Chi siamo
Il popolo nella scrittura dei grandi
Ha partecipato: Ezio Raimondi, presidente dell’Istituto Beni Culturali dell’Emilia Romagna
Raimondi: Una conversazione comporta sempre alcune regole iniziali. Ho alcune ipotesi, alcune intenzioni che tocca a chi parla di cominciare ad esporre. Una è che i grandi di cui si parla nel titolo sono in realtà due testi, due scrittori, i Promessi Sposi del Manzoni da una parte e Guerra e Pace di Tolstoj dall’altra. Ma una volta detto questo, vorrei subito aggiungere che l’intenzione della mia conversazione sarebbe quella, limitata e nello stesso tempo ambiziosa, di mostrare, ma tocca a chi ascolta di verificare se questo è possibile, come la letteratura apparentemente del passato, possa essere per noi lettori un esercizio di pensiero e un’occasione vera di riflessione su qualche cosa che ci riguarda molto da vicino. E in questo caso la seconda ipotesi è che vorrei verificare se la lettura parallela o comparata dei Promessi Sposi e di Guerra e Pace, spesso nella nostra tradizione contrapposti, non possa poi dare qualche lume all’uno e all’altro testo, soprattutto quando vi sia come elemento unificante il problema di una comunità, vogliamo chiamarla subito popolo, che si sottrae a tutte le strutturazioni del potere.
Non sono io colui che comincia col porre una correlazione tra i due scrittori, tra due dei grandi romanzi dell’Ottocento, perché, per citarne uno solo, una notevole scrittrice americana, morta qualche anno fa, Mary Mc Carthj, che è anche stata una notevole lettrice di testi e una notevole sperimentatrice di letture critiche, più volte ha cercato di vedere Manzoni insieme con Tolstoj. In uno dei suoi ultimi libri, intitolato non a caso Il Romanzo e le Idee, parlando proprio del fatto che il grande romanzo dell’Ottocento è un romanzo di idee e di grandi dibattiti ideali affidati ai personaggi e anche ai vari narratori che si giocano all’interno del testo narrativo, poneva in rapporto il mondo manzoniano e il mondo tolstojano dopo averlo già fatto in un testo precedente ancora più significativo, uscito intorno al 1968, che aveva come titolo La Scrittura sul Muro, dove analizzava il ruolo della natura nel romanzo dell’Ottocento e nel romanzo moderno. Interrogandosi sul perché la natura avesse perso la funzione importante che aveva nei testi del passato poneva insieme Tolstoj e Manzoni dicendo (e a questo punto cominciava un confronto veramente più profondo) che l’apparizione senza senso di Napoleone in Guerra e Pace non è molto diversa dall’apparizione di Wallenstein e della Guerra dei Trent’Anni nei Promessi Sposi. E, curioso, lettrice anglosassone, citava, addirittura in italiano, la famosa battuta che si legge nel capitolo XXX dei Promessi Sposi: “Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merade, passano i cavalli di Anhalt”.
Secondo Mary Mc Carthj la discussione sulla storia e sul mistero della storia, il tempo, la natura, il passare delle cose, la violenza che è al centro di Guerra e Pace, in battute come quelle emerge anche nei Promessi Sposi. Non aggiungeva, però, che in realtà, insieme con questa idea della guerra che passa, degli eserciti che si avvicendano, il Manzoni poi aveva costruito tutto un tema molto più profondo. E allora bisogna fermarsi per un momento sul testo per ravvisarlo più da vicino e poi procedere di nuovo alle correlazioni che ci siamo proposte.
Ciò che la scrittrice americana citava è in realtà la visione dall’alto che coloro che si sono rifugiati nei luoghi alti dell’Innominato, attraverso anche le voci che vengono dette dalla pianura, si ridicono sul passare di questo flusso terribile che è il movimento della guerra, la periferia della Guerra dei Trent’Anni, una terribile guerra, forse la prima guerra di devastazione in senso moderno. Ma nei Promessi Sposi i capitoli XXVII e XXVIII avevano proprio anticipato quel motivo. Nel capitolo XXVII si finiva dicendo che gli eventi pian piano erano divampati e che tutto era stato proceduto come da un grande turbine che a poco a poco aveva coinvolto tutte le persone, anche quelle più basse, e le aveva travolte come foglie passe e leggere e, a questo punto, cominciava di nuovo il riferimento ai piccoli personaggi, al microcosmo privato, Renzo, Lucia e gli altri, coinvolto in questi grandi eventi. Nel capitolo XXVIII era stato dato, di nuovo in una pagina straordinaria, sempre finale, quasi di tipo cinematografico, l’annuncio di come erano arrivate le truppe germaniche e come esse si erano a poco a poco sparse in tutte le direzioni nei paesi, col rullo dei tamburi, col silenzio, con qualche cosa di orrendo. Il capitolo XXX vedeva il riflusso di tutto questo, ma la guerra, vista siappure così in una prospettiva periferica, non era il centro della battaglia come in Guerra e Pace, ma era sempre dello stesso genere come in Tolstoj, dove era un evento naturale, misterioso, terribile, che coinvolgeva anche la storia degli uomini. E come in Tolstoj, la guerra vedeva la distruzione degli eroi; non era Napoleone, non erano i grandi generali protagonisti, era qualche cosa di diverso, era il mondo anonimo, era quello che Tolstoj chiamava già il popolo, questa specie di saggezza che subisce e tuttavia partecipa, era, dicevo, la guerra in luogo dell’esaltazione e nello stesso tempo come distruzione dell’eroico. E come dicono gli studiosi tolstojani, era proprio l’elemento popolo con quello che è l’incarnazione di ciò che fluisce nel tempo di là dalle strette misure della storia, a smentire l’idea dell’eroismo di Napoleone e di tutti gli altri.
In Guerra e Pace, come molti ricorderanno, si salva il capo dell’esercito russo, Kutusov, ma solo perché in lui ritorna la vecchia saggezza popolare, non è un eroe, è un uomo comune che sente di interpretare il senso delle persone anonime, piccole, portatrici della sofferenza e di quello che è l’unico vero eroismo. Anche nei Promessi Sposi gli eroi della guerra, siappure in altro modo, sono sistematicamente derisi. Tutti i generali, dallo Spinola a Cordova (non sono Napoleone, ma personaggi degli eventi italiani della Guerra dei Trent’Anni), sono visti come entità che non riescono a far fronte a ciò che vi è di più profondo, nella violenza e nella complessità delle cose. E qualcuno addirittura ricorderà, visto che l’enumerazione del passaggio degli eserciti cominciava con Walleinstein, che all’inizio del romanzo c’era un lungo dibattito nella casa di questo piccolo signore di campagna, il palazzotto di don Rodrigo, e si parlava da una parte di Wallenstein, dall’altra del conte Duca Olivares, cioè di alcuni personaggi eminenti del grande teatro della Guerra dei Trent’Anni. Chi ascoltava era padre Cristoforo, un rappresentante di un’altra entità che è il popolo. A poco a poco queste figure si sbriciolavano e venivano ad un certo punto sottoposte ad una sorta di distruzione satirica di un umorismo apparentemente bonario, ma viceversa radicale e distruttivo. Tanto nel romanzo italiano quanto nel romanzo russo, la guerra, la violenza, il problema della storia e del potere sono sentiti con una radicale forza interrogativa e portano alla distruzione del mito dell’eroe e alla costruzione di altre entità. Tanto in Tolstoj quanto in Manzoni ci sono degli sguardi medi di cui sono portatori certi personaggi che denotano la realtà e la mostrano per ciò che ha di contraddittorio, di terribile, di violento, di senza senso. Sono romanzi dove le certezze sono nello stesso tempo straordinarie domande, solo però che sono costruite in modo diverso perché i protagonisti di queste verità interrogative appartengono a mondi diversissimi e in qualche caso sembrano persino sfuggirci.
È necessario evidenziare subito un paradosso che ci deve guidare in questa sorta di comparazione e di esplorazione di certe tematiche attraverso questi due grandi testi, sotto questo profilo nazionali; bisognerà dire che mentre in Tolstoj il romanzo accetta ancora il romanzesco, il paradosso manzoniano è di aver voluto costruire un romanzo distruggendo il romanzesco. Non ci sono personaggi con cui noi veramente ci possiamo identificare nei Promessi Sposi. Nel mondo tolstojano da Pierre Bezuchov, a Andréj Balkonskij o a Nikolaj Rostov, si tratta di personaggi nei quali vive ancora il palpito di una grande avventura, che risulta visibile immediatamente, il che significa allora che nel testo manzoniano vi sono dei valori di interiorità, delle ragioni nascoste, delle operazioni di intensificazione attraverso le quali bisogna passare per dipanare i sensi veri di questi due romanzi che sono, come diceva Mary Mc Carthj, dei romanzi di idee che fanno parte intimamentee della vita dei personaggi.
Dopo aver premesso questa sorta di rapporto che è il rapporto tra la natura, la storia, il potere, i grandi e gli uomini medi e il probema di fondo della sofferenza, del dolore, della presenza del male e della scoperta dell’altro, in questo caso “prossimo” (è il termine che vale sia per Manzoni sia per Tolstoj), conviene forse fare un passo ulteriore e vedere una battuta nei due testi che ha qualche somiglianza, anche se Tolstoj non lesse mai i Promessi Sposi, proprio perché ciò che conta è il problema comune che possiamo già anticipare, del rapporto tra la coscienza, il singolo, la persona e dall’altra la storia, il potere, i grandi eventi, la violenza, il bene e il male, il sé e l’altro.
Al principio di Guerra e Pace vi è un colloquio all’interno di una delle due famiglie che sono poi le protagoniste del mondo privato che entra nella grande vicenda della guerra. Da una parte c’è la famiglia Rostov, Natascia e gli altri, e dall’altra c’è la famiglia Balkonskij, che ha soprattutto due personaggi: il principe Andréj, di cui parleremo ancora, e personaggio straordinario ma che solitamente riscuote minore attenzione, la sorella principessina Maria. Poi nel gioco degli eventi le due famiglie si mescoleranno insieme e alla fine con la presenza anche di un altro personaggio che è poi il grande viandante del romanzo, Pierre Bezuchov, tutt’altra cosa da Renzo, si ha la fine del romanzo, al di là delle meditazioni tolstojane, come vita privata della famiglia. Siamo in casa Balkonskij e stanno parlando la principessina Maria e il principe Andréj, che è uno scettico, un guerriero aristocratico scontento della propria vita mondana – farà la guerra anche per questo – e ha come mito Napoleone, ha il mito dell’eroe: è l’etica, come dirà, della gloria. La principessina Maria, invece, è probabilmente la più cristiana dei personaggi alti di Guerra e Pace. Crede in un ordine, sa che questo ordine è imperscrutabile e bisogna in qualche modo accettarlo, è quella che assomiglia di più, forse, a parte la differenza di ceto, a certi personaggi di questo apparentemente piccolo mondo lombardo che è quello manzoniano. Stanno discutendo insieme i due fratelli. La principessina Maria vorrebbe che anche Andréj credesse e anzi quando partirà per la guerra gli darà una medaglietta che ha poi un certo valore, un certo ruolo nel romanzo. Stanno discutendo insieme del padre, il vecchio principe, che è stato un grande personaggio della generazione precedente, un po’ collerico, con affetti difficili, che vuole comandare in casa, ed è la principessina Maria che dice: “Ma nostro padre vuole bene a certe persone” e aggiunge, citando Laurence Stern, il grande scrittore inglese dell’ultimo Settecento, “ma è vero, come ha detto Laurence Stern, che noi amiamo le persone non tanto per il bene che ci hanno fatto ma per il bene che noi abbiamo fatto a loro”. Tolstoj ha rifatto a suo modo la pagina di Stern perché arrivasse a questo fine, entrare nell’universo della principessina Maria che è tutta presa dall’idea di fare il bene, del riconoscere il prossimo, anche se appartiene al mondo aristocratico, come un qualche cosa di decisivo per essere cristiana, ed è lei infatti che ama anche i rapporti con certa povera gente che si chiama la gente di Dio, gente del popolo, che crede a piccoli racconti, a miracoli, ma che ha il senso profondo della semplicità, della purezza di cuore. È il problema di fare il bene che poi ritroveremo anche nell’altro personaggio, il viaggiatore, colui che cammina lungo tutto il romanzo, che è Pierre Bezuchov. Ma prima di passare a quel punto, spostiamoci ai Promessi Sposi, dove c’è sicuramente, ma con intensità forse diversa, qualche cosa che somiglia come enunciato a ciò che abbiamo ascoltato nella pagine di Guerra e Pace.
Occorre spostarci al capitolo XXXIII. Siamo nella parte ormai conclusiva del romanzo. Il capitolo XXXIII è un capitolo straordinario diviso in due parti: nella prima c’è don Rodrigo che scopre la peste e viene tradito dal fido Griso (si faccia attenzione, viene tradita la fiducia), nella seconda parte c’è Renzo che, sopravvissuto alla peste e ormai certo dell’immunità, ritorna al suo paese sicuro di non essere più sottoposto alle vessazioni della polizia e della legge, dal momento che era incriminato ed era dunque una sorte di criminale sfuggito ed emigrato fuori dalla circoscrizione milanese. Torna al suo paese, ed è un luogo di desolazione. Fra peste e guerra è un mondo desolato, è, se volessimo citare Eliot prima di Eliot, la “terra desolata” di Renzo. C’è tutta una serie di annunci, poi Renzo arriva al paese deserto, trova soltanto un povero sciocco che dice: “a chi la tocca la tocca”, crede che sia quello sciocco che era Gervaso mentre è invece il fratello così sveglio, Tonio, e quindi ha il senso della rovina dell’umano. Poi incontra don Abbondio, questa forza straordinaria, che è sempre a tutela di sé, che vede tutto attraverso di sé, e anche in quel momento non pensa ai molti che sono morti, pensa solo che Renzo è arrivato e gli può creare “delle grane”. Fa una lunga filastrocca di tutti quelli che sono morti e il testo manzoniano dice: “poverino, poverina, poverini”, sembra una specie di filastrocca, ma è una filastrocca di colui che partecipa alla scomparsa, poi Renzo va a casa e trova la rovina e la cosiddetta vigna. Non voglio fermarmi sulla vigna, che è un problema molto composito e certamente, al di là delle molte interpretazioni che se ne possono dare, un esercizio che vuole in realtà rappresentare il microcosmo della natura investito dalla storia: natura e storia in Manzoni, come del resto un po’ anche in Tolstoj, sono intimamente congiunte; di qui l’enigma, di qui il mistero e di qui l’interrogazione: che senso ha la storia, con le sue sofferenze, con le sue grandezze e le sue miserie? Passa di là dalla casa, si mette le mani nei capelli (c’è tutta una serie di gesti) e poi siccome ha sentito che c’è un tale sopravvisuto alla sua famiglia, va a casa di questo amico. Nei Promessi Sposi avrà questo nome: l’amico. Non si dice chi è; si salutano quando si vedono e Renzo chiama per nome l’amico, ma non ci dice il narratore quale sia il suo nome. L’altro invece lo chiama Renzo. Se non ha un nome, vuol dire che amico è il nome vero, che conta, e quando lo incontriamo attraverso Renzo, sappiamo che è sbalordito e, ancora più importante, inselvatichito dalla solitudine. Inselvatichito vuol dire che ha perso quasi il senso dell’umano(1).
Cominciano a parlare, ma l’amico ha equivocato, non credeva che fosse Renzo quello che lo è venuto a cercare, credeva che fosse un certo – attenzione alle parole – “Paolin de’ morti” che era il becchino che lo veniva a richiedere per aiutarlo a seppellire la gente. Gli dice: “Lasciami stare, fammi almeno questa opera di misericordia”: è il linguaggio tridentino nella sua intensità più autentica. Si salutano e l’uno dà ospitalità all’altro. Si mettono insieme a fare da mangiare, si preparano qualche cosa. È una specie di convivialità essenziale e poiché noi potremmo non renderci conto di che cos’è in gioco, il narratore dice che scoprirono di essere molto più amici di quanto non sapevano di essere (prima si era detto, – anche questa è una parola importante – che andò a cercare uno che era stato suo compagno quando si era nell’infanzia). “Più amici”: l’osservazione è importante perché andiamo nel fondo dell’amicizia che fonda qualche cosa, che restituisce un’umanità in una terra desolata, inselvatichita, come una selva, come la vigna abbandonata. Il primo narratore, con uno dei suoi soliti colpi geniali, dà la parola al cosiddetto manoscritto, che dovrebbe essere questo strano personaggio seicentesco bizzarro e dice che il manoscritto aggiungeva che erano capitate a loro delle cose che facevano conoscere come sia un balsamo all’animo la benevolenza, quella che si sente, quanto quella che si trova negli altri. Guardiamo un po’ da vicino questa formulazione, attribuita al cosiddetto scrittore del Seicento (le cose più straordinarie vengono sempre attribuite a quello scrittore, e sembra che sia un distanziamento ironico, mentre invece sono le verità più radicali, che nascono attraverso questa strana prospettiva obliqua). Intanto benevolenza. Benevolenza è il volere bene, è una parola straordinariamente intensa; “balsamo all’animo”, riecheggia testi biblici dove si parla dell’amicizia e però si dice che la benevolenza è tanto quella che si riceve quanto quella che si fa. È l’eguaglianza del rapporto dell’amicizia (non è detto, ma noi possiamo subito aggiungerlo), in cui l’io e il tu si uniscono ma l’io è io e il tu è tu, per cui si potrebbe già a questo punto commentare questa situazione con un famoso verso, citato del resto anche da altri filosofi, di Paul Celan: “Io sono tu se io sono io”. È l’amicizia come ospitalità, è l’amicizia come fraternità, è la fondazione di un rapporto comunitario, come potrebbe dire Lévinas, la dualità, io e tu, Renzo e l’amico, che rifondano una comunità. In questo incontro dei due è come se fosse già in gioco un noi, è come se nel deserto, davanti alla morte, si ricostituisse il senso della vita, la vitalità che riprende, nel riconoscimento disinteressato l’uno dell’altro, l’uno al servizio dell’altro. Non c’è in questo caso un rapporto di potere, sono assolutamente alla pari. Se dovessi citare un versetto, mi pare dell’Ecclesiastico, verrebbe da citare una battuta che dice: “Se all’amico avrai aperto, non avere timore”, parola bellissima che probabilmente è quella che commenta anche quella situazione manzoniana, se teniamo conto che subito dopo, in questo clima, si raccontano tutto quello che è accaduto, raccontano la guerra e raccontano le loro piccole avventure, in pubblico e in privato, e dicono alla fine cose da rattristare per tutta la vita, ma è un sollievo raccontarle tra amici. Qui, se non vado errato, comincia un discorso che è quello della nozione di popolo. Il popolo (che poi nel Manzoni ha tutta una serie di occorrenze verbali, fuori e all’interno della Chiesa, ma il lazzaretto è cosa diversa dalla Chiesa, anche se è il rapporto diretto con la morte), il popolo si dà dove si dà questa dimensione di amicizia ed ospitalità, dove c’è l’eguaglianza del cuore, non il problema del potere o il problema del potere viene per così dire annullato. C’è quella che San Paolo chiama la caritas fraternitatis, la ospitalitas. E, si badi bene, non è la prima volta, anche se qui hanno un’intensità assoluta la morte, la desolazione, la solitudine, che il tema era comparso, perché quando Renzo era andato a casa di Tonio, per combinare il piccolo pasticcio dell’impresa presso la canonica per il matrimonio estorto, lo aveva trovato a tavola con la famiglia che aveva solo una sorta di polenta magra e però ad un certo punto uno di loro, dice: “Volete restare servito?” (E il narratore aggiunge: “Complimento che il contadino di Lombardia, e chi sa di quant’altri paesi!…”. Ecco quindi la regionalità trasferita ad altro).
C’è anche un’altra amicizia, l’amicizia di chi si racconta per togliere i segreti. Nel capitolo XI si era detto che una consolazione dell’amicizia è che uno dà un segreto all’altro, ma tutti poi hanno tanti amici e il segreto a poco a poco viene divulgato e finisce proprio a quelli per i quali doveva restare un segreto. È un’altra amicizia: l’amicizia della mondanità, è l’amicizia che fa parte del pettegolezzo, è l’amicizia senza verità interiore; quella del capitolo XXXIII è invece l’amicizia interiore, è quella che comporta, per dirla di nuovo in senso biblico, la simplicitas cordis. Non c’è altro fine che non sia quello del rapporto umano, che non sia quello di ritrovare il senso dell’umano nel volere il bene dell’altro e, nel volere il bene dell’altro, anche in qualche modo il proprio, ma sul piano dell’eguaglianza e in un luogo in cui il potere sembra per un momento assente. Si costruisce un’altra cosa, si costruisce un’altra entità che potrebbe essere quella che enunciava nel suo linguaggio alto, quello biblicamente più consapevole, il Cardinale quando, nel momento in cui parla con l’Innominato, dice: “Ma come deludere questo popolo affollato?”, e popolo qui ha una dimensione che passa attraverso l’idea biblico-ecclesiastica (“quegli innocenti”), e di nuovo è un linguaggio biblico: “quelle anime buone”. Anime, popolo e dunque un’entità che comporta l’interiorità delle persone. Non è solo una massa, è qualche cosa di diverso per cui non si può neanche usare la parola “organico” che potrebbe portare in altra direzione. Perché è il senso comune di qualche cosa che unisce e rende fratelli.
Sarebbe opportuno vedere come viene amministrato il termine “popolo” nei Promessi Sposi, magari insieme col termine “prossimo”. Ha molte nozioni, a un certo punto si smentisce persino ironicamente, ed è il narratore, il vecchio detto: Vox populi, vox dei, quando si dice che il mondo ufficiale che doveva provvedere alle misure mediche, accettò dei pregiudizi e dei miti: “Anche qui, dice il narratore, si dovrebbe dire che vox populi era vox dei?”. Ma in questa costellazione di significati, ve ne sono alcuni sicuramente straordinariamente importanti. Il lazzaretto (Mary Mc Carthj ha detto una volta che il romanzo moderno ha come luogo fondamentale il sanatorio) è uno dei primi sanatori nella storia del romanzo europeo. Padre Cristoforo ha detto a Renzo di seguire padre Felice che deve portare fuori dal lazzaretto un gruppo di persone che sono guarite e che devono andare in quarantena. Ed è una sorta di piccola processione, è – alla lettera – un esodo. Tanto è vero che la parola che viene continuamente riproposta è “uscire”, ed è difficile – ma accenno solo al problema, altri più competenti lo hanno fatto e potranno farlo – nel momento in cui ci interroghiamo su una nozione di popolo che è una nozione spirituale oltreché di altro genere, di là poi dalle tensioni e dai conflitti a cui dà luogo, non far riferimento al testo biblico dell’esodo, del popolus meus, della ricerca della salvezza, del luogo, dell’itinerario, della direzione, della fondazione, e anche qui è una sorta di esodo realizzato, dove si parla di essere fratelli e dove si insiste, da parte di colui che fa questa apparente predica, sul braccio fraterno. È un piccolo popolo, come lo chiama padre Felice, è di nuovo il popolo della fraternità che non ignora gli altri, coloro che ancora non si sono salvati, ma in qualche modo porta su di sé anche quella preoccupazione. È in qualche modo il principio enunciato da certi filosofi ed etici del nostro tempo che il prossimo è ciò di cui noi portiamo la responsabilità. E quel discorso invita proprio a questo. Così padre Cristoforo mentre parla con Renzo, poi ritorneremo su questa cosa, dice: “questo mio povero popolo”. E anche qui popolo è la comunità che ha bisogno, la comunità verso cui si porta amore. Non è un caso che le ultime parole di padre Cristoforo prima di scomparire, siano (delegando qualche cosa a Renzo e Lucia che non possono capire fino in fondo il suo dramma): “Pregate anche voi perché abbia la grazia di finire a servizio del prossimo”.
Quando noi leggiamo dei romanzi in cui i personaggi enunciano delle verità che appartengono a un mondo che è anche fuori dal romanzo, siamo portati a credere che il personaggio scompaia perché diventa un veicolo secondario e fantomatico di una verità già data. Bisognerebbe invece pensare, e questo vale sia per Manzoni sia per Tolstoj, siappure in modi diversi, che è il personaggio nella sua singolarità che dà la sua verità di personaggio alla verità che enuncia. Morire per il prossimo è un enunciato di ordine generale, ma in bocca a padre Cristoforo è suo, fa parte della sua storia e senza la sua storia non avrebbe quel senso. È, cioè, per dirla molto semplicemente, anche se il personaggio è un fantasma, una verità incarnata in una individualità, in quella storia e solo in quella storia. Se noi ci dimenticassimo che padre Cristoforo è un peccatore, ha ucciso un altro, come faremmo a capire che cosa vuol dire per lui “prossimo”, che vuol dire cancellare per quanto è possibile la morte di qualcuno a cui non riesce a dare senso neanche alla fine della sua vita?
C’è un’altra figura che parla un linguaggio religioso ed è don Abbondio, ma è il linguaggio religioso del “prossimo che esiste per me”, non di me che esisto per il prossimo (don Abbondio è un personaggio straordinario di una verità abbagliante, non un personaggio da commedia come è stato detto. Un personaggio di una verità profonda perché pone in discussione proprio il problema di fondo della coscienza, del potere di ciò che sta fuori della storia e della storia che è dominata dalla violenza). Quando don Abbondio lascia fuggendo la casa davanti alla chiesa dice: “Alla chiesa ci penserà il popolo”. È il popolo della chiesa, ma si vede bene che lui non esiste per il popolo, è il popolo che esiste per sé.
Dunque c’è una nozione di popolo e ci sono i comportamenti che sono al di fuori del potere ma che si scontrano con il potere e che pagano anche nei confronti del potere: Renzo ne è la riprova migliore. In una piccola insurrezione, parla di giustizia, dice cose esatte, ma viene a questo punto assunto come personaggio che ha diretto l’insurrezione, il capro espiatorio. C’è questo mondo, che è il mondo del rapporto di uguaglianza che ha un valore di interiorità, che è legato alla tradizione. È il mondo tridentino usato però da un narratore intellettuale dell’Ottocento che è ossessionato da questi grandi problemi perché sono quelli della generazione venuti dopo la Rivoluzione francese che di nuovo si deve interrogare sul problema della storia e della morale ed è il problema anche di Tolstoj.
In Guerra e pace questa epicità moderna esplode, non c’è niente della vita che non venga rappresentato. Una ragazzina davanti allo specchio, Natasa, diviene straordinariamente vera, la principessina Maria, la quale si vergogna della sua brutezza ma i cui occhi, quando parla degli altri e della loro pena, d’improvviso si accendono, è altrettanto intensa quanto un soldalto nel momento in cui si avventa nella battaglia ed è preso dall’ebbrezza; ed è altrettanto vera la danza, o un accampamento dove si mangia e si discute insieme, un ospedale dove si sono perse le gambe… C’è questa dimensione enorme, ma nel fondo, di là da questa vicenda che è la guerra stupenda e terribile, di là da questa interrogazione ossessiva, radicale (nel Manzoni è più cauta, nascosta ma Napolone e gli altri erano gli autori della storia. Quella storia era trascinata da forze di altra natura, da una sorta di enigma, da una forza profonda che in altri tempi erano gli dei, il Fato, che la principessina Maria chiama ancora la Provvidenza, che anche Pierre Bezuchov entro certi limiti chiama la Provvidenza), dentro tutto questo c’è poi un rapporto di uomini fra di loro e davanti al destino e alle cose e anche qui nasce qualcosa che non fa più parte di ciò che chiamiamo la società visibile ufficialmente, costituita secondo le proprie strutture di potere.
Vittorio Strada, un nostro slavista di grande qualità, parlando di Tolstoj giustamente ha detto che in lui si riproduce la contrapposizione famosa della sociologia tra società (la società è ciò che è strutturato, è ciò che è legato ai modi della legge e del potere, è il pubblico) e la comunità, che invece si costruisce per altre forme che non seguono la logica del potere. Il popolo in Tolstoj, afferma Strada, è sinonimo, garanzia, presenza di questa comunità nei confronti della società che è anche il luogo della guerra.
La cosa si può vedere a diversi livelli. Ci sono due personaggi che dibattono un dramma nel romanzo (così come nei Promessi Sposi il dialogo a distanza fra don Abbondio e fra Cristoforo), sono il principe Andréj Bolkonskij e Pierre Bezuchov. Sono degli intellettuali di ceto alto, sanno cosa dicono e hanno tutta la cultura necessaria (mentre gli altri non ce l’hanno) e si trovano a discutere proprio dell’etica del bene e dell’etica della gloria, dell’etica dell’altro e dell’etica del sé. Bezuchov, che passa attraverso l’iniziazione massonica, parla della fraternità e di fare del bene, Andréj parla invece della gloria: “Gli altri esistono per me”. Però Andréj viene ferito nella battaglia di Austerlitz e vede d’improvviso solo il cielo: “un cielo alto, non sereno ma pure infinitamente alto, con nuvole grigie che vi scorrevano sopra”. “C’era il vuoto” e mentre continua a riflettere, “gli occhi rivolti al cielo” dice: “Potessi dire: Signore, abbi misericordia di me, come dice Maria con la medaglietta che mi ha dato” e qui si vede bene che è come un’etica che viene rotta da un’altra etica. Andréj che parlando a Bezuchov aveva detto: “ton prochain” (il tuo prossimo), alla francese quasi in modo sprezzante, quando poi si trova di fronte al rapporto totale con il tempo che finisce, la morte, scopre quell’altra dimensione. La storia vera, dice Tolstoj, si occupa di questa specie di fluviale corso che è la vita del popolo e dei popoli, è lì che è consegnata la verità profonda. Napoleone e gli altri vi sono rappresentati con una apparente grandezza, come dei fantocci. Sono gli uomini del potere che vengono per così dire distrutti in relazione a qualcosa che è più profondo del potere, che resiste di là dall’apparente grandezza.
Quando viene fatto prigioniero Bezuchov(2) incontra un vecchio soldato, Platon Karataev, e un vecchio soldato a memoria sa solo le preghiere. È il tipico rappresentante di un villaggio ortodosso, un cristiano semplice. Di lui Tolstoj dice che accettava la vita, si sentiva parte di una cosa più ampia cui riferiva tutto, era sempre pronto per gli altri; era la incomprensibile, rotonda, esterna personificazione della semplicità e della verità. Parlava per proverbi, ricordi di vita cristiana e rurale. E non c’è dubbio che in Guerra e pace diventa l’esempio, la realtà vivente di questa grande verità popolare che ha il senso dell’Altro che accetta le cose come entità naturale, che vive il Mistero nella sua naturalità, che subisce anche il potere e la violenza ed è più forte nel momento stesso in cui lo subisce. (Viene in mente quello che una volta aveva detto il Manzoni nei Promessi sposi, il male non è quello che si subisce, è quello che si fa). Platon Karataev ha il senso nativo degli altri, esiste per gli altri, crea qualcosa attraverso gli altri, è l’uomo dell’amicizia semplice portatore di questa verità con un destino terribile. Non si sa bene quanto sia vecchio, certo viene da molto lontano, è tra quelli che non riescono più a camminare e vengono lasciati sui cigli della strada e uccisi: questo è il suo destino, è l’innocente che viene condannato all’estinzione. Bezuchov vede in lui le verità che contano, una realtà diversa e più forte della realtà pubblica.
Se entrassimo nei Promessi Sposi dovremmo a questo punto porci il problema: popolo, comunità, amicizia, ospitalità, dunque misericordia e perdono al contrario dell’odio. Il popolo vero è un’entità che ha una specie di spazio futuro per Tolstoj, e in parte anche per Manzoni, è il luogo dell’odio cancellato e ciò in cui i volti esistono come volti, in cui i nomi propri sono come i volti, in cui non c’è la totalizzazione anonima, in cui non c’è un potere che cancella, in cui c’è la pluralità che riconosce il rapporto nel momento stesso in cui c’è la pluralità poiché ciò che è fraterno va di là dalla pluralità.
Parlavo del problema del perdono che è il problema dell’odio. Il problema del potere è un problema che tanto Manzoni quanto Tolstoj si pongono in modo radicale, Manzoni da agostiniano, Tolstoj per altre vie anche se poi i suoi destini sono quelli di diventare un profeta anarchico al di fuori del Vangelo. Essi intuiscono che è compresente al potere la tentazione del male; e il male è ciò che colpisce gli uomini. Entrambi pensano che la storia, la temporalità non cancella il problema del male e meno che meno lo trasformano in un positivo; entrambi propongono una logica che non è quella dello storicismo hegeliano, engeliano, marxiano e di altro tipo; la morale non è una funzione della storia, la morale è ciò che dice di no alla storia; e dice di no perché ognuno di noi sa che fare violenza a un altro è male, è l’odio, è la negazione dell’altro, è la distruzione del prossimo. Questo è un problema radicale, è una delle opzioni che poi vengono avanti fino al tempo moderno: la morale o si adatta o dice di no. Qualcuno ha detto: la coscienza è la morale che dice di no, è il vicario primitivo di Dio. Sono problemi radicali, dicevo, che fanno della letteratura un’interrogazione totale, che vedono l’etica come uno dei riferimenti necessari dell’operazione letteraria. Per questo in entrambi c’è il problema dell’odio e dunque del perdono.
Vorrei tornare un momento per poi concludere ai Promessi sposi, e riprendere il problema di padre Cristoforo. C’è certamente una cosa paradossale: il romanzo di un grande intellettuale non ha degli intellettuali nel romanzo, e anzi non sono intellettuali i portatori di avventure che però comportano problemi squisitamente intellettuali. Renzo non è in grado di capire ciò che gli accade e non è un intellettuale. È un paradosso, è l’anti-romanzesco, è il romanticismo anti-romantico che non vuole delegare a un io privilegiato le storie vere dell’uomo. Da questo punto di vista è una dimensione che va verso ciò che chiamiamo comunità popolare quella dove vengono dibattute le grandi questioni. È un privato minimo quello cui arrivano la forza del pubblico, la guerra, la carestia, la peste, gli untori e tutto il resto. Neanche padre Cristoforo è un intellettuale, è il figlio di un mercante che voleva farla da signore e che si è scontrato con un aristocratico; non è un intellettuale, si è fatto frate per ragioni diversissime da quelle per cui don Abbondio si è fatto prete, per essere tutelato nella sua vita, l’altro invece per espiare con la propria vita la vita che ha tolto a qualcun altro; e non c’è dubbio che l’ossessione di padre Cristoforo sia l’odio, quello che si porta addosso se lo porta nel nome; Cristoforo è il nome dell’amico che è stato ucciso, ma Cristoforo vuol dire anche portatore di Cristo, è un gioco di relazioni straordinario. Perché questo suo rapporto con Lucia e con Renzo? Padre Cristoforo ama tanto l’innocenza di Lucia (è poi vero che sia don Rodrigo che il conte zio pensano che padre Cristoforo se la intenda con Lucia: è un altro lessico, un altro mondo), un’innocenza di tipo biblico, è ciò che non è toccato dal male ma che può essere schiacciato dal male, ma il rapporto che conta di più è probabilmente quello con Renzo. Per tutto il romanzo, dove si cammina in spazi piccoli, ma i problemi sono vastissimi, Renzo è ossessionato dall’incontro con don Rodrigo, vuole essere alla pari con lui, lo odia e quando arriva nel lazzaretto l’ultimo colloquio è su questo problema. Padre Cristoforo sente che l’altro dice: “Adesso finalmente potrò farmi giustizia” e parla con la voce dell’odio. Padre Cristoforo non vuole fare una lezione, vuole invece risolvere il suo dramma, deve per così dire purificare il suo passato che non ha mai purificato abolendo in un altro quello stesso odio che in lui produsse quell’effetto. Il perdono nuovo è per un momento come una proiezione sul proprio passato, tant’è vero che dice a Renzo: “Tu sai quello che a me è capitato, e credi che se avessi avuto una ragione non l’avrei trovata?”. È il non senso dell’odio, negazione della comunità. A questo punto Renzo dice: “Gli perdono di cuore”, abolisce in sé l’odio. Ed ecco perché Padre Cristoforo lascia quel pezzettino di pane, il pane del perdono a questi due e dà loro un’ultima consegna: “Siate compagni di viaggio”. Dunque un itinerario che poi produce certe cose.
In pochi romanzi il problema del perdono ha avuto un’intensità così profonda e in uno scenario apparentemente così drammatico. Come si fa a dire che Padre Cristoforo è un personaggio romanzesco secondo il lessico corrente? Eppure tutto questo appartiene probabilmente ad una entità diversa da ciò che si costituisce secondo le forme ordinate del vivere civile, che è la dimensione popolare, con certe tradizioni, con certi ricordi, con un certo ethos. E il problema si pone anche, allo stesso modo, in Tolstoj. E qui li possiamo di nuovo rimettere insieme, come due grandi scrittori intellettuali che mettono in discussione le ragioni profonde della convivenza e il senso profondo della storia. Sono due romanzi che si chiedono qual è il senso della storia o, in altre parole, il senso della sofferenza.
La risposta di questi due romanzi è che la storia non spiega se stessa, e che la coscienza è altro, è nel tempo ma è anche fuori del tempo, il “no” sembra come fuori del tempo, fa durare altro, è la ricerca di un’umanità più libera, nel momento stesso in cui si riconosce che poi occorre il pubblico e il politico. È il senso delle tensioni profonde, che non si conciliano facilmente. Ci sono delle contraddizioni profonde, c’è qualche cosa di misterioso, c’è un enigma che più si approfondisce e più diventa buio e che però si definisce soltanto verso l’autenticità o meno dei rapporti umani, quella autenticità che nasce quando si è di fronte ai fatti assoluti – la morte – gli elementi che determinano ciò che chiamiamo pomposamente il destino.
Vogliamo anche parlare della salvezza, vogliamo dire la nuova vita, vogliamo dire la redenzione? C’è quest’ansia e c’è il senso di una vita moderna, anche quando sembra che si parli di altro, diventata straordinariamente complessa, dove però le tensioni si sono approfondite anziché essere abolite e ognuno di noi, che è un io e nello stesso tempo una pluralità, si porta addosso la responsabilità di sé e in qualche modo anche di tutti gli altri. Torna di nuovo il problema del rapporto fra morale e, in questo caso, vita comune, la vita politica; fra il privato e il pubblico. È di nuovo una tensione: “Che cos’è l’autentico e che cos’è l’inautentico?”, diceva in altri modi Heidegger; qui ha un’altra cadenza ed anche un altro valore.
Alla fine il lettore non può non chiedersi, soprattutto leggendo Manzoni ma anche Tolstoj, che cosa sia, se deve essere tale, il pluralismo oggi, su che cosa si fonda, che non sia soltanto accettazione della frammentazione e dello smembramento. Che cosa sia, anche in un momento in cui l’idea del superuomo ha portato a una certa idea di soggettività, il problema della cosiddetta “coscienza media”, la coscienza vicina alle cose che vede i fatti non solo nella loro fattualità ma anche in ciò che significano per l’uomo e attraverso l’uomo. Qui si apre uno spazio, dicevo, per il quale non sono in grado di muovere, meno che meno di essere una guida, anche se ho la sensazione che libri come questi, così radicali, ci obbligano a ripensare tutta la tradizione sulla quale abbiamo creato il problema della storia, lo storicismo, il liberalismo, il problema della coscienza e soprattutto questa idea che non si può essere complici di ciò che, in qualche modo, manomette l’immagine dell’uomo. Sono gli scrittori della grande invenzione, con il senso straordinario dell’individualità in Tolstoj ma anche in Manzoni, che hanno il senso delle cose nella loro straordinaria pluralità. Non inganni, dicevo, il fatto che nel Manzoni sembra che si sia solo la Lombardia. La Lombardia poi diventa un luogo del mondo dove è in gioco il modo di essere del mondo. Hanno il senso straordinario di queste cose che sono l’invenzione della vita, la forza del vivere, il vivere terribile e nello stesso tempo però con qualche cosa che sopravvive ed è ancora un bene. Karataev muore, ma qualche cosa resta e c’è qualcun altro che lo fa continuare a vivere; padre Cristoforo muore ma qualcuno si porta quel pezzo di pane. Il vitale è la distruzione, ma nella distruzione c’è anche la vita nuova che riprende, è una sorta di grande dramma che si muove.
Qualcuno ha detto, parlando di Tolstoj, che egli, secondo un vecchio detto, credeva di essere un riccio che aveva una sola cosa nella vita ed in realtà era una volpe che aveva tante cose; e si potrebbe dire lo stesso anche del Manzoni. In verità erano volpe e riccio nello stesso tempo. Erano volpe perché rappresentano le cose, ci pongono di fronte a fatti: è difficile per uno straniero percepire un romanzo così intimamente cattolico tridentino come i Promessi Sposi, che però parla di noi come nessun altro libro, nella nostra tradizione. Se poi ci aggiungiamo La colonna infame la cosa diventa ancora più terribile. Ma tutt’e due sono ricci, perché hanno il senso che la complessità del vivere è da riportare a qualche cosa di unitario e di profondo. Deve esserci, c’è, qualche cosa che di là da questo andare e venire – la natura che torna, si distrugge e poi ritorna – stabilisce una misura dell’umano che non può essere soltanto l’umano, che è un di là. Anche Tolstoj parla in altri modi della fondazione di qualche cosa che non è soltanto in ciò che è. E questo è anche il problema del popolo. Se ritorniamo anche al testo biblico, non c’è dubbio che il popolo voglia dire qualcosa anche di elezione, qualcosa per cui si partecipa di una verità semplice ma insieme difficile, per la quale c’è come una sorta di chiamata, quanto più la semplicità si dispone a riceverla.
Dopo avere percorso questo itinerario sperando di essere riuscito a mostrare che, letti insieme, anziché cancellarsi questi romanzi recuperano ognuno il proprio volto, così come due volti si fronteggiano e non si negano, vorrei semplicemente aggiungere che non ci sono soltanto i viaggiatori e i compagni di viaggio nei romanzi: anche i libri sono dei compagni di viaggio, in un tempo che un critico ha definito un tempo dell’attesa, una sorta di sabato.
Se fossi riuscito a mostrare attraverso alcune pagine che questi due testi sono dei compagni di viaggio a cui si può ritornare, non per dimenticare il nostro presente, ma per interrogarci sul nostro presente, con la forza della parola e dell’invenzione, forse allora sarei riuscito a conseguire il risultato che, con qualche ambizione, mi ero proposto all’inizio: cercare di far vedere che anche la letteratura, che anche la lettura è un esercizio di pensiero, in cui, attraverso le parole, che sono dialogo – ma avevo lasciato fuori questo problema anche se era implicito – si parla del nostro destino, della nostra condizione, del nostro presente, di noi di fronte agli altri e degli altri di fronte a noi. “Io sono tu se io sono io”: così il libro diventa parte di me se intanto ho teso al massimo la mia presenza di “io”, destinatario e protagonista di quella operazione. Dopo di che, come passa al lettore il compito di completare un testo, così passa agli ascoltatori il compito di compiere il percorso che probabilmente, anche se lo speravo, io non sono riuscito a percorrere fermandomi in un’area che sta fra il Limbo e l’Avvento, indicando agli altri gli spazi da percorrere: la lettura è un percorso e un compagno di viaggio.