IL LAVORO: UNA VOCAZIONE?

In collaborazione con Cdo.

Lucia Albano, Sottosegretario Ministero dell’Economia e delle Finanze; Stefania Brancaccio, Segretaria Generale Unione cristiana imprenditori e dirigenti (UCID); Sonia Malaspina, Direttrice HR Danone Italia & Grecia; Alberto Paltrinieri, Cantina Paltrinieri, Modena; Enzo Porzio, Cooperativa Paranza, Napoli. Modera Andrea Dellabianca, Presidente Compagnia delle Opere Milano.

Cosa ci si attende oggi dal lavoro? Non bastano più lo stipendio oppure la carriera?  Chi è anziano dice che i giovani sono fragili, i giovani affermano di volere altro, chiedono di meglio; oppure non desiderano più costruire? La pandemia ha segnato una rivoluzione nei rapporti di lavoro e nel rapporto con il lavoro. Ma in gioco non vi sono solo nuove strategie aziendali e personali, e nemmeno differenze generazionali, perché per tutti il lavoro è un banco di prova della consistenza della propria vita. Che significato ha il lavoro? Cosa mi realizza? Perché vale la pena fare un sacrificio per lavorare e realizzarsi? Di questo discuteranno il Sottosegretario all’ Economia e Finanze, la Segretaria Generale dell’Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti con la Responsabile HR di un grande gruppo multinazionale,  un imprenditore che porta avanti con successo l’azienda vinicola di famiglia e un giovane di una innovativa cooperativa che ha creato occupazione a Napoli. 

Con il sostegno di Regione Emilia-Romagna e Ars Aedificandi.

IL LAVORO: UNA VOCAZIONE?

IL LAVORO: UNA VOCAZIONE?

In collaborazione con CdO.

 

DOMENICA 20 AGOSTO 2023 ore: 17.00

Sala Ferrovie dello Stato B2

 

Partecipano

Lucia Albano, Sottosegretario Ministero dell’Economia e delle Finanze; Stefania Brancaccio, Segretaria Generale Unione cristiana imprenditori e dirigenti (UCID); Sonia Malaspina, Direttrice HR Danone Italia & Grecia; Alberto Paltrinieri, Cantina Paltrinieri, Modena; Enzo Porzio, Cooperativa Paranza, Napoli.

 

Modera:

Andrea Dellabianca, Presidente Compagnia delle Opere Milano.

 

Dellabianca. Buonasera a tutti, iniziamo questo nostro incontro dal titolo: Il lavoro: una vocazione? Quest’incontro è nato da molte provocazioni che sono emerse nel rapporto con il lavoro e, in particolare, esplose nel post-pandemia. Alcune domande ci hanno accompagnato in questo lavoro, molto segnate da quello che ci attendiamo oggi dal lavoro. Sembra che non basti più lo stipendio e la carriera; chi è anziano dice che i giovani sono fragili; i giovani affermano di volere altro, chiedono di meglio, oppure non desiderano più costruire. La pandemia ha segnato una rivoluzione nei rapporti di lavoro e nel rapporto con il lavoro. Ma in gioco non vi sono solo nuove strategie aziendali e personali, e nemmeno differenze generazionali, perché per tutti il lavoro è un banco di prova della consistenza della propria vita. Che significato ha il lavoro? Cosa mi realizza? Perché vale la pena fare un sacrificio, parlare, lavorare e realizzarsi? Abbiamo voluto coinvolgere i nostri ospiti per provare a dialogare su queste domande e su questa provocazione che ognuno di noi vive, sia che sia datore di lavoro, sia che sia un dirigente, sia che sia un operaio o un giovane che s’imbatte nel mondo del lavoro. Questo accomuna tutti, e la pandemia l’ha riposto in maniera provocatoria davanti a tutti, nel rapporto fra la vita privata e la vita lavorativa: se il lavoro è una parentesi per potere avere tempo per vivere, o fa parte della sfida della vita. E queste sono appunto domande a cui i nostri ospiti hanno accettato di rispondere; e abbiamo – diciamo – un parterre molto omogeneo: ruoli istituzionali, piccole imprese, grandi imprese, ruoli sociali, ruoli associativi. Io partirei subito da Lucia Albano, che è Sottosegretario al Ministero delle Economie e delle Finanze, a cui chiedo sia una reazione rispetto a tutto quello che ha vissuto lei lavorando, sia poi se anche in un secondo giro vuole…

 

Albano. Grazie, grazie molte; buonasera a tutti. Saluto tutti questi compagni di viaggio di questa avventura di quest’ora di domenica pomeriggio qui al Meeting. Io sono particolarmente emozionata questa sera, e, se volete, anche un pochino commossa, perché per tanti anni ho calcato questi corridoi e questi padiglioni come visitatrice del Meeting, e mai avrei creduto di essere qui a dare una riflessione e una testimonianza. Intanto, già il fatto che io sia qui in questo momento dice che un po’ il lavoro è una vocazione. È interessante che sia stata posta quest’affermazione con il punto di domanda. È una domanda: il lavoro è una vocazione? Quindi, ho dovuto farmi una domanda per verificare quanto nella mia vita questo fosse vero, fosse reale. E allora sono partita da due considerazioni; una di San Giovanni Paolo II, che nella Laborem exercens dice che il lavoro può essere considerato al contempo come una vocazione, perché siamo chiamati al lavoro fin da quando veniamo generati, come un dovere, un obbligo morale – in quanto lavorare significa prendere parte alla costruzione del bene comune – e infine come un diritto inalienabile. Papa Francesco, invece, dice la stessa cosa, dice: “Siamo chiamati al lavoro fin dalla nostra creazione, e il lavoro è una necessità; è parte del senso della vita su questa terra; via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale”. E quindi ho cominciato a pensare a quanto questo potesse essere nella mia vita. Io sono moglie, madre e figlia; sono ruoli dai quali non si può abdicare, ma sono – ho fatto tante esperienze di lavoro prima di arrivare a ricoprire questo ruolo – laureata in economia. Ho fatto un percorso in consulenza aziendale, organizzativa, di informatica in società di consulenza multinazionale. Ho poi deciso di fare un’attività privata, quindi di aprire un ufficio, uno studio di dottore commercialista, quindi di consulenza. Sono poi stata chiamata anche ad insegnare, e ho insegnato per molti anni nelle scuole superiori informatica, economia, organizzazione. Questo è stato un po’ il mio percorso di lavoro. Che cosa ho cercato ogni volta che in qualche modo m’imbattevo nel lavoro? Con grande curiosità cercavo sempre la bellezza che dentro quel lavoro in qualche modo mi potevo ritrovare. Questo è stata un po’ la chiave del percorso in tutti questi anni. Però voglio raccontare un episodio che riguarda proprio questo intervento. Quando sono stata invitata al Meeting, avevo avuto dei colloqui. Io mi occupo di economia, sono al Ministero dell’economia e delle finanze (poi un giorno se volete vi racconto, ma non è questo il momento), però sono stata chiamata per parlarvi di lavoro. Allora ho chiamato chi mi aveva invitato e ho detto: “Scusa, ma perché mi hai invitato a parlare di lavoro? Il lavoro non è il mio ambito privilegiato, il mio core business, come si usa dire; io mi occupo di altro”. E lui mi ha detto: “Sai, ma è interessante, perché quello è il tuo percorso”. E io ho un po’ borbottato. Dopo un quarto d’ora ho richiamato la persona che mi aveva invitato e ho detto: “Senti, io ho riflettuto: è tutta la vita che mi metto in testa di fare una cosa, e che la vita mi propone un’altra cosa da fare. Ogni volta un po’ recalcitro, un po’ sono arrabbiata, però poi seguo con una certa serietà; cerco di prendere sul serio quello che mi viene proposto. Quindi, di conseguenza, visto che tu mi hai proposto di parlare di lavoro, va bene, parliamo di lavoro e affrontiamo”. E questo è stato per me un grande insegnamento, no?, per poter guardare di nuovo che cosa mi accadeva costantemente nella vita. E allora, parliamo di lavoro. Io mi sono trovata quindi anche a fare questo lavoro, il ruolo che sto attualmente ricoprendo, perché vi sono stata chiamata. Vi sono stata chiamata e a un certo punto, con un po’ di spavalderia e con un po’ di trepidazione, ho detto: sì. È accaduto nel 2018, quando mi è stato chiesto da una persona se volevo candidarmi alle elezioni politiche. E quindi ho guardato me stessa, come sono, se questo rispondeva a un mio desiderio, a una mia vocazione, chiamata, e ho detto – ripeto, con un po’ di spavalderia, ma con tanta trepidazione – ho detto sì. E da lì, poi non è accaduto assolutamente nulla, perché io ero seconda lista, non avrei mai immaginato, ovviamente, di entrare e di essere eletta, essendo chiamata così, quasi casualmente. Invece, qualche anno dopo, pandemia, elezioni regionali… Ve la faccio breve: sono entrata in parlamento a metà legislatura; sono lì, quindi, dal 2020, in piena pandemia. Quindi ho vissuto queste esperienze come sempre faccio nel lavoro: con estrema serietà, con curiosità, sapendo qual era la responsabilità che avevo come parlamentare. Ho fatto questo lavoro per due anni. Vi dico solo questo e chiudo: volevo fare, volevo essere in una commissione, ovviamente mi hanno messo in un’altra commissione; è la storia della vita! E in quella commissione ho lavorato a lungo, fino a che poi quest’anno non son stata chiamata a essere – anche lì, senza averlo chiesto – sottosegretario al Ministero dell’Economia. Ecco, questa è la mia esperienza, l’esperienza della mia storia, ed è la chiave presso la quale poi guardo e verifico e cerco di affrontare quello che mi viene proposto.

 

Dellabianca. Grazie. Passiamo adesso a Alberto Paltrinieri, che è un imprenditore del vino. La Cantina Paltrinieri a Modena fa un lavoro che fa i conti, in cui tutto il suo impegno gioca anche con fattori esterni dal suo prato e a cui deve rispondere, come anche adesso si diceva. Quindi passiamo da un livello istituzionale a una piccola impresa che si trova ad affrontare le sfide del lavoro, le sfide del meteo, le sfide dei mercati internazionali. E quindi, in tutto questo, come si gioca col senso?

 

Paltrinieri. Grazie.

 

Dellabianca. C’è anche un grande pubblico.

 

Paltrinieri. Bè, innanzitutto grazie. Non ho mai sudato così tanto in vita mia, ma va benissimo. Grazie, perché l’opportunità di provare a rispondere ai temi che sono stati ricordati, è una possibilità proprio per me, di ridirmelo. E quindi, molto brevemente: cosa faccio? Il termine tecnico è “vignaiuolo”. Così vi insegno anche una parola del lessico che appartiene al mio mondo, che significa semplicemente qualcuno che fa vino a partire dalle proprie uve. E questo descrive la piccola realtà che abbiamo. Siamo a Nord di Modena, a Sorbara, produciamo Lambrusco in una realtà che non ho fatto io, che non abbiamo fatto noi – noi, intendo dire io e mia moglie, che dal ’98, dal 2000, conduciamo l’azienda -, ma è stata fondata prima da mio nonno, più o meno un secolo fa, e portata avanti da mio papà. Quindi è sicuramente qualcosa che ci siamo trovati. E che cosa mi colpisce – pensando, provando a rispondere al tema, provando a vedere cosa rispetto al mio lavoro emerge – ? Bè, sicuramente quello che accennavi un secondo fa, introducendomi, e cioè che il tipo di lavoro che faccio mi rende evidente una condizione che è comune a tutti, ma che probabilmente, per il legame con la terra che abbiamo, abbiamo più evidente, che è quello della dipendenza. Cioè, noi siam sotto il sole, e quindi succede che spesso e volentieri le cose non vanno come le hai pensate, immaginate, costruite, e anche impostate, perché per guardare così un’immagine, uno arriva a raccogliere i frutti del proprio lavoro con operazioni che incominciano molto tempo prima, che vanno dall’impianto… Ma banalmente, anche solo sull’anno, dalla potatura… Quindi, uno si immagina, e non è che non faccia strategie, non è che non guardi la realtà di quella pianta per potarla in un certo modo; e poi può succedere che per un qualche andamento climatico tutto questo venga o spazzato via – come diverse volte purtroppo ci è successo con grandinate o cose di questo tipo –, oppure può essere tutto messo in discussione, e negli aspetti magari successivi – e penso all’esperienza avuta di riflesso, anche se per grazia non ho avuto danni, ma penso all’esperienza del terremoto del 2012 e l’esperienza più recente della pandemia. Sono tutte situazioni dove sei veramente costretto a chiederti: “Ma allora io per cosa, per chi sto lavorando?” Perché finché le cose vanno in qualche modo bene, diciamo che queste domande un po’ sotto-tacciano. Ma quando in un attimo – e vi assicuro che la grandine è veramente una cosa devastante da questo punto di vista – quando in un attimo capisci che puoi aver perso tutto e che probabilmente gli effetti di quello che succede non sono neanche misurabili, e non è appena una questione di danno economico. Certo, come per qualsiasi bene di nostra proprietà che subisca un evento di questo tipo, ma c’è un legame con quel bene che fa ancora più sentire in modo drammatico che puoi perdere in un attimo; allora sei costretto a chiederti: ma io per chi, per cosa faccio le cose? Cioè, tutti i sacrifici che ho fatto fino ad adesso – ed è una domanda che è sempre drammatica, non è che ha subito una risposta, anzi normalmente la risposta è un’arrabbiatura, è una maledizione. Io però posso dire che per esperienza, tutte le volte che cose di questo tipo son successe, son sempre state l’occasione e son diventate alla lunga sempre una risorsa, sempre un motivo per capire qualcosa in più del mio lavoro, per cui se penso, ad esempio, al rapporto, per me molto importante, con il consulente che abbiamo dal punto di vista agronomico è arrivato dopo una grandinata incredibile, e per noi adesso questo rapporto che fa la differenza in azienda, letteralmente. Ma su questo ne potrei raccontare mille esempi, non ultimo tutto quello che la questione della pandemia ha suscitato, ha suscitato in noi e in tutti quelli che lavorano. Comunque, l’alternativa è sempre quella: ci si piange addosso o si prova a scommettere di provare ad aprire gli occhi e vedere se c’è qualcosa per te in quello che succede. Venendo molto velocemente all’azienda, dicevo, l’azienda non l’abbiamo fondata noi; quindi, è stato qualcosa che ci siamo trovati; e quando ti trovi qualcosa, si chiama dono, è qualcosa che mi è stato donato. Nella fattispecie, da mio papà, che, finiti gli studi, mi dice, dopo un annetto e mezzo che facevo l’operaio con lui, dice: “Te la senti di..?” E chiaramente dico: “Vediamo, no?”. Quindi, pensando a tutte le cose che in questi venticinque anni e più sono successe, è cambiato l’universo mondo nel mondo del vino e nel mondo del vino che produciamo, in particolare, quindi la nostra azienda. Siamo passati da una produzione che vedeva una singola referenza, anzi, due, a una realtà che adesso produce otto diversi vini; non abbiamo impiantato uve diverse, quindi abbiamo letteralmente valorizzato l’uva che abbiamo, che era sempre quella di mio padre. E i canali commerciali sono completamente stati stravolti; se mio padre aveva una clientela fatta per il 99% – 95% da clienti consumatori finali, adesso abbiamo un 40% sull’estero, un 40% in Italia e un 20% direttamente ai clienti. Mio papà non faceva le visite in cantina; noi abbiamo una persona che si occupa dell’accoglienza in cantina. Tutto questo per dire che tante cose che son successe, tantissimo, e se mi guardo e provo a aver coscienza di quello che ha permesso tutti questi cambiamenti, è stato sinceramente – non posso dire nient’altro – che provare a andar dietro a quello che vedevamo, potesse essere un’opportunità, compreso le cose non proprio augurabili.

 

Dellabianca. Grazie. Allora, adesso da una piccola realtà a una grande multinazionale in cui il rischio di così tante persone e anche, appunto, della sfida della parte personale delle relazioni, di capire un giovane che entra o i bisogni di lavoro sono più grandi. Su questo ne dialoghiamo con la dottoressa Sonia Malaspina, che è la direttrice Human-Research di Danone, che tutti conosciamo, sia Italia che Grecia, e anche autrice, oltre che manager anche scrittrice, autrice del libro Il congedo originale, che è abbastanza un titolo provocatorio. E appunto ti chiedo come in una grande azienda questo contenuto di valore può essere posto al centro della sfida.

 

Malaspina. Grazie, è un onore e un piacere per me essere qua oggi e volevo anche dirvi il sottotitolo del mio libro: Il congedo originale. Perché le aziende temono la maternità. A me la pandemia ha dato il coraggio di scrivere un’esperienza che è iniziata in Danone nel 2011. Io mi ho occupo da anni – quasi da decenni – di risorse umane, di persone, di gestione delle persone, e non ho mai considerato separata la vita professionale, la vita personale, famigliare delle persone: ho sempre cercato di trovare un modo di conciliarlo. Bene, con questo spirito arrivo nella divisione “Alimentazione infantile” di Danone-Mellin, che quindi ogni giorno parla di bambini, di mamme, di papà, e mi trovo il 50% della popolazione donna, femminile. Con che spirito mi trovo questa popolazione? Un misto di rassegnazione, rabbia, paura. Rassegnazione perché la loro presenza è alla base della piramide: ci sono dei ruoli che assolutamente non possono essere occupati dalle donne, e mi dicono: “È perché l’area-manager, il capo-manager deve dormire fuori di notte: una donna non può organizzarsi”. La rabbia, le donne che chiedono il part-time per gestire i figli e l’azienda dice di no. E la paura delle giovani donne, che vogliono avere un figlio, ma hanno paura del rientro. Bene, mi dico: “È il paradiso delle mamme e dei papà questa azienda!”. Vado dall’Amministratore Delegato, naturalmente rischiando il mio posto – ero ancora in periodo di prova, però ho detto: “o la va o la spacca” – e gli dico: “Ti perdi il 50% di produttività, perché i sentimenti di queste persone in azienda si traducono immediatamente in minore resa aziendale. Quindi, io gli faccio un discorso imprenditoriale, non di buonismo – voglio chiarire a tutti –. Allora lui mi dice: “Va bè – mi dà ragione, perché il 50% di popolazione è un numero abbastanza significativo –, vedi un po’ cosa si può fare”. Allora, con il mio team, con le rappresentanti sindacali donne, con tante interviste alle donne in azienda, buttiamo giù dieci regole di buon senso e facciamo la rivoluzione. In dodici anni applicate regole in maniera feroce – ve lo dico subito – e rigorosa, cos’è successo? Il primo dato: 8% di natalità in azienda. Cosa significa su 500 persone? Io prendo come l’ISTAT il numero dei bambini e delle bambine nati ogni anno diviso il numero di papà e di mamme tra i 25 e i 45 anni: si può fare, l’azienda non è fallita, non siamo in bancarotta; l’azienda prospera, perché quel lavoro femminile dà un contributo fondamentale all’azienda. Ma poi cambiano anche i papà, perché adesso vi racconto le dieci regole. La prima regola è la vicinanza psicoaffettiva: quando la mamma rientra dalla maternità, la incontro io, e le dico: “La tua esperienza ha un valore, non solo per te, ma anche per noi come azienda, perché durante la maternità sviluppi delle competenze professionali, manageriali importantissime”. Pensate alla capacità di gestire le emergenze, la capacità di delega, l’empatia, la capacità di ascolto: in un’economia digitale iperconnessa come la nostra, sviluppi delle competenze fondamentali. E non solo le mamme, ma anche i papà che si occupano della cura. Vado a vedere: nel 2011 avevamo un giorno nella normativa di paternità retribuita; oggi sono dieci. E io ho sempre incoraggiato, e l’ho messo obbligatorio, venti giorni, ma perché? Nel 2011 ero partita con 5 giorni. Poi, sulla base dell’entusiasmo, oggi siamo a 20 giorni, e obbligo i papà, perché i papà devono fare quell’esperienza di distacco dal lavoro, che è doloroso, io l’ho vissuto sulle mie spalle – qui c’è Caterina, che ha 16 anni -: quando mi sono distaccata dalla mia azienda, ai tempi, è doloroso, ma lo devi fare, e scopri che cos’è la cura. La cura è un’esperienza fondamentale: occuparsi di un’altra persona e non è tempo perso, non siamo in vacanza. I papà tornano diversi; capiscono cosa significa, capiscono la ripartizione della cura tra uomo e donna, e soprattutto i nuovi papà, che intervisto da anni, amano fare questo senza essere discriminati o scherzati alla macchinetta del caffè. Quindi, accanto a questo – che è l’ascolto, che è una parte psicoaffettiva – c’è poi il supporto economico: il welfare è uno strumento, il welfare aziendale, ma anche tenere le mamme dentro le politiche retributive. Non è che se una mamma va in maternità io non la considero più, né un aumento di merito. La devo considerare. E questo mi colma, colma il gap, quel divario salariale di cui ci lamentiamo. Certo, perché se non consideri la mamma nelle politiche salariali è chiaro che poi si crea alla lunga il divario. Un’altra misura è sicuramente: da un punto di vista organizzativo si lavora per obiettivi, e non si viene controllati; quindi nei momenti fondamentali della vita dei figli, i genitori ci devono essere. Ma se lavoriamo per obiettivi, sempre in un’economia digitale come la nostra, questo è possibile, e il Covid, la pandemia, l’ha dimostrato. E quindi vedete che sono delle regole, sono sul mio sito: www.danone.it, la policy è lì, la policy ha fatto strada, è diventata mondiale in Danone, e su 100.000 persone. Ma quello che dico è che il nostro lavoro ha un impatto; il mio lavoro – e spendo tantissimo tempo a fare education, a trasmettere ai colleghi anche di altre aziende e organizzazioni, che noi abbiamo una responsabilità grandissima; il nostro lavoro ha impatto sulla vita delle persone e sulle loro famiglie. Cioè, noi spostiamo le metriche di natalità, se vogliamo, con il nostro lavoro. E quindi questo è un po’ quello che volevo raccontarvi, e soprattutto la capacità di attrarre, di trattenere le persone in un’azienda, le persone di valore, soprattutto dopo il Covid, le persone vogliono lavorare in aziende di senso, che le considerino olisticamente, non solamente da un punto di vista lavorativo, ma anche da un punto di vista umano e da un punto di vista personale e famigliare, finalmente. E indovinate? Non se ne vanno. Non se ne vanno le persone da una realtà come questa. Nel 2020 abbiamo lanciato anche la policy di chi accudisce invece una parte differente di popolazione che sono i genitori anziani e che è altrettanto importante. È una cosa nascosta, non si vede, ma è presente in tutte le nostre organizzazioni. E quindi volevo condividere questo.

Dellabianca. Grazie. Penso che farà fatica a uscire dalla fiera per il numero di curriculum che le daranno da qui all’uscita, ma da qui si capisce come, appunto, non è un problema etico, ma è un problema che poi ingaggia una procedura economica, una produttività. Così come il contesto economico è anche il valore dell’impresa sociale, che appunto oggi esprime proprio qual è il contenuto di un’impresa del lavoro, cioè di costruire, di costruire un bene che sia un’impresa profit o no profit. Do la parola adesso a Enzo Porzio, che è della Cooperativa Paranza di Napoli, che è un’impresa sociale del Rione Sanità, che ci fa vedere immediatamente un video che descrive la loro realtà.

 

Porzio. Sì, faccio partire subito, perché immaginavo di essere l’intervento dopo altri interventi, quindi alcune immagini ci aiutano, oltre al caldo, a metterci nel mondo della fatica. Tutte le altre sale hanno aria condizionata, non è proprio qua. Se dalla regia può partire il video dal Rione Sanità.

 

Video. da min. 38:48 a min. 41: 46

 

Porzio. Grazie. In realtà c’è un piccolo aggiornamento, perché ad oggi i posti di lavoro creati sono 53, e prevediamo di arrivare a 60 entro fine anno. Giusto per capire, quanti di voi sono già stati al Rione Sanità? Rispondete per alzata di mano. Eh, me l’avevano detto che era un pubblico esperto. Perfetto. Per tutti gli altri, questo è un invito a venirci a trovare. Avete ascoltato brevemente in super sintesi una storia di riscatto, che è iniziata con un augurio fattoci nella sacrestia della Basilica di Santa Maria della Sanità, quando iniziammo le prime attività quasi amatoriali con i visitatori che, quasi alla Indiana Jones, entravano nel Rione Sanità tenendosi stretta la borsetta, guardandosi intorno. Ci dicevano: “Complimenti! State facendo bene! Vi lasciamo quest’augurio, che è una frase di Sant’Agostino: Abbiamo sdegno e coraggio. Sdegno per le cose come sono, e coraggio per cambiarle”. E questa cosa noi continuiamo a ripetercerla ogni giorno. Abbiamo continuato a ripetercela anche durante la pandemia, momento in cui il lavoro era fermo. Siamo riusciti a tenerci stretti ogni singolo posto di lavoro anche se il numero di visitatori era crollato a zero. È una storia dove – avete sentito le parole di don Antonio – le pietre scartate sono diventate testate d’angolo. È questo il senso vero del lavoro al Rione Sanità. Non solo creiamo lavoro, e quindi rispondiamo a quella domanda – mi dicevi nel salottino: “Cos’è per te il lavoro?”. Al Rione Sanità il lavoro mi ha permesso di rispondere a un’importantissima domanda che mi ponevo e una maggiore, che era: “Cosa faccio da grande?” E qua vedo parecchi giovani che forse si stanno ponendo la stessa domanda: “Cosa faccio da grande? Devo cambiare città? Posso restare nella mia città?” Nel nostro caso l’impresa sociale al Rione Sanità ci ha permesso di – alla fine – spremere le nostre energie per la nostra terra. Quindi ci ha permesso di restare, ci ha permesso di cambiare noi stessi e la comunità nella quale viviamo. Il 70% dei giovani lavoratori della Cooperativa La Paranza sono del Rione Sanità, il 30% si sente adottato. Viviamo in un contesto nel quale la disoccupazione giovanile è al 60% e l’abbandono scolastico è al 40%: sono livelli da guerra civile. In questo contesto qual è stata la soluzione, qual è stata la risposta a quella domanda “Cosa faccio da grande?”. Inizio da quello che ho che sono le persone straordinarie perché don Giuseppe Rossello ci ricorda sempre – pace all’anima sua – che a Rione Sanità c’è un umanesimo che o diventa umanità o muore e quindi abbiamo cominciato a metterci in gioco, a mettere il meglio di noi stessi. Non c’era ancora la forza di pagare i contratti, c’era tanto volontariato però c’era una visione chiara: l’immenso patrimonio storico artistico del Rione Sanità permetterà di creare lavoro ed è quello che nel tempo abbiamo fatto. Si è partito dalle risorse, gli esperti dicono è stato il processo bottom up e a noi piace questa parola perché non è un processo che arriva dall’alto, da persone che magari hanno idee che non aderiscono al territorio, ma il territorio che si inventa il proprio destino e si impegna affinché, come diceva l’augurio di Papa Francesco agli organizzatori del Meeting, dobbiamo incontrare la vita degli altri e donarci agli altri in questo poi ha senso il nostro lavoro e, quindi, la missione della nostra cooperativa diventa quella di creare lavoro sempre di più in un contesto che sembra essere ostile, ma che in realtà, se ci togliamo le bende dagli occhi, ha un’infinità di risorse e oggi a Rione Sanità questa realtà è una delle poche certezze e quindi il quartiere sta cambiando. Ecco perché vi dicevo chi l’ha visitato Rione Sanità, al di là dei problemi che continuano ad esserci, è un quartiere che crede in un futuro possibile e questo è stato realizzabile grazie al lavoro che prima non c’era. Voi immaginate – e questo lo si trova in tanti contesti, anche in quelli istituzionali e non – si affrontava sempre la mentalità “si è sempre fatto così”, “niente può cambiare”, “abbiamo sempre fatto così” e invece i giovani che con questo modo di fare e parlare non ci vanno tanto d’accordo e grazie a delle visioni molto importanti ispirate soprattutto da don Antonio, hanno cominciato a credere nelle proprie capacità ed è per questo che diciamo sempre come diamo l’opportunità ai giovani? diamo la fiducia perché fiducia ci è stata data e fiducia dobbiamo dare.. Il momento più difficile è il momento nel quale dobbiamo selezionare i futuri cooperatori di cooperativa La Paranza e spesso quasi sempre noi non scegliamo il curriculum più qualificato, ma scegliamo la persona più motivata; questo perché la persona poi dopo magari sceglie di fare l’università di specializzarsi e il 40% dei lavoratori della cooperativa La Paranza ha migliorato il proprio titolo di studio dopo aver iniziato a lavorare. Ecco perché nel nostro caso il lavoro va su due direttive: tiene al centro le persone e i luoghi e così giovani restano e cambiano la comunità. Grazie.

 

Dellabianca. Allora non ci muoviamo tanto da Napoli e siamo con l’ultimo intervento di questo primo giro con Stefania Brancaccio che è la segretaria generale Unione cristiana e imprenditori e dirigenti (UCID), ma è anche Cavaliere del lavoro e vicepresidente dell’azienda metalmeccanica Coelmo che è ad Acerra (Napoli). Ha passato e investito tutta la vita nel costruire lavoro, si è impegnata nel portare a casa delle battaglie, vittorie, nel cercare di porre quello in cui credeva come modello e bene anche oltre il suo prato per cui, soprattutto anche come responsabilità verso i giovani e quelli che si incontrano con Ezio. Le chiedo il suo contributo.

 

Brancaccio. Buonasera a tutti, quanto sono felice di stare qua e molto e soprattutto veramente un complimento a questi ragazzi che nella mia città ho visto crescere e noi siamo stati molto vicino a loro. UCID, Unione cristiana di imprenditori e dirigenti di azienda che cosa fa? Le due connotazioni iniziali: dirigenti e imprenditori ci qualificano in alto e poi dobbiamo parlare di imprenditorialità e noi applichiamo, dobbiamo applicare nelle nostre aziende la dottrina sociale della Chiesa. Quando tanti anni fa, ma vi dico tanti anni fa, io cominciavo a parlare del Vangelo in azienda, voi immaginate io nel ’74, ‘75 dovevo entrare in azienda, un’azienda metalmeccanica, e immaginare dovevo assolutamente cambiare filosofia e andare a frequentare le grandi scuole di business. A Harvard le scuole di business, le grandi scuole di business, la prima cosa che hanno insegnato, ma è fino a pochissimo tempo fa, è che i dirigenti, gli alti dirigenti, dovevano stare da una parte: c’era l’ingresso dei dirigenti e l’ingresso per i lavoratori, i dirigenti pensano e i lavoratori operano e questo ce l’hanno insegnato. Noi non dovevamo assolutamente avere nessun contatto. Quando tornavo in azienda – perché io ho un’azienda – io vedevo una realtà tutta .. che non era quella e una volta durante una lezione mi sono alzata e ho detto: ma voi siete stati in un’azienda?, l’avete mai vista pulsare? L’azienda è un organismo vivente l’azienda, l’azienda vive, l’azienda è fatta di ragazzi che in questo caso sono cooperative sociali, ma nel nostro caso sono ragazzi che hanno creduto, che ci credono, loro si sono presi cura e in azienda per la prima volta parlare di fraternità, amicizia, vicinanza, coinvolgimento erano termini impossibili da adottare, impossibili e anche prendersi cura della persona che lavora con te. La cura – lo sappiamo – la immaginiamo tutti quanti .. la malattia, qualcosa che bisogna curare, il prendersi cura è quel donare se stesso all’altro e allora che cosa devono fare le aziende per prima cosa? Cancellare tutte le vecchie teorie di gestione aziendale, noi dobbiamo levare quell’idea di divisione fra chi pensa e chi opera perché non è così, perché il lavoro … quando tu chiami un ragazzo specialmente oggi spaventato dal Covid, spaventato soprattutto da questo mondo, i giovani hanno terrore del mondo che abbiamo loro dato in mano, brucia, è orribile, non è affidato, ci sono le guerre con quale pensiero pensano al lavoro, con quale pensiero questi ragazzi vengono in azienda a dire io penso al mio futuro?. E invece no, ecco ragazzi come loro credono e hanno creduto in questo futuro e allora noi dobbiamo pensare che quando lavorano in azienda e mi rivolgo ai tanti imprenditori, come di fatto lo stiamo facendo, come imprenditori dell’UCID: cambiate completamente la mentalità e siccome e vi dico sinceramente i frutti arrivano. Quando ascolti, per esempio, quando arrivano le società di formazione nelle nostre aziende, i grandi studi di formazione, la prima cosa che fanno sono gli organigramma. Ebbene, credetemi, l’ascolto … se cammini nello stabilimento e parli con qualche tuo collaboratore che si vede escluso dall’organigramma – che chissà che cos’è – “ma io dove sono? non ci sono” ed è una cosa terribile per chi lavora senza sentirsi partecipe di quello che si fa. Ecco diciamo che si sta scoprendo e a me dispiace dire che oggi si sta scoprendo, io l’ho sempre fatto, io ho sempre dato all’ultimo a quello che dici tu, quell’ultimo che diventa importante nella tua azienda, anche la pietra scartata diventa la più importante perché quando vai vicino a un tuo collaboratore gli chiedi: ma per te qual è il senso di stare qua in azienda? Carissimi, se non vi sa rispondere, perché senso vuol dire direzione, questa persona non sta lavorando nella vostra azienda, sta portando un poco di lavoro, sta portando qualche manovalanza. L’azienda è fatta di altre cose, l’azienda vive e quando, invece, si coinvolgono le persone e adesso sono, diciamo, le nuove teorie, ne stiamo parlando tanto adesso, stiamo parlando di responsabilità sociale di impresa, stiamo parlando- chi è del campo sa quanto – abbiamo gli indici che si chiedono alle aziende per concedere loro il credito, che aderiscano agli indici cioè di rispetto dell’ambiente sociale, della governance, alle aziende si chiede tutto questo e a me sembra così, come stiamo facendo il green washing o il pink washing, cioè tutte le aziende lo stanno declamando sono tutte brave, buone e belle e questa teoria io la chiamo la teoria dei fiori recisi, noi andiamo in un giardino, vediamo questi bei fiori, li mettiamo in casa nostra, sembrano bellissimi, l’azienda dice io sono buona, faccio queste cose buone, faccio il welfare, faccio gli abbonamenti, faccio il teatro, concedo le cose ai miei collaboratori e poi quando vai a vedere questi fiori che hai reciso dalla pianta si seccano, non è niente di vero, moltissima parvenza, non c’è, perché dobbiamo cominciare ad intervenire nell’animo delle persone. Ognuno di noi dirigenti, capi dobbiamo capire chi è vicino a noi in ufficio, in un’azienda, in qualunque luogo io ho un essere umano, una persona da sentire, da ascoltare, da fare partecipe delle cose che io sto facendo Ecco questa fraternità – che abbiamo dovuto aspettare lo dicesse il Papa, noi abbiamo dovuto aspettare un Papa che parlasse addirittura di ecologia non so se mi spiego.  Quando per la prima volta io che stavo in Federmeccanica abbiamo fatto il rinnovo, cioè c’era il contratto dei metalmeccanici, il contratto metalmeccanico è quello più importante da rinnovare, noi scrivemmo questa parola “rinnovamento” e non volevamo dare un soldo di più nella busta paga, ma volevamo capire di cosa i nostri collaboratori di cosa avessero bisogno. E li è nato per la prima volta il welfare che oggi purtroppo – anche qui dobbiamo intervenire – io vedo un po’ mortificato. Non è con gli abbonamenti, non è regalando i viaggi, non è questo. Nella mia azienda – per esempio – noi abbiamo fatto per la prima volta delle interviste, abbiamo chiesto ai nostri dipendenti, ai nostri collaboratori: ma tu che cosa vuoi perché io ti possa aiutare e cercare per farti stare un po’ più sereno nella tua vita? Sono uscite le richieste più incredibili, i giovani vogliono una cosa, le mamme volevano un’altra cosa, volevano un’assistenza gli operai e tutto questo per dirvi che cosa? Che bisogna ascoltare quando parliamo di fraternità, di amicizia il Papa ci ha detto prendete insieme con voi non è la conoscenza e l’amicizia mettete un po’ della vostra vita in quella degli altri, ma queste ricette non sono solo ricette di imprenditori o di ragazzi della cooperativa o di ministri, sono ricette di vita, cioè la fratellanza, l’aiuto, lo stare insieme perché abbiamo capito che solo così, solo così veramente riusciremo a venirne fuori perché queste paure che abbiamo consegnato ai ragazzi .. i ragazzi quando vengono in azienda non sanno lavorare cioè noi oltre ad assisterli dobbiamo insegnare che cosa vuole dire il lavoro. Parliamo di lavoro dignitoso certamente, assolutamente, ma insegniamo loro a restituirlo dignitosamente, il che vuol dire facciamoli crescere perché quando gli insegniamo come restituirlo dignitosamente cioè tu stai facendo una cosa, ma perché lo stai facendo? con questa sciatteria di buttar le cose? Loro si sono presi cura di un territorio, l’hanno fatto nascere, quanti dei miei collaboratori li vedo che sbagliano, vai lì vicino e dici: ma scusa, perché stai facendo così? E lui si ferma. Per dire: lo sai che danneggi questo, non fai bene questo, perché non ti metti a farlo come si deve. Credetemi, non è buonismo, è fare fiorire. Noi abbiamo fatto fiorire, abbiamo fatto fiorire, abbiamo fatto espandere delle persone e abbiamo avuto con la collaborazione delle partecipazioni incredibili, c’è l’entusiasmo e non importa di stare nell’organigramma, cancellate gli organigramma. Facciamo in modo che quelli che pensano – così si diceva una volta – stiano accanto a quelli che operano, pensiero e mani siano un tutt’uno, stiano veramente tutti quanti insieme. Ecco perché il successo di un’azienda viene fatto dai nostri collaboratori e solo quello lì è il vero successo dell’azienda. Quando li abbiamo intorno, quando li vediamo crescere, quando con loro condividiamo queste cose allora un’azienda si può definire – come ho sentito da tutti quanti – un’azienda sostenibile, il che chissà che cosa vorrà dire poi un’azienda sostenibile, è questa un’azienda sostenibile: che mantiene le promesse che fa e non mette solamente i fiori in bella vista e basta.

 

Dellabianca. Allora ho lasciato consumare il tempo di entrambi gli interventi alla dottoressa Brancaccio. Facciamo una pillola veloce e poi un’ultima battuta con il sottosegretario. Avete detto che si prova sdegno per le cose che si hanno davanti e del coraggio di cambiare, trasformare quello che mi viene donato, sfidare l’amministratore delegato. Spesso esperienza comune è che la condizione del lavoro che mi trovo mi sembra non soddisfacente, mi sembra che non risponda a quello che sono io. Due le strade dicevate o piangersi addosso o avere il coraggio. Da dove si prende la sostanza, la forza per questo per andare a fondo della cosa? Velocissimamente voi tre un minuto a testa.

 

Porzio. Sicuramente dall’ascolto, è importantissimo e tra l’altro è uno dei punti importanti sottointesi negli interventi che avete ascoltato. La fase di ascolto è fondamentale perché ti permette di avere le idee chiare per agire. Nel nostro caso, forse è quasi scontato perché in una storia di amicizia quella forza la trovi con il collega che è anche un amico e quindi si riesce ad affrontare un discorso che è costruttivo, al di là del contenuto importante è l’obiettivo finale.

 

Malaspina. Da parte mia la convinzione. Non avevo dati, non avevo da presentare niente quando ho presentato al mio consiglio di amministrazione, ma la convinzione che il lavoro femminile è fondamentale e ho cercato di interpretarlo. Questo libro serve da incoraggiamento cioè se c’è l’ho fatta io un collega human resources lo può fare e penso che il contributo di ognuno sia quello di provarci e di dare il proprio contributo perché non dire: ma no no, non posso farlo di .. cioè di limitarsi bisogna spingersi oltre ai propri limiti.

 

 Paltrinieri. Personalmente per me è sempre stata la possibilità di rapporti che mi ha sempre fatto guardare in alto, l’amicizia inesauribile di cui al titolo del Meeting di quest’anno, è questo, cioè la possibilità che tu abbia di fianco qualcuno che per me prima di tutto è mia moglie e poi i miei amici o se penso agli inizi le parole provocatorie del mio amico Enzo che mi dice: se ti metti con tuo papà non è che ti puoi mettere per fare una robina qualsiasi o punti al Lambrusco più buono del mondo o lasci stare, che è come dire, è un bel paradosso. Io quello che ho visto è questo perché questo poi mi mette dentro una tensione non tanto una fama di arrivare, ma sì una tensione che rende possibile la cosa.

 

Dellabianca. Un minuto anche per la dottoressa Brancaccio. Abbiamo guardato dove si prende questo coraggio, non di cambiare lavoro ma di cercare di cambiare le cose che ho davanti.

 

Brancaccio. Avendo la fortuna di stare in un’azienda in cui si presume che dire la propria non vuol dire licenziamento. Io dico a me non piace così perché è sbagliato e ..

 

Dellabianca. Volevo dedicare gli ultimi minuti ad una domanda al sottosegretario perché tutta questa esperienza che noi facciamo poi è anche una sfida che questo diventi una azione di governo, che sia un qualcosa che richieda a voi che siete impegnati nel governo del paese di pensare a qualche soluzione e non so se il salario minimo è la soluzione che dà senso al lavoro. Allora qual è la sfida che vivete rispetto all’esperienza che incontrate e che fate?

 

Albano. Allora grazie per tutti i contributi degli interventi che sono stati veramente interessanti e importanti e hanno contribuito ad una riflessione. Rispondendo alla tua domanda, Andrea, provo a fare una sintesi. Intanto abbiamo visto che c’è stata la pandemia, c’è ne siamo accorti tutti e l’abbiamo un po’ dimenticata, ma non l’hanno dimenticata i nostri comportamenti, gli atteggiamenti che teniamo a volte, le nostre paure e mi veniva in mente una canzone che proprio qualche giorno fa un’amica mi faceva sottolineare mi faceva ricordare ed è una canzone di Malika Ayane che dice a un certo punto: è arrivato il tempo di lasciare spazio a chi dice che di tempo e di spazio non ne è dato mai. Forse la pandemia ci ha lasciato questa necessità di avere più tempo e più spazio perché ne abbiamo avuto fame per molto tempo, però forse dobbiamo anche riflettere su come questo tempo e questo spazio lo vogliamo utilizzare e se il lavoro comprende questo tempo e questo spazio o se lavoro è fuori da questo tempo e questo spazio che cerchiamo e in alcune realtà sembra che dobbiamo lavorare per poi avere un tempo e uno spazio libero ecco forse questa è una chiave per guardare, forse, ecco vedo che noi esce perché invece è proprio quello che diceva Papa Francesco e che ci ricordava San Giovanni Paolo cioè che il lavoro può essere considerato solo un mezzo di sopravvivenza strumentale e funzionale per gestire poi il mio tempo libero e il mio spazio libero come desidero oppure contribuisce a creare la mia personalità e quindi questa ricerca di benessere che in questo momento noi sentiamo così impellente può essere una ricerca nella quale possiamo trovare un nostro benessere all’interno della nostra vita che è fatta del nostro lavoro. I giovani hanno consapevolezza di questo, siamo riusciti a tramandare questo che è anche il nostro modo di vedere il lavoro, il modo di vedere il lavoro ? parlo anche da istituzione, il modo di vedere il lavoro della nostra situazione. Siamo cresciuti così questo è il nostro lavoro all’interno dei campi che ci hanno lasciato i nostri padri e che dobbiamo preservare per i nostri figli e questa è la nostra attenzione in questo momento, quella di fare in modo che questa consapevolezza cresca sempre di più. Ricordiamo sempre che ci sono 1,7 milioni di neet. I neet sono i giovani che non studiano e non lavorano tra i 15 e 29 anni, 1,7 milioni ecco, forse, una riflessione su questo dobbiamo porla. Molto spesso a fronte anche di uno stipendio dignitoso non viene accettato il lavoro perché se ne ha paura, si cerca un benessere e non si fa un sacrificio. Certamente le politiche che hanno consentito il reddito di cittadinanza, di appoggiare il reddito di cittadinanza e di sostenerlo come risposta alla necessità di un lavoro non sono le politiche che possono tramandare la nostra cultura del lavoro, che possono far crescere ed educare perché educare come dicevamo, lo diceva prima Monsignor Zuppi, Sua Eminenza, è proprio tirar fuori far crescere tirar fuori ciò che noi veramente siamo e per farlo la cosa che ci educa di più è certamente il lavoro. Per questo è necessario un’importante azione sulla scuola. Si è parlato di alternanza, più che alternanza è proprio un collegamento tra scuola e lavoro. Adesso non entro .. ci sarà il ministro Valditara al Meeting che potrà lavorare su questo. E’ fondamentale dire anche che ogni persona ha un valore e il lavoro è un valore di per sé e se quindi il lavoro è un valore di per sé non possiamo, diciamo, stigmatizzarlo con un valore minimo, con un salario che abbia un valore minimo, non è così semplice rispondere a problemi complessi bisogna rispondere in maniera articolata e approfondita ed è per questo che su questo tema ci sarà una riflessione perché più che di salario minimo quello che noi vogliamo affrontare è il lavoro povero e quindi affrontare e risolvere il problema del lavoro povero. Mi sembra che nelle parole del nostro amico della Cooperativa La Paranza ci sia un po’ la risposta ed è anche, lo dico, una delle frasi che ho sentito tante volte dal presidente Giorgia Meloni ed è la frase di Sant’Agostino sullo sdegno e il coraggio. Però la volevo completare perché la frase di Sant’Agostino dice che lo sdegno e il coraggio sono figli della speranza, la speranza ha due figli: lo sdegno e il coraggio, lo sdegno per guardare la realtà delle cose e il coraggio per cambiarle. Questo è quello che noi stiamo facendo e provando a fare. Grazie.

 

Dellabianca. Allora ringrazio i nostri ospiti e chiaramente il tempo e il countdown è stato .. ci hanno acceso l’aria condizionata alla fine per farci uscire. Permettetemi di leggere il messaggio finale degli incontri: da sempre in tante culture l’amicizia è stata considerata come una delle manifestazioni più alte delle relazioni umane dove la fiducia e il sostegno, l’amore diventano reciproci il Meeting stesso è nato da un’amicizia e continua a scommettere tuttora sulla relazione con l’altro. Ognuno di noi può dare un contributo decisivo per rendere il Meeting anche quest’anno testimonianza di un’amicizia che vuole dilatarsi fino a diventare un’amicizia fra i popoli e le culture sostenere il meeting diventa espressione di una corresponsabilità per la costruzione di un luogo per sé e per il mondo. Una civiltà non cresce senza cultura, dialogo e bellezza ne sono la linfa vitale. Il Meeting è da sempre il luogo di cultura ciascuno di noi può contribuire a far continuare questa grande storia.

 

Data

20 Agosto 2023

Ora

17:00

Edizione

2023

Luogo

Sala Ferrovie dello Stato B2
Categoria
Incontri