IL MARE DENTRO

Organizzato da Tracce
Dialogo con Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano e Paolo Tosoni, avvocato penalista. Modera Davide Perillo, giornalista.

Un viaggio nell’esperienza di chi fa i conti ogni giorno con il bisogno di giustizia, il carcere, il dolore e la riconciliazione. Perché la scoperta della libertà e del perdono è vitale: per chi è “dentro” e chi è “fuori”.

IL MARE DENTRO

IL MARE DENTRO

Organizzato da Tracce

Giovedì 22 agosto 2024 ore 16:00

Arena Tracce A3

Partecipano:

Dialogo con Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano e Paolo Tosoni, avvocato penalista.

Modera:

Davide Perillo, giornalista.

 

Perillo. Allora, buon pomeriggio e benvenuti! Grazie di essere qui, grazie di far parte di questa storia, perché avete visto che la presenza di Tracce quest’anno ha questa fisionomia particolare perché fa parte dei festeggiamenti per i 50 anni di storia di questo strumento. Io sono grato di poter condividere con voi questo momento oggi, sono grato in maniera particolare, se mi permettete, perché per tanti anni è stato anche un po’, anzi più di un po’, casa mia e adesso continuo ad essere un compagno di strade e di cammino, e sono grato di poter condividere questo momento con i due ospiti che abbiamo. Sapete che la fisionomia di questi incontri è farvi conoscere le persone che incontriamo, le esperienze che raccontiamo, e oggi abbiamo due persone che abbiamo incontrato – alcune più volte anche nel corso di questi anni – e con cui vogliamo parlare di qualcosa che ci riguarda molto da vicino. Il titolo dell’incontro, avete visto, è “Mare dentro”. “Mare dentro” è chiaro che riecheggia il titolo di una serie TV molto famosa, ma riecheggia anche il titolo di un’intervista uscita su uno degli ultimi numeri di Tracce, bellissima, di Paola Bergamini a Gianluca Guida, che è il direttore del carcere di Nisida, il carcere minorile dove, peraltro, è stata girata la serie TV. Ma noi non è che parliamo di carcere oggi, parliamo dei nostri ragazzi, della loro fatica, della fragilità che hanno e della fragilità che abbiamo noi, delle nostre fatiche. Di che cosa vuol dire fare i conti con il male, con il dolore, con la speranza, cosa vuol dire educare ed essere educati. E lo facciamo appunto con questi due ospiti che sono particolarmente grato di aver qui con noi e che vi presento cominciando da Paolo Tosoni, che è avvocato penalista, per cui ha a che fare anche lui spesso con il lato oscuro delle cose, padre di famiglia e amico di lunga data della nostra storia, così come amico di lungo corso è Don Claudio… and his band qui in prima fila; Don Claudio, oltre a essere cappellano del Beccaria, è come sapete anima di Kayros, che è questa comunità in cui i ragazzi vengono accolti, abbracciati, rilanciati nella vita, affrontano questa sfida. E io vorrei partire da due titoli di altrettanti libri di Don Claudio. Tu, Paolo, hai scritto qualche libro finora? Non ancora, quindi la prossima volta partiremo dal tuo; ma stavolta, don Claudio, partiamo da un titolo che ti accompagna ormai da anni, perché il libro che avevi scritto che aveva questo titolo è uscito parecchi anni fa, 10-15 anni, una dozzina di anni fa, forse. E tu, dentro il contesto in cui siamo, dentro la fatica che si fa – è di stamattina sui giornali, se avete visto, la notizia degli ultimi problemi al Beccaria di Milano – ecco, dentro questo contesto, sempre più faticoso, sempre più difficile da vivere, tu già 15 anni fa dicevi però “non esistono ragazzi cattivi”, e continui a dirlo, e più va avanti il tempo e più mi pare che tu ne sia certo. Allora vorrei chiederti che cosa vuol dire questa cosa.  Cosa vuol dire che la fragilità, il dolore, eccetera, non sono il punto di partenza dello sguardo che si ha su di loro?

Burgio. Bene, ciao a tutti. Sì, è vero, ormai ho scritto quel libro 15 anni fa, ma insomma, da 25 anni, da quando abbiamo aperto insieme a Giusi la comunità Kayros, siamo convinti di questo, che non ci siano ragazzi cattivi. La cattiveria esiste, certamente il male esiste, ha tante forme, soprattutto nel disagio dell’adolescenza, ma non è l’ultima parola definitiva. Ormai, dopo 25 anni, l’esperienza mi dice che non era solo una bella frase, ma una realtà. È davvero una realtà. Qua ad accompagnare i miei ragazzi della comunità, ci sono dei ragazzi che sono stati a loro volta ragazzi della comunità; oggi sono educatori di questa comunità, e allora questo fa dire che c’è un cammino da fare. Dipende dallo sguardo che tu hai: se ti arrendi alle loro intemperie, alle loro manifestazioni di disagio, allora lì decreti che non c’è nulla da fare oppure continui a guardare con speranza e ad aspettare. Non un’attesa passiva ma un’attesa carica di esperienze, di proposte, perché attraverso l’ascolto loro, attraverso l’esperienza della vita comune, possiamo guardare oltre, e quindi quando tu guardi oltre sei già sulla buona strada. Quindi nessun tipo di giudizio fisso, troppo rigoroso, troppo schematico: si vive, si vive insieme. E poi, come un ragazzo che oggi è diventato rapper ha scritto in una canzone: “Bisogna dare tempo al tempo”, ed è proprio così. Kayros, il nome della comunità, vuol dire proprio questo: il tempo giusto. Ognuno ha il proprio; per crescere bisogna sapere anche aspettare con speranza.

Perillo. Questo “tempo al tempo”, questa pazienza che richiede il rapporto, porta sull’altro titolo del libro su cui invece volevo fare a te, Paolo, una domanda. Perché ha un titolo molto significativo: “Non vi guardo perché rischio di fidarmi”. Cioè, in questo tempo, in questo sguardo che si porta sull’altro, bisogna trovare il modo, che credo sia un’esperienza che facciamo da padri di famiglia, non solo in una comunità così. Cosa vuol dire trovare il modo per conquistarsi, per guadagnarsi, per toccare la loro fiducia, per farli aprire alla vita dentro questo rapporto.

Tosoni. Buongiorno a tutti. Ho letto l’ultimo libro di Don Claudio e mi ha provocato molto, non tanto come avvocato quando come genitore. Mi ha colpito anche questo: che in questo libro lui parla di alcuni rapper, che sono Baby Gang, Samy, Chucky e Neima. Neima, peraltro, per i casi della vita, io lo assisto nelle sue vicende giudiziarie e posso testimoniare per conoscenza diretta, non solo che non è un ragazzo cattivo, per parafrasare il libro, ma che è un “signor ragazzo”, cioè con un’umanità bellissima. E io ho capito una cosa: nel mio mestiere, ma anche come genitore e magistrato, bisogna conoscere la persona, il contesto in cui vive, la storia da dove viene. Perché, vi faccio proprio un esempio: nel primo approccio con Neima, come adulto, un po’ per la differenza generazionale, sei sempre un po’ sulle tue, cioè un po’ dubbioso, con qualche preconcetto, soprattutto per gli errori che hanno commesso. E invece bisogna proprio andare a conoscere; ad esempio, una cosa che mi è piaciuta tantissimo del libro è che vengono riportati dei testi delle canzoni. Ecco, io, anche da genitore, capisco che per capire meglio i miei figli, per capire i ragazzi, bisogna anche vedere, conoscere le canzoni che sentono. E queste canzoni di questi soggetti fanno capire da dove vengono. Il mestiere dell’avvocato è proprio questo: cercare di mettere il giudice nelle condizioni di giudicare la persona che ha sbagliato, conoscendo però tutto il contesto. Faccio un’ultima riflessione con riferimento all’altra cosa che mi ha colpito molto di questo libro: la fiducia, cioè investire sulla libertà dei ragazzi. Questo, lo dico come padre e come adulto nei confronti dei giovani, è la cosa più affascinante, cioè soprattutto gli adolescenti, ma anche quando sono un po’ più grandi, hanno un’apertura nei confronti della vita a 360 gradi, un’apertura ideale straordinaria, per la quale sono in genere disposti a giocarsi tutto, cioè sono disposti a giocarsi la vita per quello in cui credono, anche se c’è qualcosa di sbagliato. Ecco, a noi genitori, a noi adulti, questo fa paura; tenderemmo a volere che loro rispondano ai nostri schemi, a quello che abbiamo in mente, alle fatiche che abbiamo già vissuto e che vorremmo che loro non facessero. Se invece amiamo questa libertà, dalla quale dovremmo reimparare anche noi a tornare un po’ ragazzi e a giocare la nostra energia, il nostro ideale, loro lo capiscono. È chiaro che la cosa più difficile è amarla in modo vero, cioè capire alla fine che questi figli non ti appartengono, che devono fare la loro vita, hanno un loro destino; noi dobbiamo accompagnarli come adulti, come genitori, stargli vicini, ma anche con la consapevolezza che il loro cuore è infallibile e comunque, grazie a Dio, hanno un destino pensato da una Sapienza che, grazie a Dio – come dice il giardiniere nel Miguel Mañara – non è la nostra.

Perillo. “Mare dentro” non è solo il titolo della serie, ma è anche questo infinito che sta dentro il cuore dei ragazzi, come dentro il nostro. Ma cosa vuol dire invece per te, Don Claudio, rischiare, anzi amare la libertà dei ragazzi che hai di fronte e che ne combinano di tutti ogni, come noi ne combiniamo di ogni tipo? Cosa vuol dire amare la libertà, investire sulla libertà dell’altro, accettare il rischio di scommettere sulla libertà dell’altro?

Burgio. Innanzitutto, ascoltare vuol dire non avere giudizi già incrollabili, dogmatici. Significa vincere quel dogmatismo che abbiamo un po’ tutti dentro di noi come adulti. Le incrollabili certezze nelle quali siamo stati formati a volte devono anche avere il coraggio e rischiare di confrontarsi con visioni altre. La nuova generazione ci porta inevitabilmente dentro uno schema inesplorato. Io, quando ascolto i miei ragazzi e cerco di carpire le loro ragioni, è chiaro che rimango sempre un po’ spiazzato, destabilizzato. All’inizio, è chiaro che dico “ho ragione io”. Ma poi l’ascolto vero è quello che ti porta a rischiare con loro una ricerca della verità che è sempre in divenire. Non è mai qualcosa di dato, di acquisito una volta per tutte. Anche il mio essere prete, voi capite che non è facile vivere e fare il prete dentro un contesto come il carcere minorile o la comunità. Un po’ perché molti sono ragazzi musulmani o comunque perché apparentemente la domanda religiosa non interessa più a nessuno dei ragazzi. Però devo dire che la vita comune, le loro domande, i loro pensieri, poi comunque suscitano in me anche una domanda, e allora ogni loro questione diventa una questione per me. Cosa significa essere prete in un contesto che non è più quello cristiano? Non è la societas cristiana nella quale sei già recepito, ma vuol dire inventarsi anche un nuovo paradigma di essere Chiesa, di essere credente. Io penso che i ragazzi con cui ho a che fare siano invece molto capaci di introspezione; la loro fragilità li conduce inevitabilmente dentro domande esistenziali molto forti e anche dentro una ricerca, un desiderio di fede, e non di religione, non di apparati, non di strutture, ma di fede molto più genuina, forse, della mia e della nostra, perché anche l’approccio con un Dio che rimane mistero è molto interessante. Noi forse a volte di Dio l’abbiamo ricondotto a schemi, a schemi che ci hanno sorretto, ci hanno aiutato, ma oggi questo loro tempo ci sta dicendo che non è più così, e allora dobbiamo ricercare nuovamente le ragioni per cui stiamo al mondo. Allora, i miei ragazzi, devo dire, per me sono uno stimolo continuo. Un esempio banalissimo è che una volta ero a cena con un prete in comunità; lui si fa il segno della croce prima del pasto e quindi io seguo, a macchinetta, anche io faccio il segno della croce, ma uno di loro subito interviene e dice “ma Don, se tu non lo fai mai!?”. Quindi, la classica figuraccia, perché con loro non si sta mai tranquilli. Però la schiettezza è questa: io sono schietto con loro, ma anche loro sono schietti con me, e allora è chiaro che anche un banalissimo episodio di questo genere risuscita, se la vuoi ascoltare, la domanda “che senso ha per me la preghiera”, o quantomeno quella preghiera prima dei pasti. È solo un vuoto formalismo che ci è rimasto attaccato dalla nostra società cristiana o ha davvero un senso cristiano? E capite, allora, questo è un piccolo e banale esempio, ma quante situazioni loro provocano. E dico sempre che la parola provocazione è una parola bella, non è da temere, non si rischia a lasciarsi pro-vocare, perché la vocazione è una chiamata “pro”, a vantaggio tuo. Quindi le provocazioni dei nostri ragazzi non sono mai contro di te, ma sono un aiuto per ampliare il tuo sguardo, per capire davvero se “fai” il prete, nel mio caso, o “sei” un prete. A tal punto che ormai qualche anno fa mi sono detto: se si accorgeranno che sono un prete, se ne accorgeranno. Se non se ne accorgono, vuol dire che ancora non lo sono. Magari sono stato ordinato, sì, ma diventare prete… questo vale per un genitore, vale per un insegnante: tu puoi essere anche sposato, hai celebrato il matrimonio, ma devi diventare padre o madre, non è così scontato. Anche nella parabola del figlio prodigo, all’inizio è proprio così: “un uomo aveva due figli”, non si dice che era un padre. In greco “tis” vuol dire uno qualunque, uno qualsiasi. Aveva due figli, ma quando diventa padre in quella parabola? Quando il figlio minore a un certo punto dice “tornerò da mio padre”. È un riconoscimento: non sei tu che sei padre perché hai messo al mondo dei figli o li educhi, ma lo diventi se qualcuno te lo riconosce.

Perillo. Capite perché dicevo che si parla di noi anche, del cammino che siamo disponibili noi a fare con i nostri figli. Io volevo chiedere a te, Paolo, cosa vuol dire per te accettare continuamente questa sfida di diventare padre? E cosa vuol dire, perdonami, anche facendo i conti con i propri limiti, con i momenti in cui cadono o cadi o si sbaglia e bisogna ripartire, avere la pazienza che dicevi tu prima di accettare questo cammino insieme, la bellezza di questo cammino insieme.

Tosoni. Sì, io sono d’accordissimo con Don Claudio: non si è padri e madri solo per il sangue. La paternità, la maternità è una cosa che si genera nel tempo dentro un lavoro e dentro anche un affidarsi. Io ho imparato e imparo a essere padre non sforzandomi di esserlo, anche se è ovvio che penso, che ragiono, cioè gli errori che faccio o che facciamo mi impongono di confrontarmi con gli stessi e cercare di non rifarli. Però io sono stato educato dentro una compagnia nella vita, dentro un riferimento, anche se con tutti i miei limiti, che però la mia vita dipende da un Altro e quella dei miei figli dipende da un Altro. In questo ricordo sempre una cosa che disse Giussani a me e a mia moglie quando qualche volta abbiamo avuto la grazia di pranzare con lui: “Voi fate tutto come se dipendesse tutto da voi, ben sapendo che dipende tutto da un Altro.” E questo è proprio l’atteggiamento con cui uno sta di fronte alle sfide della vita, quindi si danna l’anima per fare le cose bene. Io sto ascoltando, anche grazie a Teresa che è qui – il che mi imbarazza un po’ – e che me le fa sentire, tutte le canzoni nuove che escono, e quindi io mi cerco di attrezzarmi perché è vero che per conoscere i tuoi figli devi anche conoscere le canzoni che ascoltano, anzi principalmente! Vi dico anche questo piccolo aneddoto: quando io ho preso le difese di Neima ed ero un po’ preoccupato, ho scoperto, andando a casa e dicendolo, che mia figlia era stata al suo concerto, e in quel momento per me immediatamente era un piccolo criminale da difendere! E quindi, dico: ma pensa te! E invece è proprio accettando questa sfida che uno sta di fronte a questa libertà, ossia – ripeto quello che ho detto prima, ma che è decisivo – questa grande fatica di accettare che i figli non sono ultimamente tuoi, per cui tu li accompagni, poni degli argini, ma cerchi di amare innanzitutto la loro libertà, anche di sbagliare, anche di fare degli errori come abbiamo fatto noi. E secondo me questo, spero, nel tempo te lo riconosceranno con gratitudine perché alla fine si torna sempre lì dove uno ti ha amato e ha amato la libertà forse addirittura più di quanto lui stesso la ami.

Perillo. Don Claudio, c’è una parola, un’esperienza che in questo continuo cadere e ripartire nel rapporto viene fuori, è inevitabile che venga fuori spesso perché vuol dire ripartire, è quello che ti permette di ripartire davvero: perdono, la parola perdono, l’esperienza del perdono. Quanto è importante, quanto è decisivo scoprire su di sé questa esperienza, fare questa esperienza per poter ripartire e per accompagnarsi nel cammino che si fa insieme? Perché stiamo capendo che non è una cosa che tu trasmetti ai ragazzi, l’educazione è veramente un cammino che si fa insieme. Il perdono quanto è decisivo? Quanto è importante la disponibilità di perdonarsi?

Burgio. Purtroppo credo sia la parola più dimenticata nella nostra società e anche nella Chiesa, perché comunque i cammini di riconciliazione sono davvero difficili. Il perdono non è mai qualcosa di esigibile, qualcosa di doveroso: è sempre un atto gratuito e quindi non è facile perché noi viviamo sempre – parlavo a pranzo con uno dei miei ragazzi – nell’idea del do ut des: mi dai, ti do, in una logica di rapporto molto commerciale. Per cui oggi, i ragazzi soprattutto, ma un po’ anche noi adulti siamo così, non abbiamo l’idea che si possa dare. Punto. Viviamo nell’idea che se faccio qualcosa è per ottenere qualcosa e non mi muovo e non mi fido se non ottengo in qualche modo un tornaconto. Il perdono invece ti estromette da questa logica commerciale e ti introduce a una logica di vita totalmente altra, che è quella della gratuità, che è quella del dire: “io perdono, io in qualche modo rinuncio a punirti”, ma perché innanzitutto ho bisogno anch’io di riconciliarmi con me stesso quando subisco un torto. Questo è un cammino cristiano, ma non è solo un cammino cristiano. Io penso che la logica del perdono debba essere riscoperta anche a livello sociale e tanto più in questo periodo. Vedete, si parla molto di carcere per esempio. Il carcere, è brutto dirlo, ma rimane un dispositivo totale e totalitario. Dopo la chiusura dei manicomi in Italia è l’ultimo dispositivo di questo genere che rimane. Non abbiamo saputo inventare di meglio e, quindi, non sorprende che in questo periodo ci sia davvero tutta una serie di azioni, di rivolte all’interno delle carceri. Partite dalle carceri minorili, ora si sta estendendo questa rivolta anche nelle carceri degli adulti. Perché il clima di vita all’interno di un carcere è davvero opprimente, davvero qualcosa di inumano e questo dobbiamo avere il coraggio di andare oltre il politicamente corretto e di dirlo; non per giustificare, non per essere buonista, ma per dire che non puoi riscoprire il perdono dentro un ambiente che sa di vendetta, perché il carcere è un dispositivo retributivo (hai sbagliato, paghi), ed è un dispositivo che può diventare vendicativo. E le tante indagini, non solo dal Beccaria ma anche in altri contesti carcerari degli ultimi tempi, dicono che poi i rapporti all’interno di un istituto penale sono questi: protesti, ti meno. Il do ut des, vedete, è anche dentro un sistema penitenziario così concepito. Allora il problema è ritrovare il perdono non come buonismo, non come lasciar perdere, ma il perdono come cifra di volta per un’umanizzazione più piena, per un cambiamento di rotta nei rapporti interpersonali, sociali e anche ecclesiali. Oggi purtroppo questa parola è ancora da ritrovare. Un esempio veloce: anni fa un ragazzo del Beccaria mi fa vedere questa lettera. Lui ha ucciso un coetaneo e quindi in questa lettera c’è scritto: “Ho già perso un figlio, non ne voglio perdere un altro.” E chiedo a questo ragazzo: “Ma chi ti scrive parole così?” e lui mi dice, sorpreso anche lui: “È la mamma del ragazzo che ho ucciso e io non ci posso credere perché mi chiama ‘figlio’. Ma com’è possibile una cosa del genere?”. Ecco, questa lettera ha rivoluzionato la vita di quel ragazzo, ma anche la vita di quella donna, di quella mamma, la quale poi è venuta da noi in comunità a testimoniare e ci ha detto proprio questo: che anche lei aveva bisogno del perdono per poter in qualche modo riconciliarsi anche con le proprie ombre, con la propria storia di sofferenza. Ecco, il perdono è qualcosa da riscoprire. È difficile. Non è mai un oblio, anzi esige la pienezza del ricordo, non si può cancellare. I miei ragazzi sono furbi perché loro cosa fanno? Si menano. Dopo, col tempo, il tempo aggiusta tutto. Non è detto che aggiusti proprio niente. A volte, anzi, il tempo diventa logorante, spezza i rapporti ancora di più. È il parlarsi, è il confrontarsi, è il sapersi chiedere scusa che cambia il volto delle persone e cambia anche un rapporto umano.

Perillo. Per te, Paolo, questa esperienza che non ha niente di sdolcinato – quando si parla di perdono ci viene in mente la melassa, invece si capisce che si vive con questo dramma che diceva Don Burgio adesso, Don Claudio – ma per te invece?

Tosoni. Diciamo che io, come avvocato penalista, ho spesso a che fare con persone che hanno fatto crimini anche efferati, ma a volte anche con le vittime. Quando accade che le persone che hanno fatto dei delitti gravi, quindi assassini, che hanno ucciso, alcuni fanno un cammino in cui rivedono tutta la propria storia e chiedono, anelano il perdono, si apre uno squarcio diverso nella loro vita. Ma questo avviene anche per le vittime, per i familiari delle vittime. Quando hanno il coraggio o la grazia di riuscire a fare questo passo, trovano una pace insperata. Quando mi hanno detto che avrei fatto un dialogo con Don Claudio, ed ero preoccupatissimo perché lui è un genio dell’educazione e io sono un banalissimo avvocato, mi ero preso qualche appunto e ricordavo dal libro di Gemma Capra “La crepa e la luce” questa cosa che mi aveva colpito tantissimo e poi ho visto che anche lui, nel libro, alla fine parla proprio di lei. Perché Gemma Capra, che è la vedova del commissario Calabresi ammazzato ai tempi del terrorismo, appena riceve la notizia – ha 25 anni, ha due figli e aspetta il terzo – si abbandona sul divano e per un attimo – racconta – la luce: è come se avesse percepito la presenza del Signore. Prende la mano di Don Sandro, il prete che li aveva sposati e che era corso da lei, e dice: “Diciamo un’Ave Maria per i genitori degli assassini di mio marito”. E dice: “Da quel momento lì per me è cambiata la vita”. Non sapeva cosa scrivere sul necrologio del marito e sua madre le suggerisce le stesse parole di Cristo: “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Lei poi dice: “Questo è stato il primo gradino della strada, del percorso, dopo 50 anni, della mia possibilità e capacità di perdonare. E io oggi sono in pace”. Capite che è una cosa impressionante. Io oggi sono in pace. Volevo leggervi – le leggo perché voglio dire esattamente le sue parole – le parole di Paolo Amico. Paolo Amico è uno dei killer del giudice Livatino, di cui abbiamo fatto la mostra, un magistrato ucciso nel 1990. Il killer, uno dei quattro, sta scontando l’ergastolo nel carcere di Opera. Io sono andato, insieme ad altri, a presentare la mostra e lui è intervenuto e ha detto queste cose. Lui è stato 17 anni a Pianosa in regime di carcere duro, il 41-bis, dove sei completamente isolato, e dice – scusate il termine: “Sono stato incazzato per 17 anni con il sistema che mi ha sottratto la libertà”. Poi dice: avevo sentito in televisione i genitori di Rosario Livatino (il magistrato che aveva ammazzato) che esprimevano il loro dolore, ma dicevano che erano vicini e preoccupati per i genitori degli assassini del loro figlio e immaginavano il dolore di questi genitori per quel momento così buio dei loro figli. E lui dice: “Nel tempo quelle parole hanno attecchito dentro di me”. Poi ha incontrato un giudice che gli ha fatto intravedere un percorso di riabilitazione, ha incontrato i volontari di “Incontro e Presenza” che gli hanno fatto compagnia gratuita e dice: “è come se si fosse aperto il sepolcro della tomba in cui ero seppellito, incazzato per 17 anni. E una nuova luce è penetrata nel buio della mia esistenza. Ho cominciato a percepire che anche per me poteva esserci un nuovo inizio”. Sentite cosa dice: “Ci sono incontri che portano alla perdizione e incontri di salvezza che possono dare alla vita una direzione nuova e a capire che l’uomo non è il suo errore, come io non sono solo il reato gravissimo che ho commesso quando avevo 23 anni”, quando era un ragazzo. E questo è bellissimo. Dice: “Quel giorno in quel viadotto”, dove c’è stato l’attentato, “non è morto il giudice Livatino, è morto quel ragazzo di 23 anni pieno di rabbia, e io sono rinato a vita nuova. Rosario Livatino è presente e io prego lui e Dio, che è capace di abbracciare il male, ogni male in una misura all’uomo impossibile”. Un uomo che ha sbagliato così tanto innanzitutto ha bisogno del perdono degli altri, ma per perdonare sé stesso. E guardate che questo, il perdono da parte degli altri e di sé stessi, per carnefici o vittime, è veramente il più grande fattore di rinascita. La vita può rinascere di nuovo, come ci testimoniano, perché questi sono fatti, non sono discorsi. E quindi è una sfida per tutti noi.

Perillo. Don Claudio, quanti ragazzi sono passati da Kayros in questi anni?

Burgio. Non saprei, tanti, ogni tanto mi dimentico pure i nomi, i volti purtroppo, di quelli che sono stati magari pochi giorni, un mese.

Perillo. Invece raccontaci, se vuoi e puoi, di qualche nome, qualche volto che per te è stato un incontro di salvezza, come diceva Paolo. Ci sono stati dei momenti del rapporto con loro, degli incontri che hanno fatto scoprire a te qualcosa di te stesso?

Burgio. Sì, tanti. Ci sono anche storie non finite bene che mi hanno insegnato molto, come i due ragazzi partiti per l’ISIS, uno dei quali poi ucciso in Siria, dell’altro non ho più notizie da tanti anni. Certamente loro mi hanno aiutato a percepire un aspetto che per un prete cattolico non è necessariamente messo a tema negli anni della formazione seminaristica, cioè il dialogo interreligioso. Altra questione poco all’attenzione, secondo me, anche della Chiesa di oggi, perché oggi noi viviamo dentro un contesto che è plurale. E allora io ho tanti ragazzi musulmani… ecco, ho imparato da quell’esperienza sofferta di questi due ragazzi che si sono persi e sono morti, ho imparato cosa significa entrare dentro un dialogo ad esempio col mondo musulmano. Oppure altri ragazzi che magari non ce l’hanno fatta. Certamente quelli che sono venuti a mancare, e non sono pochi, sono quelli che hanno suscitato più domande dentro di me. Poi ci sono quelli, invece, che sono bravi, quelli che ce l’hanno fatta – qua ci sono Daniel e Anas, adesso non so dove siano – insieme a tutti gli altri, eh. Daniel da un po’ di anni è laureato in Scienze dell’Educazione, magistrale, triennale, e lavora come educatore. Lui, all’inizio, l’avevo conosciuto al Beccaria, era entrato per una rapina in banca e dalla domanda iniziale – perché era un tipo abbastanza provocatorio, ancora oggi lo è per certi aspetti – però dall’inizio della sua vicenda penale fino ad oggi è chiaro che è un ragazzo incredibile. Una sera, mi ricordo, rientrando da un incontro, mi chiese: prima di andare a letto mi puoi spiegare Esodo 3,14? E io ho detto: “Eh?!”. E da lì tante cose sono poi cambiate. Lui è quello che mi provocava e diceva: “Non mi parli mai di Dio”, e poi ci siamo intesi su questo punto, perché se non c’è la domanda è inutile la risposta. Però intanto la domanda lui l’ha fatta. Quindi anche quello mi ha fatto riflettere. Poi c’è anche Anas; anche lui era un piccolissimo ragazzo che litigava dentro la cella con il suo concellino, io l’avevo visto dallo spioncino della cella. Sono passati dieci anni, forse più, e adesso anche lui è educatore. E quindi siamo qua: Giusi, Giuditta e un po’ di educatori, ma soprattutto loro che ci hanno accompagnato. E tutti loro sono un esempio, qualcuno dice una “circostanza”, Samuel ha in mente questa parola qua, “circostanza”; un po’ ciellino Samuel… Però, comunque sia, è vero. Ogni storia è una storia bellissima, inedita, ed entro dentro queste storie e impari da queste storie a cambiare tu

Perillo. E tu come sei cambiato in questi anni?

Burgio. Sto cambiando anch’io, bisogna scoprirsi sempre nuovi. La musica è un esempio, perché magari qualcuno sa che io mi occupavo di musica liturgica. Quindi immaginate quando andavo in Duomo a Milano a dirigere la Cappella Musicale, immerso nelle musiche di Palestrina, Bach, eccetera, e poi tornavo a casa immerso nella trap insieme a Baby Gang, Simba, Sacky, che erano lì in casa che scrivevano le loro canzoni sui beat a volumi altissimi, e quindi all’inizio ero destabilizzato. Allora, si cambia anche proprio stando con i ragazzi, cercando di entrare nelle loro storie, nella loro vita, e quindi è cambiata la musica nella mia vita. Adesso abbiamo addirittura fondato un’etichetta discografica, Kayros Music; qua ci sono alcuni esponenti, nuovi artisti prossimi che sentirete nominare: uno si chiama Fendy, un altro si chiama…, poi abbiamo nomi… Commando, per esempio. C’è qualcun altro qua? No? E sono tutti ragazzi che attraverso la musica ci fanno pensare, perché non è vero che la musica rap e trap siano semplicemente delinquenza, ma sono provocazioni, come dico io: ce le cantano. Sono provocazioni al mondo adulto – Neima è uno di questi – perché comunque ci raccontano la loro storia, quella che forse noi non abbiamo neanche mai avuto l’occasione di ascoltare e comprendere. È attraverso le loro storie anche la mia si apre a un cambiamento e quindi anche come prete, come esponente della Chiesa, mi chiedo dove siamo. Perché non si tratta solo di accogliere questo tipo di musica, ma soprattutto di accogliere le persone che dentro questa musica raccontano una visione della vita totalmente altra da quella che ha generato noi. In un contesto come questo può essere una provocazione anche per il Movimento. Che cos’è il Movimento oggi? Cosa diventerà? Ma cos’è la Chiesa oggi? Cosa diventerà? Perché se tu ti chiudi nel tuo piccolo mondo e semplicemente hai nostalgia del passato, allora anche io potevo chiudermi nella mia musica di Palestrina e Bach e la finivo lì. Apprezzo Palestrina e Bach, ma oggi apprezzo persino, Baby Gang e persino Simba La Rue, che è venuto a trovarci l’altro ieri. Non è facile digerire quella musica! Adesso so di dire nomi che alla maggior parte sono sconosciuti, però è importante. Io ho avuto un grande maestro, vedo che qui c’è un amico comune, che era Monsignor Migliavacca, Luciano Migliavacca, che fin da bambino ci ha insegnato la musica, ci ha insegnato a vivere la bellezza dell’arte, della letteratura, insomma, ci ha trasmesso tanto ed è diventata occasione per me anche per una scoperta vocazionale. E poi la storia va avanti. Migliavacca era molto avanti, fra l’altro perché faceva anche jazz, dodecafonia, era molto aperto. Però è la vita, bisogna andare avanti, guai a fermarsi.

Perillo. La stessa domanda a te, Paolo, invece, sul tuo versante: tu come sei cambiato facendo il lavoro che fai, facendo i conti giorno per giorno con queste dinamiche, con questo dolore e fatica?

Tosoni. Beh, io mi reputo molto fortunato, perché faccio un mestiere che è un po’ come quello di Don Claudio, anche se in modo diverso facendo il cappellano del Beccaria, per cui ho a che fare tendenzialmente con la gente che ha sbagliato. Gente che ha sbagliato e che spesso si affida all’avvocato proprio per essere difesa, compresa, abbracciata. È forse la prima persona che non lo giudica. E anzi, adesso non voglio fare paragoni blasfemi, però, in fondo, la Madonna è detta “avvocata nostra” perché intercede per noi verso il supremo Giudice e, in piccolo, l’avvocato fa questo. Quando prima dicevo che bisogna conoscere le storie, io sono d’accordissimo con quello che dice Don Claudio: il mondo è cambiato, è plurale. Questi ragazzi che io ho conosciuto, soprattutto tramite Neima che mi ha raccontato, hanno vissuto in un contesto che noi neanche ci sogniamo, e io penso che se i miei figli fossero nati lì forse sarebbero peggio di loro. Bisogna tener conto di questo, non per far finta che non sia successo nulla, cioè è giusto giudicare, è anche giusto condannare perché chi sbaglia ha la necessità di espiare la pena. È una necessità, proprio, quella, in fondo in fondo inscritta nel cuore dell’uomo, di espiare la colpa, riscattando quell’errore che hai fatto. Però bisogna comprendere e bisogna farlo con misericordia. La mia è una posizione privilegiata, perché io innanzitutto abbraccio; abbraccio, non giudico. Grazie a Dio giudica qualcun altro, sia in terra che in cielo. Ma questa cosa mi ha plasmato nel tempo, perché non è che sia diventato indulgente, ma sono diventato sicuramente più comprensivo. I miei genitori erano molto rigorosi nell’educazione e anche molto legulei, nel senso di un’osservanza della legge, delle piccole regole. Pagare il canone della televisione: mio padre stava male se non pagava il canone della televisione, poi ha generato un figlio che fa l’avvocato e difende i colpevoli. È una contraddizione apparentemente, invece no. Cioè, diventi più attento all’umanità delle persone, alla loro storia, li accompagni. Accompagnare una persona che ha sbagliato nel processo penale significa accompagnarla dentro una lunga fatica, in una macchina infernale che non capisce e dove si affida soprattutto a te. Questo, per me, è stata una grande lezione di vita. Non voglio parlare di cosa ho imparato come genitore sennò poi perdo l’autorevolezza nei confronti di mia figlia. No, scherzo. Però vale la stessa cosa anche come genitore. Cioè, la vita cambia. Io capisco che non voglio fare il ragazzino a 60 anni, però devo capire i miei figli, i loro amici, in che contesto vivono, in che società, qual è la loro storia, perché così puoi accompagnarli, non ti scandalizzi, non gli tarpi le ali se non fanno quello che vuoi tu, ami la loro libertà. Io credo che questo sia veramente una cosa sulla quale non si finirà mai di imparare, come genitori, ed è un lavoro continuo, una grandissima sfida nella vita, soprattutto quando le cose – non sempre – vanno bene.

Perillo. Ci avviamo verso la fine, anche se staremo qua tanto. Tra l’altro, la temperatura rende la cosa un po’ più complicata. Però in questo percorso che stiamo facendo, che abbiamo fatto fin qui, in questo corpo a corpo, perché si capisce bene come una cosa che riguarda noi insieme con loro, io volevo chiederti – questa è una domanda che farò a tutti e due – che cosa hai scoperto tu del titolo del Meeting, di questa ricerca dell’essenziale. Che cos’è per te cercare l’essenziale?

Burgio. È cercare la verità, cercare sempre di non ritenersi arrivati, non avere la verità in tasca, ma sapere sempre guardare le storie delle persone, dei ragazzi che incontro, sempre con uno sguardo un po’ più alto. Quindi mantenere quello sguardo che ti aiuta a non fissarti sulle piccole verità che ti sei conquistato, ma ad aprirti sempre a ciò che la verità ti manifesta. Perché la verità ti viene incontro, sei tu che devi provare a capirla, a leggerla, a farla tua. Quindi, per me, l’essenziale è mantenere questo sguardo aperto sapendo che soprattutto per me la mia grande occasione di verità sono le persone che Dio mi manda. Quindi per me l’essenziale è questo: mantenermi ancora, nonostante la mia età – e comincio ad avere qualche fatica anche io, non è che sono vecchietto, però ti spolpano – mantenere questa capacità di lasciarmi interrogare da loro e dalle loro esperienze. Qua per esempio c’è Bilal, è un ragazzo che ha fatto il giro in mezza Europa, era famosissimo su tutti i giornali perché ha fatto un sacco di reati, ma per sopravvivenza, a Milano in stazione centrale. Poi era fuggito, me l’hanno detto i Servizi, da 40 comunità, quindi quando me l’hanno proposto ho detto: che faremo? Ho preparato i miei trucchi, gli ho presentato un bel po’ di ragazzi arabi che conoscevo, l’hanno accolto loro, ma mi ha spiazzato lui quando invece un giorno ha detto: mi sono fermato in questa comunità perché era piena di italiani. Ma come!? Ti ho preparato uno stuolo di… Ecco, l’essenziale è non fermarsi mai al tuo simile. Anche Daniel me l’aveva detto molti anni fa che non si cresce se stai sempre con chi ti assomiglia. Ecco, questo penso sia importante. L’essenziale è scoprire che l’altro non è il tuo nemico, non è un ostacolo, ma è la tua occasione, il tuo kayros.

Perillo. La stessa domanda a te, Paolo: che cosa vuol dire per te, per la tua esperienza, cercare l’essenziale?

Tosoni. Innanzitutto, volevo dire che, pensando a questo titolo quando me l’hai detto, ho guardato con occhi nuovi tutti i ragazzi che qui fanno i volontari e ho pensato: ma questi ragazzi che passano una parte delle loro vacanze per venire qui a farsi un paiolo così – penso a quelli dei parcheggi – sono l’emblema di questa generazione. Cioè, una generazione che, comunque, anche se apparentemente è perduta dietro uno schermo di un PC o di uno smartphone, ha un cuore che desidera capire il senso della vita, perché sennò non esisterebbe che stiano qui a fare questa roba. E mi ha colpito Elisabetta Soglio che su Corriere della Sera qualche giorno fa parlava proprio di questa cosa, dicendo: “Questa è una generazione precaria”. E un po’ è vero, perché la nostra è una società che è cambiata molto: non so se avranno la pensione, che tipo di lavori fanno, è tutto liquido, è tutto impalpabile, quindi è una generazione dove, ad esempio, le famiglie non sono più le famiglie di un tempo, sono più sfasciate, i ragazzi sono apparentemente più soli, o forse sostanzialmente più soli. Però questa generazione precaria è una generazione che, viceversa, come tutte le generazioni, come il cuore dell’uomo, manifesta un desiderio di capire il destino della propria vita, di cercare uno scopo. Ecco, noi adulti dobbiamo proprio accompagnarli cercando insieme una risposta o “la” risposta. Questo, dal punto di vista proprio dell’impatto che il titolo mi ha fatto avere nei confronti di una realtà che è qui ed è evidente. Per quanto mi riguarda, diciamo che alcuni accadimenti anche faticosi della mia vita oggi mi fanno essere assetato di eternità, o di verità, come diceva Don Claudio. Io non voglio più perdere tempo dietro cose superficiali, ho bisogno di guardare persone, volti, anche che non pensano come me, ma che mi fanno capire che l’eternità è una realtà reale e che è possibile già viverla qua, dentro i rapporti, dentro una comunione proprio del cuore, dell’esigenza che ciascuno di noi abbiamo. Non so se sto diventando sentimentale, però di fatto questa è una cosa che… quando mi ha fatto un’intervista, uscito da una mostra, mi hanno chiesto: “Essenziale, che cosa pensi?” Io ho detto: “Eternità.”

Perillo. Assetati di eternità o di verità, che è la stessa cosa. Capite che bellezza c’è nella possibilità di fare un cammino così, di farlo insieme, di farlo insieme con compagni di strada e amici come questi a cui siamo grati e che ringraziamo ancora con un applauso. Scusate, non è banale: grazie, grazie Paolo, grazie Don Claudio, grazie per il cammino che si può fare insieme e grazie per questa storia che è dentro la grande storia del Meeting. Fare insieme questo cammino vuol dire anche sostenerlo, aiutarsi, per cui donare al Meeting, che rende possibile una realtà come questa e incontri come questo, è importantissimo e fondamentale. Vi preghiamo di farlo e, proprio perché questa storia è dentro “la” Storia, noi siamo rimasti molto provocati da quello che stiamo vivendo e dal richiamo, dalla testimonianza che ha fatto il Cardinale Pizzaballa introducendo questo Meeting. Tenete presente allora, per favore, che parte delle donazioni che il Meeting riceverà durante questa settimana nelle postazioni “Dona Ora” e nei luoghi che già conoscete e che incontrate ovunque, il Meeting ha deciso di girarle alla Custodia di Terra Santa per le necessità della popolazione di lì. Quindi vi prego di tenerne conto così come vi prego di tener conto della possibilità che avete di rinnovare qui l’abbonamento a Tracce; per chi lo fa qui in Fiera c’è un gadget molto bello e molto particolare, che non vi dico perché così andate a scoprirlo. Così come è molto bella e molto particolare, come vedete, quella piccola mostra di copertine storiche che c’è qua dietro, sull’altro lato dello stand di Tracce; andatela a vedere perché dà il senso di questa storia in cui siamo immersi, che ci permette il cammino di cui abbiamo parlato oggi. Un ultimo avviso, che è una richiesta, ma anche questo è un segno di gratitudine per questa storia: per motivi logistici vi prego, adesso che abbiamo concluso l’incontro, di sgomberare il più rapidamente possibile lo spazio qui davanti, non fermatevi a chiacchierare qua. Grazie ancora e buon Meeting.

Data

22 Agosto 2024

Ora

16:00

Edizione

2024

Luogo

Arena Tracce A3
Categoria
Arene