaio a giugno sono nate in Italia 232 mila nuove imprese, l’anno scorso ne sono nate 410 mila. Normalmente quando si fanno questi ragionamenti, qualcuno dice: bene, ulteriore frammentazione, ulteriore micro impresa che impedisce al sistema di consolidarsi. Ma questa è stata la forza del nostro Paese, la capacità di rinascere dalla distruzione dopo la guerra, la capacità di creare il boom economico. Questo lo vede meglio chi sta fuori dell’Italia, chi sta fuori dell’Italia guarda il nostro Paese e vede i suoi distretti, vede la capacità delle piccole imprese di essere competitive nel mondo. Oggi questo non basta più nell’era della globalizzazione, sicuramente, sicuramente i net-work, la capacità di queste imprese di stare in rete è fondamentale, lo riprendeva un attimo fa Bernhard, e quindi dai distretti ormai la strada segnata è quella delle reti d’impresa e, come Camera di commercio insieme a tutte le associazioni, le stiamo facendo, insieme anche a Confindustria, alla Lega delle cooperative, a Confcooperative, all’Alleanza delle cooperative, a Rete impresa Italia. Questi net-work di impresa, sono dei net-work che allungano, come si dice in gergo tecnico, le reti dell’impresa non più soltanto nella prossimità territoriale, che era tipica dei distretti, ma costruiscono reti lunghe sui territori e reti lunghe all’estero. Le camere di commercio sono il luogo naturale in cui queste reti possono nascere. Voglio dire anche un’altra questione: 231 mila imprese, farle nascere non è complicatissimo, ci si accanisce sui temi della nascita di impresa e il tema della libertà di impresa parte sempre da qua – l’impresa in un giorno ma anche l’impresa in un ora, l’impresa on-line -, questo è già possibile. Se guardiamo poi le indagini internazionali su questo, il nostro Paese è più avanti della Francia, è più avanti della Germania, è al livello degli Stati Uniti nella capacità e nella rapidità di far nascere impresa. Dov’è che scende nelle classifiche? Scende quando l’impresa cresce e deve gestire per esempio i contenziosi, deve gestire le problematiche della giustizia civile. Si diceva, recuperiamo le inefficienze per capire dove investire. Bene, il governatore della Banca d’Italia nella sua relazione, tra le tante cose importanti che ci diceva, ci spiegava pure che soltanto l’inefficienza della nostra giustizia civile ci costa un punto di PIL. Qua si dice che un punto di PIL è troppo poco, che il Paese per crescere avrebbe bisogno di almeno due punti di PIL. Bene, un punto lo abbiamo dentro l’inefficienza della giustizia civile, e allora vi voglio raccontare la nostra esperienza di questi mesi.
Per riformare la giustizia civile le Camere di commercio si sono messe in gioco insieme alle associazioni imprenditoriali e alle associazioni professionali e voi sapete che c’è stata una riforma importante, la così detta giustizia alternativa, cioè la possibilità di conciliare un contenzioso prima di andare davanti al giudice, prima di andare al tribunale ed il nostro Paese, più avanti di altri Paesi di Europa, ha deciso di rendere questa strada obbligatoria. Quattro mesi può durare questa possibilità di risolvere il contenzioso. Bene, che cosa abbiamo visto? Abbiamo visto due, tre cose importantissime. La prima è che può funzionare, le Camere di commercio si sono messe in gioco, si sono organizzate per qualificare dei conciliatori con appositi albi, con apposite attività di formazione ed in neanche due mesi hanno ricevuto più di 5mila richieste di conciliazione. Beh, sapete cosa è successo? Il 40% di queste richieste, in due mesi, sono già venute a conclusione. Un processo civile in Italia dura almeno 1200 giorni, ma questa è una media, perché a volte va peggio, però la storia non sappiamo come va a finire, perché la legge è fatta, la riforma è fatta, le Camere di commercio sono in campo, insieme a molti ordini professionali, ma l’ordine degli avvocati si è messo di traverso. Non tutto l’ordine degli avvocati però, è questa una questione interessante. I giovani avvocati sono a favore, gli ordini, una parte degli ordini professionali ed una parte della rappresentanza, invece, ha promosso un ricorso che adesso, dopo il TAR, andrà a finire davanti alla Corte costituzionale, e forse tutto questo si bloccherà. Quel punto di PIL della giustizia civile che, gradatamente, non tutto insieme, si potrebbe recuperare è messo a rischio ed è messo a rischio a vantaggio dei giovani, a vantaggio dell’investimento per i giovani? No! I giovani sono i primi, i giovani che non riescono ad entrare nella professione sono i primi che fanno i nostri corsi per entrare negli albi dei conciliatori, è una possibilità di impiego importante, è una possibilità di occupazione, è una possibilità professionale importante, però le barriere all’entrata rischiano di essere veramente gravose. Ecco, a questa possibilità di far sistema possono servire veramente le spinte di coesione che attraverso le Camere di commercio possiamo mettere in campo. Ve ne cito un’altra, perché me l’ha fatta venire in mente Raffaele Bonanni un attimo fa. Siamo impegnati su un’altra storia, che va avanti da oltre 15 anni nel nostro Paese, è diventata una chimera per certi aspetti. La faccenda dello sportello unico per le attività produttive. Da quanto ne sentiamo parlare? Da tanto tempo. La capacità del nostro Paese di fare, come dire, siepi attorno ai recinti delle competenze delle singole amministrazioni, fa sì che questa attività si sia deciso per tanti anni di affidarla ad 8mila comuni, ma questa cosa non ha funzionato per tanti anni, allora c’è stata anche qua una riforma, dove alla fine si è detto: sapete cosa c’è di nuovo? Questa storia deve essere tutta informatizzata, le Camere di commercio predispongano l’infrastruttura informatica, la competenza rimanga nei comuni, ma qualora i comuni non riescano, le Camere di commercio possano essere delegate. Prima, a proposito di regioni che si vogliono far stati, abbiamo incontrato i problemi dei conflitti delle competenze. Prima che questa storia cominciasse ad andare a regime, anche qua Corte Costituzionale, proprio la Regione in cui ci troviamo fa ricorso di fronte alla Corte Costituzionale.
La Corte Costituzionale ha detto che si doveva andare avanti e davanti a che cosa ci siamo trovati? Ci siamo trovati di fronte a 5 mila procedure diverse per fare le stesse cose nei comuni. Dopo di ché, noi possiamo fare le infrastrutture informatiche, possiamo fare non in un giorno ma in 5 minuti un’attività, una procedura che fa risparmiare soldi alle imprese, però ci troviamo di fronte a 5 mila procedure differenti. La Regione non vuole rinunciare al proprio ruolo, il Comune non può rinunciare al proprio regolamento e questo per un impresa che per esempio già esiste a Milano e vuole fare una nuova sede a Firenze, vuol dire che si deve ristudiare la normativa, il regolamento e questo può comportare una lunga trafila. Allora abbiamo anticipato alcune cose, abbiamo detto, mettiamo d’accordo gli enti centrali, l’INPS, l’INAIL con l’Agenzia delle entrate, facciamo una comunicazione unica, quando un impresa fa una comunicazione alla Camera che valga anche per l’INPS, per l’INAIL e per l’Agenzia delle entrate. Dopo un anno di faticosa sperimentazione, la faccenda è riuscita. L’anno scorso abbiamo fatto 3 milioni di procedure con la comunicazione unica, le amministrazioni centrali sono riuscite a mettersi d’accordo, dopo di che il legislatore visto che la cosa funzionava, dice: sapete, un pezzo dello sportello unico facciamolo passare dentro la comunicazione unica, e se un impresa, dopo essere nata, vuole fare uno stabilimento, faccia la segnalazione certificata di inizio di attività, la agganci informaticamente alla comunicazione unica e la Camera pensi a mandarla al Comune. E così abbiamo incominciato a fare da circa un mese. Un grande Comune, mi scriveva, proprio nel mese di agosto, che era accaduto un fatto strano, un grande Comune che si è organizzato con un suo sportello unico ed anche discretamente informatizzato. L’impresa va in Camera di Commercio, fa la segnalazione unica e poi si lamenta che al Comune non risulta niente. La segnalazione unica era stata presentata, sennonché nessuno apriva la PEC, la posta elettronica certificata in quel comune e quindi quell’impresa si trovava senza la possibilità di iniziare concretamente la sua attività. Ecco, io credo che la coesione di cui c’è bisogno in questo momento deve essere una coesione forte tra forze sociali, deve essere una coesione forte tra istituzioni e dobbiamo guardare il merito, la meritocrazia, la meritocrazia in tutti i sensi, il merito delle cose anzitutto e chi merita nelle cose e puntare sulle cose che funzionano, per dare a questo Paese la modernizzazione di cui ha bisogno.

BERNHARD SCHOLZ:
Solo per sottolineare quanto siano importanti questi sforzi, che sembrano molto dettagliati e molto microscopici e però hanno un effetto veramente importante, vi dico che un’impresa in Italia spende mediamente 14mila euro all’anno per adempimenti burocratici. Quattordicimila euro per una piccola-media impresa sono tanti e quindi quegli sforzi che sono stati descritti adesso da Claudio sono veramente importanti, perché, oltre al costo, fanno anche guadagnare tanto tempo e tolgono anche tante preoccupazioni, perché bisogna star dietro a queste cose. Bene, abbiamo delle reti fra imprese che grazie a Dio stanno crescendo in tutte le diversità che una rete può avere, rispetto all’obbiettivo che vuole raggiungere, ma poi abbiamo anche grandi aziende che creano delle reti a livello internazionali con altri Paesi e con altre realtà imprenditoriali, come per esempio l’ENI che è una delle più importanti, anche storicamente più importanti, multinazionali italiane presente in 70 Paesi nel mondo, quindi non è che stiamo parlando di un’internazionalizzazione piccola, con più di 76 mila dipendenti e quindi la domanda al suo presidente Giuseppe Recchi: un’impresa di queste dimensioni, come può aiutare il sistema Italia a diventare più produttivo e come viceversa questo sistema deve aiutare un impresa come l’ENI che lei rappresenta?

GIUSEPPE RECCHI:
Per rispondere alla sua domanda bisogna fare forse un passo indietro in quello che è un contesto in cui si è sviluppata l’ENI e in cui si è sviluppata tutta la grande industria del nostro Paese, in cui si è sviluppata anche la cultura che ci ha tenuti assieme coma Paese, come nazione, come persone. Penso fortemente che noi vivevamo in un tempo in cui c’era un filo che cominciava con l’educazione, con la scuola, che ci teneva un po’ tutti legati assieme, soprattutto intorno a un processo di formazione che avveniva in tempi più semplici, in cui anche la quantità di informazione, la globalizzazione erano diverse, ma un processo di formazione per il quale, a seconda dei percorsi che si prendevano, faceva sì che ciascuno sviluppasse le proprie idee, i propri sogni e a questi consacrasse i propri sforzi. Era un processo che seguiva una linea dell’impegno, cioè mi impegno per raggiungere delle competenze a cui poi sarebbero seguite delle responsabilità sia nel lavoro che nella famiglia. Ecco, questa era una filiera di produzione, di formazione, di maturità, di idee che garantiva anche una progettualità nell’azione poi di governo di un Paese, di tenuta di un Paese. Io ho la sensazione che oggi questi percorsi di formazione si siano un po’ interrotti, per i motivi che accennavo prima, e questo crea come una mancanza di appartenenza, una mancanza di senso comune e vorrei quindi qui provare ad individuare, per arrivare a rispondere alla sua domanda, di cosa abbiamo bisogno per ricostruirlo. Il tema cioè che voglio toccare è che siamo un po’ tutti chiamati oggi ad alzare lo sguardo; non possiamo più forse permetterci, come accennava Bonanni, una politica del minimo costo rispetto a quella di un beneficio superiore, cioè una politica per cui si cerca di ottenere piccole vittorie a breve termine e non si guarda invece a una strategia a lungo termine, cioè a un obiettivo massimo che tutti possiamo condividere. Questo fa sì che oggi consumiamo un benessere raggiunto da un nostro sistema senza più pensare alla costruzione di un futuro che sia vivibile per tutti, in un momento in cui la partita si gioca su uno scenario non più nazionale, ma molto più ampio, una partita che è al di fuori non solo del nostro Paese ma anche dell’Europa. Quindi, o ci mettiamo in testa che si gioca tutti come sistema oppure siamo destinati a essere sconfitti, perché, per recuperare il tema di questo convegno, non c’è certezza della sopravvivenza e soprattutto non c’è certezza del nostro ruolo nel mondo. Da dove partiamo? Partiamo da un sistema che produce delle eccellenze, ci garantisce delle qualità. Io vengo, per fare un caso personale, da un incidente abbastanza importante, sono stato operato all’ospedale Rizzoli di Bologna, dalla sanità pubblica, e ho avuto tempo di riflettere, guardando un po’ la storia delle cartelle cliniche dell’ospedale, che fino al 1920 le operazioni di femore si facevano utilizzando come anestesia l’etere, un anestetico che si poteva utilizzare per 20 minuti, superati i quali diventava tossico e mortale, per cui i dottori avevano 20 minuti per tagliarti, raddrizzarti l’osso, intervenire, ecc; siccome un’operazione di femore dura un paio d’ore, vi assicuro che i tempi non è che erano più veloci di oggi. Per cui pensate solo nella medicina, che progressi si sono fatti. E oggi questo sicuramente è una qualità disponibile per tutti; per non parlare poi della scolarizzazione.
Abbiamo raggiunto degli incredibili traguardi, di cui tendiamo spesso a disprezzare il livello di qualità. Ricordiamocene
Ma questo non ci può bastare oggi. Io credo che dobbiamo pensare come italiani, e lo dico soprattutto in quest’anno di celebrazioni, avremo un posto nel futuro se ci mettiamo in testa che bisogna vincere, ritrovare il gusto del primato e la convenienza dell’eccellenza.
Il mondo non ci aspetta, non ci preserva il nostro posto nella competizione globale. Non sono previste medaglie di consolazione. E in ogni caso ci fai poco.
Se devo costruire eccellenza, gli strumenti di cui ci dobbiamo dotare, a cui dobbiamo fare riferimento, sono gli stessi che hanno motivato chi ci ha preceduto nelle stagioni in cui il Paese ha saputo esprimere il suo talento migliore.
Certo tempi non facili, ma non credo che siamo veramente disposti ad accontentarci di strategie di semplice sopravvivenza. E per questo non credo che possiamo permetterci politiche volte solo a dividerci e consumare il benessere acquisito – al quale tra l’altro neanche tutti hanno accesso – senza pensare a quanto necessario per rinnovarlo.
Ma io sono ottimista perché percepisco invece crescere una voglia di vincere, un desiderio di recuperare forza unitaria attorno a dei valorI che siano evocativi della nostra vera identità.
Sento infatti aumentare forte il desiderio di competenza, contrapposta ad una dilagante superficialità in cui tutti dicono tutto e il contrario di tutto. E’ una superficialità a cui ci obbliga, oggi, tanto la bulimia di informazione quanto il susseguirsi frenetico di un’attualità che, rincorrendo se stessa, sembra impedire ogni approfondimento.
C’e voglia di senso del dovere, inteso come lealtà verso ciò che si fa e impegno nel volerlo fare al meglio per soddisfare, in primis, l’orgoglio di se stessi.
E in un epoca in cui nessuno sembra voler stare al proprio posto, non riconoscendo il valore del proprio ruolo, qualunque esso sia, sento crescere una forte voglia di responsabilità: di una responsabilità a mantenere gli impegni, di una responsabilità che si assume verso gli altri, di una responsabilità di appartenere ad una Nazione.
E questo mi permette di introdurre l’altro elemento di questo mio elenco ma forse il più importante, su cui dobbiamo tornare a fare leva: la partecipazione dei giovani al Sistema.
L’accesso dei giovani ai posti chiave del Paese è fondamentale per trovare slancio, idee e passioni. Ma si dice spesso che ciò deve ritornare ad essere conseguenza di una libertà diffusa per tutti i giovani di farsi strada.
Benissimo…Però essere giovani non è un valore in sé; non è una qualità che garantisce occasioni, privilegi, ma un’opportunità di presentarsi alla gara del mondo con più energia di altri e, soprattutto, con occhi nuovi.
Einstein diceva che il genio era fatto dell’1% di talento e dal 99% di impegno.
Usate la vostra energia per il realizzare il 99 % del programma.
E l’1%, il talento, se noi italiani siamo davvero così bravi — e ne sono sicuro — lo troverete in voi stessi.
Ripercorrendo i momenti più significativi della nostra Storia nazionale, i giovani sono stati protagonisti delle stagioni più esaltanti del nostro Paese e di quelle di cui siamo più orgogliosi.
A cominciare dal Risorgimento e fino all’unità d’Italia, negli ultimi anni spesso considerata come un goffo tentativo di far convivere genti e culture diverse e non invece come lo straordinario risultato che ha superato il progetto politico che lo aveva innescato e che in pochi anni ha portato l’Italia unita sul palcoscenico dei grandi del mondo. Sin dai primi dell’ottocento e fino al 1861, infatti, generazioni di ventenni o poco più hanno sacrificato se stesse per un’ idea di libertà e una passione di patria che, seppur ispirate da poeti e politici più anziani di loro, sono germinate interamente dalle loro azioni e dal progetto che avevano sposato.
Un altro grande e glorioso sforzo cui vennero chiamati i giovani italiani fu quello della ricostruzione post bellica negli anni dal 45 al 65 quando migliaia e migliaia di giovani e giovanissimi italiani con grande sacrificio riaffermarono, su basi civili e non più militari, l’orgoglio perduto.
Questa epica la incarna bene un personaggio come Mattei, fondatore di Eni e suo primo presidente, che costruì un sogno di un’Italia industriale, autonoma e capace di combattere e vincere quelli che al tempo erano per noi giganti terribili e che ora possiamo permetterci di guardare negli occhi, da pari a pari.
In quegli anni, Mattei è un giovane uomo. Nato nel 1906, ha 39 anni quando, nel ’45, la Commissione Economica del Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia, con ratifica del presidente del Consiglio Ferruccio Parri, decide di liquidare l’Agip e sceglie Mattei come commissario. È storia nota che Mattei non liquidò l’Agip ma, al contrario, seguendo le proprie convinzioni e idee e confortato dalle scoperte di metano che si andavano facendo in Italia, costituì l’Eni il 10 febbraio del 1953. Mattei ha 47 anni e dalle sue idee, dalla sua passione civile e dalla sua preparazione industriale nasce un sogno di riscatto italiano e che diventa reale orgoglio, forza dell’Italia nel mondo e che impone un modello che tutte le altre compagnie seguiranno.
A questo proposito vorrei leggervi un passo tratto da una biografia di Mattei nella quale Mattei stesso parla di un incontro avvenuto a Montecarlo, all’Hotel de Paris, nel dicembre del ’59 con il responsabile marketing e raffinazione della Shell e con il Presidente della Shell Italia.
“Fui chiamato a incontrarmi con uno dei 7 grandi. Uno dei più grandi; hanno un bilancio che è quasi pari al bilancio dello stato italiano […] Mi disse: “che cosa vuol fare in Tunisia?” “Ma, in Tunisia vogliamo costruire una raffineria”. Dice: “Voi non farete una raffineria, perché la faremo noi, con una delle altre grandi compagnie”, un’altra delle 7 sorelle. Ed io, molto umilmente gli chiesi: “Cosa ne pensa se invece di farla in due, la si facesse in tre?” Dice: “no”. E io allora tirai fuori dalla tasca la matita, avevo altri argomenti da discutere, lo guardai, li cancellai e dissi: “Ho l’impressione che non abbiamo più niente da dirci. Ma lei questo colloquio di oggi se lo ricorderà per tutta la vita, perché noi siamo dei poveri, e abbiamo bisogno, abbiamo bisogno di lavorare. E non possiamo più andare all’estero come dei poveri emigranti che non hanno altra forza che le proprie braccia. Vogliamo andare anche noi come imprenditori, con l’assistenza tecnica, e con tutto quello che un Paese moderno come il nostro oggi può dare. E a questo punto ci lasciammo (…) In quel momento iniziò per la Tunisia, come era già successo in Marocco, in Ghana, in Sudan, una lotta terribile, senza esclusione di colpi, e io ho visto insieme dall’altra parte società inglesi, americane, olandesi, francesi, belghe, tutte unite contro di noi. Due volte credo di avere perduto, poi ripresi forza e alla fine abbiamo vinto noi”.
Queste motivazioni l’Italia le seppe trovare fortissime fra le fila della sua società civile. In quei giovani che avevano trovato la forza necessaria ad esprimersi, grazie anche ai 4.2 milioni di emigranti meridionali al Nord d’Italia che fecero carne viva del sogno industriale e dell’orgoglio di rinascita italiano – e che si fecero carico di una responsabilità adulta per risollevare un Paese distrutto.
Anche noi oggi abbiamo una grande responsabilità perché il momento è difficile e ci vogliono le forze migliori di questo Paese per uscirne ancora una volta vittoriosi. Lo dico anche e soprattutto ai giovani, alla generazione, inclusa la mia, che non ha conosciuto le guerre mondiali e alle generazioni successive che non hanno conosciuto neanche le tensioni generazionali degli anni ’70 o il crollo del comunismo. Lo dico a questa generazione post-moderna, che vive oggi una nuova guerra mondiale, non più militare ma economica e finanziaria, e si confronta, come quelle che l’hanno preceduta con le difficoltà di affermarsi e di costruire il suo mondo in un clima dilagante di disillusione.
O qui presidiamo qualche primato e riusciamo a ottimizzare la nostra intelligenza e il nostro talento per arrivare prima degli altri a soluzioni che ci fanno vincere il nostro futuro o nessuno ci garantirà un posto in quel futuro.
Esistere non e’ garantito. Nella storia si conosce, al massimo, la magnanimità dei vincitori. Di quella dei vinti, importa poco a nessuno.
Rivolgo a chi di noi qui è un ragazzo un invito: che possa tornare a pensare ad orizzonti ampi, globali, a non avere paura dell’impegno e della sfida, che sappia muoversi secondo parametri di rischio calcolato ma in cui il calcolo sia minore del rischio.
Cercate di diventare numeri uno in qualcosa, siate i migliori in qualcosa.
Che possiamo tutti tornare ad essere orgogliosi, affamati di idee e di passioni politiche e civili per una nuova Italia.
E’ uso chiudere i discorsi con citazioni di grandi pensatori e avevo pensato alla famosa frase di Goethe che dice: “Ciò che hai ereditato dai Padri riconquistalo, se vuoi possederlo davvero”.
Ma mi viene in mente anche un’ altra cosa che mi è molto piaciuta, che non ha detto un professore ma un attore, Roberto Benigni, facendo l’esegesi dell’ inno di Mameli, quest’anno a San Remo: vogliamo bene a questo Paese cosi come gliene hanno voluto i giovani del Risorgimento, che avevano imparato a morire per la Patria perché noi potessimo vivere per la Patria. Quei giovani erano mossi da grandi ideali e proclamavano con forza i propri valori.
“Per realizzare i sogni bisogna svegliarsi e se non conosci i tuoi valori non sai dove vai”.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie Giuseppe Recchi. Questa citazione di Mattei è veramente impressionante sentirla così, perché dice di tutto uno spirito, di un impegno, di una responsabilità di fronte anche a un bene comune. Questa idea di legare il proprio particolare all’insieme di un territorio, di un Paese, di un popolo è proprio la cosa più importante di cui abbiamo bisogno in questo momento. Io vorrei porre a tutti ancora una domanda finale, breve, alla quale chiedo di rispondere brevemente. Ha me ha molto sorpreso, perché non è assolutamente consueto, che in questi momenti si parli, senza limitarsi a un fiato corto, e con una certa lungimiranza, cioè si guarda nel futuro. Siamo molto abituati a parlare delle cose da fare nell’immediato, mentre qua abbiamo sentito uno spirito che guarda oltre, che va oltre il momento, perché da lì poi viene anche la forza che ti da la possibilità di affrontare le questioni immediate. Però io vorrei chiedervi, vista anche l’urgenza, la pressione dei problemi che dobbiamo affrontare, quali sono le questioni che dal punto di vista del sistema Paese vi sembrano le più importanti in questo momento, in queste settimane, che ci aspettano per quanto riguarda il vostro compito specifico.
Cominciamo di nuovo con Bonanni.

RAFFAELE BONANNI:
Innanzitutto la riforma fiscale, che è un elemento che riguarda la giustizia, perché c’è tanto di ingiusto in quello che avviene nell’applicare le leggi sul fisco. C’è una parte che paga, come ho detto prima, fino all’ultimo centesimo e un’altra parte che non lo fa e chi deve sovrintendere a che questo non accada, tratta la cosa molto diversamente da come la trattano in altri Paesi, a partire dagli Stati Uniti, dove si ritiene l’evasione fiscale e il non dare ognuno secondo la propria ricchezza il fatto peggiore, il fatto più grave. La riforma fiscale. Noi, come si sa, sono tre anni che facciamo proteste territoriali, nazionali, l’ultima l’abbiamo fatta il 18 giugno, per spingere i governanti, ma anche coloro che si oppongono, a mettere al centro della vicenda politica la questione fiscale. Perché c’è un problema di giustizia, c’è un problema di rapporto tra cittadino e stato e c’è un problema anche economico. Chi ritiene che noi possiamo uscire dalla vicenda economica senza chiudere la partita fiscale, sbaglia per una ragione semplice: i consumi sono bassi e sono bassi perché i ceti popolari dispongono di poco, perché pagano troppe tasse. Lo ripeto per l’ennesima volta: non pagano il 43% che i dati ufficiali ci dicono, è il 43% più una decina di punti ancora, perché il calcolo si deve fare anche con quei 10 punti di evasione, di nero che non viene calcolato appunto dall’ ISTAT. Quindi noi siamo oltre il 50% di evasione fiscale nel nostro Paese. Quindi con persone che devono pagare tutti questi soldi, è chiaro che i consumi languono. Con tasse così alte come quelle che deve pagare chiunque voglia investire in Italia, è chiaro che è scoraggiato a investire. Quindi la vicenda fiscale non è un fatto qualsiasi. Noi abbiamo condiviso il fatto di costruire questa delega e ci siamo battuti per questo, questa delega da consegnare al Parlamento; ora il Presidente del Consiglio, un mese fa, ha detto così solennemente in Parlamento che accelererà l’iter per fare approvare un provvedimento che porta dei risparmi per coloro che pagano l’IRPEF e che sposta il peso delle tasse dal lavoro, dalle famiglie verso altre questioni e sposta un pezzo di peso dalle persone alle cose. Io spero, anche di fronte alle condizioni in cui ci troviamo, alle manovre da farsi, che questo impegno si mantenga. Ripeto, il varo della riforma fiscale attiene a quegli aspetti che dicevo, quindi e uno dei problemi più rilevanti che abbiamo di fronte. Le altre questioni riguardano le infrastrutture, l’energia, l’istruzione, la pubblica amministrazione e riguarda il sistema dei servizi cosiddetti comuni, quelli gestiti in larga parte dalle municipalizzate. Questo è un altro tema fondamentale per la ripresa e lo sviluppo. Faccio un esempio: il trasporto pubblico locale, che è uno dei servizi più delicati per il nostro Paese, è finanziato anche dal pubblico, perché garantisce un servizio universale ed è affidato per la gestione ai poteri locali, con 1270 appalti in tutta Italia. Ciò significa che il pubblico affida a 1270 aziende, aziendine, la gestione di un servizio così delicato. Ora, io parlo da sindacalista, sono almeno 10 anni che facciamo fatica a rinnovare perfino i contratti, perché il sistema perde così tanto le risorse, mette in piedi meccanismi di non sistema così evidenti, che assorbe quasi interamente i soldi. In questa situazione, che certamente non produce economia di scala, chiunque doveva poter vedere che la cosa non funzionava, bisognava da diverso tempo porre riparo, perché non si pone riparo? Ci sono gestioni che vanno molto oltre l’interesse pubblico e molto oltre le vicende di interesse economico, gestioni che operano con i criteri della politica, non con criteri imprenditoriali e non con riguardo al costo e all’efficacia del servizio. Queste questioni per noi sono fondamentali, non sono questioni qualsiasi. Riguardo all’energia, ho detto che ci sono circa 1012 miliardi solo di investimenti privati. Chiunque dice: “quando c’è crisi, bisogna fare politiche anticicliche” cioè investire, fare in modo che i soldi scorrano molto facilmente, in quel caso oltre che avere una funzione anticiclica, si andrebbero addirittura a costruire le premesse per un migliore sviluppo. Avete visto preoccupazioni su questo, salvo dire investimenti nuovi? E con quali soldi? Così anche per le infrastrutture, questi aspetti sono fondamentali. Io penso che bisognerà spingere su questo ancora di più. Però per chiudere voglio dire una cosa che volevo dire prima: questi problemi si risolveranno se, insisto, la logica sarà diversa da parte certamente della classe dirigente italiana ma anche da parte nostra. Noi dobbiamo prendere atto che una stagione sta finendo, anzi è finita, che non sono le stagioni politiche di cui parlano i partiti e così via, no sono stagioni, sono flussi, sono condizioni. Per 30 anni noi abbiamo vissuto nell’esaltazione dell’individualismo, perché la realtà che ha spinto ai consumi è durata un trentennio, la rivoluzione dei consumi che c’è stata ha portato all’esaltazione dell’individuo e il progressivo potere dei poteri finanziari, che simbolicamente rappresentano poteri non democratici, molto accentrati, ha spinto a questo anche attraverso segnali come i miracoli della finanza, così celebrati e così negativamente celebrati ultimamente. Questo disastro, dopo un trentennio di trionfo dell’individualismo e della giustificazione più forte che è quella della riduzione dei consumi e del potere della finanza, fa cessare questa condizione, perché ha impaurito le persone, le quali, io penso, andranno alla ricerca più che dell’impegno individuale, di un impegno collettivo e noi su questo dobbiamo poter far conto, dobbiamo coltivare la possibilità dell’impegno collettivo come piattaforma essenziale per affrontare questi temi. Ci vorrà qualcuno che dovrà affrontare questi temi. Sarà un taumaturgo? Io non ci ho creduto prima, figuriamoci adesso. Quindi taumaturghi siamo tutti insieme, siamo le buone pratiche, le buone cose che sappiamo fare attraverso la individuazione, si parlava prima, di forti idealità. Ma cosa sono le idealità? E’ credere fortemente nel bene comune, al punto tale da metterci quell’energia che hanno avuto i nostri padri, coloro che hanno fatto l’Italia. Loro hanno messo a rischio anche la loro vita, nella Resistenza, pur di affermare una loro opinione. Io non dico che ci dobbiamo rimettere la vita ma almeno metterci coraggio e metterci impegno con una visione nuova, capovolta rispetto alla realtà che abbiamo, altrimenti non ce la faremo. Ecco perché io voglio insistere: coloro che hanno geneticamente, nella propria pancia, l’idea che nessuno ci libera se non noi stessi, devono fare di più, devono stringersi ancora più in unità e devono dare ancora più che in passato l’esempio per fare queste cose, per incoraggiare chiunque abbia potere di fare queste cose a fare di più. Questo io penso e spero davvero che la svolta ci sia per lucidità anziché per necessità, nelle prossime ore, nelle prossime giornate e nei prossimi mesi. Grazie.

CLAUDIO GAGLIARDI:
Quello che vorrei dire in questo brevissimo intervento, lo dico partendo anch’io da una citazione, visto che la citazione di Enrico Mattei è stata così importante anche per capire lo spirito, io penso, uno spirito che in qualche maniera sta attraversando l’Italia in questo momento. Anche la presenza qua ieri del Capo dello Stato, in occasione del 150° anniversario dell’unità del Paese, è stato un fatto importante perché ha coronato, in qualche maniera, un’esperienza che non era scontata, lo ricordiamo tutti, non era scontato che questa celebrazione dei 150 anni fosse un successo. Ancora qualche settimana prima del 17 marzo ci stavamo domandando se bisognava celebrarlo o no. E poi la cosa è montata, il Capo dello Stato e, prima di lui, l’altro Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, hanno fatto un’operazione tale in questo Paese che, girando per il Paese, ce ne siamo accorti anche noi. Abbiamo perciò voluto centrare una manifestazione sulle imprese, “Italia 150, le radici del futuro” l’abbiamo chiamata, e ci siamo accorti anche noi che girando c’era questo desiderio, c’è questo desiderio di identificazione e anche, consentitemi di dirlo, di orgoglio razionale, che non è nazionalismo, ma è, diciamo, un desiderio vero di riscoprire la propria identità, le proprie radici. Bene, parlando di crisi, c’è una frase che forse conoscete, di un altro grande economista, di un altro grande Capo dello Stato italiano, Luigi Einaudi, che mi ha sempre colpito in questi mesi: “Chi cerca rimedi economici a problemi economici – e Dio sa quanti ne stiamo vivendo adesso – è su falsa strada – diceva Einaudi -, la quale non può che condurre se non al precipizio. Il problema economico è l’aspetto e la conseguenza di un più ampio problema spirituale e morale”.
Questa è la lezione del grande economista, del grande Capo dello Stato che ha portato l’Italia, dopo il disastro della guerra, alla rinascita. La soluzione del problema economico non si può cercare soltanto nell’alchimia economica, ma bisogna cercarla nella profondità del problema. E allora io dico, e lo dico se volete pensando ai miei figli, non soltanto pensando a questa sala, che o mettiamo davvero la priorità dei giovani al centro, o altrimenti sarà difficile parlare del medio periodo, parlare di futuro, parlare di investimento. E quei dati che vi davo prima sulla nascita delle imprese fanno ben sperare, perché il 44% di quelle nuove imprese è fatto da gente che ha meno di 35 anni. E’ importante questo, il 25% ha meno di 30 anni, questi sono i sogni, questa è gente che sta cercando di realizzare un sogno, quei sogni di cui si parlava anche prima a proposito dell’ENI. Magari piccoli sogni, ma è da quei piccoli sogni che nascono i primati di quell’industria italiana che noi conosciamo, è da quei piccoli sogni che è nata la Microsoft, è nata in un sottoscala, è nata da una micro impresa, è nata da una situazione di questo genere. Quando giriamo per il Paese, sentiamo la storia delle medie imprese che sono leader nel mondo. Mi capitava, un po’ di tempo fa, di sentire la storia della Technogym e Nerio Alessandri della Technogym raccontava come aveva cominciato a fare queste attrezzature che oggi rappresentano il top nel loro campo per le attrezzature per la ginnastica sportiva, sono utilizzate nelle Olimpiadi. Ebbene, nasce in uno scantinato, nasce in un garage, questa storia. È di questi sogni che noi dobbiamo esser capaci di coltivare la realtà. Se saremo capaci di coltivare la realtà di questi sogni, io penso che la ripartenza con questo nuovo, diciamo anche, senso di appartenenza, senso di condivisione del Paese, può avere una prospettiva.

GIUSEPPE RECCHI:
Rispondo alla sua domanda, cos’è che riteniamo importante per il nostro compito. Il nostro compito, anzi, il mio compito come presidente di ENI, è quello di far sì che l’ENI possa continuare quello che è il suo percorso di crescita, di leadership, di promozione di eccellenze. Essere leader in qualcosa sembra una situazione di privilegio – è facile per te che sei grande, la vita è difficile invece per noi che dobbiamo ancora arrivarci -, in realtà non è veramente così. Sì, c’è un valore nella dimensione, ma c’è una difficoltà nell’essere il primo, c’è una difficoltà nell’essere davanti, c’è una difficoltà nel battere il passo per gli altri. Ecco, questo è un po’ il nostro compito, riuscire a intercettare quelli che sono i trend del futuro, cavalcarli prima degli altri e vincere la competizione. Questa è l’ENI che vorrei, un ENI che continua a perpetuare questa sua tradizione di eccellenza, soprattutto adattandola ai nuovi tempi e rinnovandola sulle nuove sfide. Questo è il primo compito che mi do. E poi c’è un compito invece come Paese, più che un compito è un’aspettativa: io penso che oggi siamo in una situazione in cui abbiamo il faro puntato su di noi, per motivi che non necessariamente corrispondono alla nostra vera situazione, alla nostra vera realtà. In inglese si dice: la percezione degli altri è la tua realtà, è una frase che usano molto gli americani, cioè tu devi fare i conti non tanto con quello che sei, ma con quello che gli altri pensano di te. E questo diventa una verità, per cui o io convinco che non è così e trovo qualcuno che mi dia ragione, o non c’è valore nella verità. Ecco, questa è la seconda raccomandazione, il secondo auspicio che faccio a noi, cioè che ci sia una capacità di dare oggi una risposta. Il tema di questo momento sono la difficoltà sui mercati internazionali, sono le aspettative di fiducia che ci sono, non tanto verso il nostro Paese, quanto in tutte le democrazie occidentali, in cui c’è una mancanza di leadership forte, che deriva dalla governance di sistemi politici che, per forza, in quanto necessita di consenso, è una governance che guarda a breve termine, cerca di rinnovare un consenso nel tempo in cui il suo periodo si consuma. Ecco, io mi auguro che si possa alzare la testa, come dicevo prima, e fare delle scelte di cui probabilmente i responsabili non incasseranno i benefici, perché sono scelte a lungo termine, sono scelte strategiche, ma solo per il fatto per cui vengono fatte, queste danno una percezione di realtà nuova che cambia totalmente la situazione del Paese.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, grazie Giuseppe Recchi. Raffaele Bonanni ha parlato di una nuova stagione, di una svolta. Io devo dire che dopo questo incontro sono più certo che sarà possibile, perché si tratta non di inventare qualcosa di completamente nuovo, ma di rinnovare, di riscoprire una verità semplice che abbiamo tradito: la verità che non è possibile raggiungere il proprio bene a prescindere dal bene dell’altro. Questa stagione deve finire e sta finendo, grazie a Dio, perché stavamo tradendo noi stessi, oltre la tradizione di questo Paese. Le citazioni di Mattei, le citazioni di Einaudi, la stessa dottrina sociale della Chiesa, ci ricordano che questo è stato, quindi è possibile, e noi dobbiamo riscoprirlo dentro le nuove sfide che si presentano davanti a noi. Questa assunzione di responsabilità, però, presuppone certezza, perché nel dubbio non mi assumo nessuna responsabilità, mi paralizzo, mi tiro indietro. E quindi, visto che i problemi economici si affrontano non solo attraverso l’economia, ma attraverso una certa cultura, la cultura che ci è chiesto di sviluppare attraverso la propria vita, attraverso anche l’educazione come giustamente è stato ricordato, è una cultura che parte dalla certezza che io sono creato per creare, che ho la vocazione personale di maturare dando il meglio di me per chi mi sta a fianco, per il Paese nel quale sono nato. Queste sono certezze assolutamente indispensabili se vogliamo essere seri, altrimenti ci illudiamo che con qualche manovra o con qualche mossa politica questo Paese riprenderà la sua strada. Non sarà così. Quindi, in un modo molto preciso, dipenderà da ognuno di noi prendere sul serio ciò che è stato detto dai tre partecipanti a questo colloquio e che ringrazio di cuore per essere venuti qua. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

22 Agosto 2011

Ora

15:00

Edizione

2011

Luogo

Sala Neri GE Healthcare
Categoria
Incontri