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IL PRINCIPE E LE MELE. DUBBIO E REALTÀ NELL’ARTE: AMLETO E CÉZANNE.
Il principe e le mele. Dubbio e realtà nell'arte: Amleto e Cézanne
21/08/2011 - ore 19.00 Partecipano: Piero Boitani, Professore Ordinario di Letterature Comparate all'Università degli Studi di Roma La Sapienza; Beatrice Buscaroli, Storica dell'Arte. Introduce Davide Rondoni, Poeta e Scrittore.
Partecipano: Piero Boitani, Professore Ordinario di Letterature Comparate all’Università degli Studi di Roma La Sapienza; Beatrice Buscaroli, Storica dell’Arte. Introduce Davide Rondoni, Poeta e Scrittore.
DAVIDE RONDONI:
Buonasera e ben trovati. Più di una persona mi ha chiesto: “Ma perché in un Meeting che ha come titolo il fatto che l’esistenza diventa un’immensa certezza – e ogni parola conta nel titolo del Meeting, non solo la parola certezza, ma anche la parola esistenza, anche la parola immensa -, perché in un Meeting che ha questo come tema, c’è invece un incontro che ha un titolo che dice il dubbio nell’arte?”. Sembra che si parli di quel campo, che è appunto l’arte, dove maggiormente va in scena l’inquietudine, se vogliamo usare la parola, va in scena l’incertezza, la perplessità, a volte il vuoto. E allora, prima di lasciare la parola ai nostri due amici, che ringrazio fin d’ora per essere intervenuti, volevo solo dire che l’arte intesa come luogo di ciò che inquieta l’esistenza, di ciò che la movimenta, di ciò che a volte la ferisce, é l’arte che è un gesto umano, come dice la parola stessa, artificioso, cioè non esiste in natura, un gesto per cui l’uomo crea qualche cosa, una commedia, una tragedia teatrale, una poesia, una canzone, un quadro, che non esiste in natura. Ecco, l’arte, che è questo luogo dell’inquietudine, dell’artificio, della finzione, non è il contrario della certezza, o meglio, può non essere il contrario della certezza, proprio perché l’arte è sempre stato il luogo della ricerca. È stato il luogo dove l’uomo, incontrando, non negando, non nascondendosi da ciò che è inquietudine, da ciò che è smarrimento, da ciò che è anche indecisione, ha cercato e cerca sempre: che cosa?
Qui facciamo un passo verso il tema che i nostri amici tratteranno. Che cosa si cerca nell’arte? Per dirlo molto brevemente, usando le parole di un grande critico e filosofo di queste cose, nell’arte l’uomo continua a cercare il presentarsi del reale, il presentarsi dell’esistenza. Perché, appunto, il titolo del Meeting parla dell’esistenza come certezza, non la certezza sul singolo particolare appena, non la certezza su cosa farai domani o se metterti con quel moroso o l’altro, o su quale facoltà fare. La certezza non significa dividere il mondo in bianco e nero: questo è manicheismo, non è cristianesimo. Significa invece una certezza intorno all’esistenza, al permanere e al presentarsi dell’esistenza come un’ipotesi da percorrere, come un luogo, una strada da percorrere, insomma l’esistenza come possibilità di esperienza per me. La realtà come possibilità, non di fregatura, ma di esperienza di cammino per me. E nell’arte, l’uomo ha sempre cercato questo: il presentarsi della realtà, il presentarsi del mondo, del reale, in mezzo a tutte le inquietudini, anche allo svuotamento di senso a cui l’arte spesso dà voce, più coraggiosamente di altri che invece di queste cose o non riescono o hanno paura di parlare. Per questo, l’arte e questi compagni di viaggio che sentiamo tali nell’affrontare il tema del Meeting di quest’anno: come Amleto, come Cézanne, come le sue mele, come il principe e le sue mele. Sentiamo questi compagni vicini in un cammino che ha a che fare con la certezza.
Era solo un modo per introdurre l’incontro: ci parleranno la prof. sa Beatrice Buscaroli, che molti di voi conoscono perché è già intervenuta altre volte qui al Meeting, e non solo. E’ conosciuta per la sua attività di scrittrice d’arte, di saggista, di curatrice di mostre, ha curato la Biennale d’arte due anni fa a Venezia, il padiglione italiano, sta curando – lo dico per chi è in giro male in questi giorni per Rimini – una bellissima mostra di scultura contemporanea qui a Castel Sismondo. Chi ha interesse per l’arte, oltre a vedere le bellissime mostre che ci sono al Meeting, magari può fare una capatina anche a Castel Sismondo. Comunque, è una curatrice d’arte importante, una critica d’arte, ha scritto da poco una bellissima monografia su Modigliani, pubblicata dal Saggiatore. Era solo per dare qualche piccola riga di presentazione. Do la parola a Beatrice Buscaroli che ci parlerà delle mele di Cézanne.
BEATRICE BUSCAROLI:
Le poche parole che il professor Rondoni ha usato per introdurre l’argomento sul dubbio nell’arte e sulle mele – questo titolo ha molto impegnato anche noi, perché era un titolo particolarmente ermetico – sono proprio il controcanto delle poche considerazioni che io dedicherò a Cèzanne, un’artista realmente epocale. Chi era qui l’anno scorso, ricorderà che abbiamo parlato di Michelangelo: quest’anno forse il compito è ancora più arduo, perché ci troviamo di fronte ad un artista che sorvola epoche diverse, che risolve e pone problemi in modo ancora più arduo di Michelangelo. Tutto ciò che è questo rapporto e questo desiderio di rapporto con la realtà, appartiene al problema del dubbio, della certezza, al problema delle immagini. Dal punto di vista biografico, Cézanne ha un’esistenza assolutamente semplice, nel senso che, come moltissimi artisti, è figlio di un padre che vorrebbe fargli fare un altro mestiere, ex cappellaio diventato banchiere, ricchissimo, sogna per lui un destino diverso. E invece Cézanne si introduce in questa vicenda della pittura: quando arriva all’età di lavorare, l’impressionismo ha già raggiunto la prima, la seconda, la terza mostra importante, siamo negli anni ’70. Soltanto per dire pochissime parole e per introdurre il problema di Cézanne: è un artista che accoglie l’eredità dell’impressionismo quando già questa eredità ha esaurito la sua sostanza principale, che la trasporta, la traghetta al nuovo secolo – lui è del ’39 e muore nel 1906 – dandole un significato completamente nuovo.
Quando parliamo di arte moderna, di arte contemporanea, quando parliamo di arte del Novecento, ossia dell’arte del secolo scorso, quello appena passato, abbiamo necessariamente a che fare con la figura e con il ruolo di Cézanne. Quello che stupisce e incanta, dal punto di vista del dubbio, da una parte, e della certezza, dall’altra, è proprio questo rapporto con la ricerca, con quello che è il fine di un artista che, oggi come oggi, nessun ammiratore di una mostra di Cézanne, nessun visitatore di un museo, potrebbe attribuire a lui. Per dirla in pochissime parole, Cézanne muore il 23 ottobre del 1906 e i necrologi alla sua morte dicono cose diverse e disparate: nessuno capiva più l’arte di questo artista che da molti anni si era allontanato da Parigi e aveva preso una strada completamente diversa da quella degli impressionisti, che in gran parte avevano esaurito il proprio compito ed erano stati seguiti dai successori di origine simbolista o divisionista. Il suo lavoro è considerato dai critici incompleto, sincero ma incompleto, imperfetto, impotente, classico oppure pazzo. E questo vi fa capire come un artista morto nel 1906 possa diventare la chiave di volta del ’900 per una serie di piccole circostanze che gli si chiudono intorno.
Ardengo Soffici, pittore e scrittore italiano, è a Parigi nel 1907, vede la mostra conclusiva dedicata a Cèzanne al Salon d’Automne e dedica a questa mostra una serie di scritti, che importeranno la grandezza di Cèzanne in Italia e spiegheranno all’Italia che cos’è il primitivismo, che cos’è il sintetismo e che cos’è l’arte di questo artista pazzo e primitivo, come dice Soffici, un Jacopone da Todi o un Giotto, che al tempo stesso è riuscito realmente a dare una sintesi di quello che c’era prima di lui, e di trasportarla al 900, senza averne una idea. Gli ultimi decenni della vita di Cèzanne sono contraddistinti da una grandissima solitudine, voluta, scelta. Non voleva parlare d’arte, non voleva chiacchierare, dipingeva, andava sul motivo, come diceva lui alla mattina, con un orario da impiegato, definizione che lui stesso trovò per sé. Se gli si chiedeva di incontrarlo, molte volte rispondeva di no perché perdeva tempo. Un grandissimo collezionista toscano di Cèzanne, Egisto Fabbri, che aveva raccolto decine di quadri che forgiarono il gusto italiano dei primi del ’900, gli scrisse una letterina per cercare di incontrarlo. Lui rispose:
“Gentile signore, io dipingo ma non so cosa dire d’arte”. Questo, per dirvi un artista concentrato, che vuole soltanto dipingere, che non ha tempo da perdere, che ogni momento è il suo bout, quello che in francese significa il suo scopo, la sua realizzazione: una promessa, una possibilità che, nel momento in cui lui pensa di realizzare, fa emergere il tempo perso.
Se Morandi, com’è noto, segnava l’orma delle scarpe per non sbagliare l’ombra che derivava dalla finestra e che si gettava sul tavolo di nature morte, non c’è dubbio che Cèzanne, di fronte alla montagna di Sainte Victoire, quando dice “Posso immaginare e rievocare lo stesso paesaggio appena un po’ a destra, appena un po’ a sinistra”, senta addosso a sé un compito e un dovere che è il motivo per cui i suoi contemporanei lo chiamavano pazzo. Da un certo punto in poi, lui esce dalla strada piacevole dell’impressionismo, esce dall’idea dei tramonti, dall’idea delle albe, dalla pioggia, da tutto quello che può essere l’atmosfera agréable di quello che gli impressionisti, disfacendo la tecnica della pittura, avevano realizzato. Per Cèzanne, riprodurre la natura è una specie di dovere morale, è un compito tanto più grande di lui, quanto più lui sente una sorta di necessità di mettersi alla prova, nonostante che il mercato, giorno dopo giorno, gli dica che sta fallendo. Lui a un certo punto sente la necessità di dimostrare con la pittura quelle che sono le sue idee astratte. In questo, è veramente il pittore destino, è il pittore destino per l’Italia perché ebbe l’avventura, la fortuna di avere un Soffici che fu suo ascoltatore, tanto in pittura quanto nelle idee, e fu capace di trasmettere all’Italia realmente la novità di Cèzanne che raccoglieva a posteriori, dice Soffici, il primitivismo degli antichi, mentre altri in quel momento lo facevano a priori.
Consideriamo che il cosiddetto primitivismo, ossia l’idea di richiamare una sintesi delle forme, sia nella figura che nelle cose, è di questi stessi anni. Cèzanne lo intuisce come una sorta di necessità morale, come una sorta di dovere nei confronti di un compito che è più grande di lui. Ma, come vi dico, non solo c’è Soffici e ci sono tutti gli artisti più importanti d’Europa, a Parigi, come diceva Modigliani. Negli anni tra il ’10 e l’inizio della guerra, a Parigi ci sono trentamila artisti, l’esercito di Annibale, commentava Bucci, un pittore di Firenze: un numero di artisti incredibile, tutti cercano, tutti fanno l’ accademia, tutti scrivono, tutti cercano comunque di scavalcare quel secolo che aveva rinnegato gran parte dell’antico e si presentava al futuro con un grandissimo dubbio. Cèzanne va avanti da solo, con un’idea che non ha nessuna certezza, perché la certezza non gli è data né dal mercato né dai compagni di strada né comunque da se stesso. Per farvi un esempio, Cèzanne – e questo è uno dei grandi incontri della storia – era compagno di liceo di Emile Zola, hanno un anno di distanza e quindi non sono compagni di scuola ma solo di liceo. Quando Emile Zola, con il quale Cèzanne ha un bellissimo epistolario, gli manda una copia de L’oeuvre, questo bellissimo romanzo in cui si intravede la figura di un pittore in difficoltà che sta cercando la sua strada, Cèzanne a tal punto ha il dubbio che il ritratto di questo artista incompleto, incompiuto e difficoltoso faccia intravedere qualcosa di se stesso, che interrompe la corrispondenza con Zola, che non riprenderà più.
Ironia della sorte, anche Claude Bonnet, che allora è un pittore molto più di successo, anche sul piano mercantile, di Cèzanne, si sente ritratto in questo personaggio di insuccesso che si chiama Claude Lantier, al punto da togliere la parola allo scrittore. Quindi, il personaggio è immerso nei propri dubbi, al punto da considerarsi e chiamarsi in alcune lettere “pittore per elevazione”, come faceva Michelangelo, vi ricordate? Lo dicevo l’anno scorso. Nel momento in cui dipingeva la Sistina, Michelangelo scriveva alla sua famiglia: “Per favore, indirizzatemi le lettere a Michelangelo scultore”, perché non voleva essere compreso in una definizione. E così, nel momento in cui Cèzanne è proprio preso nel clou della ricerca, del dubbio che per lui è la ricerca, si firma “pittore per elezione”. Al tempo stesso, questo epistolario è uno dei doni della storia del ’900, perché non riguarda quasi affatto la storia dell’artista ma la storia della sua anima, ci presenta dei rapporti straordinari come quelli di Zola, che si aprono e poi si chiudono, ci presenta la persona di cui stiamo parlando, sapendo che è l’artista che ha cambiato le sorti della storia dell’arte, non solo italiana: la storia dell’arte europea e mondiale di tutto il secolo.
Voi ricorderete, forse, dagli studi del liceo, quando si studiava quella frase che nessuno capiva: ”Refaire du Poussin sur nature”. “Rifare Pissarro sulla natura” vuole dire mettere un ordine morale e classico all’interno di quello che comunque gli impressionisti avevano scompaginato: questo è il dovere morale di Cèzanne, che però non ha pace e non trova una pacificazione in quello che fa.
Nel 1906, ci sono una serie di lettere che vanno dal luglio al 22 ottobre, quando muore, indirizzate in particolare al figlio Paul, con il quale aveva un pessimo e inconcluso rapporto, e a Emile Bernard, uno dei grandi simbolisti, teorico dell’arte del futuro. Cèzanne è attonito di fronte alla certezza della incompiutezza, dell’impotenza del suo lavoro, ma dall’altra parte, da quello che piace a noi, come ogni giorno si trova a lavorare di nuovo sul motivo, sur le motif, con questo senso del dovere, con questa indefessa volontà di rendere quello che Dio e la natura gli hanno dato. Pur nella certezza, che si moltiplica in questi ultimi mesi, quelli che precedono la sua grande scoperta mondiale, di avere fallito. Soltanto due parole sue, nel luglio del 1906: “E’ particolarmente caldo, continuo i miei studi, bisognerebbe essere più giovani, farne di più, bisognerebbe continuare, essere più potenti, più di questi momenti…”. Siamo agli ultimi mesi della sua vita. “Io continuo a dipingere, vado all’atelier, mi sono alzato tardi, dopo le cinque, studio tutti i giorni con piacere…”. L’idea di questo artista, che continua a sfidare la certezza di non essere riuscito, ma al tempo stesso la certezza di provarci, è assolutamente straordinaria. Il punto è una parola che lui definisce réalisation, la traduzione della sua idea di natura e di forma in un agglomerato di colori. Nessun altro gli può dire che ha realizzato un quadro se non lui stesso. Pochissimi giorni prima di morire, siamo al 21 settembre del 1906, scrive a Bernard, chiedendosi: “ … Arriverò allo scopo tanto cercato e così lungamente perseguito? Me lo auguro, ma finché non ci arrivo vive in me uno stato di grande malessere. Studio continuamente sulla natura e mi sembra di fare dei lenti progressi…”. Considerate che questo è un artista di 67 anni, che morirà 20 giorni dopo per essere stato sorpreso da un lungo acquazzone, messo a letto dal medico e tornato poi a dipingere un ritratto, morto per necessità. Non aveva idea di aver raggiunto la certezza, ma riuscì a trasmettere la certezza agli altri.
Quando il ’900 capì che Cèzanne era sì la conclusione dell’impressionismo attraverso il primitivismo, che voleva dire il recupero del ’400 e del ’500, trovò una certezza che lui aveva intravisto per gli altri, forse non per sé, ma di cui aveva veramente individuato i passaggi. Allora si parlava di solidificazione dell’impressionismo, con una parola che adesso è quasi impressionante. In realtà, tutto quello che compie Cèzanne è il compito che per 20 e 30 anni gli artisti faranno: chi da solo, chi attraverso scuole e movimenti, negli anni Venti, Trenta, Quaranta. Questo artista morì come uno sconfitto assoluto quando, come succede in tanti casi, pochi mesi dopo si rivelò, non tanto nel mercato, che interessa poco, una realtà nuova dell’arte. L’Ottocento, coi suoi peggiori dubbi, era stato superato da un Novecento che aveva ricreato il rapporto con l’antico.
Tutto questo riguarda anche un personaggio che in quei mesi frequentava lo stesso Salon d’Automne, un poeta che frequentava Soffici: Rainer Maria Rilke. Così come Modigliani, così come Picasso, così come tutti questi personaggi che frequentavano la Parigi del 1906, 1907, Rilke vede la grande retrospettiva e impara da quello che vede nelle opere di Cèzanne e da quello che si comincia a dire di Cèzanne, perché nasce una leggenda su di lui. Impara il senso del lavoro, impara il senso del dovere e impara l’idea di costruire un’opera d’arte sopra l’idea stessa dell’opera d’arte. Le lettere che Rilke scrive tra l’aprile e l’ottobre del 1907, indirizzandole alla moglie scultrice, in quei mesi a Brema, sono la costruzione di un pensiero d’arte, sono la costruzione di un poeta che di lì a poco affiderà ad un romanzo importantissimo e alle nuove poesie la sua realizzazione. Sono la certezza europea che quello che Cèzanne intravedeva era stato realizzato. Pur nel dubbio e nella sofferenza, Cèzanne aveva raggiunto quella linea pura che rilanciava al ’900 tutta la storia dell’arte, in questo caso, la storia della letteratura e la storia delle parole.
DAVIDE RONDONI:
Grazie alla professoressa Buscaroli. La parola adesso va a Piero Boitani: passiamo dalle mele al principe, non solo perché Piero Boitani è un principe della critica letteraria, un noto comparatista, come si dice, uno che fa dialogare anche le letterature di mondi diversi. Ha pubblicato un libro intorno alla presenza del Vangelo nell’opera di Shakespeare. Poi, tanti libri, uno bellissimo sulle parole alate, cioè sulla presenza delle cose con le ali in mezzo alla letteratura. Adesso ha appena finito un libro sulle stelle. Oltre ad essere un amico, è uno degli studiosi più accreditati in Italia e all’estero sulla letteratura italiana e sulla grande capacità di comparare le letteratura. A te la parola.
PIERO BOITANI:
Avete visto, poco fa, tra le immagini che scorrevano sullo schermo, quella terrificante dei tre teschi di Cèzanne? Ecco, quella è l’immagine tradizionale di Amleto. Nelle iconografie tradizionali dell’800, Amleto veniva mostrato sempre con un teschio in mano, cosa che ha effettivamente nel dramma, perché a un certo punto incomincia a giocare con il teschio dell’ex-buffone di corte, Yorick. Quindi, è appropriato. Questo hanno in comune Cèzanne ed Amleto, per il resto null’altro. Forse. Amleto è, come sapete tutti, il principe del dubbio, l’uomo più incerto che si possa immaginare nella storia della letteratura, un archetipo del moderno, come personaggio, come uomo e anche come dramma, perché la prima differenza che bisogna fare è proprio tra il dramma, la storia di Amleto, e il personaggio Amleto. Parto un momento da questa cosa del dramma e della trama, anche per rinfrescare la memoria a chi non se la ricordasse. La trama di Shakespeare sarebbe normalissima se Shakespeare fosse un drammaturgo normale, che non è, invece. Sarebbe quella di un principe ereditario di Danimarca, al quale compare a un certo punto una notte il fantasma del padre che gli racconta che il fratello, cioè lo zio di Amleto, ha usurpato il trono, lo ha avvelenato, versandogli un veleno nell’orecchio mentre lui dormiva nel giardino, e gli ingiunge di vendicarlo. Tutto andrebbe perfettamente bene, ci sarebbe un dramma della vendetta come quello di Oreste nei confronti di Clitennestra, di Edipo nella tragedia di Eschilo, di Sofocle e di Euripide, se non fossimo nel Seicento e se non fossimo soprattutto con Shakespeare.
Perché Amleto non compie mai questa vendetta come dovrebbe. Il figlio ha il dovere di vendicare la morte del padre sull’uccisore. Poi c’è anche la questione della madre che ha sposato subito dopo l’usurpatore, ma questo lasciamolo per un momento da parte. In realtà, Shakespeare lascia nella trama dell’Amleto tutta una serie di fili appesi per aria che non porta a conclusione. C’è il fantasma che appare e che chiede al figlio la vendetta: il primo problema è quello del fantasma, perché viene visto dalle sentinelle: ricordate che Amleto si apre in maniera del tutto strana, semplicemente con un “Chi va là”? Lo vedono le sentinelle, lo vede l’amico di Amleto, Orazio, e poi lo vede Amleto, più tardi. Però non lo vede la moglie, la vedova di quello stesso personaggio, padre di Amleto e suo marito. Dunque, sono insieme a colloquio, la madre e il figlio, Gertrude e Amleto, compare il fantasma e lui indica alla madre: guarda là, guarda là, pentiti!, ecc. E lei dice: Ma io non vedo niente! Eppure tutto quello che è, lo vedo, quindi, cosa e chi è questo fantasma? Secondo problema che riguarda il fantasma. Il fantasma gli dice: guarda che mio fratello ha compiuto questo delitto, mi ha ammazzato, e quindi vendicami! Amleto però non è come Oreste, vuole la certezza. Lo zio, che poi ha preso anche il trono, ha rubato il posto a lui perché lui è il principe ereditario, ma ha sposato anche la mamma Gertrude, e quindi gli ha fregato, per così dire, anche il posto. Amleto vuole essere sicuro che sia così. Dice a un certo punto, in uno dei suoi famosissimi monologhi: Ma il fantasma potrebbe essere mandato dal demonio per perdermi. Cioè, mi spinge al delitto così si prende la mia anima e via. Io devo essere sicuro, devo avere la prova che sia stato mio zio a uccidere mio padre.
Questa prova non la ottiene mai, perché ha un solo modo per ottenerla, pensa lui: mettere in scena un dramma davanti alla corte, che è una sorta di copia, con qualche variazione, dell’assassinio del padre, e farlo recitare davanti al re, cioè allo zio usurpatore. Dice: vediamo le reazioni del re. Se il re confessa apertamente la sua colpa con le parole, siamo a posto: il play, il dramma, è la cosa con la quale acchiapperò, afferrerò, la coscienza del re. Se il re si esprime in un certo modo, confessa. In realtà, cosa accade? Che durante il dramma, il re, a un certo punto, dice alla corte: “Give me some light: away!”, “datemi della luce, via!”. Si alza e se ne va, quindi non confessa un bel nulla, anche se Amleto sembra prendere queste parole dello zio come una sorta di confessione. Problema ulteriore, Claudio, lo zio usurpatore. A un certo punto lo vediamo in scena confessare: è inginocchiato nella cappella del palazzo reale, confessa di avere ucciso, ma lo sentiamo noi, Amleto è dietro la porta e non lo sente, perché nella finzione teatrale lo zio sta parlando a se stesso, si sta confessando a Dio. Quindi, Amleto è lì davanti e non lo sente, però reagisce e dice: adesso lo potrei uccidere, in questo momento potrei compiere la vendetta perché lui è lì, non ci sono guardie, non c‘è nessuno, è solo. Lo ammazzo e lo spedisco in paradiso, perché lui si sta confessando: ma sta pregando Dio e non gli posso fare questo favore, se veramente ha ammazzato mio padre, non lo posso mandare in paradiso. E quindi, non si vendica. Problemi non indifferenti.
Ulteriore problema che riguarda l’assassinio, è la parte che in tutto questo ha avuto la madre Gertrude. Il fantasma di Amleto senior per così dire, dice ad Amleto junior, al figlio: lascia perdere tua madre, non c’entra con la vicenda, ha peccato soltanto di lussuria, nel senso che ha sposato mio fratello soltanto un mese dopo il mio assassinio. Ma Amleto non sembra pensarla così e rimprovera la madre costantemente, fino alla fine. Ulteriore problema della trama di Amleto: sapete che lui si finge pazzo, è uno dei momenti più straordinari. Si finge pazzo, però ci sono dei momenti in cui Amleto è in preda alla più completa malinconia, che è una forma di follia. Quindi, si finge pazzo ma forse è pazzo. Poi, c’è il problema dell’amore tra Amleto e Ofelia. Amleto scrive delle lettere a Ofelia, sembra innamoratissimo di lei, ma ad un certo punto c’è una scena famosissima, successiva all’Essere o non essere, al quale ritornerò, una scena in cui incontra Ofelia in un corridoio del palazzo reale e la tratta malissimo. Le dice: Vattene in convento, perché vorresti generare altri peccatori? Proprio in maniera brutale, tanto che Ofelia impazzisce. E Ofelia impazzisce sul serio, non per finta, come Amleto. Ofelia impazzisce per essere stata respinta da Amleto e anche perché Amleto stesso le ha ammazzato il padre in un impulso. Polonio, che è il primo ministro del re Claudio, si è nascosto dietro una tenda per spiare il colloquio tra Gertrude e il figlio Amleto. Amleto dice: Ma chi c’è là dietro, un topo? Zac! E con la spada lo infilza, pensando forse che sia il re.
Ofelia impazzisce e muore. E’ una delle scene più famose, sono versi meravigliosi: la trovano annegata in un torrente, un pozzo. Si è uccisa o è morta annegata? Il problema arriva poi di nuovo, verso la fine del dramma, perché c’è la scena nel cimitero, mentre i becchini stanno scavando la fossa di Ofelia. Il prete che arriva per la cerimonia dice: Ce l’ha fatta per un pelo ad essere sepolta in terra consacrata, perché il caso era dubbio. Se la suicida si è ammazzata, non può essere sepolta in terra consacrata. Se invece era semplicemente annegata – altro dubbio -, era giusto seppellirla. In quella stessa scena in cui siamo sulla tomba, presso la fossa in cui Ofelia viene sepolta, con Amleto che è presente per strane ragioni, arrivano il re, la regina, il fratello di Ofelia, che nel frattempo è tornato da Parigi. Amleto salta nella fossa, urlando a tutti quanti: Io sono Amleto il danese! E’ la prima volta che si dichiara tale. Cioè, io sono quello cui spetterebbe il trono di Danimarca. Ho amato Ofelia più di un milione di fratelli. Dunque, l’amava veramente? L’amava, non l’amava, l’ha trattata malissimo: adesso invece sembra dire che era innamoratissimo di lei.
Vedete, nella stessa trama, quanti fili che pendono e che non si sa bene come far tornare? Il filo più grosso che pende in questa trama è quello che riguarda il viaggio di Amleto in Inghilterra, cioè nella patria di Shakespeare. Amleto è il principe ereditario di Danimarca, ha studiato all’università di Wittenberg, in Germania, e si sente quando parla. A un certo punto, il re Claudio, per toglierselo di torno, lo spedisce in Inghilterra, perché ha capito che Amleto è pericoloso, che questo dolore, questa pazzia, questo lutto, che Amleto, sempre vestito di nero, si porta dentro, sono pericolosi, anche se Amleto non ha ancora fatto nulla contro di lui. Da bravo politico, dice: Mandiamolo via. Lo mette su una nave insieme ai due presunti amici, Rosenkranz and Guildenstern, e lo spedisce in Inghilterra, con delle lettere che chiedono agli inglesi di ucciderlo, di decapitarlo appena mette piede sul suolo inglese. Gli inglesi devono qualcosa alla Danimarca, quindi lui manda questa lettera: Siccome mi dovete qualcosa, fate fuori questo qua. Cosa che non succede, naturalmente, perché misteriosamente, a un certo punto, Amleto parte per l’Inghilterra, e poi lo rivediamo a Elsinore. Leggiamo la lettera di Amleto a Orazio. Dice: Eravamo appena partiti e siamo stati assaliti dai pirati che mi hanno catturato, forse chiedevano un riscatto – ma non hanno mandato un messaggio al re e alla corte danese per chiedere un riscatto -, poi ti spiego gli altri particolari quando ci incontriamo. Vieni a incontrarmi in Danimarca.
Quando si incontrano in Danimarca, spiega qualcosa in più e di diverso, non parla di pirati, dice: Tanto quella storia lì già la sai, adesso ti dico che cosa è successo. E’ successo che una sera di tempesta tremenda, mentre passeggiavo sulla tolda della nave avvolto in un mantello, a un certo punto sono entrato nella cabina di Rosenkranz and Guildenstern e ho trovato la lettera scritta, la commissione con il sigillo di mio zio, che chiedeva agli inglesi di ammazzarmi. Allora, cosa ho fatto? Ho scritto un’altra lettera, dice, con la calligrafia del re, per fortuna avevo il sigillo reale con me: Mettete a morte i latori della presente. I “latori della presente” sono Rosenkranz and Guildenstern i quali, come conclude Orazio, proseguono per l’Inghilterra, e lì succede quel che deve succedere, mentre lui torna a casa, a Elsinore. Ma non sappiamo come torni, perché torni, se sia stato o meno in mano ai pirati, se ci sia stato il riscatto, in realtà non sappiamo nulla. In più c’è questa incertezza, che non è solo di Amleto ma anche nostra, nell’assistere allo spettacolo. Amleto è un dramma molto lungo, tant’è vero che viene raramente messo in scena tutto intero, è lungo parecchio, durerebbe circa cinque ore a metterlo tutto in scena.
Quando ritorna dall’Inghilterra, Amleto è cambiato. Non è più l’Amleto dubbioso, radicalmente dubbioso, che avevamo nella prima parte del dramma. L’Amleto della prima parte del dramma è quello che pronuncia le celebri frasi. Quando arrivano Rosenkranz and Guildenstern: Eh, ma quanto è bello questo mondo, il firmamento, le stelle in cielo, la terra. L’uomo è il modello di tutti gli animali. Un bellissimo passo che finisce così: “And yet, to me, what is this quintessence of dust?”, “Eppure, per me, che cosa è questa quintessenza di polvere?”. Cioè, tutto quel bellissimo universo non è che quintessenza di polvere. Questo era Amleto prima di partire, quello che ha il dubbio non solo esistenziale ma essenziale, per così dire, il dubbio sull’essere e il non essere, al centro della propria mente, del proprio cuore. E’ il famoso monologo che adesso vi leggo, perché è un momento straordinario dell’arte mondiale di tutti i tempi. Dunque, Amleto non si chiede soltanto se bisogna vivere o suicidarsi, questa sarebbe una domanda facile. Dice: Bisogna vivere e sopportare tutte le cose cattive del mondo, vivendo, oppure invece suicidarsi? Basta un pugnale e uno s’ammazza. Non è così: Amleto si chiede proprio – perché è sempre assoluto nelle sue domande – se essere o non essere, quella è la domanda capitale, come sapete, nella filosofia occidentale, da Parmenide in poi: Parmenide, Platone, Aristotele e via di seguito, va avanti persino ai nostri giorni, naturalmente, basta pensare ad Heidegger. Dunque, si chiede questo: Essere o non essere? E dice così, ve lo leggo rapidissimamente, prima in inglese, perché è troppo bello, e poi in italiano. “To be or not to be, that is the question”. “Essere o non essere, questo è il problema: s’egli sia più nobile soffrire nell’animo le frombole e i dardi dell’oltraggiosa Fortuna, o prender armi contro un mare di guai, e contrastandoli por fine ad essi. Morire, dormire… nient’altro; e con un sonno dire che noi poniam fine alla doglia del cuore, e alle mille offese naturali, che son retaggio della carne; è un epilogo da desiderarsi devotamente, morire e dormire! Dormire, forse sognare, sì, lì é l’intoppo; perché in quel sonno della morte quali sogni possano venire, quando noi ci siamo sbarazzati di questo terreno imbroglio? deve farci riflettere; questa è al considerazione che dà alla sventura una sì lunga vita; perché chi sopporterebbe le sferzate e gl’insulti del mondo, l’ingiustizia dell’oppressore, la contumelia dell’uomo orgoglioso, gli spasimi dell’amore disprezzato, l’indugio delle leggi, l’insolenza di chi è investito d’una carica, e gli scherni che il paziente merito riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe fare la sua quietanza con un semplice pugnale? chi vorrebbe portar fardelli, gemendo e sudando sotto una gravosa vita, se non che il timore di qualche cosa dopo la morte, il paese non ancora scoperto dal cui confine nessun viaggiatore ritorna, confonde la volontà, e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbiamo, che non volare verso altri che non conosciamo? Così la coscienza ci fa tutti vili, e così la tinta nativa della risoluzione è resa malsana dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e importanza per questo scrupolo deviano le loro correnti e perdono il nome di azione…”.
Questo è Amleto prima di partire per l’Inghilterra. Notate che anche qui ci sono dei problemi perché, per esempio, lui dice che quello che viene dopo la morte è il paese sconosciuto dal quale nessuno mai ritorna: ma come? Ha appena visto il fantasma del padre tornato da lì… E poi Amleto è cristiano, almeno teoricamente, quindi, dovrebbe sapere che Cristo è tornato dalla morte, invece esprime dubbi persino su questo. Ma quando torna dall’Inghilterra dove non ha mai messo piede, Amleto è cambiato. C’è un colloquio che lui ha con Orazio, l’amico fedele, compagno di studi universitari, prima della sfida che deve combattere contro Laerte, cioè il fratello di Ofelia, il figlio di Polonio, sfida provocata dal re Claudio che la trucca, come sapete, perché fa cospargere le spade di Laerte di veleno, in modo che, appena quello lo tocca con la spada, Amleto muoia avvelenato. E allora Amleto, prima del combattimento, dice a un certo punto a Orazio: Mi sento male al cuore. Non è che stia per avere un infarto, sta per avere un infarto, diciamo psicologico, esistenziale. Orazio gli dice: Va bene, ma mica devi combattere per forza questo duello, basta che dici che non ti va, rimandi… In fondo, sei principe ereditario, puoi fare quello che vuoi! E Amleto risponde: No, no, sfidiamo le predizioni. E poi questa frase: “There is a special providence in the fall of a sparrow”. “C’è una provvidenza speciale anche nella caduta di un passero”. Questo è il Vangelo di Matteo, per chi non se lo ricordasse, e anche di Luca: c’è provvidenza speciale anche nella caduta di un passero! Amleto dice una frase di questo genere?! Ma come, Amleto che aveva in dubbio tutto, che diceva che il mondo era un giardino non sarchiato, che cadeva in decadenza, e tutto andava a marcire, a morire, il firmamento era niente altro che quintessenza di polvere, adesso dice una frase del genere, cita il Vangelo e poi aggiunge in maniera oracolare tre, quattro parole: “Se è ora, non è dopo; se non è dopo, sarà ora; se non è ora, dovrà pur succedere. Essere pronti è tutto”. “If it be now, ’tis not to come; if it be not to come, it will be now; if it be not now, yet it will come – the readiness is all… Let be”. “Essere pronti è tutto”, questo pure viene dal Vangelo di Luca, dove Gesù dice ai discepoli: “State attenti, state sempre pronti!”, “Estote parati”.
Allora, come mai Amleto, alla fine del dramma, mentre sta per morire – perché alla fine del duello muore veramente, muore avvelenato, ammazza tutti gli altri ma muore anche lui – ha questa certezza? Perché questa, a un certo punto, è una certezza. C’è provvidenza speciale: speciale è un termine calvinista, significa una provvidenza che non è quella generale per tutto l’universo ma quella che riguarda gli esseri particolari, provvidenza speciale anche nella caduta di un passero: se un passero cade dal ramo, per terra, morto, vuol dire che Dio l’ha previsto, ha provvisto, è nella provvidenza. Questa cosa, Shakespeare non la spiega mai. E’ vero, Amleto ha fatto esperienza della morte, nel frattempo. Certamente ha sperimentato la morte nel viaggio in Inghilterra, se non altro mandando a morte Rosenkranz and Guildenstern, ha ucciso Polonio, ha visto il fantasma del padre, se è quello effettivamente, ha avuto esperienza della morte e qua, prima di pronunciare questa frase, ha tenuto in mano il famoso teschio di Yorick con il quale ho cominciato. Ha toccata la morte con mano, non è uno che gioca con l’idea di morte, non è un filosofo. No, eccolo qua, il teschio puzza, lo sente, lo butta dentro la fossa. Dice: Ma perché finiamo tutti così, anche Alessandro Magno è finito così? Con questa puzza? Ha fatto esperienza della morte, ma questa certezza ha poco a che vedere con la certezza della morte: è qualcosa che va al di là della morte, lui che diceva che quello è il paese sconosciuto, dal quale nessun viaggiatore ritorna, nel quale lui tra poco sta per andare, perché tra poco, alla fine del duello, le spade avvelenate… La madre beve il calice avvelenato dallo zio Claudio, lui viene ferito al costato da Laerte e la spada è avvelenata, lui uccide Laerte con un’altra spada avvelenata, preso a questo punto dalla follia, uccide finalmente anche lo zio: abbiamo aspettato cinque ore perché compisse la vendetta e finalmente l’ammazza, ma l’ammazza non per l’uccisione del padre, l’ammazza perché Claudio ha voluto ammazzare lui. Cioè, lui capisce che Claudio ha ordito questo duello in cui avrebbe vinto Laerte. Laerte glielo spiega in punto di morte. Allora, finalmente, Amleto dice: Se lui voleva ammazzare me, io ammazzo lui. Compiuta è la vendetta. Chiamiamola vendetta ma non era tale. Morto Amleto, Orazio rimane lì con il cadavere: sapete che sta arrivando quello che poi erediterà il trono di Danimarca, cioè Fortebraccio di Norvegia, perché la stirpe si esaurisce con Amleto. E’ una specie di scena nibelungica in cui sono tutti morti, i cadaveri nella sala, sangue e veleno dappertutto. Orazio prende l’amico tra le braccia e dice: Che il volo degli angeli ti porti, cantando, al tuo riposo!. Non è Amleto che parla, naturalmente, Amleto è morto, è Orazio che sembra immaginare qualche cosa di più, una qualche certezza in più per Amleto. Non è possibile che Amleto vada in paradiso, dopo tutto quello che ha combinato, tutti questi ammazzamenti: lo escluderei proprio, però Orazio intravede qualche cosa.
Allora, io vorrei concludere dicendo: la trama rimane quella che è, non possiamo fare nulla, é anche talmente eccitante da aver dato luogo, come sapete, a un’infinità di riscritture: c’è chi ha scritto Rosenkranz and Guildenstern, chi ha parlato delle avventure di Orazio e via di seguito. Anche il dramma è talmente sconclusionato, ambiguo, incerto, che i filosofi, i quali non si dovrebbero mai occupare di letteratura ma se ne sono occupati, ne hanno, come sapete, scritto: Hegel, Kierkegaard, Nietzsche, Freud, che non era un filosofo, ma lo voleva essere. Sapete che ci sono scene clamorose nella letteratura occidentale che rifanno scene letterarie, rifanno Amleto: c’è Goethe, c’è Joyce con Ulisse, c’è Pirandello che fa vedere al Fu Mattia Pascal una rappresentazione teatrale del dramma di Sofocle su Oreste, L’Elettra, e a un certo punto dice: Vedi quel fondale di cartapesta? – è la storia di Oreste -, se hai un coltello in mano e gli fai uno sbrego cosi, non è più la storia di Oreste ma di Amleto. Quello che voglio dire, è che la trama di Amleto è quella che è, radicalmente incerta, Amleto stesso è radicalmente incerto in tutta la prima parte del dramma. Nella seconda parte, non si sa perché, e dunque l’incertezza diventa nostra in quanto spettatori, esseri umani, Amleto acquista però qualche certezza. Shakespeare andrà avanti nei drammi successivi e metterà in scena, per esempio, Re Lear, che è una tragedia infinita. Ma ricordate che c’è una scena di Re Lear, dove Lear dice alla figlia Cordelia, poi moriranno entrambi: Prenderemo su di noi il mistero delle cose, come se fossimo le spie di Dio. Dunque, va un poco più avanti. Poi Shakespeare scrive i cosiddetti drammi romanzeschi, gli ultimi della sua vita, e lì prefigura storie completamente diverse, che non hanno più nulla, o quasi nulla, a che vedere con Amleto, se non i pirati e le tempeste, e dove invece i lumi, che in Amleto si intravedono in fondo al tunnel, in fondo al dramma, cominciano a splendere più risolutamente. Grazie.
DAVIDE RONDONI:
Ringrazio molto i due amici che ci hanno parlato, perché andiamo via con un sacco di problemi in più. Perché chi vuole aiutarti a essere certo, non ti nasconde i problemi, anzi: un uomo certo lo vedi dal fatto che non ha paura dei problemi. E’ chi ha paura dei problemi che dimostra tutta la sua incertezza! Infatti, non per fare collegamenti strani, non è il mio forte, anche il presidente Napolitano, nel discorso che è venuto oggi a fare al Meeting, ha detto: “Andate avanti!”. Cioè, siete persone che possono camminare. Mi aspetto che andiate avanti. Senza nascondervi i problemi, che ci sono. Allora, anche nell’opera d’arte, nelle opere di questi due grandi giganti che abbiamo appena toccato – la bravura dei nostri ospiti è stata nel toccare, andando in profondità ma senza doversi né potersi dilungare più di tanto – ci si pongono una serie di problemi in più. Non a caso, ricordava anche il professor Boitani, su queste cose si continua a discutere, sull’arte, come sulla vita, si continua a discutere. Il fatto di essere certi non ferma la discussione, sai che noia! Un mondo di certi non è un mondo noioso, in cui non si discute più, in cui non si approfondisce più, in cui non si litiga più, o in cui almeno non si prova ad entrare di più in quello che addirittura Shakespeare ha lasciato incompiuto. Oggi il mio amico editore Dalai mi ha regalato un librone così su Shakespeare, sulle radici cristiane di Shakespeare, perché di tutto questo si continua a discutere. E non a caso Rilke – rubo una citazione alla professoressa Buscaroli -, parlando del vecchio Cèzanne e delle sue mele, indica che cosa sia il segno supremo del fatto che un uomo è sostenuto da un’immensa certezza. Non è che della vita hai una specie di vademecum o di libretto di istruzioni, che ti rende certo cosa fare, è che la vita sta diventando un’immensa certezza. Qual è il segno supremo del fatto che la tua vita sta diventando un’immensa certezza? Non che non sbagli un colpo, ma il segno supremo è che lavori, che nella vita stai come in un lavoro, in un compito, come abbiamo detto prima ancora a proposito di Cèzanne. Infatti Rilke dice, del vecchio Cèzanne: “Così dipinge tornando sui suoi vecchi disegni”. Come a dire che la vita torni sulle cose, sulle esperienze, per comprenderle di più. Tornando sui suoi vecchi disegni, predispone le sue mele sui copriletti, mette in mezzo le bottiglie di vino, e come Van Gogh, dice Rilke “di queste cose”, di queste mele, “fa i suoi santi, le costringe” – sentite che bello – “le costringe ad essere belle”, perché il lavoro dell’uomo nel mondo è costringere il mondo a rivelare la propria bellezza. E il lavoro, che vuol dire studiare, fare le cose che si fanno, si fa quasi per costringere il mondo a rivelare la sua bellezza: “le costringe ad essere belle” dice Rilke, a significare il mondo intero, tutta la felicità, tutto lo splendore, ignorando quasi chi lo ha portato a fare questo. E sentite questo strano finale pittoresco con cui ci lasciamo. Rilke dice: “Questo pittore siede nel giardino come un vecchio cane, il cane di questo lavoro che lo richiama, lo picchia, gli fa soffrire la fame”. Cioè, questo lavoro non ti lascia in pace, come un cane che ti richiama. Il lavoro della vita, quando inizi ad intraprenderlo, a sentirne il gusto perché la vita sta diventando un’immensa certezza, è come un cane che ti richiama, come una specie di compito che non ti lascia in pace.
Allora, io ringrazio ancora i nostri due amici, vi invito a vedere la mostra di scultura contemporanea, per chi vuole, a Castel Sismondo, vi invito a cercare i libri del professor Boitani, del professor Buscaroli, di cui avete sentito la bravura, e vi invito tutti, naturalmente, alla festa di questa sera in piazza Cavour, dove si balla e si ascoltano delle cose belle. Buonasera.
(Trascrizione non rivista dai relatori)