Chi siamo
Il popolo ebraico
Relatore: Sua Em.za Card. Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano.
Martini: Il tema generale del Meeting di quest’anno, così suggestivo, mi invita ad approfondire tre tematiche bibliche: il popolo, l’esilio e il cammino.
Elemento unificatore di queste realtà può essere considerato l’annuncio profetico di Isaia. È un canto di trionfo che annuncia la fine dell’esilio: “Uscite da Babilonia, fuggite dai Caldei; annunziatelo con voci di gioia, diffondetelo, fatelo giungere fino all’estremità della terra. Dite: “Il Signore ha riscattato il suo servo Giacobbe” (Is 48,20). E un altro oracolo proclama: “Svegliati, svegliati, rivestiti della tua magnificenza, Sion, indossa le vesti più belle, Gerusalemme” (Is 52,10). E ancora: “Fuori, fuori, uscite di là!… Voi non dovete uscire in fretta, né andarvene come uno che fugge, perché davanti a voi cammina il Signore, il Dio d’Israele chiude la vostra carovana” (Is 52,11-12). E si potrebbero ancora citare tanti altri passi, per esempio Ezechiele 36: “Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo” (Ez 36,24).
Il popolo a cui sono rivolte queste e altre simili parole non è un popolo qualunque, ma è il popolo per eccellenza, il popolo di Dio. L’esilio, dunque, di questo popolo non è un castigo senza speranza, una rimozione dalla storia, ma è tempo di prova in vista della salvezza. Il cammino diventa così un ritorno pieno di fiducia, come una strada di luce sulla quale tutti i popoli, tutti i popoli, sono invitati a seguire Israele: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te… cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere” (Is 60,1.3). Così questa promessa del ritorno dall’esilio tocca tutti i popoli: “Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue, essi verranno e vedranno la mia gloria” (Is 66,18).
In questo cammino, guidati dalla stella della redenzione, anche i lontani diventano vicini al popolo di Israele, i popoli dispersi si radunano in un solo popolo, per adorare un solo Dio, e costruire insieme la pace, lo Shalom biblico. Pace ed unità sono dunque un solo grido profetico una sola speranza, una preghiera accorata, e questo ce lo diciamo ancora oggi, mentre ascoltiamo il grido delle folle dei poveri che bussano alla nostra porta, dei popoli martiri in Bosnia, Rwanda, e in tante altre parti del mondo…
Il popolo ebraico, ancora ai nostri giorni, nella sua costante tensione fra una diaspora dalle mille voci e una rinascita nazionale nello Stato d’Israele, testimonia del cammino continuo dal particolare all’universale e viceversa, proteso nella ricerca di creare un popolo nuovo e un uomo nuovo, l’antico Adamo rinnovato. Per i credenti in Gesù Cristo questa tensione può ben essere espressa con le parole di S. Paolo agli Efesini: “In Cristo Gesù, voi (popoli pagani) che un tempo eravate lontani, siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia… per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace, a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini” (Ef 13-17).
Alla luce di questi testi che ho citato finora (Is, Ez e Ef), rifletteremo dunque in questa conversazione sui legami fra i tre termini, il popolo, l’esilio e il cammino, e ci porremo tre domande.
1) Può ancora oggi il popolo ebraico essere posto da un cristiano sotto la categoria teologica di “popolo di Dio”, cioè ricevere lo stesso appellativo che la Chiesa cristiana dà a se stessa? È noto infatti che la categoria di “popolo di Dio” è una di quelle che il Vaticano II ha privilegiato per descrivere la Chiesa. Dopo avere, nel primo capitolo della Lumen Gentium, richiamato molti termini e immagini per descrivere la Chiesa, come ovile o campo di Dio, edificio di Dio, tempio, sposa, Corpo di Cristo, la Costituzione conciliare sviluppa nel II capitolo il tema del “popolo di Dio”, popolo che “ha per capo Cristo… ha per condizione la libertà e la dignità dei figli di Dio… ha per fine il Regno di Dio” (LG 9). In che senso può dunque la stessa espressione “popolo di Dio” designare nel linguaggio teologico cristiano anche gli ebrei di oggi? Una risposta precisa a questa domanda è importante per definire in maniera positiva e con rigore teologico il ruolo provvidenziale e salvifico di quel popolo di Dio che è oggi Israele in una visione cristiana della storia del mondo, come pure per definire il rapporto di comprensione e collaborazione che è possibile sviluppare tra la Chiesa e Israele, al di là della mutua accettazione e tolleranza, nel quadro del disegno di Dio sul cammino umano.
Di fatto, la designazione del popolo ebraico odierno come “popolo di Dio” insieme con la Chiesa di Cristo appare per esempio nel documento del Segretariato per l’Unione dei Cristiani del 4 giugno 1985 dal titolo Ebrei ed ebraismo nella Chiesa cattolica. In esso si afferma (n. 10) che “quando il popolo di Dio dell’antica e della nuova alleanza considera l’avvenire, esso tende – anche se partendo da due punti di vista diversi – verso fini analoghi: la venuta o il ritorno del Messia”. E continua dicendo: “La persona del Messia, sulla quale il popolo di Dio è diviso, costituisce per questo popolo anche un punto di convergenza. Si può pertanto dire che ebrei e cristiani si incontrano in un’esperienza simile, fondata sulla stessa promessa fatta ad Abramo (cfr. Gen 1,1-13; Eb 6,13-18).
Dunque in questo documento si parla per tre volte di un unico popolo di Dio, intendendo gli ebrei e i cristiani di oggi. Quale significato preciso può avere un tale modo di esprimersi, a cui forse non siamo abituati, e quali conseguenze esso comporta per il nostro agire di cristiani?
2) Che senso può avere l’esilio per il popolo di Dio? Quale in particolare il senso dell’esilio per il popolo ebraico biblico e quale il senso per le chiese cristiane? C’è un significato particolare dell’esperienza dell’esilio per la Chiesa cattolica nel suo insieme o comunque per diverse realtà o aggregazioni che la compongono?
3) Il cammino dell’esilio verso la patria, può essere fatto in qualche modo insieme da ebrei e cristiani? Come esso tocca anche gli altri popoli della terra? C’è anche un senso specifico di questo cammino per voi, popolo del Meeting di Rimini?
I. Il popolo
Veniamo anzitutto a considerare attentamente, in spirito di fede, il mistero del popolo ebraico, con il quale la Chiesa ha in comune un grande patrimonio spirituale (richiamato ampiamente dal Concilio Vaticano II soprattutto nella Dichiarazione Nostra Aetate, n. 4). Se è vero, infatti, che esistono differenze sostanziali fra cristiani ed ebrei a motivo della fede in Gesù Cristo redentore e della corrispondente dottrina cristologica (evidenti in specie nelle categorie teologiche oggi più correnti, e meno nelle formulazioni giudeo-cristiane originarie), è però altrettanto vero che i figli di Israele restano, come dice Paolo ai Romani, carissimi propter patres (Rom 11,28), molto amati a causa dei padri, restano partecipi, in quanto figli primogeniti, dei tesori spirituali dell’Alleanza di Dio con Abramo e con Mosè. Essi sono, pertanto, nostri “fratelli maggiori nella fede di Abramo”, come disse Giovanni Paolo II nella Sinagoga di Roma (31.12.1986), in quanto, “possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, Egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli” (Rom 9,4-5). Tra questi tesori di fede del popolo ebraico si trovano in particolare le Sacre Scritture ebraiche: la Torà, i Nevi’im (cioè i Profeti), i Ketuvim (Scritti storici), entrati a far parte del Canone cristiano. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, riassumendo una bimillenaria tradizione, afferma: “L’Antico Testamento è una parte ineliminabile della Sacra Scrittura. I suoi libri sono divinamente ispirati e conservano un valore perenne, poiché l’Antica Alleanza non è mai stata revocata” (CCC, n. 121). Il filosofo ebraico Franz Rosenzweig nel suo famoso libro La stella della redenzione (pubblicato nel 1921) scrive: “Come mostra quella lotta sempre attuale contro gli Gnostici, è l’Antico Testamento che rende possibile la resistenza del Cristianesimo contro i suoi stessi pericoli interni”(1). E S. Ambrogio diceva: “Bevi per prima cosa l’Antico Testamento, per bere poi anche il Nuovo Testamento. Se non berrai il primo, non potrai bere il secondo“(2).
Tesori comuni ad ebrei e cristiani sono pure la rivelazione del Dio unico, creatore e padre, ma anche tenero e materno; il dono dei comandamenti che hanno dimensione etica universale, di perenne valore per l’umanità; l’intera Torà e lo studio (Talmud) della Parola rivelata. (Ed il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica è fondamentalmente strutturato sulla storia della Salvezza, nel quadro della creazione, richiamando così lo schema della Torà). Tra i segni particolari della fede del popolo di Israele va ricordata la circoncisione. Di essa così parla il Catechismo della Chiesa Cattolica: “La circoncisione di Gesù, otto giorni dopo la nascita, è segno del suo inserimento nella discendenza di Abramo, nel popolo dell’Alleanza, della sua sottomissione alla Legge, della sua abilitazione al culto d’Israele al quale parteciperà durante tutta la vita. Questo segno è prefigurazione della ‘circoncisione di Cristo’ che è il Battesimo” (CCC, n. 527). Si può comprendere, quindi, che S. Tommaso abbia lungamente studiato questo evento dell’infanzia di Gesù, e al termine della Summa sia giunto alla conclusione che essa “dava la Grazia” in quanto “segno di fede nella passione di Cristo futura”(3).
Molte e varie possono essere le modalità di accesso al popolo di Israele e al suo mistero. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ce ne ricorda diverse, tra cui l’Epifania di Cristo, con queste parole: “L’Epifania è la manifestazione di Gesù come Messia d’Israele, Figlio di Dio e Salvatore del mondo; insieme con il battesimo di Gesù nel Giordano e con le nozze di Cana, essa celebra l’adorazione di Gesù da parte dei magi venuti dall’Oriente“. La venuta dei magi, che “rappresentano le nazioni pagane circostanti… sta a significare che i pagani non possono riconoscere Gesù e adorarlo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo se non volgendosi a giudei e ricevendo da loro la promessa messianica quale è contenuta nell’Antico Testamento. L’Epifania manifesta che ‘la grande massa delle nazioni’ entra nella ‘famiglia dei Patriarchi’ (San Leone Magno, Sermones, 23) e ottiene la ‘dignità israelitica’ (Messale Romano, orazione dopo la seconda lettura della veglia pasquale)” (CCC, n. 528). A proposito del popolo ebraico e della sua missione attuale si possono ancora ricordare alcune autorevoli affermazioni pontificie: “Dio agisce per amore gratuito. Questo amore lega Israele con Dio Signore in modo particolare e eccezionale. Per esso Israele è divenuto proprietà di Dio. Così nell’Alleanza (del Sinai) nasce un nuovo popolo, che è il popolo di Dio… Israele è chiamato ad essere un popolo di sacerdoti” (Catechesi del mercoledì, 16.08.89). “Israele fa l’esperienza di un Dio personale e salvatore (cfr. Dt 4,37; 7,6-8; Is 43,1-7), del quale diventa il testimone e il portavoce in mezzo alle nazioni. Nel corso della sua storia Israele prende coscienza che la sua missione ha un significato universale (cfr. ad esempio Is 2,2-5; 25,6-8; 60,1-6; Ger 3,17; 16,19)” (Redemptoris Missio, n. 12).
Con questi brevi cenni possiamo forse meglio entrare nelle profondità del mistero di quel popolo che è il popolo ebraico, e della conseguente comunione, che ci lega ad esso fin dalle radici della Chiesa, popolo della Alleanza rinnovata ed eterna. Papa Giovanni Paolo II riassumeva così (6.12.1990) gli elementi fondamentali su cui sviluppare oggi le relazioni religiose tra queste due parti del popolo di Dio: “Quando noi consideriamo la Tradizione Ebraica, osserviamo quanto profondamente voi venerate la Sacra Scrittura, la Miqrà e in particolare la Torà. Voi vivete una relazione speciale con la Torà, insegnamento vivo di Dio vivo. Voi la studiate con amore, nel Talmud Torà, per praticarla nella gioia. Il suo insegnamento dell’amore, della giustizia, del diritto, è ripetuto nei profeti – Nevi’im – e nei Ketuvim. Dio, la sua santa Torà, la liturgia sinagonale e le tradizioni familiari, sono certamente elementi caratteristici del vostro popolo, dal punto di vista religioso. E questi elementi costituiscono il fondamento del nostro dialogo e della nostra cooperazione”. A queste relazioni tutte particolari fra Chiesa e popolo ebraico fa chiaro riferimento anche il recente “Accordo fondamentale” fra S. Sede e Stato di Israele (30.12.1993).
II. L’Esilio
L’esperienza dell’esilio, della lontananza dalla patria, è presente fin dalle origini del racconto biblico: Adamo ed Eva sono esiliati dal Paradiso, Caino fugge ramingo dopo il fratricidio, i popoli si disperdono lontano da Babele. L’esilio e la prigionia toccano poi più direttamente il popolo ebraico: Giuseppe è venduto come schiavo agli Egiziani, Israele – il popolo del nord – è sottomesso agli Assiri nel 722 a.C., Giuda e Gerusalemme sono infine distrutti dai Babilonesi nel 586 a.C. Viene poi l’ultimo esilio, apparentemente interminabile, dal 70 d.C. al 1948, anno della rinascita di uno Stato d’Israele nella Terra dei Padri. Come già abbiamo visto a proposito del popolo di Dio, anche nell’esperienza dell’esilio ritornano alcune dimensioni fondamentali della vita di Israele: il suo rapporto con il Dio dell’Alleanza, con la Terra di santità, con gli altri popoli in mezzo ai quali è disperso. Infine, quasi al limite di ogni esperienza vissuta e possibile, si colloca un abisso di orrore che ha portato oltre l’esilio, in una notte oscura, il popolo ebraico in Europa sotto il dominio nazista: è stato lo sterminio sistematico, la Shoà. Mentre dall’esilio ci si poteva attendere che “un resto ritornerà”, germoglio santo della redenzione, dalla Shoà questa speranza viene negata in linea di principio. Possiamo dire che con la Shoà appare possibile un duplice esito dell’esilio: sia come redenzione (l’esito tradizionale annunciato dai profeti) sia come antiredenzione (l’esito diabolico dell’annichilimento del popolo ebraico). L’esilio di per sé non distrugge il rapporto fra Dio e il suo popolo, anzi, mentre ne rende più acuta l’esigenza, lo fa maturare, predisponendo alla conversione e alla redenzione. Costringendo a lasciare Gerusalemme, l’esilio fa comprendere, nel dolore, tutta la profondità e il valore spirituale del Santo dei Santi e dei sacrifici, cessati con la distruzione del Tempio. La Shekinà, la Gloria di Dio, non lascia per questo il popolo, ma va con lui in esilio in mezzo alle nazioni pagane, continuando a preparare così la diffusione universale del messaggio della salvezza rivolto in principio a un solo popolo particolare. Il profeta Ezechiele vede la gloria di Dio presso i deportati in Babilonia, e l’annuncia con queste parole. “Giunsi dai deportati di Tel-Aviv, che abitano lungo il canale di Chebar, dove hanno preso dimora… ed ecco, la gloria del Signore era là… (Ez 3,15.23); il profeta descrive anche l’esilio della Shekinà: “La gloria del Signore uscì dalla soglia del tempio” (Ez 10,18). E un testo della tradizione successiva aggiunge, come sentenza di R. Simon ben Jochai: “Vieni e guarda quanto è caro Israele al Santo, benedetto sia: in ogni luogo in cui essi vennero esiliati la presenza di Dio era con loro” (Meg 29a). Nell’esilio millenario si alzano più struggenti le lamentazioni attribuite a Geremia e le elegie, dense di commozione e di pianto per il Tempio distrutto. L’esilio è un costante appello alla conversione dal peccato e alla missione di Israele tra le nazioni pagane. In questo senso l’esilio di Israele è un caso tipico per ogni fatto simile della storia. L’esilio infatti è una situazione dolorosa e spesso drammatica, che, in vario modo, tocca tante persone umane e tanti gruppi sociali. Anche ai nostri giorni i fenomeni dell’emigrazione, delle guerre, delle fughe di intere popolazioni ci coinvolgono tutti. La risposta esemplare offerta dal popolo ebraico può pertanto essere considerata paradigmatica: nelle situazioni d’esilio scaturisce più intensa la preghiera, matura la coscienza della fraternità, si creano nuovi vincoli e strutture di solidarietà.
Ben diversa è la situazione di quell’aldilà dell’esilio che può rifarsi alla Shoà. L’immensità del martirio del popolo ebraico sembra qui invitarci a un infinito silenzio, dal quale possa scaturire un proposito, un gesto, un grido di perdono a causa del male compiuto. La conversione, dopo la Shoà, è un appello urgente e necessario non per il popolo ebraico in esilio, ma per coloro che hanno concepito e predisposto l’annientamento di questo popolo, e con esso, – per assurdo – l’annientamento di Dio stesso, se fosse stato possibile. Il paganesimo assoluto e mostruoso è apparso nel centro dell’Europa del XX secolo, dopo 2000 anni di annuncio del Vangelo.
Spesso, purtroppo, dobbiamo riconoscere che la dottrina cristiana aveva proposto un “insegnamento del disprezzo” nei confronti dei nostri fratelli ebrei. Dopo la Shoà, dobbiamo sostituirlo con “l’insegnamento del rispetto”, della conoscenza, della stima, dell’amore fraterno.
Perciò abbiamo bisogno anche noi della conversione, la Teshuvà, per riprendere insieme il cammino della salvezza. Preghiamo il Signore che ci dia occhi nuovi e energie rinnovate per questo pellegrinaggio. Infatti il popolo ebraico, aiutandoci a comprendere il senso di ogni sofferta lontananza dalla patria, ci invita a riflettere su forme particolari di esilio che toccano da vicino anche il popolo dei cristiani, il popolo di tutti i credenti in Cristo (cattolici, ortodossi, protestanti) e anche il senso di esperienza di esilio per i cattolici, nella loro totalità o in gruppi e aggregazioni o Nazioni diverse. Vi sono tante vicende storiche che possono essere interpretate come l’esilio da una patria, da una cultura, da un contesto culturale e sociale e anche politico al quale si era abituati e anche un po’ come adattati. In questo senso ogni privazione di un radicamento precedente, di una terra sicura sotto i piedi, di un terreno su cui contare, di un palazzo o di una casa spirituale da abitare con tranquillità, è una prova, una sofferenza, spesso anche uno strappo doloroso, un trauma. Ad esso si può reagire con la rabbia, oppure con una nostalgia rassegnata e passiva, o addirittura con il chiudere gli occhi all’evidenza e non volere che ci sia stato ciò che c’è stato, o volere a tutti i costi il ritorno a ciò che fu. È possibile invece reagire come i profeti hanno insegnato a Israele: riconoscendo la mano di Dio, lasciandosi purificare dalla prova, cercandone il senso.
Una particolare forma di esilio, di privazione della patria, è quella dell’esilio culturale, dello sfocarsi di evidenze ideologiche che costituivano la tela di fondo su cui esprimere i nostri pensieri, del venir meno di abitudini che sembravano ovvie. Vi sono, sia chiaro, alcune certezze che non verranno meno mai: sono quelle che riguardano l’amore di Dio che è stato diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo, l’amore con cui Cristo ci ha amato fino alla morte. Su questo non può cadere dubbio. Qui, come dice S. Paolo, “la speranza non delude” (Rom 5,5). Ma vi sono al contrario giudizi categoriali, abitudini mentali, processi ideologici su cui contavamo, che è bene che talora vengano messi in questione, per cogliere ciò che è essenziale. L’esilio diventa allora uno stimolo per il cammino.
III. Il cammino
La Chiesa crede di essere il popolo di Dio pellegrino nel mondo, popolo bisognoso di conversione e chiamato in Cristo a essere servo di pace tra gli uomini e i popoli. Nello stesso tempo, con eguale forza, la Chiesa riconosce egualmente nel popolo ebraico un popolo chiamato esso pure a una missione particolare di santità e di pace nel mondo. Anche la rinascita di uno Stato di Israele, che oggi sta cercando tenacemente le vie di una pace giusta con il popolo palestinese e con gli altri popoli della regione, è un segno di speranza per tutti. Pensatori, teologi ed esegeti, hanno il dovere di riflettere sui vari aspetti di questo popolo di Dio che si presenta in due diverse comunità di fede. Ma il fatto che abbiamo ripreso, dopo 2000 anni di estraneità, incomprensioni, persecuzioni, a parlarci e a camminare insieme, lavorando insieme per la pace e la giustizia, è una prova forse maggiore delle dimostrazioni teologiche, di cui pure abbiamo urgente bisogno. È quanto affermava il 2 febbraio u.s. il Card. Ratzinger a Gerusalemme durante in convegno interreligioso: “Penso che il nostro compito principale è diventato più chiaro… Ebrei e cristiani dovrebbero accettarsi reciprocamente in profondo spirito di riconciliazione interiore, non disprezzando o negando la propria o altrui fede, ma a motivo delle radici della loro fede. Nella loro mutua riconciliazione dovrebbero divenire una forza di pace nel mondo e per il mondo. Con la loro testimonianza dell’Unico Dio, che non può essere adorato senza un amore unico per Dio e per il prossimo, essi dovrebbero aprire per Dio la porta nel mondo, così che la Sua volontà sia fatta in terra così come è fatta in cielo, perché ‘venga il Suo Regno'”. Il nostro camminare insieme è un peregrinare operoso ed orante verso la Città di Dio, la celeste Gerusalemme, verso quella che possiamo chiamare tutti “la nostra terra”, il “nostro paese”, la “nostra città”.
Possiamo ascoltare in proposito, una delle grandi preghiere che nutrono la fede del popolo ebraico in cammino, la Ahavà rabbà, la preghiera del Grande Amore che dice così: “Di un grande amore ci hai amati, Signore, nostro Dio; di una grande, infinita pietà ci hai fatto oggetto. Nostro Padre, nostro Re, in grazia dei nostri progenitori che hanno avuto fede in Te e ai quali hai insegnato le tue leggi di vita, sii propizio anche con noi e istruiscici. Padre nostro, Padre misericordioso, clemente, abbi pietà di noi e dà al nostro cuore la facoltà di discernere e di comprendere, di ascoltare, di imparare e di insegnare, di osservare e di praticare con amore tutte le parole che studiamo nella Tua Torà. Illumina i nostro cuori con la luce della Tua Legge, avvinci il nostro cuore ai Tuoi comandamenti e disponi il nostro animo all’amore e al timore del Tuo Nome, sì che non abbiamo mai da arrossire. Noi fidiamo nel Tuo Nome santo, grande e venerabile e perciò noi giubileremo e gioiremo per il Tuo soccorso. Riuniscici in pace dai quattro angoli della terra e riconducici a testa alta nel nostro paese, poiché Tu sei Dio, autore di salvezza, e noi hai scelto fra tutti i popoli e tutte le lingue e ci hai avvicinati al Tuo Nome grande perché Ti lodiamo e proclamiamo la Tua unità con ardore. Benedetto Tu, Signore, che nel Tuo amore eleggesti il Tuo popolo Israele”.
La meta e il centro di questo cammino dei popoli è Gerusalemme. Verso di essa leviamo i nostri occhi, per la sua pace prega il nostro cuore. Ma non per questo dimentichiamo l’immensa e urgente sofferenza del mondo. Lavoreremo insieme, qui, ovunque. A Gerusalemme, Roma, Sarajevo. Pregheremo insieme per la pace, con preghiere diverse, ma riuniti, come abbiamo fatto ad Assisi, a Varsavia, a Malta, a Bari, a Bruxelles, l’anno scorso a Milano e quest’anno ancora ad Assisi. Tra gli impegni comuni vorrei ricordare anche quello contenuto negli accordi tra S. Sede e Stato d’Israele, per combattere ogni forma di antisemitismo e tutti i tipi di razzismo e di intolleranza religiosa. Altre aree e modalità di collaborazione sono state definite in maggio dal Comitato Internazionale Cattolico-Ebraico, che fu istituito nel 1970. Si è discusso dei temi della famiglia, ecologia e diritti umani. Per la prima volta, forse, dal 49 d.C., cioè dal Concilio di Gerusalemme, temi religiosi e precetti esplicitamente elaborati dalla comunità e dalla tradizione ebraica e dalla comunità cristiana (in questo caso in materia di famiglia) sono stati affermati come tali, e come tali sono entrati in un documento comune sulla famiglia. In questa dichiarazione comune si afferma “il valore sacro del matrimonio stabile e della famiglia… La famiglia è la risorsa più preziosa dell’umanità. Per ebrei e cristiani è una comunità stabile di amore e solidarietà fondata sull’Alleanza di Dio”. Camminando insieme stiamo cominciando a sperimentare e a capire che l’identità cristiana non ha bisogno, per affermarsi, di negare l’identità ebraica e la Torà, né, viceversa, l’identità ebraica si afferma negando il valore della Chiesa, popolo dell’Alleanza rinnovata nel sangue di Cristo. Ancor più fortemente e in modo asimmetrico, noi cristiani abbiamo invece bisogno, per comprendere la Chiesa, di affermare l’identità ebraica e la Torà. Franz Rosenzweig lo esprime in maniera efficace: “Se il cristiano non avesse alle sue spalle l’ebreo, si perderebbe, dovunque si trovi” (La stella della redenzione, p. 442).
Conclusione
Che cosa può derivare da tutto ciò per voi, popolo del Meeting di Rimini? Io vedo qui un grande monito e una grande missione. Si tratta di affermare la vostra identità nell’ambito dell’identità cristiana non nella contrapposizione ma nell’apertura e nella comprensione. Voi potrete capire sempre meglio voi stessi quanto più vi sforzerete di capire, amare, apprezzare tanti altri, anche molto diversi, cercando le radici dell’impegno comune. E parlando di impegno comune so che a voi sta a cuore in modo particolare quell’impegno comune per la famiglia di cui ho appena parlato e che il Santo Padre ci ha ripetutamente richiamato in questi mesi. Il documento ebraico-cristiano sulla famiglia del maggio scorso, sopra citato, dice ancora: “La società è chiamata a sostenere i diritti della famigliae dei membri della famiglia, specialmente donne e bambini,il povero e il malato, il giovanissimo e l’anziano, a una sicurezza fisica, sociale, politica ed economica. I diritti, doveri e opportunità delle donne sia in casa come nella più ampia società devono essere rispettati e promossi. Nell’affermare la famiglia, noi vogliamo raggiungere nello stesso tempo anche altre persone come le persone non sposate, i parenti singoli, i vedovi e le vedove e coloro che non hanno bambini, nelle nostre società e nelle nostre sinagoghe. In vista della dimensione mondiale della questione sociale oggi, il ruolo della famiglia è stato esteso così da coinvolgere una cooperazione per un nuovo senso di solidarietà internazionale”.
Sono certo che voi siete pronti a dare la vostra collaborazione con tante altre religioni e culture su tutti questi temi e che volete contribuire in particolare a una più profonda comprensione tra la cultura cristiana e la cultura ebraica. La nostra reciproca estraniazione di ebrei e cristiani è durata 20 secoli, ci siamo inflitti reciprocamente un esilio ingiusto che ha privato noi e il mondo di immense ricchezze spirituali. Si è trattato, insieme, di un esilio dalla Terra di Dio e dalla casa del fratello. Ecco ora il tempo propizio, il momento favorevole: lavoriamo da fratelli e sorelle perché altri fratelli e sorelle, altri popoli, passino dall’esilio al cammino comune, dall’esilio al santo pellegrinaggio verso la Gerusalemme che è nostra madre, città di pace e di giustizia.