Chi siamo
IL “MONDO PICCOLO” DI GIOVANNINO GUARESCHI. LETTURE E DIALOGO
Il "mondo piccolo" di Giovannino Guareschi. Letture e dialogo
Partecipano: Egidio Bandini, Giornalista e Presidente del “Club dei Ventitré”; Francesco Bisero, Disegnatore della serie Don Camillo a fumetti; Alberto e Carlotta Guareschi, Figli di Giovannino Guareschi. Introduce Paolo Gulisano, Scrittore.
PAOLO GULISANO:
Giovannino Guareschi è tornato, è tornato al Meeting, c’era stato la prima volta nel 2008, sei anni fa, quando il Meeting volle dedicargli una mostra nel centenario della sua nascita. Una mostra che colpì, che lasciò il segno, che fece conoscere un po’ di più quello che è uno degli scrittori italiani più amati, oltre ad essere il più letto e il più tradotto nel mondo, anche se non apprezzato come meriterebbe dalla critica e dalla cultura ufficiale. Giovannino Guareschi forse non era un intellettuale, ma era un grande scrittore.
Quest’anno è tornato, come avete visto, con una mostra un po’ particolare, una mostra non mostra, in compagnia di un altro personaggio un po’ strano, eccentrico, nel senso letterale del termine, cioè periferico, un po’ fuori delle norme, dalle regole che è Enzo Jannacci. Qualcuno si è chiesto il perché di questo accostamento curioso Guareschi-Jannacci, che non si sono mai incontrati e non si sono mai conosciuti, che c’entra l’uno con l’altro? Qualche mese fa, in effetti, diciamo che una sorta di commissario tecnico convocò una vera e propria nazionale degli studiosi, degli appassionati, di Guareschi e di Jannacci; questo commissario tecnico si chiama Giorgio Vittadini che ringrazio per questo. Giorgio ha avuto questa idea e fece queste convocazioni. All’inizio ci guardavamo l’un l’altro, come dire, conservando un po’ l’attaccamento soprattutto alla squadra di Club di provenienza, quindi c’è chi si sentiva, come anche il sottoscritto, più guareschiano, c’erano invece gli Jannacciani. Poi il commissario tecnico ci ha invece fatti giocare insieme, ci ha fatto giocare di squadra e il risultato sono quei quarantacinque minuti, giusto come un tempo di una partita, del video dalla mostra. Abbiamo richiamato Giovannino Guareschi perché lo consideriamo un vero e proprio maestro di umanità. Guareschi con il Mondo Piccolo ci ha parlato di un’umanità periferica, l’umanità della bassa, l’umanità che non conta, che non occupa posti di potere, che magari apparentemente non fa la storia ma che è un’umanità cui guardare con occhi pieni di stupore. I personaggi del Mondo Piccolo, ecco, appunto, la mostra e anche questo incontro di oggi, vuole richiamarci ai personaggi del Mondo Piccolo. Vogliamo far parlare Guareschi attraverso i personaggi che lui ha creato in quel Mondo Piccolo che è anche il mondo di tutti noi, anche se è un mondo inventato. Lo stesso Giovannino scriveva: “Il piccolo mondo del Mondo Piccolo, non è in nessun posto fisso, il paese di Mondo Piccolo è un puntino nero, che si muove assieme ai suoi pepponi e ai suoi smilzi, in su e in giù, lungo il fiume, per quella fettaccia di terra che sta tra il Po e l’Appennino”. Un’umanità reale, concreta, grande e allo stesso tempo anche meschina, perché nel Mondo Piccolo c’è spazio per tutti, ci sono tanti tipi umani, quelli appunto un po’ strambi, quelli che sono dei santi senza magari saperlo, come il caso di uno dei racconti che io ancora oggi non posso leggere senza commuovermi, che è Giacomone. Ci sono anche personaggi meschini, cattivi, perché c’è anche questo nella vita umana, ci sono personaggi come il Cagnini, che gode nel vedere la rovina degli altri, attaccato avidamente ai soldi, insomma un mondo reale quello che Giovannino ha dipinto, anche se a volte sembra bello come una fiaba.
Per parlare di Giovannino Guareschi oggi, abbiamo degli ospiti d’eccezione: abbiamo alla mia sinistra Egidio Bandini, che è il Presidente del “Club dei ventitré”, che è qualcosa di più di una semplice associazione di lettori di Guareschi, è veramente il sodalizio umano che conserva la memoria e la passione per la figura e l’opera di Guareschi. Egidio è uno scrittore e un giornalista e tra l’altro, recentemente, ha avuto anche il coraggio da buon discepolo, allievo di Giovannino Guareschi di rilanciare il Candido, quello che era il grande giornale, il settimanale di battaglia che Giovannino Guareschi fondò e diresse per tanti anni, quindi adesso Egidio ha avuto questo coraggio, è il co-direttore del Candido, il Nuovo Candido, un quindicinale. Doveva essere con noi oggi anche un altro giornalista di un quotidiano un po’ meno di battaglia, anzi un quotidiano molto aplomb, che è Michele Brambilla de La Stampa, purtroppo Michele, che è anche un carissimo amico di tutti noi, oggi non è qui per dei grossi problemi famigliari e comunque vi saluta e ringrazia il Meeting per questo invito. E poi abbiamo una testimonianza d’eccezione, abbiamo detto che nel Meeting e nella mostra facciamo parlare i personaggi, bene qui abbiamo oggi due persone che sono state anche dei personaggi delle storie di Giovannino Guareschi. Chi non ricorda Albertino e la Pasionaria e sono qui con noi Alberto e Carlotta Guareschi, i figli dello scrittore che conservano anche loro, con una devozione commovente, l’impegno di portare avanti l’opera di loro padre, di continuare a far sì che venga pubblicato, che venga conosciuto, che gli si renda merito, che gli si renda giustizia. Questo è ciò che fanno Alberto e Carlotta.
Ma dicevo anche che è curioso avere due persone in carne ed ossa che sono stati dei personaggi di questa saga di vita famigliare, che fu l’altra saga letteraria oltre a quella di Mondo Piccolo che Giovannino Guareschi portò avanti dal 1940 in poi. Anzi è buffo, come dire, notare una coincidenza: Guareschi era giornalista di vaglia già negli anni ’30, ma il suo primo libro esce nel 1940, esce con la nascita di Alberto, si può dire che Alberto sia nato insieme ai libri di suo padre, poi dopo tre anni arrivò anche Carlotta, che però arrivò in un momento, in una circostanza particolare in cui Giovannino Guareschi non poteva scrivere libri perché era in un lager nazista, ma in quel lager nazista se non poteva scrivere libri scriveva comunque le memorie di quello che vedeva accanto a sé, di quella realtà terribile. Scrisse, infatti, Il diario clandestino e fece sì che le condizioni di vita in quel lager potessero essere più umanamente sopportabili per chi era accanto a lui. Un cappellano militare testimoniò che Giovannino Guareschi disse che Giovannino fece per i prigionieri dei lager in cui era, più di tutti i loro cappellani messi insieme. Semplicemente, appunto, tenendo desta la speranza, raccontando, scrivendo, addirittura dedicò a Carlotta, che era nata senza che lui la potesse vedere perché era nel lager, una canzone, la canzone di Carlotta. Ecco allora, Alberto e Carlotta, vostro padre abbiamo osato definirlo un maestro di umanità, per voi cosa è stato? Chi di voi comincia? Prima le signore giustamente…Carlotta
CARLOTTA GUARESCHI:
Posso dire solo che è stato un gran babbo. È stato un grande padre e purtroppo l’ho goduto poco perché se ne è andato che era molto giovane, era una persona con la quale si stava molto bene in compagnia, amava i giovani, amava la gente, e aveva il dono di saper ascoltare le persone. Si capiva che gli interessava davvero quello che tu gli dicevi e aveva sempre poi la parola giusta, il consiglio… ma neanche, non è che pontificasse, però ti faceva un ragionamento e poi tu arrivavi a capire quale era la soluzione. Io l’ho potuto godere un po’ di più – prima era molto impegnato – negli ultimi anni, cioè i meno felici della sua vita, perché gli ultimi anni non sono stati belli per lui, era ammalato, sofferente, umiliato e avvilito, perché non poteva avere un giornale tutto suo sul quale scrivere quello che voleva. Si era organizzato ma non era ancora arrivato alla fine; il primo numero del Candido è uscito il giorno del suo funerale.
Comunque in questi ultimi anni era in casa quindi io lo avevo più vicino, abbiamo fatto tanti giri in macchina, mi ha insegnato a guidare, diceva che guidavo benissimo, non era vero, ma è lo stesso: “No, no, tu guidi bene!” Andavamo a visitare delle città, mi portava a trovare dei suoi amici, una vita molto semplice, e una vicinanza che prima non avevo mai potuto avere ed era bello perché lui era un padre autorevole, perché lui era il babbo e non esisteva il pensiero il babbo è un amico, sì, è un amico fino a un certo punto, il babbo è il babbo. Però mi ha portato sulla cattiva strada, perché io studiavo a Cremona e quando mi portava alla pensione dove alloggiavo, il lunedì, per venirmi a riprendere al sabato, forse ricordando i sui trascorsi giovanili quando per lui stare lontano da casa, stare in collegio era come morire, sul ponte di Cremona mi diceva: “Ma tu, vuoi proprio proprio andare a scuola oggi?”, e così mi portava in giro e m’ha fatto fare tante assenze, è stato chiamato dal preside che lo ha sgridato, ma c’eravamo, perché era furbo, c’eravamo preparati prima e allora lui ha detto in parte anche la verità, che era stato poco bene, aveva avuto un infarto, non guidava volentieri, e che quindi io gli facevo da autista, e poi m’aveva fatto un elenco di matrimoni o funerali ai quali avremmo partecipato, eravamo preparati ma il preside non l’ha bevuta comunque. E’ andata così. Io ho dei ricordi belli in questo senso, però ho anche il rimpianto, come dicevo prima, di averlo goduto poco.
PAOLO GULISANO:
Anche perché, ricordiamolo appunto, Giovannino Guareschi morì a soli sessant’anni, il suo grande cuore si ruppe, forse segnato dalle tante sofferenze, non solo quelle del lager, anzi forse gli fece più male quella carcerazione ingiusta della metà degli anni ’50, e tra l’altro morì a pochi chilometri da qua, a Cervia, dove era in vacanza, quindi è anche bello che per questo Rimini ricordi Giovannino Guareschi. Invece per Alberto, questo babbo così importante, che ti descrive poi nei suoi racconti, anzi forse tu gli avevi dato anche una ragione di vivere, perché quando era nel lager, a un certo punto – è uno degli episodi credo più belli anche questi commoventi – arriva a Czestochowa perché i nazisti, in spregio anche alla fede del popolo polacco, avevano fatto a Czestochowa, dove tutti sappiamo c’è quel grande Santuario mariano, avevano fatto un campo di concentramento, e lì portano Guareschi. E Giovannino scende dal treno e vede, mentre è lì in catene con gli altri prigionieri italiani, vede un bambino polacco con in mano una mela che lo fissa e Guareschi fissa la mela e vede i segni dei dentini del bambino sulla mela, e gli viene in mente un’immagine analoga del suo bambino, cioè di Alberto con i dentini, il segno, l’impronta dei dentini sulla mela, e dice quella frase stupenda: “Io non muoio neanche se mi ammazzano, perché devo tornare a casa”. Non lo dice per una volontà di potenza, lo dice per una volontà di amore, “io devo tornare a casa dalle persone a cui voglio bene”. Ecco, questo padre così importante, personaggio discusso, amato, per te, per te cos’è stato?
ALBERTO GUARESCHI:
Io ricordo di mio padre la profonda umanità, e ricordo un episodio che risale proprio al periodo nel quale mia sorella bigiava la scuola tutti i lunedì. Io allora ero Ufficiale di complemento di artiglieria da montagna, ed ero in servizio a una caserma di Vipiteno, e mio padre ha deciso, nonostante che avesse appena fatto un infarto, ha deciso di venirmi a trovare. Lui amava moltissimo il Corpo degli Alpini e così si è preso su un giorno lui, mia mamma e, alla guida della macchina, visto che mio padre aveva fatto un infarto piuttosto grave pochi mesi prima, c’era mia sorella che aveva appena preso la patente. Ad ogni modo è andato tutto molto bene, è arrivato a Vipiteno, e, quando è arrivato, me lo sono trovato sulla porta della caserma. Io ero Ufficiale di picchetto e allora la guardia mi chiama e mi dice: “C’è della gente che vuole parlarle”. Sono andato al cancello e ho visto che c’erano mio padre, mia madre e mia sorella. E allora ci siam salutati, poi lui m’ha detto: “Potrei vedere i muli?”, era proibito far entrare della gente in caserma, e allora io ho detto, c’era già buio, era sera, ho detto alla guardia: “Apri il cancello, falli entrare”. E li ho accompagnati in una delle due scuderie, nella scuderia della mia batteria, che era la Ventesima, e siamo arrivati sulla soglia, lui si è fermato come un bambino proprio, ha visto i muli che sono bestie meravigliose, bellissime in questa scuderia con la luce fioca, il rumore dei ciottoli sopra il pavimento e poi si sentivano le catene che continuamente si muovevano, perché i muli erano legati e spostavano la testa di qua e di là, e ho guardato in faccia mio padre e ho visto che era molto contento, sorrideva, era come se un ragazzino fosse riuscito finalmente ad ottenere una cosa che desiderava da tanto tempo. Ecco, per me questo è l’aspetto vero di mio padre, era un uomo vero, che si emozionava per le piccole cose e riusciva a farti condividere questa sua emozione come riesce ancora adesso con i suoi libri, che catturano i suoi lettori e li fanno sorridere e li fanno commuovere e li fanno pensare.
PAOLO GULISANO:
Egidio, Egidio Bandini, questo nome così manzoniano, lo sciagurato Egidio, Manzoni era uno tra l’altro dei maestri di Guareschi, dai Promessi Sposi aveva imparato molto, aveva imparato il concetto di Provvidenza, e tra l’altro i Promessi Sposi gli erano stati fatti conoscere da suo padre, da vostro nonno, che non aveva letto molti libri nella sua vita, ma aveva letto i Promessi Sposi e li aveva fatti conoscere a Giovannino. Allora non sciagurato Egidio, tu invece sei figlio non di una terra manzoniana come invece lo sono io, ma tu sei figlio della terra di Verdi, oltre che della terra di Giovannino Guareschi: Roncole Verdi dove vivono Alberto e Carlotta, e dove c’è la centrale operativa del “Club dei Ventitré”. Ecco, Giuseppe Verdi aveva un’espressione che tu credo ami molto e che riproponi anche nei tuoi scritti e nei tuoi libri e che ha molto a che fare anche con l’arte di Guareschi. Giuseppe Verdi parlava di “invenzione del vero”.
EGIDIO BANDINI:
Sì, in effetti. Intanto buongiorno a tutti e grazie di essere così numerosi. Grazie anche a Paolo, a Giorgio Vittadini, che mi hanno invitato.
E’ vero, Giuseppe Verdi diceva: “Copiare il vero può essere una buona cosa, inventare il vero è meglio, molto meglio”. Inventare il vero è quello che ha fatto Guareschi. Adesso, ascoltando le testimonianze di Alberto e Carlotta, mi viene alla mente quella frase che Giovannino scrisse in un’autobiografia richiesta da una professoressa di lettere, nella quale dice: “Io ho una motocicletta di sessantacinque centimetri cubi di cilindrata, un’automobile utilitaria di cinquecento centimetri cubi di cilindrata e una moglie e due figli dei quali non sono in grado di precisare la cilindrata, ma che mi servono moltissimo perché li uso come personaggi nelle mie storie”. E così Guareschi ha fatto, i personaggi delle sue storie sono personaggi veri, tanto che nel ’51, quando ci fu la drammatica alluvione, arrivarono dei pacchi di vestiti, di aiuti indirizzati alla gente di don Camillo e Peppone. E lo stesso Guareschi disse: “Mi commossi talmente tanto, da arrivare a pensare di non essere un cretino qualsiasi, ma un cretino importante”. Don Camillo e Peppone, ma non solo, tutti i personaggi di Mondo Piccolo, e quelli del Corrierino delle famiglie, perché in fondo è la storia di tutti noi, delle nostre famiglie, di quello che succede in casa di tutti, sono personaggi veri, sono personaggi che, quando leggiamo questi racconti, ci accorgiamo il più delle volte di avere già incontrato, di conoscerli in qualche modo. Sono persone che possono essere nostri vicini di casa, il lattaio, il bottegaio, il giornalaio, il nostro medico, un amico, un cugino, chi arriva in paese per la Sagra, ce li ritroviamo intorno comunque, perché il Mondo Piccolo non è soltanto il paese della bassa che si muove in su e in giù per il Po, con il Peppone, gli Smilzi e tutta l’altra mercanzia, ma il Mondo Piccolo è anche un quartiere della grande città, è addirittura il cortile di un condominio.
Tutto questo è Mondo Piccolo. E la magia di Guareschi sta in questo: con pochi tratti di penna ci mette davanti dei personaggi veri, i quali in quel momento, in quel luogo sono i protagonisti della storia. La favola di Mondo Piccolo, quello cui faceva cenno Paolo prima, la favola di Mondo Piccolo è questa: qualsiasi personaggio si affacci sulla scena diventa protagonista, in quel momento c’è spazio solo per lui. Non esistono don Camillo e Peppone, lo Smilzo, il Brusco, la Desolina del negozio che mette fuori i numeri del lotto. Quando Peppone va a farglieli togliere, perché erano i numeri riferiti alla morte di Stalin, diventa la protagonista e dà una lezione di vita straordinaria a questa gente. Diceva: “Ma io mi limito a fare quello che la mia coscienza mi dice; io devo mettere i numeri a quello che è successo, c’è un libro che fa riferimento agli eventi e a quello che è successo ed io faccio questo. Per cui lei non mi può dure niente, anche se è il sindaco”. Sono dei personaggi talmente straordinari, da essere più veri del vero, se mi permettete il bisticcio di parole. Ed è vero che Guareschi parla di personaggi in qualche modo periferici, perché il piccolo paese di Mondo Piccolo è una periferia, è provincia quanto meno. E ci sono questi personaggi strani, particolari, Giobà, il campione che va a comprare la Gazzetta dello Sport in città, perché quella che vendono in paese non dà sufficienti garanzie di serietà. C’è il camionista, il Cric, che con questo suo camion, che chiamano il leopardo, perché è pieno di macchie di ruggine, non si arrende nemmeno quando il camion si rompe. Lui aspetta che riparta, finché la piena del fiume non lo travolge e tutti vedono passare il camion fantasma sugli argini. Quindi cose anche, se vogliamo, in parte assurde, paradossali, ma comunque vere, veritiere, perché questo personaggio quando ne leggiamo, questo Cric che alla fine addirittura evita di schizzare don Camillo con il fango di una pozzanghera, nonostante sia fantasma, lui e il suo camion che erano una cosa sola, si redime. C’è sempre questa porta aperta alla speranza, anche quando ci sono personaggi negativi, personaggi meschini come il Cagnini di cui parlava Paolo prima. Alla fine c’è sempre aperta la porta della speranza, perché questi personaggi ricevono comunque una lezione di vita, per cui anche loro hanno la possibilità di redimersi.
Questo non solo nel Mondo Piccolo, anche nei romanzi. Parlavo prima con Giorgio Vittadini di Il destino si chiama Clotilde, che è un romanzo favoloso, divertentissimo, ma anche capace di fare pensare, riflettere su questi personaggi in parte paradossali. Anche ne Il marito in collegio ci sono queste figure, la nonna che a un certo momento riceve una lezione per cui si immagina che anche lei possa cambiare, e tutto questo può essere considerato la periferia. Un luogo diciamo non al centro dell’attenzione, però Giovannino Guareschi un centro ce l’ha, eccome, e questo centro è il crocefisso che parla, il crocefisso che parla, che è la voce della coscienza di Giovannino, che è quello che poi alla fine riesce a mettere d’accordo tutti. Tutti i personaggi in fondo si ritrovano nella voce del Cristo che arriva, ricompone, smorza i drammi, riesce a dare ancora speranza: è la Grazia che mette d’accordo tutti. E Peppone, pur essendo comunista, pur essendo contrario al pensiero di don Camillo che ovviamente da sacerdote vede le cose dal punto di vista della religione, del cristianesimo, a un certo momento, quando ascolta la voce della coscienza, diventa forse più abbandonato alla provvidenza di quanto non lo sia don Camillo, e quindi riusciamo a capire come in fondo avesse ragione quel giornalista della Gazzetta di Reggio che, il giorno dopo il confronto che venne fatto prima del film con gli esponenti del Partito Comunista a Reggio Emilia, disse: “Attenzione, Peppone non è un comunista, Peppone è Guareschi”. Sì, Peppone, don Camillo e il Cristo sono Guareschi, tutti e tre, e la magia sta appunto in questo.
PAOLO GULISANO:
Avrete notato che a questo tavolo non ci sono soltanto i relatori presentati, c’è anche un altro strano personaggio silente, che sta facendo altro mentre noi parliamo ed è Francesco Bisaro, che è un disegnatore della Renoir che qua continuiamo a dire coraggioso Bandini che fa uscire il Candido, coraggiosa la Renoir che è questa piccola ma valente casa editrice che sta riproponendo il Mondo Piccolo attraverso i fumetti. Ci vuole, infatti, anche un certo coraggio, proprio perché, potremmo dire, l’immaginario collettivo da cinquant’anni in qua, quando si parla appunto di Mondo Piccolo, è dominato dalle versione cinematografica: dici don Camillo e pensi alla faccia di Fernandel. Allora, Francesco, cosa vuol dire disegnare il Mondo Piccolo, disegnare Guareschi, disegnare il suo mondo e i suoi luoghi, queste storie grondanti di umanità?
FRANCESCO BISERO:
Buongiorno a tutti, io sono una personcina di paese, quindi immaginatevi cosa possa provare io oggi di fronte a tutti voi. Grazie. Poi con la telecamera, tutto quanto, dire che sono emozionato è davvero poco, ma soprattutto sono emozionato per aver conosciuto i figli di una persona di cui io ho amato subito i personaggi. Io sono del ’74, ho quarant’anni quest’anno, ma comunque quando ero bambino li vedevo, anche se il colore c’era già, ma li guardavo e li riguardavo al punto che cinematograficamente parlando, li conosco a memoria, e da lì poi mi sono appassionato a tutto quanto. La domanda, in effetti, mi ha messo un po’ in crisi, nel senso che conoscevo i personaggi ma non conoscevo in sé Guareschi. Io sono un disegnatore dell’ultimo momento, sono entrato in Renoir l’altro ieri praticamente, ho soltanto fatto la storia che trovate nel catalogo, è la mia prima storia di don Camillo, ma quando ci si raffronta con un personaggio che hai amato da una vita, hai due sentimenti: il primo, quando ti dicono “attenzione però, che non deve assomigliare a Fernandel e a Gino Cervi, eh no. Deve essere il don Camillo degli scritti, e il Peppone degli scritti”. La prima cosa è “e adesso come faccio?” dato che la prima cosa che mi viene in mente, come a tutti penso, è il volto di Fernandel? Ti metti lì e cominci a studiare il volto, l’unica cosa che ho dovuto praticamente studiare da zero e sto continuando a studiare, perché il resto era già tutto dentro il mio DNA. Ho scoperto che la gestualità, le inquadrature, i paesaggi, quella cosa che percepisci che non esiste più se non lì, era già dentro di me, quindi mi è venuto abbastanza facile, meno male, perché già avevo problemi per il volto, se dovevo anche pensare all’altro… Mi sono rapportato, spero, con tutta l’umiltà possibile, perché ripeto sono ancora apprendista, sto ancora imparando questi personaggi, che comunque mi hanno preso immediatamente. Ho conosciuto un don Camillo diverso da quello che conoscevo dal cinema, è un don Camillo che ha sfaccettature che non pensavo, e quindi da lì rifletto sul disegno. Lasciate che io ringrazi Davide Barzi per l’opportunità, perché questa oggi è la mia prima esperienza sotto la telecamera con tutti voi che mi guardate, quindi spero di essere all’altezza della situazione. Non voglio dilungarmi oltre, posso soltanto dire che dalla redazione ho avuto uno dei più bei complimenti che potessi avere, e cioè mi hanno fatto i complimenti per i fumetti che sto al momento facendo, e sono ancora inediti, per la recitazione. Vuole dire che ho interpretato correttamente le movenze dei personaggi.
PAOLO GULISANO:
Grazie Francesco, tu riprendi pure a disegnare, poi vediamo alla fine cosa viene fuori di questo spaccato di Mondo Piccolo che stai realizzando in tempo reale. Prima sia Alberto che Egidio Bandini dicevano “Guareschi non è soltanto un comico, non è qualcuno che ci ha fatto sorridere”, questo è già qualcosa, per lui l’umorismo era l’arte di far felice il prossimo, che non è poco, ma le sue pagine grondanti di umanità, dicevamo, ci fanno anche allo stesso tempo pensare e ci fanno commuovere. Sono tantissimi i racconti che si potrebbero citare, ma ce n’è uno in particolare che colpisce e che con questa nostra mostra e con questo nostro desiderio di rendere omaggio al Guareschi cantore della dignità umana, – perché come diceva anche giustamente ieri sera il commissario tecnico Vittadini, quello che accomuna di più Guareschi a Jannacci è l’avere sottolineato il valore della dignità umana, descritta nelle canzoni di Jannacci e nei racconti nelle pagine di Guareschi – dicevo, questo racconto che più di ogni altro mi sembra testimoniare questo è Il decimo clandestino, un racconto ambientato in un’Italia che non c’è più, nell’Italia del dopoguerra, l’Italia della ricostruzione. Guareschi alla ricostruzione aveva dato una grande mano, appunto facendo il suo lavoro, il giornalista, quindi denunciando quello che non andava bene, ma anche sottolineando quello che c’era di bello e di buono in quell’Italia che andava risollevandosi dalle macerie morali oltre che materiali. In quel racconto si parla di una donna che viene in città a cercare lavoro con nove figli. Il lavoro alla fine lo trova, ma una casa, per una vedova con nove figli, non sembrava esserci, e allora deve ricorrere a una piccola bugia, deve nascondere il fatto di avere questi figli, e finalmente trova questo appartamento e inizia una vita strana, clandestina, perché esce presto al mattino con i suoi bambini, li porta a scuola, va a lavorare, poi la sera li riprende e alla chetichella, di nascosto, col buio, rientrano in casa. Un bel giorno però il gioco viene scoperto dalla signora, la padrona di casa, che non sopportava l’idea di vedere un bambino, dei bambini, figuriamoci nove, perché la felicità altrui le dava fastidio, perché anche lei aveva avuto un bambino, ma l’aveva perso. Ecco, spesso è facile essere solidali verso il dolore degli altri, è molto difficile essere solidali verso la gioia degli altri, perché c’è un brutto sentimento che si chiama invidia, che magari a volte nasce dal dolore. Guareschi non giudica nessuno nelle sue storie, perché un artista non deve dimostrare niente, deve solo mostrare la realtà, ed è quello che Giovannino ha sempre fatto; e allora in quel racconto ci mostra però a un certo punto cosa c’è, cosa scatta, cosa può scattare nel cuore di una persona, e cosa succede quando nella realtà fa irruzione in qualche modo misterioso il soprannaturale, e allora può capitare che il dialogo tra la signora padrona di casa e la signora Marcella, che è la donna che aveva nascosto i suoi bambini, possa procedere in questo modo.
Video
«La signora l’attendeva in sala, seduta in una poltrona di damasco. “Favorisca smetterla anche con la commedia dell’uscita all’alba e del rientro a mezzanotte”, le disse la signora con voce dura. Dietro le spalle della signora, appeso al muro, era un grande ritratto a olio della signora con un bambino bellissimo in grembo. La Marcella guardò incantata il dipinto. Aveva già visto da qualche parte il viso di quel bambino meraviglioso. Ritrovò, difatti, il viso di quel bambino nel medaglione che la signora portava sul petto. Allora la Marcella diventò rossa come il fuoco. “Mi dispiace” balbettò. “Cosa le dispiace?” esclamò la signora. “Le dispiace di avere nove figli e tutti vivi e sani?”
“Sì signora” rispose la Marcella. “È la prima volta, nella mia vita, che mi dispiace di averli”. “Non dica stupidaggini!” esclamò la signora. “E, oggi nel pomeriggio, li porti a spasso”. La signora rimase appostata dietro lo spioncino della scala fino a quando non ebbe visto i nove clandestini scendere, in fila indiana e in punta di piedi. Poi, quando il sole incominciò a calare, ritornò dietro lo spioncino perché voleva vederli ritornare. Dovette aspettare fino a sera fatta. E non li sentì ritornare perché la banda camminava in punta di piedi e in perfetto silenzio. La scala era immersa nel buio ma un finestrone era illuminato dalle lampade della strada e così la signora poteva vedere le ombre dei clandestini passare davanti a quello schermo chiaro. Prima passò l’ombra madre e, dietro, aggrappato alla sottana dell’ombra madre, l’ombra del clandestino più piccolo. Poi l’ombra del clandestino numero due. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei… La signora contò le ombre dei clandestini. Arrivata a nove, fece per ritirarsi ma ecco apparire una decima ombra. Ed era l’ombra di un bambino completamente diverso da tutti i nove clandestini. E, arrivata al centro dello schermo luminoso della finestra, l’ombra sostò e alzò un braccio e agitò la mano in segno di saluto. Sì: salutò proprio lei. Proprio la signora.
Il decimo clandestino salutò, e poi seguitò la sua strada e uscì dallo schermo e diventò
ombra nell’ombra. Ma la signora ormai l’aveva riconosciuto e adesso i suoi occhi erano pieni di pianto, ma il suo cuore era pieno di serenità».
PAOLO GULISANO:
La voce di Giorgio Bonino è anche la voce narrante del video della mostra. Carlotta, tuo padre raccontava delle grandi verità con delle parole estremamente semplici; come faceva?
CARLOTTA GUARESCHI:
Credo che solo i grandi siano in grado di fare queste cose, d’altra parte lui diceva che pensava in dialetto, e se la frase che voleva scrivere in dialetto non veniva bene, cambiava frase perché si vede che non andava bene. In questo era molto simile, secondo me, a il nostro vicino di casa Giuseppe Verdi, che riusciva a trasmettere emozioni e pensieri agli ascoltatori anche se questi ascoltatori non erano degli esperti di musica. Nostro padre sa parlare a strati, un bambino coglie le parole che sono adatte a un bambino, poi man mano che si cresce ci si accorge che si va sempre più in profondità, e ti sembra di leggere sempre qualcosa di nuovo, invece sei tu che cambi, sei tu che cambi perché invecchi, perché maturi forse, non so come facesse, comunque era bravo.
PAOLO GULISANO:
Alberto, tu una volta in un’intervista hai parlato di Peppone e hai spiegato questo personaggio così caro al cuore di tuo padre che quando cominciarono a girare la prima versione cinematografica, tuo padre addirittura si candidò per fare la parte di Peppone, fece anche alcuni ciak, poi dopo con il regista si pensò di soprassedere e quindi il ruolo fu dato a Gino Cervi. Può sembrare strano che tuo padre abbia dipinto questo personaggio così positivo, un personaggio che era un comunista e tuo padre è stato considerato, giustamente, uno dei campioni dell’anticomunismo. Lo diceva prima anche Egidio Bandini, in realtà, in Peppone c’è molto di Guareschi, un’umanità vera, un’umanità profonda. C’è un racconto straordinario, che si chiama Il fantasma col cappello verde, dove prima delle elezioni Peppone, che essendo comunista era uno scomunicato, e ufficialmente doveva essere un anticlericale, va in chiesa a pregare per venire eletto, è una cosa assurda, va a pregare il buon Dio che gli faccia vincere le elezioni e diventare il sindaco del Partito Comunista. Il bello è che poi Peppone vince e va a ringraziare il Signore di averlo aiutato, e don Camillo si arrabbia ovviamente con Gesù, il quale gli dice “tu stai tranquillo, vedrai che poi capirai perché le cose sono andate così”, perché c’è evidentemente un disegno. Tra l’altro in questo racconto c’è un’incredibile religiosità, profonda, naturale di Peppone, perché questo andare a pregare Dio di fargli vincere le elezioni, anche se per un partito ufficialmente nemico della chiesa, in realtà era riconoscere che c’è Qualcuno più grande di lui, a cui chiedere aiuto, cioè il buon Dio. Ecco, tu hai spiegato che tuo padre in fondo aveva dipinto Peppone in questa maniera, perché?
ALBERTO GUARESCHI:
Non bisogna dimenticare che Peppone prima di essere comunista, è un grande galantuomo, perché Peppone è una delle due parti del cuore di nostro padre, per cui mio padre non poteva far fare a Peppone delle cose che lui non approvava. Per quello che riguarda la parte di Peppone che mio padre doveva fare, era stato il produttore che aveva avuto questa idea, che aveva pensato che, se l’autore di un personaggio avesse interpretato al cinema il suo personaggio, il film avrebbe avuto molto più successo. Non credevano molto nel successo del film, e quindi mio padre di buon grado si è prestato a provare a girare una scena, e il regista, Julien Duvivier, non era d’accordo, perché se mio padre avesse dovuto fare la parte di Peppone, la parte di don Camillo l’avrebbe fatta Gino Cervi, e così i due attori principali, chiamiamoli così, sarebbero stati italiani, e Duvivier, come tutti i francesi, voleva che almeno uno dei due personaggi fosse francese. Così ha fatto ripetere questa unica, prima e ultima scena a mio padre per quattordici volte, finché mio padre l’ha mandato all’inferno e si è tolto, si è strappato proprio i panni di dosso.
PAOLO GULISANO:
Tra l’altro era la scena della partita di calcio, tra la Dinamo e la Gagliarda.
ALBERTO GUARESCHI:
Lui era andato dentro in questa scena, in cui Peppone entrava negli spogliatoi, e minacciava i giocatori che stavano perdendo la partita contro la squadra del prete, e quindi aveva detto che “se avessero perso, avrebbe polverizzato loro il sedere a pedate”, e allora questi poveretti poi si sono galvanizzati. Ma in quella scena, quando mio padre stava minacciando Mariolino, che era il centroavanti, credo, scena che ha ripetuto quattordici volte, prendeva per i panni Mariolino, che era Franco Interlenghi, e lo sbatteva per terra, finché alla fine Interlenghi gli ha detto “ma Signor Guareschi, il cinema è finzione, non mi picchi più”. E dopo è finito che mio padre ha tolto i panni, e allora hanno chiamato giù dalla Francia Fernandel, che nel frattempo si era liberato. È stato invece difficile convincere Gino Cervi a mollare la tonaca di don Camillo, perché lui voleva fare la parte di don Camillo, perché diceva di avere la faccia da prete. In effetti aveva interpretato il Cardinale Lambertini in teatro diverse volte e gli riusciva molto bene, e allora il produttore, che era il mitico Angelo Rizzoli, gli aveva detto “guarda, molla la tonaca, lasciala a Fernandel, che io ti faccio girare il film del Cardinale Lambertini”, e così ha fatto e l’anno dopo, o due anni dopo, Cervi ha girato questo bellissimo film, che consiglio a tutti di cercare, perché è veramente molto bravo Cervi.
PAOLO GULISANO:
Egidio, allora dicevamo che Guareschi parla delle periferie esistenziali, parla spesso anche dei vinti e degli sconfitti, verso i quali esercita appunto, attraverso i suoi personaggi, una straordinaria capacità di misericordia. Ecco, le periferie esistenziali sono queste, ma se esistono delle periferie, esiste anche un centro, qual era il centro della vita, dell’opera, dell’arte di Giovannino Guareschi?
EGIDIO BANDINI:
Non è facilissimo rispondere, ma comunque ci proverò, prendendo a prestito la figura del padre di Guareschi. Prima si diceva che Augusto Guareschi era amante di Manzoni, aveva fatto conoscere Manzoni al figlio, aveva una sua trinità laica, che era composta da Giuseppe Verdi, Alessandro Manzoni e Napoleone Bonaparte. Andò una volta sola a Parigi, in treno. Arrivato alla stazione si fece portare direttamente al cimitero degli Invalidi, visitò la tomba di Napoleone, si fece riportare in stazione, e assolutamente non interessandosi di nulla di Parigi, se ne tornò in Italia, quindi per lui l’importante era rendere omaggio a Napoleone Bonaparte. Guareschi al centro aveva un’altra sua trinità, che era la fede, la patria e la famiglia, e non sempre necessariamente in questo ordine. Guareschi era profondamente credente, il centro di tutto è la Provvidenza, questo è fuori da tutti i dubbi, secondo me, e il centro della scena nei racconti di Guareschi e anche nei romanzi, vi ripeto, è quello che assumono i diversi personaggi. Mi rifaccio a quello che dicevano prima Paolo, e poi Alberto, ragionando di Peppone, e anche la Carlotta, che diceva “lui pensava in dialetto”, è vero; una delle cose più straordinarie che Guareschi disse è questa: “Voi provate a tradurre in dialetto il Vangelo, ci riuscirete benissimo, provate a tradurre in dialetto il discorso di uno dei nostri politici e vi risulterà impossibile”. Gesù parlava in modo molto semplice, il Vangelo è semplicissimo e funziona benissimo anche in dialetto. Lo stesso Peppone, il personaggio al quale forse Guareschi vuole più bene, perché in fondo è quello più umano, più semplice, meno colto – don Camillo è il rovescio della medaglia di Peppone, però è più preparato, più colto, ha qualche cosa che lo sorregge, una grande fede, l’abbandono alla Provvidenza, cose che Peppone scopre, ma non ha di suo, Peppone è più semplice, più umano – e Peppone ad un certo momento deve fare un comizio e parlando appunto con don Camillo, dice “se potessi parlare in dialetto, allora sì che riuscirei a farlo bene” e don Camillo “se parlassi in dialetto chi ti capirebbe, come farebbe la gente a prenderti sul serio?” E lui risponde: “Sì, ma mia mamma mi ha fatto in dialetto, mica in italiano”. È questo il grande, grandissimo segreto, penso che poi alla fine il centro di tutto sia questa profondissima umanità.
E un altro degli accenni che prima ha fatto Paolo, è quello ai bambini, lo faceva la Carlotta, lo faceva Alberto quando diceva che il suo babbo, arrivato a vedere la stalla con i muli, era come un bambino felice, contentissimo. Allora, l’unico personaggio nei racconti di Guareschi che parla con Cristo, oltre a don Camillo, è un bambino; c’è solo un bambino, che si inginocchia e parla con Cristo, e quando Cristo gli risponde e don Camillo è lì in chiesa, don Camillo se ne va perché, scrive Guareschi, “non erano cose da grandi”. E questo mi pare che sia il più bel centro possibile e immaginabile. Non solo, Guareschi sosteneva che ognuno di noi ha l’età anagrafica che si ritrova, tolti gli anni del bambino, perché dentro di noi c’è sempre un bambino, il quale si ferma a 5, 6, 7, 8 anni e rimane lì, rimane nel nostro cuore, e ogni tanto bisogna portarlo a spasso questo bambino, bisogna lasciarlo andare, e cercare, diceva Guareschi, “dei pascoli per la fantasia”. Questo è l’altro centro. I racconti e i personaggi di Guareschi ci portano ad immaginare quale potrà essere la conclusione, la fine di questa vicenda, sia essa drammatica il più delle volte, triste, gioiosa, ironica, e ci accorgiamo leggendo, come diceva Carlotta prima, in un modo diverso, a seconda dell’età che abbiamo, che Guareschi ci porta esattamente dove saremmo voluti arrivare noi, non un centimetro più in là; anche se noi pensiamo che la fine e la conclusione possa essere un’altra, in realtà non è così. Giovannino ci porta dove vogliamo arrivare noi. Tutti questi personaggi, tutti questi racconti sono costruiti in questo modo, ti danno la possibilità di immaginare come può andare a finire, cosa possa succedere; alla fine però, quando arriviamo a chiudere il romanzo o il racconto, ma anche il racconto di famiglia, prendiamo il Corrierino piuttosto che lo Zibaldino, ci accorgiamo che è lì che anche noi avremmo voluto arrivare. E questa è un altra delle straordinarie capacità di Guareschi, di portarci esattamente dove noi vogliamo arrivare, farci conoscere questo piccolo mondo che dovrebbe essere davvero, diceva Giovannino, grande come tutto il mondo. Grazie.
PAOLO GULISANO:
Allora, recentemente un grande gruppo editoriale cattolico ha proposto ai propri lettori un questionario intorno a Papa Francesco, quindi tutta una serie di domande. Una delle domande era questa: quale personaggio letterario ricorda di più Papa Francesco? E la risposta a grande maggioranza è stata don Camillo. La cosa può anche essere un po’ curiosa, se vogliamo, perché, forse a parte la stazza fisica, non è che ci siano grandi somiglianze tra Jorge Mario Bergoglio e don Camillo. Però questa scelta dei lettori secondo me è molto indicativa. Sta a significare, tutto sommato, che la gente ha un gran bisogno di riconoscersi in un prete come don Camillo, cioè in un prete che sì magari consola anche, però qualche volta bastona. Don Camillo è il parroco ideale che ciascuno di noi forse vorrebbe avere, vorrebbe incontrare, da cui vorrebbe andare a confessarsi, magari prendendosi anche una pedata nel sedere, solo metaforica si intende. Però ecco forse è di una Chiesa così che la gente ha bisogno, che istintivamente cerca, un don Camillo, un qualcuno che magari alzi la voce, ma che ci voglia fondamentalmente bene. E questo ci conduce allora ad un’ultima osservazione, ad un ultimo giro che vorrei fare con Alberto, Calotta ed Egidio: l’attualità di Giovannino Guareschi, se ancora la gente guardando anche a un Papa venuto dalle periferie del mondo, attraverso di lui cerca o vede don Camillo, vuol dire che allora vostro padre è ancora vivo più che mai, i suoi personaggi non sono rimasti lettera morta in quei racconti, non sono soltanto in una libreria, ma sono personaggi vivi, incontrabili, amici, tanto amici da far desiderare di incontrare un don Camillo nella propria vita.
CARLOTTA GUARESCHI:
Io credo che siano personaggi eterni, personaggi che ci auguriamo tutti di poter incontrare qualche volta, ma è difficile poter incontrare. Il parroco che è un pastore e che è un punto di riferimento, un sindaco che si preoccupa che i suoi compaesani stiano bene e abbiano giustizia, ce lo auguriamo tutti. Non so fino a che punto poi lo si possa realizzare, ma secondo me si può.
PAOLO GULISANO:
Alberto?
ALBERTO GUARESCHI:
Mi associo.
PAOLO GULISANO:
Alberto si associa alla sorella, la sorella minore. Egidio?
EGIDIO BANDINI:
Guarda, il primo paragone che mi viene in mente è quello del linguaggio, in tutti i sensi; cioè sia Papa Francesco che don Camillo usano un linguaggio molto diretto, molto semplice. E mi viene da pensare, io questo non lo so perché non essendo intimo ahimè di Papa Francesco non posso sapere come si rivolge lui a Gesù, però posso dire che don Camillo si rivolge a Gesù come ci rivolgeremmo noi, cioè ognuno di noi parlerebbe, parla poi alla fine a Gesù come fa don Camillo, perché don Camillo a un certo momento lo rimprovera quando il figlio di Peppone è ammalato e gli dice: “Ma Signore dev’esservi proprio antipatico questo povero bambino!” Addirittura cerca di imbrogliarlo: quando Peppone porta il cero sempre per il bambino, gli dice: “No no, non buttiamo la cosa in politica, accendetelo davanti a quella là, indicando la statua della Madonna”. E poi don Camillo esce, va a prendere 5 candele, a credito perché non ha i soldi, le accende davanti al Cristo, queste fanno una luce straordinaria e dice: “Sapete Gesù, è povero, ha potuto rimediare solo queste 5 candele, dovete avere pazienza, però vedete che bella luce fanno”. E Gesù: “Sì sì, hai ragione don Camillo, però mi è dispiaciuto un po’ che abbia detto “quella là” a mia madre”. “No no, dice, vi sbagliate Gesù, ha detto ‘accendetelo davanti alla statua della Madonna in quella cappella là’”. Cioè, cerca di imbrogliare Gesù il quale sa benissimo che lui è andato a comprare le candele, che Peppone ha detto “quella là”, eccetera, eccetera. Quindi, io credo che sia poi in fondo questa semplicità di linguaggio a unire don Camillo a Papa Francesco, il modo con cui ci si rivolge e ci rivolgiamo tutti noi con la speranza che abbiamo nella Provvidenza, nella grazia di Gesù. E questa grazia, questo linguaggio semplice fanno parte integrante, costituiscono il Mondo Piccolo, il quale Mondo Piccolo, ecco questa cosa ve la voglio dire visto che siete così tanti, il Mondo Piccolo esiste ancora. Diceva Carlotta, questi personaggi ci piacerebbe incontrarli: basta che veniate alla bassa. Venite da noi e i personaggi li incontrate tutti: don Camillo, Peppone, lo Smilzo, il Brusco, la Desolina, il campanaro Manecchia, tutti quanti. Basta seguire il consiglio di Giovannino Guareschi, ovvero perdersi nel modo giusto. Perché dalle nostre parti le uniche cose verticali sono i campanili, il resto è tutto piatto, e quindi non è difficile perdersi, basta perdersi nel modo giusto. Diceva Guareschi che da bambino lui conosceva tutte le strade, tutte, praticamente quelle del suo piccolo mondo le conosceva tutte, tranne una: quella che parte dalla casa rossa. “Non so dove va a finire, non lo so e non lo voglio sapere”. Non si può conoscere tutto, bisogna lasciare dei pascoli per la fantasia.
PAOLO GULISANO:
Abbiamo iniziato questo incontro definendo Giovannino Guareschi un maestro di umanità. Tuttavia Guareschi non si è mai messo in cattedra, non ha mai avuto la pretesa di insegnare nulla, ha solo mostrato nella sua vita personale, così come nella sua arte, nella sua opera, come vivere. Come vivere anche in accordo con le leggi del Padre Eterno che possono far sì che questo mondo difficile, complicato, possa diventare davvero un mondo più bello. Diciamo che siamo arrivati alla fine e la squadra dei guareschiani ha fatto la sua parte, però a questo punto io vorrei che chiudesse il nostro incontro il commissario tecnico. Quindi Giorgio, vieni a dirci due parole di conclusione.
GIORGIO VITTADINI:
Io voglio riprendere alcune cose dette sul futuro. Il futuro di Guareschi l’ho accomunato a Jannacci perché parlano dei periferici, tutti e due, e i periferici siamo noi, perché come dice in Noi del boscaccio, “siamo tutti sgalembri”. I periferici sono quelli che non sono a posto, che non hanno tutti i connotati. Non sono gli altri i periferici, i periferici siamo noi, perché noi non siamo a posto. Non siamo a posto. I personaggi di Guareschi come li vedo io, non si bastano, hanno qualcosa che gli manca, che fa loro fare anche cose strane; ma che li fan essere, come è stato detto, persone. Perché la citazione che faceva Bandini di Giobà è quella giusta: perché lui non va a fare “Lascia e raddoppia”? Perché ha una dignità, perché questo essere strani vuol dire che non appartiene a nessuno. Allora, se noi non guardiamo questi periferici, noi non diventeremo centro di nulla, saremo fuori, ma proprio fuori nel senso brutto del termine, perché essere periferici, non bastarci, vuol dire l’altra cosa che ha detto Bandini, una cosa che è moderna e che è il cristianesimo come lo percepiamo adesso, e forse lo percepiva negli anni ’50 don Giussani, Guareschi e non so chi altro. Quando parla della coscienza, che Cristo ha a che fare con la coscienza, Guareschi dice che la coscienza è una cosa oggettiva. Lui dice, lo vedrete nella mostra, che preferisce non essere a posto con la giustizia che non essere a posto con la coscienza. La coscienza è una cosa oggettiva. Noi sentiamo dire in giro che la coscienza è una cosa soggettiva; no, la coscienza è una cosa oggettiva. E il Cristo è una cosa oggettiva e si parla col Cristo solo quando si ha la coscienza. Io, nella mia esperienza di discepolo di Giussani, poi di Carrón, questo l’ ho sentito dire tante volte: che tu se sei sgalembro, cioè se guardi la coscienza, se non ti basti, allora hai bisogno di incontrare qualcuno.
Ecco questo Guareschi lo racconta. Infatti il Cristo per lui è il centro, lo dice nell’inizio di Mondo Piccolo: “di Cristo non parlatemene perché è il Cristo della mia coscienza”. E’ il punto del dialogo tra il mio cuore e questa presenza e questo lo rende centrale. Quindi capite come è moderno, dobbiamo scoprire questa cosa, perché 50 anni fa il cristianesimo era, ai suoi tempi, in generale, un rito; poi è diventato soggettivismo. Lui ti dice che è questa corrispondenza che rende i periferici centrali. Se mi permettete cito un altro racconto, che è Il Canalaccio, dove un contadino viene rovinato, letteralmente, dall’ingiustizia e allora alla fine Peppone lo incontra e gli dice: “Senti ma cosa ne pensi di questo qua che ti ha rovinato?” E lui, che vive della coscienza, invece di vendicarsi, invece di arrabbiarsi, gli dice: “Ho pietà di quella carne maledetta, perché quello lì che mi rovina non riesce a levarmi la dignità, non riesce a levarmi la coscienza, non riesce a levarmi il fatto che io sono e non ho bisogno neanche dei suoi soldi”. Allora voi capite, in un Meeting che è basato tutto su questa convivenza a livello mondiale, questa è la base; perché uno vi può portar via tutto ma, se io seguo questa coscienza e questo Cristo, io non ho bisogno neanche di vendicarmi, perché mi abbasso. Che dignità, che libertà. Per questo vi consiglio di leggere i racconti di Guareschi, i suoi scritti, il Corriere dei Ragazzi, perché è una cosa che purifica l’anima. Perché certe volte per purificarti devi vedere delle cose che sembrano dei racconti, sembrano un mondo piccolo, ma sono il mondo grande.
PAOLO GULISANO:
Grazie, grazie a Giorgio Vittadini, grazie al disegnatore Francesco Bisaro, grazie a Carlotta, ad Alberto ed Egidio Bandini e soprattutto grazie a Giovannino Guareschi. Arrivederci.