Chi siamo
IL LAVORO AL CENTRO DELLA DEMOCRAZIA
In collaborazione con Fondazione per la Sussidiarietà.
Silvana Sciarra, Presidente Corte Costituzionale. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
L’articolo 1 della Costituzione afferma che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Che senso ha tale affermazione nel 2023? In particolare, quali sono i nodi da affrontare per garantire a tutti – compresi gli immigrati che vengono accolti nel nostro Paese – un lavoro adeguato e dignitoso? Il tutto tenendo conto dell’accelerazione che lo sviluppo tecnologico e le esigenze della sostenibilità impongono. Oltre al cambiamento di senso che viene attributo a questa dimensione.
Con il sostegno di isybank e Eni.
IL LAVORO AL CENTRO DELLA DEMOCRAZIA
Il lavoro al centro della democrazia
Mercoledì 23 agosto 2023, ore 13.00
Partecipa
Silvana Sciarra, presidente Corte Costituzionale
Introduce
Giorgio Vittadini, presidente Fondazione per la sussidiarietà
Vittadini. Buongiorno, siamo onorati di avere con noi oggi la presidente della Corte Costituzionale, Silvana Sciarra. Il tema che vorremmo affrontare è centrale in tutto il Meeting: il tema del lavoro. Infatti, il titolo è: “Il lavoro è al centro della democrazia” e riprenderemo l’articolo 1 della Costituzione. Silvana Sciarra, oltre che presidente della Corte Costituzionale, è una grandissima esperta di questo tema in termini costituzionali. Do alcune note introduttive al suo discorso per collocarlo all’interno del Meeting. È stata presentata ieri al talk Generazione Lavoro, organizzato dalla Fondazione per la sussidiarietà, una ricerca condotta con Randstadt in cui emerge qualcosa di inizialmente interessante, stimolante: le imprese italiane stanno investendo sul nuovo modo di percepire il lavoro, su persone che devono avere non solo competenze, ma anche quelle che sono non cognitive skill, vale a dire una personalità, un carattere, una capacità di guardare la realtà, empatia, motivazione. Tre laureati su quattro trovano un’occupazione presto e molti di questi vengono da università capaci di preparare al lavoro. Queste sono le note buone, interessanti, che raccontano un cambiamento del mercato del lavoro. Però vanno ricordate anche le note dolenti. Da questa ricerca si deduce, infatti, la necessità di più istruzione poiché oggi entrare nel mondo del lavoro è tanto più facile quanto più si studia, quanto più si è qualificati, a vantaggio di laureati e diplomati: da questo punto di vista abbiamo qualche problema in Italia. Perché? Innanzitutto, perché in Italia abbiamo un numero di diplomati e laureati inferiore ai paesi europei. Pensate che nel 2022 solo il 63 per cento della popolazione tra i 25 e i 64 anni aveva almeno un titolo di studio secondario e solo il 20 per cento un titolo di studio terziario. La media dell’Unione Europea è il 34,3 per cento. Inoltre, molti sono i giovani in difficoltà. I neet, vale a dire le persone tra i 15 e i 29 anni che non lavorano né studiano sono un milione e settecentomila e abbiamo il 47,1 per cento dei giovani tra i 18 e i 34 anni in situazioni di deprivazione. Quel che è peggio, dal punto di vista di quello che è un obiettivo comune, è l’equità: nascere da famiglie povere oggi è il primo ostacolo per i giovani, e lo si deduce dal dato che quasi un terzo degli adulti a rischio di povertà viveva all’età di 14 anni in un contesto familiare in condizioni precarie. Ciò anche per il fatto che venire da famiglie povere comporta più difficoltà a studiare e laurearsi. In una situazione in cui (a causa del debito pubblico o per altri motivi) la spesa pubblica per l’istruzione è diminuita. Non è aumentata. Al contrario, i paesi del Far East, sono quelli che hanno investito di più in istruzione e qualità dell’istruzione. Ci sono studi che dimostrano questo nesso. Inoltre, non è sempre stato vero in tanti anni scorsi che le politiche attive per il lavoro hanno avuto il centro della nostra attenzione. È certamente importantissimo sostenere con tutti gli aiuti possibili chi è povero, ma è anche giusto ricordare che il lavoro è il primo punto della Costituzione italiana: l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, perché non solo il reddito, ma la dignità di lavorare, di costruire un reddito, di partecipare al benessere della nazione con il proprio contributo sono stati aspetti fondamentali per l’Italia e hanno permesso a un paese distrutto dalla guerra di diventare uno dei paesi più industrializzati. Vanno quindi rimarcati i dati che mostrano una difficoltà nell’ambito dell’istruzione e dei ceti meno abbienti, in aggiunta ad una perdita del significato del lavoro e della dignità del lavoro. Non si tratta soltanto di questioni economiche. La dignità consiste innanzitutto nel ritrovamento del gusto ideale di lavorare, di partecipare, di costruire. Ci sono due fenomeni che, secondo me, sono collegati: l’idea del lavoro come performance, come riuscita, ma anche il cosiddetto Yolo, You only live once che poi si traduce nella Great Resignation, cioè lavoratori non soddisfatti che continuano a cambiare occupazione. Questi due aspetti svelano una crisi del significato. Do la parola a Silvana Sciarra che sicuramente, oltre a approfondire tutti gli aspetti giuridici, ci potrà far capire come mai in un Paese come il nostro i costituenti hanno messo al centro il lavoro non solo come tecnica, come strumento, ma anche come aspetto che caratterizza un Paese.
Sciarra. Esprimo innanzi tutto la mia gratitudine agli organizzatori per l’invito che mi hanno rivolto, in un’occasione che è divenuta sempre più centrale nel confronto di opinioni e nella circolazione di idee.
La mia più grande aspirazione in queste occasioni è raggiungere i più giovani, perché con loro, con un rinnovato spirito di iniziativa, si può invertire uno stile talvolta rituale della comunicazione.
Apprezzo dunque l’enfasi che in questa edizione del Meeting è stata posta su organizzazioni del terzo settore che aiutano giovani in difficoltà e che si parli, senza perifrasi, di ‘struggimento’ per il loro destino.[1]
Il tema del mio intervento risveglia una parte – per la verità mai sopita – della mia vita professionale, come professore di diritto del lavoro. Una passione questa che l’esperienza vissuta da giudice costituzionale ha nuovamente allertato, nel chiedere a me stessa una coerenza ancora più forte, un nuovo equilibrio fra teoria e pratica. Chiedere a me stessa non vuol dire che sia riuscita a ottenere quel risultato, ma esprimere a voi questa mia costante tensione interna mi permette di coinvolgervi – così almeno spero – in una condivisione che si spinge a toccare le emozioni, forti anche quando si ricopre un ruolo istituzionale.
Dopo gli anni trascorsi all’interno della Corte costituzionale, ho constatato che nel flusso di una comunicazione obiettiva, è importante non interrompere un percorso di crescita come persona e che la crescita può – anzi deve – essere contrassegnata da riflessioni, da dubbi, da domande rivolte a noi stessi.
Parlerò a titolo personale, senza coinvolgere in alcun modo il collegio di giudici che ho l’onore di presiedere. Non posso, tuttavia, non dire che interpreto l’invito rivolto a me come gesto di attenzione per la Corte costituzionale, per il suo costante lavoro a difesa dei diritti, quale organo di garanzia trasparente e indipendente.
Questa occasione – lo auspico con convinzione – serve a instaurare un dialogo non passeggero, che va ben oltre la mia persona, nell’intento di coinvolgere i più giovani in un circuito di rispetto per le istituzioni e di comprensione del loro operare.
La collegialità delle decisioni che caratterizza il modo di operare della Corte costituzionale diviene un bene collettivo, appartiene a tutti noi, perché è espressione dell’imparzialità che guida il giudice delle leggi. Rispettare questo modello deliberativo significa cogliere il valore di un lavoro orientato alla costruzione di un avanzato equilibrio fra le istituzioni democratiche.
Il lavoro al centro e, se preferite, al cuore della democrazia.
Quale democrazia? Quella ‘dei moderni’, per dirla con un grande scienziato quale Giovanni Sartori, distinta da quella ‘degli antichi’, quella che si fonda su libertà ed eguaglianza, fondamenta che possono congiungersi e rinsaldarsi reciprocamente, ma anche disgiungersi pericolosamente.[2] Nel passaggio dall’una all’altra si inseriscono le costituzioni e con esse la progressiva emersione della persona, titolare di libertà positive e negative.
Illuminanti, al riguardo, le pagine del filosofo Isaiah Berlin, che interpreta questi principi quali capisaldi delle democrazie liberali. Libertà è ‘l’assenza di ostacoli a compiere scelte potenziali, il sapere quali e quante porte sono aperte, invece di chiedersi se e fino a dove si vuole camminare’.[3]
Proprio la metafora del cammino è stata utilizzata da Papa Francesco nel suo recente incontro con i giovani in Portogallo. Provo a riproporre, con riferimento al lavoro, il suo invito alla costanza nel camminare e a saper camminare verso una meta, a imparare a rialzarsi se si cade.
Il lavoro è un cammino della vita, per questo si pone al cuore della democrazia: il cuore, dunque come organo vitale, parte di un corpo armoniosamente costruito per funzionare, per pensare, per amare, per creare relazioni.
Nel collocare il lavoro al centro di questi percorsi, sono consapevole che non è l’unica leva del cambiamento e dell’avanzamento di una giustizia sociale. I nostri appigli dovrebbero essere incardinati in una società solidale, in molte comunità di affetti e di relazioni, nella cura e nell’amicizia, i valori cui si ispira, tra l’altro, il dibattito che si svolge qui in questi giorni.
Il lavoro su cui è fondata la nostra Repubblica democratica – vi ricordo l’art. 1 della Costituzione – è il lavoro delle persone intese come individui e come collettività.
‘Generazione lavoro’ è la formula che propone oggi la Fondazione per la sussidiarietà.[4] Incisive le parole di un costituente illustre, Costantino Mortati, che nel commentare questo primo articolo, evidenziò il valore del lavoro quale ‘fattore necessario alla ricostituzione di una nuova unità spirituale’[5]: un nesso, un collante per tenere insieme la base sociale, presupposto dello Stato comunità.
Coerente con questa impostazione è il richiamo all’art. 4, in cui il diritto al lavoro, che la Repubblica riconosce, si fonde con i doveri dei cittadini nello svolgere ‘secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società’.
‘Secondo le proprie possibilità e la propria scelta’ vuol dire secondo le proprie inclinazioni, e secondo l’abilità che si percepisce di avere, o che si è acquisita, ma non sempre questo incontro fortunato fra domanda e offerta di lavoro si compie.
Eppure, nell’Unione europea (UE) il 2023 è definito anno delle competenze, per affrontare, tra l’altro, la transizione verde e la potenziale perdita di posti di lavoro in alcuni settori.
Nel vertice sociale europeo che si è tenuto a Porto nel 2021 si è dovuto ammettere – autocriticamente per le istituzioni europee e per i governi nazionali – che continuano a mancare forme di inclusione sociale per i più fragili, per i disoccupati di lungo periodo, per quanti hanno una bassa qualifica professionale, per chi lavora con contratti non standard.
Ancora più drammatica la condizione dei detenuti, cui si offrono scarsissime opportunità formative e lavorative.
Del lavoro carcerario la Corte ha detto in una sentenza che è strumento di ‘redenzione’, non di ‘espiazione della pena, ma è un metodo di trattamento’.[6] La tutela della dignità è dovuta per chi è privato della libertà.
La formazione degli adulti, così come dei giovani in cerca di prima occupazione, se resa carente o sporadica dagli organismi che dovrebbero erogarla, condiziona il dovere dei cittadini di lavorare, che l’art. 4 evidenzia a fronte del diritto al lavoro. Questo diritto, che non coincide – la Corte lo ha chiarito più volte – con la garanzia della stabilità del posto di lavoro, si sostanzia nella pretesa di politiche attive da parte dello Stato, di sostegno nella scelta di quel cammino che prima ho evocato. Nel leggere gli articoli della Costituzione che ho citato dobbiamo accantonare il disincanto, che ben potrebbe prevalere, se ritenessimo queste norme solo programmatiche; dobbiamo credere invece con convinzione in un progetto ancora valido e attuale. I diritti sociali sanciti dalla nostra Costituzione marcano in modo sempre attuale gli impegni dello Stato nei confronti dei cittadini, sono espressione di una democrazia, come ho già detto, ‘dei moderni’ e aggiungo dinamica, sono il cordone che lega insieme lavoro e cittadinanza. Devono essere dunque tradotti dalla politica in azioni mirate e la politica non può che essere sollecitata dai cittadini. Piero Calamandrei, altro illustre costituente, scrive che nel discutere dei dubbi circa l’eccessiva genericità di questi articoli, fu Togliatti a sollecitare il suo spirito fiorentino, citando Dante. I costituenti – che Calamandrei definisce ‘preparatori della Costituzione’ – dovevano fare ‘come quei che va di notte, che porta il lume dietro e a sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte’. Siamo in un canto del Purgatorio e il riconoscimento nell’aver illuminato il cammino è rivolto a Virgilio.[7]
I maestri come Virgilio – gli educatori, i formatori, chi opera negli ospedali, nei servizi sociali e nelle carceri, chi aiuta i giovani nell’apprendere – hanno un ruolo cruciale. Nella democrazia ‘dei moderni’ il lavoro entra in forme sempre mutevoli, quanto alle modalità delle prestazioni, ai luoghi e ai tempi in cui si svolge; per tornare a Sartori, nella democrazia ‘degli antichi’, invece, ‘al lavoro attendevano gli schiavi’. Nella democrazia rappresentativa moderna si sviluppano forme di controllo del potere, al fine di limitarlo e la società civile ‘intesa come società prepolitica, come sfera autonoma e autosufficiente’ si dispiega come tale.[8] Nel lavoro, nei molti universi che ne caratterizzano l’evoluzione, i principi democratici della rappresentanza e la tutela dell’autonomia dei soggetti collettivi entrano in modo prorompente sulla scena dopo il periodo corporativo e divengono cardini essenziali di un fitto sistema di regole. La formula ‘sovranità popolare’ sollecitò lo spirito critico di un costituente, Luigi Einaudi, che la collocò fra i ‘concetti che si chiamano miti, che sono, in sostanza, formule empiriche, accettabili in vista di determinati scopi’.[9] Proprio questo empirismo, se raccordato alla centralità del lavoro nell’impianto democratico della Repubblica, consente di visitare un mondo popolato da grandi e originali novità. La rappresentanza dei lavoratori si sviluppa in parallelo alla rappresentanza politica, pur essendo altra cosa da questa. Leggiamo il primo comma dell’art. 39: ‘L’organizzazione sindacale è liberà. Il sindacato, non più costretto dentro i confini di un regime repressivo delle libertà dei singoli – libertà positiva e negativa, aderire o non aderire all’organizzazione sindacale – diviene espressione di una democrazia in movimento. Nella perdurante mancata attuazione dei commi seguenti, il sindacato agisce quale associazione non riconosciuta, corpo intermedio che esprime aspirazioni collettive da tradurre in diritti, che si adopera per la costruzione del consenso, che fa ricorso al conflitto quale strumento di autotutela in situazioni di patologia, quando si interrompe il naturale e fisiologico scambio negoziale. La contrattazione collettiva solo volontaria, da un lato, fiorita in Italia – come del resto in molti paesi del Nord Europa, restii all’intervento della legge – e, dall’altro lato l’intervento solo settoriale del legislatore in attuazione dell’art. 40, nel regolare l’esercizio del diritto di sciopero, limitandosi ai servizi essenziali, hanno contribuito a rendere originale il sistema italiano nel quadro comparato. Presso il CNEL sono depositati circa 1000 contratti collettivi, con diverso ambito di efficacia e stipulati a diversi livelli, incluso quello aziendale. Grande patrimonio questo, prodotto dell’autonomia collettiva, che coinvolge soggetti rappresentativi dei lavoratori e dei datori di lavoro. Il metodo seguito dai grandi riformatori del diritto del lavoro, fra questi Gino Giugni, consentì di affermare, agli albori degli anni Settanta dello scorso secolo, quando prese avvio la legislazione di sostegno con lo Statuto dei lavoratori, che il sindacato, nel distaccarsi dallo stato-persona, identificato con l’ordinamento costituzionale, resta pur sempre parte di quell’ordinamento, pur in assenza di una piena attuazione dell’art. 39 della Costituzione, nei commi secondo e seguenti. Prende corpo un pluralismo sindacale che espande e rafforza il primo comma, ovvero la libertà sindacale[10] La libertà sindacale segna un passaggio decisivo nell’assestarsi della nostra democrazia, dopo le rovine della Seconda guerra mondiale. Anche per le organizzazioni sindacali, infatti, vige il principio dell’indipendenza e dunque della totale alterità rispetto a chi nei luoghi di lavoro esercita poteri organizzativi e direttivi. Questo punto deve essere sottolineato. La rappresentatività sindacale – precisa la Corte costituzionale – è sganciata da qualunque riconoscimento da parte del datore di lavoro ‘espresso in forma pattizia’, dunque non è negoziabile.[11] Quella libertà, al pari delle altre garantite dalla nostra carta fondamentale, non può essere compressa, anche in virtù dell’osservanza degli obblighi assunti dal nostro paese nelle sedi internazionali, cui fa riferimento l’art. 35 della Costituzione. Sottolineo questo punto: la democrazia italiana è fin dalle origini permeabile e ricettiva quanto agli standard internazionali: le prime convenzioni dell’OIL, la CEDU e più tardi le fonti europee. Si realizza, in tal modo, al suo interno una sintesi che tende a massimizzare le tutele, valorizzando le peculiarità nazionali. Queste sinergie sono essenziali nel tempo che attraversiamo, tempo in cui le catene del valore sono globali e il lavoro esige tutele. In questo quadro di riferimento, che spinge ad accrescere la vitalità e la forza della Costituzione, aggiungendo nuovo spessore all’esercizio dei diritti individuali e collettivi, si colloca l’invito di Giorgio Vittadini a tornare a vivere la sussidiarietà, invito che si fa anche interprete delle profonde incertezze sul futuro del lavoro.[12] Gli incontri che si svolgono a Rimini in questi giorni dimostrano che non dobbiamo cessare di ricercare la ‘spiritualità’ dei costituenti, come scrivono il cardinale Matteo Zuppi e Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, in un libro recente.[13] Spiritualità è da intendersi come condivisione profonda verso obiettivi concreti. Proviamo a enucleare alcuni di questi obiettivi, mettendo al centro della nostra attenzione la persona. Da qualche tempo si è affermata nella terminologia dei giuristi del lavoro europei l’espressione ‘rapporti di lavoro personali’, che serve a lasciare sullo sfondo la classica distinzione fra lavoro autonomo e subordinato, in considerazione del fatto che la realtà contemporanea del lavoro rende sempre più sottile la linea di confine fra queste due tipologie contrattuali. Avevano guardato lontano i nostri costituenti nel redigere l’art. 35: ‘La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori’. Il linguaggio degli studiosi – giuristi e scienziati sociali – è alla ricerca di formule capaci di cogliere le novità del presente. Ecco, dunque, che si parla di ‘costituzioni del lavoro’, che insinuano regole comuni di democrazia in contesti lavorativi non tradizionali e tuttavia caratterizzati da omogeneità delle prestazioni.[14] Costituzioni al plurale ci fa pensare a una disseminazione dei principi costituzionali in realtà solo apparentemente periferiche del lavoro, in una sorta di adattamento della Costituzione a nuove realtà lavorative. In effetti così sta accadendo. Il diritto del lavoro, e con esso l’azione dei soggetti collettivi, si propongono di convertire via via le tutele, orientandole verso mutevoli formule organizzative. In questo processo modulare di nuova sistemazione della disciplina, i lavoratori in quanto persone devono poter accedere ai diritti fondamentali, sia individuali sia collettivi, indipendentemente dal tipo di contratto che stipulano con il datore di lavoro.
La Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha fatto suo questo obiettivo in una sentenza recente, emessa a seguito di un rinvio pregiudiziale proveniente da un giudice polacco, affermando che, ‘per ragioni di interesse sociale e pubblico’, si deve prescindere dalla forma giuridica in virtù della quale si fornisce lavoro, se si tratta di rimuovere ostacoli fondati su motivi discriminatori, nel caso in questione l’orientamento sessuale (Direttiva 2000/78). La cancellazione dei turni di lavoro per quel lavoratore autonomo, vittima di un atto discriminatorio, equivale al licenziamento nel lavoro subordinato, poiché quel che conta è che vi sia un rapporto di lavoro ‘personale’, vale a dire che un’attività professionale sia esercitata personalmente in modo regolare a beneficio di uno stesso destinatario.[15]
Il lavoro subordinato continua dunque a rappresentare un riferimento, al fine di attrarre in un’orbita consolidata di tutele il soggetto più debole. Può essere, infatti, considerato debole un lavoratore autonomo che non è in grado di assumere su di sé i rischi di un’attività, divenendo ‘economicamente dipendente’ da un committente, attratto dunque in una bolla di falsa autonomia.[16]
Ma cosa dire se il datore di lavoro è un algoritmo? Il controllo, esercitato fin dalla seconda rivoluzione industriale da datori di lavoro in carne e ossa, è affidato nella gig economy a piattaforme e assume sovente caratteristiche ben più penetranti. Il ‘distanziamento contrattuale’,[17] dovuto all’assenza di un tradizionale luogo di lavoro, di un cancello da varcare come ci ricorda la simbologia della grande industria, legato anche all’impossibilità di osservare un tradizionale orario di lavoro, foss’anche flessibile, può condurre a nuove forme di alienazione, se non di marginalizzazione sociale. Sono questi lavori al cuore della democrazia? Io credo che lo siano. Un importante segnale viene dall’Europa. Una proposta di direttiva – su cui hanno espresso una posizione comune i ministri del lavoro europei lo scorso giugno[18] – interviene sul lavoro tramite piattaforme digitali e suggerisce di spostare sul datore di lavoro l’onere di provare l’inesistenza di un vincolo di subordinazione. I criteri che la Direttiva enuclea conducono a una presunzione di subordinazione, se per lo meno due criteri sono rinvenibili. Essi consistono nella determinazione di un livello retributivo, in precisi obblighi di comportamento nei confronti dell’utente, nel supervisionare l’esecuzione del lavoro, nel limitare l’organizzazione di un lavoro svolto in modo autonomo, anche al fine di costruire una propria clientela.[19] La soluzione proposta è interessante perché attinge alle tecniche di tutela tradizionalmente adottate per correggere la posizione di debolezza del lavoratore nel contratto di lavoro. L’asimmetria c’è e si avverte nella gig economy. In Italia, in presenza di una gamma differenziata di indicazioni della legge circa la natura delle prestazioni, riconducibili all’area del lavoro etero-organizzato o autonomo occasionale, la Cassazione (n.1663 del 2020) ha scelto di valorizzare la tutela dei riders, sulla scorta di dati fattuali, quali la personalità della prestazione, la continuità, la incisività delle indicazioni trasmesse attraverso la piattaforma, tali da conformare la prestazione a regole che prescindono da scelte autonome dei singoli. Non sorprende che siano i riders al centro delle decisioni delle Corti. La loro silenziosa presenza durante la pandemia, le loro biciclette che sfrecciavano nelle strade vuote, hanno segnato visivamente i nostri ricordi e hanno fatto emergere l’essenzialità di un lavoro solo apparentemente marginale. Ma vi è di più. La ricerca empirica individua ‘geografie delle piattaforme di lavoro, che si organizzano tatticamente a livello locale, regionale, globale e che tendono a far convergere al centro il controllo esercitato dagli algoritmi, talvolta in posizione assai lontana dai lavoratori. La dislocazione spaziale può dar luogo a disparità di trattamenti salariali, come pure originare discriminazioni; dal che la mobilitazione dei lavoratori, che chiedono di bilanciare le asimmetrie informative con pratiche trasparenti, con una sorta di reazione collettiva a uno sfuggente ‘management degli algoritmi’, che chiama in causa, tra l’altro, le organizzazioni internazionali.[20] Inoltre, le reazioni delle corti nazionali, che si stanno orientando verso il riconoscimento della natura subordinata delle prestazioni offerte tramite piattaforme, specialmente con riferimento ai riders, aprono la strada all’intervento della contrattazione collettiva, che comincia a diffondersi anche in queste realtà. L’Italia è fra i paesi in cui è già diffuso il ricorso alla contrattazione collettiva. Inoltre, in alcuni paesi, fra tutti la Spagna, insieme ai Paesi Bassi, Portogallo, Irlanda e Regno Unito, sale la percentuale di lavoratori occupati tramite piattaforme e di quelli che hanno questa come occupazione principale. In Spagna non solo si evidenzia l’alta percentuale di popolazione attiva, ma anche la rilevanza economica dell’attività svolta.[21] Tutto questo ci porta a riflettere non solo sulle occasioni di progressiva estensione delle tutele, ma anche sull’opportunità che emerga una nuova normalità della subordinazione digitale, improntata a una flessibilità controllata, corredata di strumenti per l’inclusione e per la formazione professionale continua, ispirata al rispetto dei principi di libertà ed eguaglianza e soprattutto capace di combattere ogni forma di discriminazione, nascosta dietro la solo apparente neutralità degli algoritmi. Le riflessioni svolte fino a ora non possono prescindere da un’altra incombente realtà, che per un verso si intreccia con il lavoro tramite piattaforme e per l’altro si sviluppa lungo altri crinali, incidendo sull’organizzazione del lavoro e sulle persone che lavorano. Mi riferisco all’intelligenza artificiale (IA), oggetto tra l’altro di una recente Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio,[22] che descrive un modello di ‘innovazione responsabile’, necessariamente restrittivo di alcune libertà – la libertà d’impresa, delle arti e delle scienze, secondo un rigoroso criterio di proporzionalità – per assicurare la protezione dei diritti fondamentali, fra tutti la salute e la sicurezza. Sui fornitori di IA incombe l’obbligo di informare le autorità nazionali competenti in merito a incidenti che tale protezione possono mettere in pericolo. Si tratta dunque di instaurare un capillare sistema di monitoraggio a livello nazionale e a livello europeo, attraverso la creazione da parte della Commissione di una banca dati per sistemi di IA ad alto rischio che presentano implicazioni in relazione ai diritti fondamentali. Entra l’IA nell’orizzonte di quelle ‘costituzioni del lavoro’ che prima ho evocato? Si può pretendere che l’IA sia al cuore della democrazia? Il robot, che solleva oggetti nei grandi padiglioni delle imprese dedicate alla consegna di merce a domicilio, aiuta gli esseri umani che si aggirano fra gli scaffali e che si occupano di impacchettare la merce stessa? Questo ‘taylorismo digitale’ – l’espressione appare nella letteratura che si occupa di questi temi – non è privo delle insidie che nascondeva l’organizzazione scientifica del lavoro della prima maniera: ripetitività delle mansioni, ritmi serrati nell’organizzazione dei turni, scarsa interazione con i compagni di lavoro. Si entra nell’orbita di una ‘conoscenza induttiva’, in cui il lavoro si fonda su informazioni che provengono da macchine o da strumenti digitali.[23] Non mi addentro nei meandri di un presente che tutti dobbiamo imparare a conoscere meglio, affrontando i presupposti etici cui devono ispirarsi i produttori di IA, oltre che i presupposti economici che riguardano grandi concentrazioni di capitali e connessioni fra gruppi. Non dobbiamo ritrarci, dobbiamo essere consapevoli di questa realtà. Il diritto del lavoro deve, anche in questa fase della storia, così come ha fatto in passato nelle grandi rivoluzioni industriali, proporre regole democratiche, garantire libertà ed eguaglianza. Provo a tirare le fila delle mie considerazioni che sono partite dal cuore della democrazia politica – la libertà dei moderni – per affermare che il lavoro è al tempo stesso motore e fruitore delle regole democratiche. Motore perché ha innervato con le sue regole e con l’affermazione di libertà e diritti fondamentali la democrazia risorta dopo un regime autoritario; fruitore perché ha indotto il legislatore a trasferire nei luoghi di lavoro i diritti costituzionali, limitando poteri esercitati arbitrariamente e dunque affermando specularmente il valore della dignità del lavoro. In questo percorso la Corte costituzionale ha segnato nel tempo alcuni punti fermi, affiancando al ‘diritto al lavoro (art. 4, primo comma), la tutela del lavoro ‘in tutte le sue forme ed applicazioni (art. 35, primo comma), correggendo squilibri che emergono nei contratti di lavoro, più che in altri contratti di durata, per il forte coinvolgimento della persona umana. Sempre illuminante il richiamo a Marta Nussbaum e alla sua teoria dei diritti fondamentali come un insieme di capacità o possibilità di operare: le diseguaglianze si accentuano se nei percorsi della vita si parte svantaggiati e non si cercano sostegni correttivi, punti di appoggio, leve per crescere e affermarsi eguali.[24] Nei paesi democratici le corti costituzionali ricercano costantemente un punto di equilibrio, consapevoli che le riflessioni su libertà ed eguaglianza partono da lontano, dalle opportunità di accesso, dai punti di partenza. Servono due timoni per guidare il costituzionalismo che approda alla libertà dei moderni: eguaglianza e ragionevolezza. Ma le due mani che li controllano sono condotte da una stessa mente, perché unico è l’orientamento. I giudici costituzionali si fermano là dove si scorge il confine della discrezionalità del legislatore, cui spetta rimuovere gli ostacoli che impediscono di correggere ogni squilibrio. Ma oltre quel confine, la democrazia dei moderni pretende risposte. Il mio augurio, rivolto soprattutto ai più giovani e a quanti operano nei corpi intermedi e nella società civile, è di trasmettere spirito di responsabilità e di fiducia nelle istituzioni, per contribuire a stimolarle e ad accrescerne la visibilità. ‘L’esistenza umana è un’amicizia inesauribile’, come voi stessi suggerite nel titolo di questo Meeting. Buon lavoro, buona continuazione dei vostri incontri qui a Rimini e ancora grazie per l’invito che mi avete rivolto.
Vittadini. L’applauso che il pubblico Le rivolge esprime il nostro consenso profondo. Infatti, anche noi ci impegniamo nel generare il lavoro e opere e nel dare giudizi anche economici. Ma in mancanza di un profondo radicamento in principi ideali si scivola in un pragmatismo che uccide la possibilità di costruire nel tempo. Questi principi ideali hanno due origini che la Presidente ha ricordato. Innanzitutto, un principio ideale che nella Costituzione e nel primo articolo che Lei ha commentato, cominciando da Calamandrei e da tutti gli altri giuristi del lavoro fino a Giugni, emerge come qualcosa di affettivo, di profondo, di grande. Io mi permetto di aggiungere che Don Giussani parlava del lavoro non negli incontri sociali, ma agli esercizi spirituali, come qualcosa di fondamentale, rimarcando l’importanza che tutti lavorassero: è lo stesso spirito che si percepisce nella Costituzione, questo desiderio di cui la Presidente e professoressa Sciarra ci ha parlato, il desiderio che tutti abbiano un lavoro e che tutti i lavori abbiano una dignità, perché il lavoro è lo strumento attraverso il quale l’individuo esprime se stesso.
E il secondo principio è che tutto ciò diventa norma, tutela, costruzione. Ma si tratta di una norma, abbiamo sentito, ‘elastica’ in grado, cioè di passare dall’epoca delle rappresentanze a quella dell’intelligenza artificiale, adattandosi a un ambiente in continua evoluzione. Non dobbiamo perdere di vista il fatto che centralità del lavoro è una tipicità del popolo italiano poiché abbiamo avuto 25 milioni di emigrati tra il 1880 e il 1920 in cerca di lavoro e adesso contiamo tanti emigrati anche tra i laureati. E noi vogliamo costruire partendo proprio dalla concezione ideale e mettendola in pratica. Quindi non dimenticheremo le Sue parole, le studieremo e La ringraziamo di averci onorato con la Sua presenza, spero ci saranno altre occasioni. Grazie Silvana.
[1] https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2023/8/18/il-meeting-lo-struggimento-per-il-destino-dei-giovani/2578542/
[2] G. Sartori, Democrazia, Istituto della enciclopedia italiana 2023, p. 61 ss. (prima edizione in Enciclopedia delle scienze sociali, 1992).
[3] I. Berlin, Four Essays on Liberty, Oxford, 1969, XLVII. Si veda anche R. Aron, Libertà e eguaglianza. L’ultima lezione al College de France, Bologna Edb.
[4] https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2023/8/11/giovani-e-donne-perche-ci-interessiamo-al-lavoro/2576118/
[5] C. Mortati, Art. 1, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma 1975, p. 10.
[6] Corte cost. sentenza n. 1087 del 1988, punto 2 del Considerato in diritto.
[7] P. Calamandrei, Costituzione e leggi di Antigone, Scritti e discorsi politici, Sansoni, Milano 2004, p. 86. Il canto è il XXII.
[8] G. Sartori, cit., p. 60.
[9] L. Einaudi, II sottocommissione della Commissione per la Costituzione, 27 settembre 1946
‘La formula della sovranità popolare non appartiene al novero delle verità scientifiche, indiscutibili, dimostrabili, che risultano dalla evidenza medesima delle cose; è piuttosto un principio di fede, e le verità di fede sono discutibili, non si impongono alla mente, ma solo al cuore e alla immaginazione’.
[10] G. Giugni, Stato sindacale, pansindacalismo, supplenza sindacale, Pol. Dir. 1970, ora in Il sindacato fra contratti e riforme, Bari, De Donato 1973, p. 38-39. Si veda anche G. Giugni, Idee per il lavoro, (a cura e con Introduzione di S. Sciarra), Bari-Roma, Laterza 2020
[11] Corte costituzionale, sentenza n. 244 del 1996.
[12] F. Bassanini, T. Treu, G. Vittadini (a cura di), Una società di persone? I corpi intermedi nella democrazia di oggi e di domani, Bologna, il Mulino 2021.
[13] M. Zuppi, Lettera alla Costituzione, EDB, Bologna 2022.
[14] R. Dukes, W. Streeck, Democracy at Work. Contract, Status and Post-Industrial Justice, Polity Press, Cambridge 2022, p. 111 ss.
[15] CGUE, C-356/21, JK c. TP, par. 43 e ss.
[16] Anche su questo aspetto si è pronunciata la CGUE, C-256/01, Allonby, par. 71; CGUE, C‑413/13, FNV Kunsten Informatie en Media, par. 33-38.
[17] Così N. Countouris, V. De Stefano, Out of sight, out of mind? Remote work and contractual distancing, in The Future of Remote Work, Bruxelles, ETUI, 2023, p. 147 ss.
[18]https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2023/06/12/rights-for-platform-workers-council-agreesits-position/
[19]COM (2021) 762
[20] K. Howson e altri, The emerging geographies of platform labour: intensifying trends on global capitalism, in V. De Stefano, I. Durri, C. Stylogiannis, M. Wouters (a cura di), A Research Agenda for the Gig Economy and Society, Elgar Pub. 2022, p. 193 ss.
[21] D. Pérez del Prado, in J. M. Miranda Boto, e altri, Contrattazione collettiva e gig economy, Giappichelli Torino 2022, . p. 204- 205
[22]Proposta di Regolamento del PE e del Consiglio, COM(2021) 206 final https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:52021PC0206
[23]B. Rogers, Data and Democracy at Work, MIT Press 2023, p. 57 ss.
[24]24 M. Nussbaum, Women and Human Development. The Capabilities Approach, Cambridge, Cambridge University Press, 2000; Diventare persone, Bologna, il Mulino 2001.