IL GRANDE TRADIMENTO: RAGAZZI PERDUTI E RITROVATI

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In collaborazione con CdO Opere Sociali
Francesco Belletti, direttore CISF (Centro Italiano Studi Famiglia); Maria Teresa Bellucci, viceministro del Lavoro e delle Politiche Sociali; Silvio Cattarina, fondatore e presidente Cooperativa sociale L’Imprevisto; Elio Cesari, presidente CNOS (Centro Nazionale Opere Salesiane); Dario Odifreddi, presidente Consorzio Scuole Lavoro. Introduce Stefano Gheno, presidente CdO Opere Sociali

Risulta sempre più evidente una fragilità diffusa nella nostra società, al cui interno spicca il «male di vivere» delle generazioni più giovani, che va a sfociare in forme di violenza verso sé stessi e verso gli altri. Sembra che gli adulti abbiano perso la capacità di stare di fronte con coraggio, abdicando alla loro responsabilità educativa o soccombendo di fronte a condotte che appaiono senza speranza. Speranza che invece continua ad essere alimentata da quanti continuano a investire nella possibilità che i giovani possano fiorire, esprimendo il proprio potenziale senza essere determinati dal proprio disagio.

IL GRANDE TRADIMENTO: RAGAZZI PERDUTI E RITROVATI

IL GRANDE TRADIMENTO: RAGAZZI PERDUTI E RITROVATI
In collaborazione con CdO Opere Sociali
Venerdì 23 agosto 2024 ore 12:00

Partecipano:
Francesco Belletti, direttore CISF (Centro Italiano Studi Famiglia); Maria Teresa Bellucci, viceministro del Lavoro e delle Politiche Sociali; Silvio Cattarina, fondatore e presidente Cooperativa sociale L’Imprevisto; Elio Cesari, presidente CNOS (Centro Nazionale Opere Salesiane); Dario Odifreddi, presidente Consorzio Scuole Lavoro.

Introduce:

Stefano Gheno, presidente CdO Opere Sociali

 

Gheno. Buongiorno a tutti, ben trovati. Sono Stefano Gheno, Presidente di CDO Opere Sociali, e sono molto contento e anche onorato di introdurre questo nostro incontro di oggi, che ha un titolo molto suggestivo ma anche molto vero. L’abbiamo chiamato “Il grande tradimento”. Cos’è questo grande tradimento? Il grande tradimento è certamente quello che, lo dico da sessantenne, che la mia, la nostra generazione ha avuto nei confronti delle generazioni che ci hanno seguito, lasciando molto spesso una terra desolata. Ma molto spesso si avverte nell’aria che anche le generazioni precedenti ritengono in qualche modo di essere tradite dalle nuove generazioni, come se non fossero all’altezza, come se in qualche modo non fossero in grado di portare avanti questa nostra storia. Credo che le responsabilità siano sempre comuni, ma che non tutte abbiano lo stesso peso. Credo che questo sia un tema che interessa tantissimo, e non è un caso che oggi siamo così tanti, che questo sia stato uno dei primi incontri ad andare esaurito in questo Meeting, il che dimostra quanto il popolo del Meeting ritenga centrale questo tema. Ci aiuteranno ad esplorarlo oggi degli ospiti veramente eccezionali, che peraltro io considero tutti amici, e li presento ovviamente in ordine di attenzione: Maria Teresa Bellucci, viceministra alle Politiche Sociali, è già stata ospite del Meeting, è una persona sicuramente molto vicina a quello che noi cerchiamo di fare, e la ringrazio tantissimo per essere qui. Poi il nostro decano, Silvio Cattarina, fondatore e responsabile de “L’imprevisto”, è una vita che si occupa di educazione. Peraltro qui siamo in sequenza, perché il sottoscritto, Silvio e l’onorevole Bellucci siamo tre psicologi, quindi io tengo sempre alta la bandiera. Francesco Belletti, invece, è un sociologo, è il direttore scientifico del Centro Internazionale Studi sulla Famiglia, editorialista di Famiglia Cristiana, anche lui è un caro amico e ci siamo incontrati nelle aule dell’Università Cattolica ormai tanti anni fa. Ci aiuterà, a noi piace partire dalla realtà, a capire di che cosa stiamo parlando. Don Elio Cesari, per tanti anni direttore di una bellissima opera salesiana a Sesto San Giovanni, responsabile della pastorale giovanile dei salesiani e, non da tanto, presidente nazionale delle Opere Salesiane. L’ultimo amico che è con noi, Dario Odifreddi, fondatore e presidente di Piazza dei Mestieri, un’opera abbastanza unica, a mio parere, che parte da Torino e riesce a mettere insieme tanti aspetti che fino a quel momento venivano ritenuti contraddittori. Adesso è a Milano, a Catania, in tanti posti, e lavoriamo insieme per provare a capire non solo in Italia ma anche in giro per il mondo come si fa a riaccendere il fuoco che sembra spento. Non rubo tempo, passo subito la parola a Francesco e gli chiedo appunto di dirci di cosa stiamo parlando.

Belletti. Buongiorno a tutti, grazie per l’occasione che sicuramente mi aiuta anche a confrontare il punto di vista sociologico della lettura della realtà con chi lavora sul campo e con chi ha la responsabilità di raccogliere i bisogni e restituirli in progetti pubblici. È una grande occasione, quindi sono molto contento. Stamattina, facendo colazione, nel bigliettino col nome della mia tavola dedicata c’era scritto: “Non dire poche cose con tante parole, ma di’ tante cose con poche parole”. Io ci proverò, ma ovviamente è un po’ complicato fare sintesi, quindi parto con qualche numero. Anche se i numeri sembrano più solidi delle valutazioni e dei giudizi di valore, quando siamo nella realtà molto spesso non convinciamo le persone dicendo “nel 15% dei casi questo tuo comportamento è sbagliato”, facciamo dei ragionamenti di qualità. Quindi vi propongo dei numeri solo per dare un contenitore a queste nostre riflessioni: come cercare capire quanto le nuove generazioni sono in difficoltà, quanto hanno sofferto, quanto stanno soffrendo e quanto complessivamente alcune manifestazioni accomunano giovani e adulti. Un primo numero, per esempio, quando parlo dell’hikikomori, cioè del ritiro sociale, un fenomeno che è già risuonato in queste stanze del Meeting, ieri, sempre in un incontro su questo tema. Gli ultimi dati del 2022 dicono che in Italia, a livello di scuole superiori, l’1,7% degli studenti è hikikomori, cioè in ritiro sociale. Sono quelle persone che non escono dalla propria stanza, neanche per andare a mangiare in alcuni casi e magari hanno solo aperta come finestra sul mondo lo schermo del computer. L’1,7% sono 44.000 persone. Sono pochi? Sono tanti? Sono 2 su 100, sono una persona ogni due classi che ha paura del mondo e non esce più di casa. E un altro 2,6% è a grave rischio di diventarlo. Ovviamente, abbiamo bene in mente che un catalizzatore di questo comportamento è stata la pandemia, che tutti facciamo finta di dimenticare, pensiamo sia passata, invece oltre al long Covid medico-sanitario, abbiamo un impatto potentissimo di sofferenza relazionale, psicologica che ci portiamo dietro e su cui tutte le ricerche confermano che le nuove generazioni portano dietro un’eredità maggiore di ferite, di sofferenze che magari non vediamo. Un altro esempio, per cambiare numeri, il 49,4% dei ragazzi, secondo il Censis, sempre nel 2022, tra 18 e 25 anni, ha sofferto di ansia e depressione dopo la pandemia. Il 49,4% sono uno su due. Ansia e depressione sono sensazioni toste, di sofferenza reale che non vanno via da sole, vanno gestite e bisogna che qualcuno se ne faccia carico. In un’indagine successiva, nel 2023-2024, il 71% degli studenti afferma di provare un disagio, ma solo il 31% dei genitori lo rileva. Già questo è un altro dato: vedete, questi numeri ci dicono delle cose su cui poi dobbiamo reagire, cioè nel 71% dei casi gli studenti dicono che stanno male ma solo il 31% dei genitori lo rileva. Sappiamo bene che è un po’ complicato fare i genitori, quindi non è così automatico. Viene fuori anche che nel 39% dei casi i genitori sostengono che la colpa è della scuola e nel 37% gli insegnanti sostengono che la colpa è della famiglia. Quindi è sempre colpa dell’altro e questo ci dice di un’altra grande ferita della nostra situazione educativa. Si è persa quella necessaria alleanza tra adulti, tra scuola e famiglia e, nel rimpallo delle responsabilità, l’unica vittima diventa poi il minore, il bambino. È così che se un figlio viene sospeso per un’azione disciplinare, 30 anni fa veniva sanzionato anche dalla famiglia che oggi invece chiama l’avvocato e contesta questa decisione. Al di là delle singole situazioni, ci dice proprio di un vulnus forte, di una ferita forte rispetto ai bisogni: per i nostri ragazzi un’alleanza educativa del mondo adulto è fondamentale. Altri due esempi, giusto per chiudere. Nel 2022, gli undicenni vittime di bullismo sono il 18,9% dei ragazzi, 1 su 5, e il 19,8% delle ragazze, quindi circa 100.000 soggetti. C’è anche un po’ la tentazione di pensare che siano situazioni di moda. Nella letteratura degli anni sessanta sull’infanzia, che il gruppo dei pari fosse anche un branco cattivo in cui si soffriva è sempre stato presente, ma oggi abbiamo dei riflettori e una sensibilità migliore per cui non possiamo tacere sul fatto che un bambino su cinque nella scuola media si senta vittima di bullismo o di cyberbullismo. Anche qui numeri importanti che ci dicono di una sofferenza diffusa che non possiamo nascondere sotto il tappeto. Oppure l’ultimo numero – ho dato un po’ di numeri come vedete – sono i preziosissimi dati del Ministero di Grazia e Giustizia sui minorenni in carico penale, cioè quelli in carico ai servizi sociali. E qui parliamo di oltre 18.000 persone in carico al sistema giudiziario minorile, di cui 4.000 sono maggiorenni, nel senso che hanno avuto un impatto da minori e sono tuttora impigliati in questo sistema, o in attesa di giudizio o già giudicati. Ora, 15.000, numero relativamente basso se pensiamo che ogni anno nascono 400.000 bambini, sono 15.000 su 18 anni, sembra poca roba, però poi alla fine, dopo tutti questi numeri, bisognerà anche dirsi che dietro ciascuno di questi c’è una storia, una persona, 15.000 ragazzi di cui non possiamo dire “chiudiamo la stanza e buttiamo via la chiave”, invece dobbiamo domandarci come facciamo a riportarli nel gioco della cittadinanza attiva, del benessere, della possibilità di essere attori del proprio destino. Intanto i numeri ci dicono che è giusto che dedichiamo questa tavola rotonda al tema. Nel senso che c’è un problema genericamente educativo. Come ha giustamente sottolineato Stefano, il termine educativo qui è particolarmente sensibile, ma molto spesso quando si sente dire “educativo” sembra che lo si indebolisca come nodo, invece è un’accentuazione della questione. E’ un tema che riguarda il futuro di ciascuno di noi. La costruzione dell’identità adulta è un’avventura rischiosa per la specie umana. È difficile e chiede un grande impegno sia dei genitori, sia di chi mette al mondo un cucciolo d’uomo, sia dell’intera comunità. La specie umana è quella che ci mette di più a rendere autonomo un cucciolo. In quasi tutte le altre specie animali, la natura ha selezionato modalità per cui, dopo un’ora, due ore, quattro o cinque giorni, i cuccioli sono già in grado di badare a se stessi. Noi, tendenzialmente, nelle società primitive ci mettevano quattro o cinque anni, quando il bambino cominciava a camminare e a raccogliere le bacche; oggi ci mettiamo venti, venticinque, trent’anni per i più fortunati. Capite il tono scherzoso però la cosa è seria: abbiamo bisogno di un grosso processo culturale per costruire una nuova identità adulta, che è un processo di cura, di attribuzione di valori, di senso, che chiede alle persone di scommettere sui propri figli. Una giovane coppia che mette al mondo un figlio oggi deve scommettere su 25 anni di cura. Quale altro soggetto pubblico o privato nel nostro paese ha una progettualità di 25 anni? Oggi far famiglia significa dire: se metto al mondo un figlio, per 25 anni ci sarò. Anche questo è un dato che dice di una certa criticità e di una certa difficoltà. E da sempre l’avventura educativa è stata il primo banco di prova della sussidiarietà, cioè della capacità della collettività di lavorare insieme alle famiglie, che sono lo spazio di massima privatizzazione dell’esperienza umana. In casa mia faccio quello che voglio, mi muovo nello stesso modo nell’educare i figli: sono in prima linea, il dominus del mondo, ho il diritto e il dovere di essere il primo educatore e contemporaneamente ho tutti i diritti e tutte le necessità di avere una società che educa insieme a me i miei figli. E non c’è o l’uno o l’altro, c’è solo la sfida del farlo insieme. Questa è la vera sussidiarietà, una società che non espropria le famiglie della propria responsabilità educativa, ma che le accompagna e le aiuta nel fare il proprio dovere, la propria sfida, la propria scommessa, che poi è un dovere totalmente scelto. E qui probabilmente c’è un’altra delle grandi ferite: oltre alla distanza tra i due mondi, per cui le famiglie cercano colpevoli fuori e il fuori attribuisce alle famiglie le colpe; c’è anche la necessità del pensarsi insieme. Né i genitori sono onnipotenti nei processi educativi nei confronti dei figli, né la società può fare a meno delle famiglie. Questa è un’altra delle questioni che si è persa. E il tutto viene sfidato dal fatto che, di questo parleranno meglio altri, il processo educativo ha un attore irrinunciabile, che è il bambino che è una libertà in azione, ha a che fare con i genitori e con la società, che sono capaci di lavorare insieme oppure no, che fanno il loro mestiere oppure no, ma in questa triangolazione complicatissima è in gioco il far fiorire la libertà del bambino; da genitore o da società, è complicato. Una volta i processi educativi erano processi di normalizzazione: ti insegnavano come dovevi comportarti nella società e tu dovevi semplicemente obbedire. Oggi la logica è far fiorire la libertà di scelta delle persone e si è arrivati al paradosso che la realtà sembra un ostacolo all’autorealizzazione. Bisogna ritrovare probabilmente un equilibrio tra l’idea di far fiorire la libertà della persona e dare degli strumenti di relazione con la realtà, altrimenti si cresce senza limiti, le frustrazioni sono impossibili da governare; questa è un’altra delle questioni gravi. Oggi il modello prevalente è la famiglia spazzaneve, quella che non resiste alle frustrazioni dei figli e cerca di cancellare tutti gli ostacoli, quella in cui neanche il fallimento è più possibile. Quindi la grande sfida educativa si pone dentro un orizzonte culturale che interpella ovviamente anche gli adulti e in questo famiglia e società danno dei doni avvelenati ai nostri figli. La famiglia tendenzialmente sta producendo una cultura degli “slegami”. Poche famiglie sono in grado di investire sui legami buoni e la società pensa di poter vivere senza i legami familiari. Oggi i legami non sono la corda di montagna che ti salva se cadi, sono una corda che ti imprigiona. Tu pensi di essere meno libero se hai dei legami forti, pensi che diventerai felice se non sarai vincolato. Non c’è più quel criterio della compagnia dell’anello per cui per fare una grande impresa devi essere insieme. E nella compagnia dell’anello la libertà di ciascuno era al servizio dell’altro, non era centrale. Quindi alla famiglia oggi viene chiesta una grande sfida nell’investire nei legami buoni: mettere limiti, generare responsabilità, aiutare a stare dentro a relazioni attribuendo speranza a questo. La società genera modelli performativi di successo per cui o vali o non vali, e tutti questi “reality”, gare in cui uno vince e tutti gli altri sono sconfitti sono tragici. Oggi dalla società ai ragazzi arriva un messaggio che non è “ti aspettiamo perché tu sei uno dei costruttori del futuro”, ma è “ti peseremo, ti valuteremo e ti giudicheremo, o buono o sbagliato”. E le stesse famiglie non riescono più ad accompagnare. E quindi, di cosa hanno bisogno i nostri ragazzi? Sto finendo, sperando di aver usato poche parole per tanti concetti. Oggi hanno bisogno di politiche mirate, di più scuola-lavoro, di tante cose che la nostra società può fare. Ma certamente ai nostri ragazzi servono speranza, fiducia e spazi di responsabilità e protagonismo. Questi ragazzi devono essere guardati, devono essere inseriti in legami che siano concreti, solidi, affidati, che gli consentano di sperimentare e di sbagliare. Servono relazioni solide. Chiudo con una citazione di Pier Paolo Donati: “Le relazioni sociali sono come la luce. Noi non vediamo la luce, ma vediamo con la luce e mediante la luce. Senza la luce non vediamo nulla. Così le relazioni. Le relazioni non sono invisibili e immateriali, ma sono la realtà che ci fa vedere gli altri e il mondo. Dunque noi vediamo con le relazioni e attraverso le relazioni”. Se vogliamo guardare i nostri ragazzi oggi dobbiamo correre il rischio della relazione con loro.

Gheno. Grazie, grazie a Francesco. Mi sembra evidente che non siamo di fronte a un’analisi astratta e asettica, ma si coglie tutta la preoccupazione e il tema del padre di famiglia che però vuole proporre una sfida. Allora, Silvio, tu tanti anni fa l’hai raccolta questa sfida. Raccontaci un po’, perché c’è così tanto bisogno oggi di educazione?

Cattarina. Il dramma più grande è non conoscere, non riuscire ad ascoltare, a capire il proprio cuore, tutta l’attesa, l’enorme desiderio di cui è fatto. Sì, non essere capaci di conoscere il proprio cuore è il dramma più doloroso. Per un ragazzo, la difficoltà più insopportabile è non capire quello che il suo cuore chiede e vuole, ossia non avere vicino adulti, amici che lo aiutino a scoprire e a capire il suo cuore. Un ragazzo capisce la grandezza del suo cuore solo se viene chiamato da un adulto che, avendo già scoperto il proprio e vivendo un’avventura affascinante, lo chiama per vivere la stessa avventura di vita. Questo è il grande tradimento. Avere un cuore che ha tutto, che ha dentro l’infinito, e non essere aiutato a viverlo. La solitudine di cui tanti giovani parlano è questo, ha questa origine. Nessuno che dice loro che il loro cuore è grande, che è fatto bene. Nessuno che dice loro che tutto quello che il loro cuore attende, cerca e vuole, c’è, esiste, è stato preparato da sempre. C’è da sempre, da secoli eterni e ci sarà per sempre. Nessuno che dice loro che la vita non risulterà mai sconfitta, che Dio non verrà mai meno, che Dio non tradirà mai se stesso. Più semplicemente, nessuno che dice che la vita non finisce, che il mondo non crolla, che la morte non vince, che il Covid termina, che le guerre cesseranno. Più nessuno che dice che ci sono tre grandi cose, tre grandi dimensioni, condizioni, tre grandi avvenimenti: la mia persona (il valore della mia persona), il valore della realtà, della vita e il motivo per cui siamo al mondo. Spesso fermo un ragazzo nelle nostre comunità e faccio questo, gli tiro questo tranello: “Rispondi a questa domanda, qual è secondo te la cosa più grande, più bella, la cosa più preziosa che c’è in tutto l’universo, qual è questa cosa?”. E nessuno dice, “io, io sono quella cosa, la mia persona, la persona di ognuno di noi”. Soprattutto noi adulti dovremmo dirlo. Oppure quando chiedo qual è l’altra seconda cosa bellissima, oltre alla persona di ognuno di noi, che c’è in tutto il mondo, in tutto l’universo? Che è la vita, è la realtà. Ma i ragazzi dicono: “Ma la realtà, la vita è tutta una merda, è tutto uno schifo, tutto da buttare via, non c’è un inizio e una fine, niente che valga la pena”. Ecco, io lì mi arrabbio molto, io dico: “Non è così, non può essere così, non saresti qui, non terresti a te stesso come spesso dimostri ai tuoi genitori, alla tua morosa. La realtà è piena di doni, è piena di grazie, è sovrabbondante di ogni cosa, di incontri, di appigli, di aiuti”. Nella realtà c’è una presenza, una chiamata. Quando ero piccolo io, i nostri preti dicevano: “Nella realtà c’è un volto”. La cosa più bella è poter vedere, incontrare questo volto, essere incontrati, visti da questo volto. Per vivere, per alzarsi al mattino, per lavorare, per mettere su famiglia ci vuole una grande cosa. Occorre essere al cospetto di una grande cosa. Il bene è sempre più grande di qualsiasi grande male. Invece i ragazzi pensano che il male vinca, che ha già vinto, che la vita e la realtà non sono belle. Il terzo motivo sul quale lavoriamo molto con i ragazzi: ci deve sicuramente essere, non può che essere così, un grande motivo per cui essere al mondo, per cui siamo capitati su questa terra. Io sono cambiato ed è cambiato il mio lavoro, è cambiato tutto L’imprevisto, i ragazzi hanno intravisto e intrapreso un nuovo modo, una diversa e più interessante possibilità, quando ho scoperto che io, io, non i ragazzi, io sono il più povero, io dovevo essere il più povero, il più bisognoso, bisognoso di vita, di amore, di felicità. I ragazzi spesso mi dicono: “Quanto bene ci vuoi tu, Silvio?”. Lo dicono a me o lo dicono ai miei colleghi, ai miei amici con i quali portiamo avanti l’esperienza de L’Imprevisto. E io rispondo: “No, non siete quelli a cui voglio più bene, non siete quelli che più amo. Io voglio amare di più la vita, desidero essere capace di amare più Dio. Poi sono sicuro che piano piano riuscirò anche ad amare voi. Voglio essere il primo che arriva ad amare la vita, ad amare Dio. Se scopro che arriva prima a Dio qualcuno di voi mi arrabbierò tantissimo”, glielo dico col sorriso, se arriva prima qualcuno di loro, mi arrendo. Il tradimento di tanti adulti è quando legano i ragazzi a sé, alla loro persona. Io dico ai ragazzi: “Non guardate me, guardate dove io guardo, è molto più interessante, molto più responsabilizzante”. Sarebbe più comodo per voi pensare che io sono capace e voi no, ma che somma ingiustizia sarebbe? Quello che a voi manca per vivere ce l’ho io, che grande iniquità. Io dico ai ragazzi: “Se posso essere importante per voi, vorrei esserlo, casomai, per il grido, per testimoniarvi come io grido tutto il mio bisogno di vita, come lo grido a Dio, alla realtà, agli amici.” La persona è questo grido, tu sei questo grido. Il grido che tutto mi venga dato, dato in dono, se no la vita appunto, come c’è stato detto, è una questione di prestazione, di performance. Non voglio che le cose che faccio siano opera, capacità delle mie mani. Se così fosse, sarebbero piccole, misere, perché io sono piccolo. Io invece voglio molto, voglio tutto, ma questo tutto, questo molto, può essermi solo dato. Il grande bisogno dei giovani, come degli adulti, ma per i ragazzi è lancinante, è più evidente, più eloquente, è la vita. Ma la vita non è questione di performance, né di fortuna o di sfortuna. I ragazzi si esprimerebbero con altre parole. La vita si chiede, si domanda, si invoca, si supplica, si prega, tutte parole ormai che ci vergogniamo a pronunciare perché retaggio di una certa cultura.

Gheno. Grazie. Come sempre, dal racconto di Silvio emerge questa grande passione che è innanzitutto una passione per l’uomo, per quello che è, e in virtù di quello che Silvio e tanti di noi hanno incontrato. Don Elio, tu che hai fatto l’educatore per tanti anni e hai avuto la possibilità di incontrare la cosa di cui stiamo parlando da tanti punti di vista, da tanti osservatori. Hai fatto il direttore di un’opera, hai fatto il pastore, hai fatto la guida della pastorale giovanile, adesso hai un lavoro più organizzativo, ma non per questo meno sfidante. Come si fa? Cosa significa, dal tuo punto di vista, educare in un contesto di fragilità come quello di oggi?

Cesari. Anzitutto ringrazio per l’invito, saluto tutti. Penso che già solo il fatto che parliamo di educazione in una sala piena, stando al tema del Meeting, tocchiamo l’essenziale della vita. Perché effettivamente il rischio è che di queste cose non troviamo spazio e tempo. Tutti ci accorgiamo delle problematiche, ci accorgiamo di quanto siamo convocati a questioni particolarmente esigenti che ci sono state ben presentate e il rischio è di non parlarne mai o non affrontarle come si conviene. Io provo a sintetizzare in modo molto breve alcuni convincimenti, sostanzialmente tre, che riguardano la sfida impossibile dell’educare, e noi ci proviamo sapendo che tocca qualcuno che riesce meglio di noi e questo ogni tanto bisogna anche ricordarselo. Ovviamente nella prospettiva, me lo perdonerete, di Don Bosco, su questo purtroppo il marchio di fabbrica è quello. Il primo convincimento è che bisogna stare in mezzo ai ragazzi, cioè starci in mezzo e provarne piacere, che sembra scontato, ma in realtà scontato non è. Soprattutto quelli più fragili, quelli più affaticati, quelli che volentieri non vorresti avere in classe la mattina. Quando entri in classe, fai l’appello, pensi “speriamo che quello lì abbia l’influenza, non sia arrivato in orario”. “Quello lì.” Manifestare, invece, un’attenzione e un interesse personale, cioè pensare, per davvero, che se ci sei o se non ci sei non è la stessa cosa, non un’attenzione generica. “I ragazzi, la mia classe, i miei studenti”, no, quello lì, con un nome, un cognome, una storia, tutto quello che tocca la vita di ciascuno, non una conoscenza generica. È bene parlare dei giovani, meglio parlare con loro, meglio ancora se parlano loro stessi. Il secondo convincimento è per tutti i giovani, tutti, nessuno escluso, anche il più disgraziato: per lui il primo regalo che possiamo fare è renderlo protagonista del fatto educativo e non solo destinatario. Perché sono abbastanza convinto che facciamo tantissimo per loro, ma pochissimo con loro. In questo Don Bosco era un maestro. Io penso che una delle cose più belle del Meeting, tutte le volte che vengo, è vedere i volontari, i giovani che creano, che costruiscono il Meeting. Poi ci sono gli ospiti, gli invitati, tutto quello che gira, ma la cosa più bella, la cosa più grandiosa, che non è una cosa, sono i volti dei giovani che fanno, operano, sono protagonisti, non solo delle belle statuine o dei cartonati che magari tante volte ci accontentano ma in realtà non ci permettono di fare la cosa più importante: renderli protagonisti del fatto educativo. Ogni adolescente muore dalla voglia, muore proprio dalla voglia, che arrivi, che capiti nella sua vita un adulto che gli dica: “mi dai una mano?”. E penso che quando questa cosa capita, quando succede che un adulto, soprattutto magari a quello un po’ più scapestrato, dice: “Guarda, mi dai una mano? Facciamo insieme questa cosa qua”, gli cambi la vita, ma gliela cambi davvero. Ecco, qualche giorno fa ho chiesto a un ragazzo che abbiamo avuto a scuola da noi, a Sesto San Giovanni, se potevo raccontare un pezzo della sua vita, tra l’altro è qua presente, e mi ha colpito che gli ho detto: “Guarda, mi scrivi un po’, proprio per dargli parola, mi scrivi che cosa abbiamo fatto come salesiani per la tua vita, che ti ha aiutato nel tuo vissuto?”. Siccome ha un vissuto abbastanza interessante, gli ho detto: “Scrivi”. Ma mi ha colpito che la prima cosa che mi ha detto è stata: “Ma che bello, cioè chiedi a me di raccontarti la mia vita e la racconterai ad altri”. Gli ho detto: “Se me lo concedi, sì”. Per cui ve la leggo, poche righe, con qualche errorino, perché è giustamente un nostro ex allievo, quindi ha studiato bene dai salesiani. Anche questo è un marchio di fabbrica. Però, glielo concediamo. E’ un testo splendido, vi dirò anche perché. “Mi chiamo Valeri, sono un ragazzo come tanti altri che però nella sua vita ha avuto una deviazione durante il suo percorso. Nel 2020 sono stato arrestato, portato a Torino nel CPS, sono stato chiuso per quasi una settimana e solamente dopo un lungo interrogatorio sono stato mandato in comunità alla Kairos” – che conosciamo bene, Don Claudio – “Per me era un mondo tutto nuovo, ero così arrabbiato con me stesso che non ero ancora in grado di ragionare lucidamente dopo quello che era successo. Quel giorno, il 7 marzo 2020, è stato il giorno della mia caduta. In comunità ho conosciuto Don Claudio Burgio che mi ha accolto, grazie a lui la mia vita ha continuato ad andare avanti, non si è spenta del tutto a proposito della luce. Lui mi ha aiutato, insieme ad altri educatori, a superare le mie difficoltà e soprattutto grazie a loro ho imparato a fidarmi degli adulti. Grazie a lui ho ripreso e continuato gli studi nella mia scuola ai salesiani di Sesto San Giovanni. Prima di essere arrestato, avevo già incominciato la scuola lì e avevo il desiderio di finire il mio percorso di studio, ma solo in quella scuola. La mia comunità contattò la scuola e dopo tante scartoffie” – il direttore che non lo voleva prendere… No, lo voleva prendere…se no, non lo avrebbe preso – “Per capire il modo migliore per farmi rientrare, finalmente ecco il mio ritorno ai salesiani. Sono stati anni difficili perché vivevo nella difficoltà che mi portavo al di fuori della scuola, come ad esempio gli psicofarmaci che prendevo per dormire la notte e che mi rendevano complicato seguire tutte le ore di lezione. Ma grazie alla pazienza dei professori e credo anche perché ci fosse dietro un affetto emotivo. Passo dopo passo, insieme ai prof mi sono messo lì a recuperare le basi delle varie materie per poi perseguire l’esame di quinta superiore. Questo cosa vuol dire? Che se anche noi sbagliamo o facciamo errori, ci sarà sempre qualcuno che ti guarderà sempre con un altro occhio e non per questi errori. I salesiani hanno visto un ragazzo che stava affrontando delle difficoltà nella sua vita per poter rimettersi in gioco e hanno creduto in me. I salesiani sono stati un motivo di rinascita per me. La mia esperienza può soltanto mostrare che fidarsi degli adulti e farsi aiutare da loro non è segno di debolezza, perché se fossi stato così debole avrei mollato tutto. Ma grazie a tutti i professori che mi hanno accompagnato all’esame di quinta superiore, sono stato così forte da rinascere.” Ecco, penso che il terzo convincimento venga dal testo, non aggiungerei moltissimo, ma mi ha colpito. La rinascita (ne parla due volte: “sono rinato”) passa da un affetto percepito. Don Bosco diceva: “Non basta che amiamo i giovani, è necessario che essi stessi conoscano di essere amati”. Se non arriviamo al punto in cui lui comprende, capisce che gli stai volendo bene, non arriverà a toccargli il cuore.

Gheno. Grazie Don Elio, a cui perdoniamo volentieri il fatto che Don Bosco abbia il suo cartellino, anche perché siamo tutti salesiani, questa è la verità. E allora passo volentieri la parola a Dario Oddifredi, che è il più salesiano di tutti noi, per porgli una questione molto interessante, a mio avviso. Oggi si sente molto dire che il rapporto tra l’uomo e il lavoro è un rapporto diverso. Per Don Bosco, ad esempio, era essenziale. “Bravi cristiani, onesti cittadini,” che voleva dire innanzitutto imparare un mestiere. Allora, Dario, ma il lavoro oggi serve ancora per educare un ragazzo?

Odifreddi. Beh, intanto un saluto a tutti. Siamo così convinti che il lavoro serva per educare i ragazzi che Piazza dei Mestieri, che quest’anno compie vent’anni, nasce esattamente su questa sfida: mettere insieme l’educazione e il lavoro. Questo è vero oggi, è vero sempre. Tra l’altro, a proposito di Don Bosco, capeggia nel mio ufficio il primo contratto di apprendistato che tutte le mattine guardo prima di cominciare a lavorare, quindi siamo veramente tutti figli. Cercherò di dirlo facendo parlare un po’ l’esperienza dei nostri ragazzi, cioè non facendo un discorso sull’importanza del lavoro e dell’educazione. A che cosa educa il lavoro? Una delle prime cose a cui educa è alla libertà. La Piazza dei Mestieri ha tutta una serie di attività formative ed educative, per cui c’è la parte grafica-informatica-di comunicazione, c’è la parte panettieri-pasticceri-cuochi-chef, c’è la parte acconciatura-benessere, c’è una serie di mestieri. Per ognuno di questi mestieri noi abbiamo attivato un’attività produttiva, per cui c’è un ristorante, c’è un pub, c’è un’agenzia di comunicazione, produciamo pane, produciamo birra, eccetera eccetera. Perché volevamo che non fosse astratta questa capacità di poter vedere come i ragazzi, misurandosi col lavoro già durante il loro percorso educativo, potessero trovare in esso un fattore educativo e di crescita personale. Allora, vi leggo – primo aspetto educazione alla libertà – una frase che dice un ragazzo che si chiama Thomas. Lui faceva il panettiere, aveva la fortuna di avere quelli che noi chiamiamo maestri – un panettiere che aveva chiuso il suo esercizio e aveva deciso di dedicare la parte ultima della sua vita a trasmettere questa passione ai ragazzi. E la trasmetteva a questi ragazzi, tra cui Thomas. Thomas un giorno dice a Cristiana, che è seduta lì, co-fondatrice della Piazza dei Mestieri e grande educatrice: “Ho capito guardando il mio professore che fare il pane è come far crescere un bambino fino a che diventa un uomo. Si usa il lievito, – c’è tutta una storia del lievito madre di 30 anni che coccolano tutte le mattine, ve la risparmio – Si usa il lievito, lo si cura, il pane cresce e diventa cibo. Io sto davanti al pane come davanti a una persona e mi sento libero.” E Thomas dice, con una semplicità enorme, una cosa che tanti, sottolineando il valore educativo del lavoro, hanno detto. Penso a Mounier, 1932: “Lavorare è fare un uomo al tempo stesso di una cosa.” Giovanni Paolo II, 1981: “Mediante il lavoro, l’uomo non solo trasforma la natura, adattandola alle proprie necessità, ma realizza sé stesso come uomo, in un certo senso, diventa più uomo.” Fino al nostro Don Giussani: “Il lavoro è come l’aspetto più concreto, più faticoso, più arido e concreto del nostro amore nei confronti di Cristo. Perché il lavoro è la forma espressiva della personalità umana, del rapporto che l’uomo ha con Dio.” Quindi il primo aspetto è un’educazione alla libertà. Il secondo aspetto del lavoro è una educazione a uno sguardo sul reale, si userebbe dire in questo contesto, a imparare che il metodo è imposto dall’oggetto. E anche qui faccio un esempio. Ragazzi di sala, bar, fanno dei turni in affiancamento a dei professionisti per servire al ristorante. Viene uno dei nostri partner, L’Oréal, che è lo sponsor di Piazza dei Mestieri, e ovviamente fanno una loro cena. Sono in prevalenza francesi e la loro lingua ufficiale è ovviamente il francese. Due ragazzi si presentano con i piatti, e questi signori al tavolo si girano e cominciano a parlare in francese. Questi restano impietriti, con i piatti, proprio letteralmente impietriti, prendono questi piatti, corrono in cucina, vanno dallo chef e dicono: “Oh Chef, abbiamo fatto una figura di merda. Ma quando è che impariamo le lingue?”. Capite che tu puoi fare 12 milioni di discorsi sull’importanza di imparare le lingue, che sono del tutto inutili, ma in quella circostanza reale, trovandosi lì, dici: “Ma io ne ho bisogno, scopro una mancanza e davanti a quella mancanza chiedo un aiuto.” Il terzo aspetto del lavoro è che sfida a mettere in gioco i propri talenti. Noi cerchiamo di assecondare tutti i pazzi che abbiamo tra i nostri ragazzi, quindi se hanno una passione, non c’è tempo per raccontarvele, cerchiamo in generale di assecondarla. Vi racconto solo di un ragazzo che si chiama Dennis. Questo ragazzo fa il corso di barberia, ma lui ha una passione per la musica. Viene qui al Meeting, tra l’altro, anche lui, e una volta dice a Cristiana: “Io voglio aprire un grande salone da parrucchiere, ma voglio che ci sia un pianoforte che suona” e continua questa passione per la musica. A un certo punto, alla fine del terzo anno della qualifica professionale, Dennis dice che ci vuol provare e va ad Amici e arriva in finale. Arriva terzo ad Amici, ha la casa discografica, quindi il sogno della sua vita sembra avverarsi. A un certo punto, invece, le cose non vanno più così bene, perché poi non è così facile, è un momento di gloria. Nel frattempo aveva cambiato nome, Dennis si chiamava Daddy, perché Daddy fa più figo evidentemente per la casa discografica. E lui torna e dice: “Ma io, ripensando anche a tutta la storia avuta in Piazza dei Mestieri, ricomincio a chiamarmi Dennis, cambio la casa discografica, perché io non sono quella cosa.” E qui voglio dire una cosa che vorrei che capiste: la performance è un bene. L’uomo è fatto per la performance, perché cuore, intelligenza, creatività, passione sono la ricerca continua. Quando il nostro Thomas fa il pane, fa una performance. Quindi, lo dico perché intorno a questo dibattito ogni tanto c’è qualcosa che mi stona. Lo dico perché noi non possiamo non sfidare questi ragazzi a mettere in gioco i loro talenti. Quella cosa lì si chiama performance. Il problema, come insegna Dennis, è che non è la performance quella che ti definisce. Come fai ad accorgerti che non sei definito? Per il fatto che tu sei andato fino in fondo. Perché se io ti preservo sempre dalla realtà, tu questo non lo scoprirai mai. Quindi chiudo questa parte sul lavoro che educa, dicendo che il lavoro dunque è essenziale per la costruzione di un’identità. E anche per questo, tutto il dibattito sul reddito di cittadinanza, in cui non entro, è pericolosissimo, perché il problema non è non aiutare chi è in difficoltà, ma attenzione a non sostituire l’idea che il reddito sostituisca il lavoro, proprio perché il lavoro è costitutivo della persona. E qui io credo che la questione giovanile nel mondo occidentale in cui viviamo, in cui vediamo le crisi, vediamo le guerre sia la sfida delle sfide. Credo i giovani debbano prendere veramente in mano questa sfida, dentro le circostanze date, che sono complesse, complicate, che cambiano velocemente. Ma noi dobbiamo sfidarli a essere protagonisti. Per favore, noi adulti, smettiamo di compiangerli, perché è la cosa peggiore che possiamo fare nei loro riguardi.

Gheno. Grazie. Grazie a Dario Odifreddi. Personalmente lo ringrazio anche per quest’ultimo accenno alla differenza tra lavoro e reddito che credo non sia abbastanza esplorata. Io addirittura sarei per fare una proposta di legge che abolisca il termine “mercato del lavoro” perché il lavoro è un’altra cosa. Il lavoro è la struttura dell’uomo. L’uomo è immagine di Dio che è eterno lavoratore, eppure nessuno gli paga lo stipendio. Certo, il volontariato… infatti domani facciamo un incontro sul volontariato. Grazie molte. Dario, visto che sei tu su questo, ce l’hai fatto già intuire nel tuo intervento, ma quindi come è che lo accendiamo questo fuoco? Che il cambiamento sia in atto e però indiscutibile. Ci sono degli elementi strutturali però in un contesto di grande cambiamento, un cambiamento d’epoca, dice il Papa. Allora oggi, come è che accendiamo questo fuoco?

Odifreddi. Credo che la prima cosa di cui dobbiamo essere certi è che questo fuoco si può riaccendere sempre. Perché siamo costitutivamente così, perché ciascuno di noi è così, perché a qualunque età è così, perché a qualunque latitudine del mondo è così. Quindi, la prima cosa è: non esiste la risposta che dice che il fuoco di una persona non si può riaccendere. Il fuoco si può riaccendere. Però dobbiamo capire la realtà davanti a cui siamo, perché sennò noi adulti non entriamo in relazione con i ragazzi. Faccio un esempio. Io quest’anno ho avuto un po’ di dialoghi con dei ragazzi della Piazza dei Mestieri di Torino e di Catania. E mi ha veramente impressionato un fatto: hanno una paura di deludere, sia se stessi, sia le persone a cui vogliono bene, che è enorme ed è un fattore che li blocca in modo impressionante nell’azione. Tra l’altro, breve digressione nella nostra chiacchierata: mi ha impressionato anche quello che mi è sembrata una novità: un sacco di persone che avevano paura di deludere i nonni. La prima volta, mi sono messo a ridere, alla terza volta mi sono detto: “Ma che strano” poi mi sono fatto una domanda: “Non sarà che mancano i genitori?” Perché oggettivamente era strano. Statisticamente era un numero significativo, siamo arrivati a 8 su 32, non avevo mai sentito questa roba qua. E’ come se mancasse una generazione di padri e madri. Come un urlo e questa paura. Allora cosa facciamo? Registriamo che c’è la paura e cosa possiamo fare? Dobbiamo stare davanti a loro nudi e, come ce l’ha raccontato benissimo prima Cattarina, pieni di uno struggimento per il loro destino. Dobbiamo renderci conto che c’è proprio un problema di comprendersi, anche di linguaggio. Uno che è diventato mio amico si chiama Daniel Zuccaro – alcuni di voi lo conoscono, ha scritto un libro, era un bullo e oggi lavora a Porto Franco – lui a un incontro come questo, a un certo punto guarda questa platea, età media la mia, quella dei nonni, e dice: “Ma volevo dirvi che a noi delle cose che ci dite non ce ne frega niente” con una certa brutalità anche. Significa che il problema non è quello che diciamo, quindi nudi e armati di pazienza, perché l’altra grande sfida è saper attendere, saper attendere il cambiamento, che tra l’altro puoi anche non vederlo, potrebbe anche non avvenire, ma bisogna avere questa pazienza. Sempre qui c’è un’altra mia amica che si chiama Paola Gibelli, è un’insegnante di sostegno, si occupa di ragazzi autistici e ha scritto un libro spettacolare, ve lo consiglio, dal titolo: “La scuola è qualcuno che ti aspetta”. L’educazione è qualcuno che ti aspetta. E noi abbiamo un sacco di esempi, ve li faccio solo a flash perché il tempo scorre inesorabile. C’è una ragazza, Angelina, vita difficile, complicata, termina il percorso. Un giorno arriva in Piazza dei Mestieri col passeggino, il bambino, e dice: “Ah, signora Cristiana” – la preside, cercano sempre lei – “Ma mi riconosci? Sono io, ti ricordi di me?” Cristiana le chiede “Ma come mai sei venuta qua?” “Perché sono appena uscita dall’ospedale e volevo che mio figlio, come prima cosa, vedesse la prima cosa bella che io ho visto nella mia vita”. Ci sono tanti esempi, basta questo. E’ per far capire che è un’attesa. Concludo con una cosa che chi mi conosce ha già sentito altre volte ma io non riesco mai a non concludere così: leggendo dieci righe di una poesia di una delle nostre ragazze, perché io penso che lì dentro ci sia veramente un’estrema sintesi di cosa vuol dire riaccendere un fuoco. Per riaccendere un fuoco bisogna che prima di tutto il fuoco si riaccenda in te e bisogna voler bene, perché l’essenziale, il titolo del Meeting non è la rinuncia del superfluo, è trovare qualcosa che ti corrisponde, in McCarthy per l’orfano è la ricerca del rapporto con il padre. Questa poesia si chiama “Solitudine” e fa così:

Solitudine, compagna lieve di tutta la gente,
che affolla la mente, che svuota l’anima.
Non sei la vincitrice tu,
non sei più la regina,
qualcuno può sconfiggerti,
con l’abbraccio del bene può trafiggerti.
Non è più male la mia vita,
non è più tristezza il mio futuro.
Solo il sapore del ricordo mi resta ancora amaro,
ma è già un passato dimenticato,
un tempo rinnovato.

Valentina, 16 anni.

Gheno. Padre Candiard, l’altro giorno durante l’incontro, che aveva come titolo quello del Meeting, ci diceva appunto che in realtà non dovrebbe esserci la parola “essenziale” ma “essenza”. Noi cerchiamo l’essenza, e credo che Dario, leggendoci la poesia di Valentina, abbia parlato proprio di questo. Don Elio, tocca ancora a te.

Cesari. Mi faccio aiutare ancora una volta dai nostri ragazzi, nel senso che penso che la cosa più bella che abbiamo siano loro. Quindi prendo le parole di un ragazzo, un nostro studente egiziano arrivato che non sapeva neanche l’italiano. E ha concluso ed è stato chiamato alla Camera del Lavoro a raccontare la sua testimonianza da noi. Perché penso che uno dei fuochi da accendere proprio per stare alla concretezza delle cose, su questo penso che la dottoressa Bellucci sia ben orientata, sia promuovere e sostenere la formazione professionale in tutta Italia, dall’inizio alla fine, dal nord al sud, in tutte le regioni. Perché questa storia che racconto, che leggo, non sarebbe stata possibile senza la formazione professionale, attraverso la quale ho visto proprio fiorire tanti giovani, tanti ragazzi, e davvero dobbiamo trovare tutti i modi, tutte le forme, perché ciascuno possa avere questa bella possibilità. Dice così:
“Mi chiamo Mina, ho 18 anni, sono in Italia da poco meno di tre anni e vengo dall’Egitto. Avevo 14 anni quando per la prima volta ho lasciato il mio villaggio per andare a lavorare ad Alessandria. L’anno successivo sono andato al Cairo e da lì, di nascosto, sono tornato ad Alessandria con dei miei amici con l’intenzione di imbarcarmi in Italia per studiare. Arrivati ad Alessandria, siamo stati tre giorni in una casa sulla spiaggia ad aspettare le barche, in modo che la polizia non ci vedesse. Il 6 giugno 2016 sono salito su un barcone che ho raggiunto percorrendo 50 metri a nuoto. È stata una brutta giornata in cui sentivo gli scafisti parlare continuamente con parolacce e insulti. Neppure il governo era dalla nostra parte, diceva che l’importante era la sicurezza del Paese. E se anche fossimo morti, non ci sarebbe stato problema. Dopo essermi imbarcato ho aspettato quattro giorni fermo in mare che arrivassero altri due gruppi di persone che, come me, volevano raggiungere l’Italia. A questo punto abbiamo viaggiato nel Mediterraneo per sedici giorni. Insieme siamo arrivati a Trapani. Durante il viaggio stavo male fisicamente per il freddo e per la nausea, anche se mangiavamo solo un pezzo di pane e poca acqua. Inoltre, intorno a me vedevo che c’erano più persone cattive che buone. Gli scafisti buttavano in mare chi alzava la voce o disturbava. Arrivati a Trapani, ci hanno preso tutti i documenti e ci hanno mandati nelle comunità. La mia era a Marsala ed era rivolta ai minori non accompagnati. Ci sono rimasto un mese. Qui mi annoiavo. Anche se c’erano vicino una piscina o una palestra” – si annoiava perché voleva studiare – “L’unica attività che facevo era andare in bicicletta. Grazie all’aiuto di un mio amico tunisino, che mi ha dato i suoi documenti, ho potuto comprare il biglietto del pullman che mi ha portato a Milano. Qui sono stato accolto prima in un campo per migranti, poi finalmente nella Casa della Carità. Grazie al lavoro dei suoi operatori, ho iniziato ad andare a scuola dai Salesiani di Don Bosco, a vivere con altri giovani e a ricominciare una vita da ragazzo della mia età. Ho imparato in poco tempo l’italiano e oggi sto studiando per diventare meccanico industriale. Inoltre, adesso sono stata affidato a una famiglia. Con impegno e fatica sono riuscito ad essere davvero felice.”
Io non aggiungerei altre parole

Gheno. Grazie Don Elio. Silvio, prima di chiedere alla nostra amica Maria Teresa Bellucci di tirare un po’ le fila, dacci un ultimo spunto.

Cattarina. Chiedere tanto, chiedere tutto ai giovani, come è già stato detto, altrimenti non si crede in loro, non si crede nella vita, non si ha fiducia in loro. A scuola, per fare un esempio, è una generalizzazione, di anno in anno si chiede sempre meno agli studenti, così gli studenti, sicuramente in cuor loro, dicono: “I miei professori, gli adulti che ho davanti, non credono in me e non credono nemmeno in loro stessi.” Chiedere tanto, chiedere tutto. Pensate ai miei ragazzi che stanno in comunità: riescono a stare in comunità senza cellulare, senza poter liberamente uscire, senza musica, senza tutti gli strumenti di comunicazione, senza genitori, per un periodo, senza fidanzate e fidanzati. Prima o poi occorrerà forse affrontare il problema di una consapevole maggiore severità, pulizia, bellezza, linguaggio, comportamento, abbigliamento, almeno nei luoghi dell’educazione. Non è possibile assistere a tanta trascuratezza e trasandatezza nei piazzali esterni e interni delle scuole. Mi colpisce tanto come sono tenuti i locali delle scuole, i muri sporchi e imbrattati, le cose rotte nelle classi o nelle comunità, per quanto riguarda il mio mondo. Chiedere tanto e chiedere tutto, soprattutto a chi soffre, a chi ha sofferto. Altrimenti, qual è il senso della sofferenza, il significato del dolore? E’ come se un ragazzo potesse dire: “Nella vita ho sofferto tanto e tu mi chiedi anche poco? Oltre al danno anche la beffa? Non può essere che ho sofferto tanto, che la vita mi ha fatto passare tante prove dolorose senza un perché, un significato, uno scopo.” Io dico spesso ai ragazzi: se io fossi in voi e dopo tanta sofferenza scoprissi che non serve a niente e a nessuno, io mi arrabbierei veramente, mi metterei a spaccare tutto. Oppure dico: tu che hai sofferto, tu che non sai né leggere né scrivere, tu che sei nato nel paese sbagliato, tu con il papà così, la mamma cosà, tu puoi chiedere di più, puoi gridare di più alla vita, a Dio, che ti riempia di doni, di capacità, di speranza, di forza, di coraggio. Prima o poi occorrerà porsi anche la questione della motivazione, della capacità educativa, dell’opportuna idoneità degli adulti a stare con i ragazzi. Non può essere più sufficiente o valido il fatto che si può insegnare, stare con i ragazzi per concorso, perché si riesce a rispondere ai quiz ministeriali. Non tutti sono adatti e capaci. Stare con i giovani non è questione di una tecnica, di mera competenza professionale, di un algoritmo o adesso di intelligenza artificiale. Stare con i giovani è un incontro, un avvenimento, una capacità umana, relazionale, di saggezza, di sapienza, di coinvolgimento, di affetto, di compromissione, di sacrificio. Se vogliamo capire, se vogliamo darci, essere fecondi, è una lotta, un grande sacrificio. Occorre ci venga data una grande capacità, un dono speciale. Occorre avere un’idea della vita e della morte, un’idea del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, un’idea del mondo e della storia. Occorre sapere, aver visto e sperimentato, che è possibile cambiare, ricominciare, ripartire. I ragazzi pensano che, date certe situazioni, queste siano immodificabili, irredimibili. Sia così per sempre. “Se sono ormai a questo, rimarrà così in eterno.” Siamo ritornati in un nuovo paganesimo. Invece è possibile cambiare, ricominciare. È possibile volersi bene, aiutarsi. I ragazzi entrano in comunità e la prima cosa che dicono è: “Sono solo. Sono solo contro tutto e tutti, me la devo cavare da solo.” Peggio questo che la droga e la prigione. Altro punto: basta continuare a dire “sono giovani fragili” e quindi l’attenzione va subito sull’ultima parolina, sul “fragili”, e ci si dimentica dei giovani. Oppure si dice: “La famiglia oggi è fragile” e quindi si pensa alla fragilità. Per essere all’altezza, rispondere a tutto il bisogno di vita dei ragazzi, bisogna smettere di pensare per categorie, come è stato detto, per classificazioni, che finiscono per essere alibi per non impegnarsi, per non affrontare i problemi. Si dice, infatti: “Sono giovani fragili, millennials, nativi digitali, devianti, tossicodipendenti, ritirati sociali.” Sono persone! Ragazzi abbandonati, soli, trascurati. Non è stato detto loro perché esiste il mondo, se c’è un senso al dolore, alla “sfiga”, come la chiamano loro. La loro vera condizione è non saper vivere, affrontare le situazioni. Non saper perché vivere e per chi vivere, altro che fragilità. Il punto non è il male. La sconfitta, la perdita, il limite, l’insuccesso. Il dolore più grande non è il male è non conoscere il bene, non conoscere l’amore, cioè non saper amare.

Gheno. Grazie anche a Silvio. La scaletta prevede che ci sia la domanda anche per la Viceministro Bellucci. In realtà, per come la conosco, a me colpisce sempre molto Maria Teresa, innanzitutto non solo per la sua capacità di esprimere una proposta, ma anche e soprattutto per la sua capacità di ascolto, e quindi io le chiedo proprio: ma ascoltando questo, come possiamo concludere?

Bellucci. Grazie, anche quest’anno è bello essere qui. Ringrazio il Meeting di Rimini, ringrazio Stefano Gheno, che mi accompagna sempre nei giorni precedenti a questo incontro. Ringrazio anche tutti voi, oggi siete veramente tantissimi, ma permettetemi di ringraziare la mia famiglia, mio marito, mia figlia, che sono lì, in prima fila, a destra, e che quest’anno sono venuti con me. L’anno scorso sono venuta da sola, li ho lasciati, erano in vacanza. Per noi questi sono i pochi giorni che abbiamo per stare insieme 24 ore su 24. Quest’anno per me era una stretta al cuore risalutarli, e il fatto che loro abbiano voluto stare con me, vivere con me, accompagnarmi, mi ha reso tutto così leggero nel cuore. Perché la famiglia è ciò da cui io parto ogni mattina e ciò a cui io ritorno ogni sera. A volte l’orario non è quello che vorrei, a volte il tempo non è tutto quello che vorrei, ma c’è una certezza nella mia vita: la mattina mi sveglio e c’è mio marito, mia figlia, e il mio cane e il mio gatto. E la sera, quando ritorno, ci sono loro ad aspettarmi. Il titolo del Meeting dice: “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?” E a me la prima cosa che mi è venuta in mente quando ho letto queste parole sono state le frasi di Saint-Exupéry nel Piccolo Principe, che sono le stesse parole che mia figlia un giorno mi ha fatto trovare a fianco al frigo, nella lavagna che abbiamo, scritte con il pennarello bianco su una lavagna nera, in cui lei mi scriveva e mi ricordava un libro che ho letto decine di volte: “L’essenziale è invisibile agli occhi, si vede bene solo con il cuore.” E allora, quando parliamo di educazione, oggi avete tirato fuori tantissimi argomenti, tantissimi temi, tantissimi principi e valori ai quali riferirsi, ma quando parliamo di educazione, il primo quesito che io mi pongo è: educare a che cosa? E poi, altro tema che avete trattato: la libertà. Essere liberi da che cosa o per che cosa? E poi: la politica a che cosa serve? E’ a servizio di cosa? E allora sì, educare è importante, ma educare a che cosa è fondamentale. In particolare, Don Giussani, non solo lui, e lo ricordo a me stessa, certamente non a voi, diceva che la cosa principale dell’educare, la vera educazione è educare il cuore dell’uomo. Mazzini diceva: “Educare è il pane dell’anima.” Educare non può prescindere dal mettere in relazione noi stessi con l’altro. Educare significa incontrare l’altro e in questo imparare ad amarlo e ad amarci. E questo è il senso più alto dell’educazione. Poi lo possiamo fare attraverso una lezione di storia, di matematica oppure imparando a fare il meccanico. Lo possiamo fare in mille modi. Ma l’essenza è il servizio, è la cura, è il prendersi cura dell’altro e quindi cura di noi stessi. Essere liberi da che cosa e per che cosa? Io ho assistito per troppo tempo a una politica che normalizzava il senso di libertà, scevro dai principi, dai doveri, e poi dai diritti. Liberi di fare qualsiasi cosa, a prescindere da quanto questo possa essere di servizio per cosa. Liberi di drogarsi, liberi di stare attaccati a un cellulare, libero di inseguire il mio desiderio fino in fondo, indipendentemente da quanto sia legato al concetto di amore. Beh, guardate, sarò molto chiara, come sono sempre: non è il mio concetto di libertà. Non mi sono mai impegnata per far sì che la liberalizzazione dell’uso della cannabis o di altre droghe, fosse il modo di interpretare il senso di libertà. La libertà è un’altra cosa. La libertà è essere dipendenti da un’unica cosa: amare qualcuno. Io posso essere dipendente? Sì. E devo essere dipendente? Sì. Devo essere dipendente dall’amore, dall’amare qualcuno. Questo mi rende libero. E allora il concetto di libertà, significa libertà per qualcosa che è al di là di me, oltre me, più alto di me, e che mi spinge costantemente a cercare di essere migliore, nonostante sicuramente non riuscirò mai ad arrivare fino in fondo a questa strada. E la mia famiglia mi fa misurare con questo, con la mia limitatezza, con il mio mettere i piedi per terra, con il mio spogliarmi di un titolo come quello di viceministro che c’è oggi, ma siamo tutti pro tempore e domani sono certa che non sarà quello l’essenziale che mi porterò nella mia vita. La mia famiglia mi fa ritornare all’umano, all’umanità e serve a tutti noi. E questo come c’entra con la politica? C’entra tantissimo. C’entra certamente con la visione della politica di questo governo, la mia visione della politica e delle politiche sociali. Altro tema nella normalizzazione di quella libertà che è legata a fare qualsiasi cosa, indipendentemente da quanto sia prendersi cura di qualsiasi cosa, di qualcuno, altro tema delle politiche sociali è l’idea che lo Stato possa pensare a te, possa pensare per te, possa pensare su di te. Che tu sia persona, che tu sia famiglia, che tu sia educatore, che tu sia qualsiasi cosa nella vita. Oggi qualcuno dei relatori parlava del reddito di cittadinanza: c’è lo Stato che pensa a te. Sei fragile? sei indifeso? ti dò un trasferimento economico, non ti riconosco il diritto al lavoro, io penso per te. Ma non è l’unica delle situazioni. Il metadone al mantenimento. Lo Stato pensa a te. Non riesci a vivere le tue emozioni? Metadone al mantenimento, psicofarmaci al mantenimento, lo Stato pensa a te. L’alternativa alla comunità terapeutica? Qualcosa da cui allontanarsi il più possibile. Perché? Perché ti rende libero. Oppure altro esempio riguarda certamente gli ammortizzatori sociali, laddove non viene fatto altrettanto per le politiche attive del lavoro. Perdi un lavoro? Ammortizzatore sociale, non una massiva dose di politiche attive: c’è lo Stato che pensa a te. Puoi fare a meno di te. E questo che cosa significa? Diventare dipendenti, non dall’amore, ma da qualcuno che ti lega mani e piedi, da un legame che ti incatena, che ti fa pensare che non puoi vivere senza di lui e piano piano smetti anche di pensare, spegni il tuo cervello, utilizzi quei soldi, pochi, per diventare un perfetto consumatore. Consumatore di metadone, consumatore di psicofarmaci, di beni materiali, di internet, di connessioni virtuali che hanno poco di umano e che fingono di essere umani e che ci ingannano. L’intelligenza artificiale parla come noi. Il logos è ciò che distingue l’umano da qualsiasi altro essere vivente. È fatta in maniera sapiente, perché ci fa credere che dall’altra parte ci sia qualcosa di umano. In realtà non c’è niente di umano, perché non c’è il cuore, non c’è l’amore, non c’è la tenerezza. Ma anche questo può sostenere un percorso di dipendenza. Quali sono le politiche sociali in cui credo? Quelle che certamente sostengono quella libertà che passa per essere a servizio dell’altro per renderlo libero, libero di pensare, libero di credere in se stesso, libero di potersi autodeterminare, di farsi una famiglia, di poter generare dei figli, libero di poter costruire la propria esistenza. Per questo abbiamo tentato di capovolgere il paradigma, certo con tante accuse. Il superamento del reddito di cittadinanza con l’inserimento dell’assegno di inclusione e il supporto alla formazione al lavoro, a cui ho ovviamente partecipato perché è una mia delega, significa capovolgere il paradigma. Non è facile, c’è bisogno di tempo, perché per tanto tempo si è pensato che lo Stato potesse pensare per te e su di te. Significa anche che le politiche sociali danno opportunità. Questo è un tempo di grandissima rivoluzione, paragonabile alla rivoluzione industriale, ma con una complessità maggiore. Abbiamo una rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo, che incide non soltanto dal punto di vista delle innovazioni, ma da un punto di vista sociale, relazionale, umano. Cambia tutto. Nella rivoluzione industriale dalle campagne si entrava nelle fabbriche e lì cambiava tutto. Oggi noi dal mondo reale entriamo nel mondo virtuale e cambia tutto. Questa rivoluzione la dobbiamo governare, dobbiamo cavalcare il cambiamento dell’innovazione tecnologica, gestirla e governare la rivoluzione per farla diventare un rinascimento dell’umano. Per fare questo, bisogna che lo Stato si torni non a sostituirsi all’uomo, ma a garantire opportunità, ad esserci soprattutto laddove ha rinunciato, si è voltato dall’altra parte e ha detto: “Qui non ce la faccio.” L’abbiamo visto a Caivano, lo vediamo a Scampia, lo vediamo anche a Tor Bella Monaca, lo vediamo in moltissimi luoghi come Barriera di Milano, insomma ne potrei citare tantissimi. Lo Stato lì ha rinunciato, ha detto: “Io non ce la posso fare.” C’è la criminalità organizzata che pensa per me, c’è una porzione di popolazione nella quale non c’è niente da fare, posso fare a meno. Abbiamo stanziato per la prima volta 250 milioni di euro per aprire delle comunità giovanili, per sostenere le comunità giovanili che già ci sono, perché là dove lo Stato ha rinunciato, certamente c’è una parrocchia, certamente c’è un’associazione del Terzo Settore, certamente ci sono delle persone che hanno pensato che il senso della loro vita fosse il servizio e il prendersi cura di qualcun altro e che l’hanno fatto nonostante lo Stato, senza lo Stato. Allora, io credo che uno Stato giusto, uno Stato corretto, non pensi che ci sia bisogno di più Stato e meno società, ma vi dico chiaramente: non credo neanche che ci sia bisogno di più società senza Stato o con meno Stato, no. Questa logica competitiva credo che crei soltanto delle vittime. C’è bisogno di più Stato con più società. C’è bisogno di un’alleanza in cui insieme si può essere liberi, ognuno però deve assumersi la sua responsabilità. Perché in democrazia, se c’è uno Stato, un governo scelto dal popolo, poi ha la responsabilità di prendere delle decisioni e di assumersi la responsabilità di prenderle sulla base di un mandato popolare. Ma insieme c’è giustamente il senso di responsabilità che deve passare per tutti, nessuno escluso. L’anno scorso, visitando i vostri stand, ne ho visto uno che aveva all’ingresso una delle frasi che mi ha colpito di più, e diceva: “Nessuno basta a se stesso, nessuno basta da solo.” Si parlava di Portofranco, di una realtà meravigliosa. Beh, “Nessuno basta a se stesso, nessuno basta da solo” riguarda ciascuno di noi. Io non basto a me stessa, ho bisogno della mia famiglia. Certamente riguarda anche lo Stato. Lo Stato non basta a se stesso, lo Stato non basta da solo, ma neanche gli enti del Terzo Settore bastano a se stessi o bastano da soli. Non è una logica competitiva, non è un braccio di ferro, non è chi è più bravo, più capace. È il senso di comunità, che passa per lo stare insieme e per lavorare insieme. Venendo qui – un’altra esperienza, perché noi cambiamo, veniamo educati dalle esperienze, ma soprattutto dagli incontri che sono fondamentali nella nostra vita, amore e incontri fanno la differenza nella nostra storia – beh, passando di qui per caso, sono arrivata a Matelica. Non conoscevo Matelica, non pensavo nemmeno che si trovasse nelle Marche. E percorrendo le strade di Matelica – perché in realtà volevo portare mia figlia a vedere le Grotte di Frasassi, mia mamma era marchigiana e quindi conosco bene quella terra – ho visto che c’era la casa dedicata a Enrico Mattei. Un uomo di cui si è parlato molto poco negli anni passati, eppure è morto a 55 anni nel 1962, ha fatto delle cose straordinarie, ma, fatto strano, in Italia ci sono delle pagine di storia che vengono cancellate, pagine di libri che vengono strappate. Mattei diceva questo: “Non c’è comunità senza lavoro, non c’è lavoro senza impresa, non c’è impresa senza energia.” In tutto quello che abbiamo detto in quest’ora ritroviamo anche queste parole. Mattei ha servito la sua nazione, il suo popolo con amore, con un interesse limpido, pulito, e nel suo cuore portava questo valore. Il senso di comunità che si fonda sul lavoro, perché il lavoro rende liberi. Il lavoro è la nostra identità. Io sono una psicologa, sono una psicoterapeuta, ma non faccio la psicologa, la psicoterapeuta. Io sono una volontaria, perché un’altra cosa, quando parliamo di educazione e quando parliamo di educare la nostra anima, il volontariato è il pane dell’anima. Noi cerchiamo di fare la nostra parte come governo, capovolgendo il paradigma, politiche sociali che rendano liberi, che allontanino sempre di più un’ottica assistenzialista, che ho provato a tracciarvi su alcuni fatti concreti, che intendiamo abbandonare, scommettendo sull’umano e la capacità dell’umano di imparare e migliorarsi, se ha una comunità intorno a sé che crede in lui e che gli offre delle opportunità gratuitamente. Non è facile. Lei diceva prima che è impossibile. Beh, ciò che è impossibile in realtà può trovare una soluzione. Basta iniziare a farlo. Allora quello che è impossibile diventa possibile. Dipende da ciascuno di noi.

Gheno. Grazie per questa chiusura. Io non aggiungo altro, mi sembra che sia stato già abbastanza denso. Voglio solo dire una cosa: il Meeting è un luogo in cui è possibile incontrare, in cui è possibile iniziare a fare, come ci ha ricordato la Viceministra Bellucci. Mi permetto di chiedere a ciascuno di pensare alla possibilità di dare un contributo, per come può, al Meeting. Avrete visto che ci sono le postazioni del “Dona Ora”, magari vi fermate un attimo.
Aggiungo che siamo stati tutti provocati in questa settimana da quanto ci ha raccontato il Cardinal Pizzaballa nell’incontro introduttivo. Noi, le persone che in qualche modo provano a costruire questo Meeting, abbiamo deciso che una parte di quello che raccogliamo nel fundraising del Meeting verrà destinata al Patriarcato per cercare di portare il nostro aiuto nella situazione terribile che le persone di Terra Santa stanno vivendo.
Mi permetto di insistere perché voglio essere molto chiaro: in questo momento l’unico modo possibile per contribuire è il denaro. Non c’è la possibilità di portare niente, nessun altro aiuto in questa situazione di conflitto, quindi ricordiamocene quando passiamo davanti al “Dona Ora” e ricordiamoci che ciascuno di noi può essere un protagonista.
Grazie a tutti e arrivederci.

Data

23 Agosto 2024

Ora

12:00

Edizione

2024

Luogo

Sala Neri Generali-Cattolica
Categoria
Incontri