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Il grande conflitto: Libertà e Schiavitù
Hanno partecipato: Carlos Diaz, filosofo spagnolo docente all’Università di Madrid; Alexandr Zinov’ev, membro dell’Accademia Finlandese delle Scienze; Rocco Buttiglione, docente di Filosofia della Politica all’Università di Urbino. Moderatore: Roberto Formigoni.
R. Formigoni:
Benvenuti a questo incontro che ha per titolo: “Libertà e schiavitù”. Si tratta indubbiamente di un tema affascinante per la nostra storia di uomini e di europei e anche di un tema centrale per il nostro lavoro di questi giorni. Centrale perché da una parte è, fra gli incontri di questa settimana, quello che forse più esplicitamente si ricollega all’edizione dell’anno scorso dei Meeting, dedicata ai diritti dell’uomo; dall’altra parte il tema di stasera: la libertà e il conflitto fra libertà e schiavitù, raccoglie un po’ tutta la ricerca dei Meeting di quest’anno. Io credo infatti che non sia neppure possibile pronunciare le parole cultura e popolo se non si è preso posizione di fronte alla libertà, se non si vive un’esperienza di libertà, e l’incontro di questa sera propone di scavare nel profondo questo tema, per vedere come le culture dell’Europa si pongono di fronte alla libertà e al posto della libertà nella vita dell’uomo. Ci sono alcune domande che percorrono oggi non solo il dibattito culturale su questo tema, ma anche l’esperienza concreta, la vita quotidiana dell’uomo. Esiste oggi una possibilità autentica di libertà per l’uomo? Da dove nasce il desiderio di libertà quali sono le sue radici? C’è una opposizione irriducibile tra l’esperienza di libertà del singolo e la dimensione sociale e comunitaria della libertà o piuttosto è possibile una conciliazione? Ma allora cosa stanno a significare, dove traggono origine quei periodi, nella storia dei popoli e nella vita degli uomini, quei periodi nei quali popoli e uomini vivono le diverse forme della schiavitù? O ancora più a fondo, la libertà è in contraddizione con la esperienza di dipendenza da un altro, di appartenenza a un altro che l’uomo fa, o piuttosto tra i due termini libertà ed appartenenza c’è un’amicizia, è possibile instaurare una unità? Su questi temi, su queste domande io credo che l’incontro di questa sera si ricolleghi al dibattito di ieri sulla religiosità dell’uomo contemporaneo, sul suo atteggiamento di fronte alla storia e alla realtà. E infatti l’avvenimento religioso è una sollecitazione, è una proposta alla libertà dell’uomo e nello stesso tempo l’avvenimento religioso dà origine a una nuova esperienza di libertà. Bene, su questi temi abbiamo chiamato a portare il loro contributo tre nostri grandi amici, a cui stasera assieme a voi io do il benvenuto. Si tratta dei professori Alexandr Zinov’ev, Carlos Diaz e Rocco Buttiglione. A tutti loro porgiamo il nostro vivo ringraziamento per aver accettato il nostro invito. Il primo intervento sarà svolto da Carlos Diaz che è un giovane docente universitario. Nato nel 1944, Carlos Diaz. ha studiato filosofia a Salamanca, a Madrid e a Monaco e oggi insegna all’Università di Madrid e anche in una scuola media superiore della capitale spagnola. Diaz ha collaborato negli anni settanta all’editoriale ZYX e si è poi avvicinato all’anarchismo e quindi al cristianesimo. Pur essendo molto giovane ha già una grossa produzione letteraria editata in Spagna con una decina di case editrici. Oggi è redattore della rivista spagnola Communio, editata dalla casa Encuentro, di cui anzi è stato uno dei fondatori tre anni fa. In italiano non è stata ancora tradotta nessuna sua opera, ma tra breve uscirà il primo libro “Contro Prometeo”, una valutazione critica e un paragone tra la posizione etica dell’anarchismo e la posizione etica cristiana. Carlos Diaz è uno dei pochissimi filosofi che nella Spagna degli anni ’80-’81 sostiene pubblicamente una posizione cristiana. Egli è un rappresentante del “mounierismo” e del personalismo spagnolo ed è impegnatissimo anche in un’attività militante di formazione. Gira molto le città spagnole tenendo conferenze, corsi, incontri soprattutto con i giovani, anzi proprio ai giovani è dedicata la sua ultima opera “Il dialogo pedagogico con una gioventù senza maestri”, un titolo, io credo, che dice sinteticamente la portata e lo spessore di tutto il lavoro culturale di Carlos Diaz. A lui cedo la parola ringraziandolo per la sua presenza.
C. Diaz:
Nel regno minerale non esiste nessuna libertà; invece nel regno degli esseri viventi, c’è una dimensione che, pur radicata nella natura, la trascende, una dimensione quindi che non può venir misurata nemmeno con i più perfetti apparecchi scientifici, ed è la dimensione della libertà. Man mano che si va scendendo lungo la scala della vita verso la maggior complessità della vita si trova corrispondenza di maggior esigenza di libertà. Nel caso della vita umana, che è quella più ricca e più completa di tutte le vite, l’esigenza di libertà è assoluta. Essere uomo significa essere libero, e anzi l’uomo sente solidarietà con la vita intera ed ha anche una proiezione antropomorfica, provando tristezza al vedere un animale in gabbia e una sensazione di sollievo quando una mano apre la gabbia perché l’uccello ne esca. Emmanuel Kant, che fu un uomo assolutamente critico, non poté resistere a questa tentazione antropomorfica ed assicurò che tutta la sua critica valeva meno del volo di un colombo; un colombo ha ali e grazie a queste ali può volare, ma proprio perché ha delle ali non può andare nel fondo degli oceani; la libertà è una dialettica che è profondamente vincolata alla necessità. Perciò la stessa cosa che si dice per gli animali e per l’uomo deve essere anche detta per antonomasia del regno della storia. La storia dell’umanità non è una semplice descrizione dei fatti, degli avvenimenti, ma piuttosto una profonda descrizione di fatti liberi, non è nemmeno la storia di una lotta fra classi né di una lotta fra razze, ma la lotta per la libertà. Questa lotta si è prodotta a volte in modo egoistico, in altri casi si è prodotta in modo non solidale e quasi sempre è stata violenta; in suo nome si è utilizzata l’ingiustizia, il massacro, la espoliazione e l’imperialismo. Disgraziatamente tutte queste forme di lotta hanno fatto appello alla libertà, benché non abbiano raggiunto la libertà. La lotta per la libertà non include soltanto l’errore, porta nel suo seno il male; la nostra tradizione socratica occidentale dice che quando l’uomo e la società compiono il male sbagliano, ma non è così. Se l’uomo è libero, è libero sia per compiere il bene che per compiere il male; questa è la nostra miseria e questa è la nostra grandezza umana. In qualche modo questo sforzo per la libertà si traduce in simboli, sono molte le bandiere sotto le quali si è messa la libertà e che portano nei loro pennoni il colore azzurro, il colore della libertà. Disgraziatamente sono meno le bandiere che portano sul loro pennone la colomba bianca che è simbolo della pace; in ogni caso la bandiera ideale per un popolo, per un’umanità che voglia la libertà sarebbe una colomba bianca su sfondo bleu, pace bianca e libertà bleu. Questo non impedirebbe che a volte dietro questo simbolo si nasconda un teschio o una bandiera nera come quella dei pirati. Io vorrei su questo sfondo limitarmi a meditare per alcuni minuti con voi su una data che è il 1789, una data che ha innalzato il colore bleu, che ai nostri giorni è un po’ sbiadito, che si è fatto nero. L’anno 1789 vede scritto: libertà, fratellanza, eguaglianza; la libertà è non soltanto rivendicazione prima, ma anche rivendicazione primaria, primaria e prima quindi, e alla fine dei secolo XVIII si crede che la libertà renderà possibile la fratellanza e l’uguaglianza; se è vero che ci devono essere la fratellanza e l’uguaglianza bisognerà partire da una “conditio sine qua non” e questa è la libertà. Abbiamo ancora oggi questa eredità su di noi, il secolo XIX e la prima metà del XX richiamano con i maestri del sospetto la libertà assoluta e assolta. Carlo Marx non avendo fiducia nelle libertà generiche, nelle libertà formali, cercò di ottenere per l’uomo una libertà specifica, cioè a dire una liberazione di classe. Cercando di sottolineare quella libertà, sottolineò l’eguaglianza negando la fratellanza; non è possibile fratellanza quando non esiste libertà. La libertà arriverà soltanto quando sarà abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione. Freud dal canto suo ha pure lui sospettato della libertà dei secoli precedenti, ma, mentre Marx non crede nel rapporto fra libertà e fratellanza, Freud non si preoccupa di classi, ma di individui, è per gli individui e non crede nemmeno nelle libertà individuali. L’individuo stabilisce, definisce delle minacce contro se stesso ed è un’Idra tricefala nella quale il Superego lotta per il Superego e l’Ego contro l’Ego, tutti contro tutti e contro ognuno; perché l’Ego sia libero deve negare il Superego, e perché l’Ego sia libero deve negare l’io, il Superìo; perché il Superìo sia libero deve arrivare all’Io e all’Esso. Infine Nietzsche ha sospetto verso le libertà passate, libertà teocentriche; per risaltare la libertà umana ha bisogno di rinnegare la libertà divina e i valori divini e i valori cristiani, fondamentalmente la morale dei prossimo; per liberarsi dalla schiavitù cristiana bisogna ottenere un superuomo superlibero. In ogni caso anche qui la libertà è ottenuta a partire dalla negazione della libertà. Bakunin è stato quello che ha portato al culmine questo processo storico quando scrisse: “Né Dio, né padrone”; e questo lo traduce perfettamente l’esistenzialismo: “Se Dio esiste ed è libero, allora l’uomo è schiavo”. “Gott ist tot”, “Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso. Non sentite come suonano le campane? Suonano a morto e suonano a uomo libero. E’ morto Dio, evviva! Viva il superuomo, viva la libertà”. Questo è il ragionamento tipicamente luciferino espressione dei “Non serviam”, non servirò, o, detto in altro modo “Eritis sicut dei”, sarete come dei, ed e il paradiso della nuova libertà. Arriviamo al secolo XX il cui prototipo è l’uomo ribelle, “l’homme révolte”,. un uomo a terra, ma senza terra, un uomo che non ha posto, che non ha sede, che non ha amici, che è ribelle, un uomo che, come dice Heidegger, è un uomo fatto per la morte, fatto per l’assurdità, per le mani sporche. Non ci sono altri rimedi se non richiamare una libertà che è voluta volare troppo in alto e quindi è caduta al suolo, come è successo ad Icaro che voleva volare troppo vicino al sole e le sue ali si erano sciolte ed era caduto al suolo. Nella seconda metà del secolo XX è successa esattamente la stessa cosa: oggi il marxismo si trova dinanzi alla dissoluzione della libertà nella scienza, la quale non è tale perché non è libera: potrà anche trattarsi di materialismo dialettico, si potrà forse affermare che il virus non esiste perché non è un termine di dialettica, si potrà sopprimere la lirica per affermare l’epica, si potrà affermare che Platone fu un piccolo – borghese antimarxista, ma questo non darà alla scienza una libertà. Il marxismo risiede quindi nella regione della sottocoscienza perché risiede nella regione della sottoscienza. Analogamente a questo marxismo, che identifica subcoscienza con sottoscienza, allo stesso modo e al contrario per paradosso, il freudismo è diventato dialettica, il marxismo è diventato freudismo e il freudismo è diventato dialettica. La prima tesi del postfreudismo attuale è la liberazione attraverso lo stomaco, la passione trofologica, il mangiare prima di venir mangiati: nel momento in cui tutto finisce, quando si teme che finisca il cibo, gli ultimi barili di petrolio, si sta rivendicando di scoppiare prima che ne avanzi. E questo riflette l’ansia dell’uomo di oggi che ha bisogno di riempire il suo stomaco per non sentirsi vuoto, che ha bisogno di afferrarsi a ciò che è solido allo stesso modo in cui il bambino piccolo, il neonato di pochi mesi si afferra alle lenzuola per non cadere. L’antitesi, o secondo momento dialettico dell’attuale freudismo, è lo stadio anale; oggi è assolutamente rivendicata l’arte del water closed, fra le famiglie borghesi e uno spettacolo ed è la prima stanza che si mostra, il vomitorium classico. La sintesi è il “venereum”, è l’espressione della dialettica che sostituisce al “cogito ergo sum” il “coito ergo sum”; per affermarsi bisogna proliferare. Ma al di là di questi aneddoti c’è qualcosa di mitologico che traspare e che è fra Laocoonte e Narciso. Laocoonte voleva mangiare i propri figli, i suoi figli hanno opposto resistenza naturalmente, e il risultato di quella disavventura fra quel mangiare e il non voler essere mangiati, è Narciso, il figlio solitario, il figlio senza memoria genetica, il figlio innamorato di se stesso che permane, senza eredità, nella sua contemplazione. Per questo Narciso non può svegliarsi e si tramuta in Orfeo; bisogna uscire, bisogna cantare, non bisogna lavorare, bisogna abbandonare la serietà, bisogna abbandonare i progetti e proprio per questo non si sveglia e si converte in Morfeo, eterno addormentato. La storia sfugge, la verità è che si produce un profondo legame fra freudismo e nichilismo, c’è una radice di Nietzsche nell’attuale freudismo. Il mito di Prometeo, che si voleva ribellare contro gli dei e rubare agli dei il fuoco sacro, si traduce finalmente nella presenza d’Epimeteo.Epimeteo è il fratello minore di Prometeo, quello che deve pagare per i vetri rotti della grande avventura intrapresa, ma non riuscita, di suo fratello Prometeo. Epimeteo è la traduzione diretta di Sisifo, il mito di Sisifo è il mito del dolore di una umanità che non si trova. Possiamo allora dire che il neomarxismo, il neofreudismo, il neonichilismo intendono la libertà come rifiuto del paradiso e come ricerca dell’eresia, nella misura in cui eresia, che viene dal greco “hairesis”, vuoi dire scelta, svincolamento, negazione della memoria, e al contrario non vuoi sapere niente di ciò che è cattolico, cioè, secondo la radice greca, universale. Troviamo così oggi l’illuminismo, che è arrivato al menefreghismo, al qualunquismo, al manfutismo, al posotismo, in tutte le lingue si può esprimere allo stesso modo. Quando Max Weber parlava della disillusione di questo mondo, questo non è un essere disillusi, un non avere dietro di sé il mistero, ma piuttosto un abbandono di ciò che è presenza, un rifiutare il senso, il significato, un rifiutarsi di fronte all’emozione religiosa, un rifiutare il vincolo, e quando ci si nega di fronte all’emozione religiosa resta soltanto, come diceva Ortega Y Gasset, la negligenza, il neg–ligere contro il versus-ligere, il re-ligere. Pertanto è impossibile dedurre la eguaglianza e la fratellanza dalla libertà. Io propongo esattamente il contrario, partire dalla fratellanza per arrivare alla libertà e all’eguaglianza. Perché non è morto questo detto del 1789, è vivissimo, bisogna invertirlo semplicemente. Per questo vediamo brevemente quali sono le condizioni di realizzazione. Primo, condizione di ispirazione o fondazione della libertà sull’eguaglianza. Ciò che ispira la libertà non è la domanda per l’oggetto, per la cosa, come direbbe Heidegger, ma la domanda per il soggetto. Io non chiedo quando sarò libero, ma chi mi ispira, su che cosa mi baso e mi ispiro, se voglio vivere la libertà devo instaurare una relazione interpersonale, non la dialettica da soggetto ad oggetto come voleva Hegel, ma piuttosto la dialettica da soggetto a soggetto. Questo significa che bisogna rifiutare il detto “il fine giustifica i mezzi” precisamente perché il soggetto è un fine assoluto, esige anche l’utilizzo di mezzi adeguati al fine. Nessuno può far ricorso alla violenza per inalberare la bandiera della libertà, nessuno può far ricorso alla morte, né all’aborto per difendere la libertà, chi ama la vita ama profondamente la libertà. Secondo, la finalità dell’ispirazione, cioè la fondazione dell’eguaglianza sulla fratellanza. Prima avevamo fondato la libertà sull’eguaglianza, adesso fondiamo l’eguaglianza sulla fratellanza. Allo stesso modo in cui non chiedo che cosa mi ispira, ma chi mi ispira, quale è la faccia che mi ispira, qual e la persona che mi ispira – perché voi sapete che gli schiavi errano chiamati in Grecia “aprosopoi” cioè senza faccia, mentre la faccia è il “prosopon” – allo stesso modo la questione adesso è: non perché io sono libero ma per chi, e io sono libero per fare della persona lo specchio dell’universo e per fare dell’universo una curvatura della persona, Universo e persona si inter-penetrano nella teoria della relatività, e questo lo ha visto Francesco d’Assisi, quando parlava agli uccellini, ai lupi, alle persone e alle pietre. Realmente dove l’uomo riconosce la libertà è nella persona, che è l’icona di Dio nel mondo. Pertanto questo richiede la domanda: per chi e con chi devo essere libero? “La verità – come diceva Von Balthasar – è sinfonica”, e pure la libertà è sinfonica, esige una pluralità di voci, differenze tra i gesti, ma armonia profonda e solidarietà. Infine bisognerà chiedere qual è il senso dell’ispirazione o qual è la base di questa fratellanza. E ora allo stesso modo in cui la libertà si basa sull’eguaglianza e l’eguaglianza sulla fratellanza, la fratellanza si può basare soltanto sulla morte e la risurrezione di chi è la “fratellanza” per eccellenza. Questa è un’autentica utopia, ma non è l’utopia generica di Feuerbach, che voleva sostituire il Vangelo di S. Giovanni “Dio è amore” con un umanesimo generico intraumano, “l’amore fra di noi è Dio”; non è neanche la speranza di “Das Prinzip Hoffnung” di Ernest Bloch, che alimenta la libertà su un desiderio, un semplice desiderio. La libertà si basa solo sul desiderio del desiderio e quando ciò non viene preso in considerazione, allora l’uomo e la società non sono liberi, ma invece sono autotormentatori. Questo è il senso profondo delle frasi “quello che vivo senza vivere in me” e “una tal alta vita aspetto che muoio perché non muoio”, questo è il senso che ha la seconda lettera ai Corinti: “Dove c’è lo Spirito di Dio c’è libertà. Un’ultima considerazione: così come la libertà si basa sulla fratellanza, allora è necessario fare una nuova deduzione trascendentale delle categorie, derivando la virtù dalla fratellanza. Attualmente qualsiasi libro di etica percorre due vie: o nega la virtù: non ci sono virtù – ed esiste un’altra variante di ciò, che è la riduzione della virtù apolitica, come si voleva nel secolo XVIII per tutto il periodo dell’illuminismo – oppure abbiamo un’altra via, quella dell’etica contemporanea che è la negazione dei naturalismo etico: è impossibile cioè, derivare dall’essere il dovere, ossia dimostrare che è possibile essere buono. Ebbene: oggigiorno il nostro compito è collocare la libertà nell’ambito delle virtù, fare della libertà virtù, non nell’ambito delle virtù di Aristotele, puramente mentali, né delle virtù morali classiche, che sono certamente necessarie, imprescindibili: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, ma invece nelle virtù teologali; fede, speranza, carità. A partire da questo riconoscimento è possibile far nascere la libertà. Ho tentato di riassumere il pensiero moderno in un atteggiamento dialettico e di contrapposizione, forse potrei avervi dato un’idea che tutto è cattivo attualmente nella modernità, ma non è vero. Io ho adottato questo atteggiamento dialettico: dobbiamo alla modernità grandi acquisizioni, dobbiamo innamorarci della modernità, ma dobbiamo anche saperla leggere, non è un libro aperto, bisogna saperla leggere riportandola alle origini, alle origini della libertà, della uguaglianza, della fraternità, ossia approfondendo tutte le cose buone della modernità e ciò è possibile solamente considerando che la stoltezza di Dio è più saggia che la sapienza degli uomini.
R. Formigoni:
La seconda relazione di questo incontro è affidata ad Alexandr Zinov’ev, che è come tutti voi sapete, russo, docente di filosofia, membro dell’Accademia Finlandese delle Scienze, nonché uno dei più grandi logici viventi. Zinov’ev rappresenta una voce originale nel quadro così ricco del dissenso russo, così ricco intellettualmente ed umanamente. Il compito particolare che egli sì è assunto è quello di smascherare nel profondo la logica del sistema sovietico, ma di smascherare anche i luoghi comuni o gli errori di prospettiva con cui spesso dall’Occidente si guarda al sistema sovietico. Zinov’ev infatti non condivide una certa visione acritica con cui da parte di taluni qui in Occidente si guarda al popolo russo, mitizzando una sua presunta opposizione totale, di tutti, al regime. Zinov’ev ritiene che i miti ingannano e afferma attualmente che “La mia non vuole essere una critica, ma una descrizione della società sovietica”. La società è tale per cui descriverla in modo veritiero è già svolgere una critica; e svolge questa descrizione con un ricorso frequente al paradosso e all’ironia, che sono due delle caratteristiche principali del suo modo di parlare. Siamo lieti della presenza di Zinov’ev qui a Rimini, anche perché dal punto di vista religioso egli ci porta una voce nuova nel panorama delle voci finora ascoltate. Egli infatti si è definito, appunto con uno di quei paradossi che gli sono cari, “un ateo credente”, cioè – sono sue parole – “un uomo che vuole, che desidera che Dio esista e che ormai vive con la convinzione che Dio esiste”. Un uomo profondamente religioso dunque, anche se non fa riferimento a nessuna religione positiva. La parola e grazie ad Alexandr Zinov’ev.
A. Zinov’ev:
Questo Meeting è la festa della gioventù. La gioventù in effetti ha bisogno di qualche cosa di entusiasmante, inebriante. La mia funzione purtroppo tende a disilludere. Di solito io scrivo e parlo della realtà inflessibile. Si è soliti pensare che la libertà sia un bene e che la mancanza di libertà, cioè la schiavitù, sia un male. Si pensa che l’uomo aspiri per sua natura alla libertà, che la libertà sia un imprescindibile diritto umano. Anche le persone che per la propria posizione sociale hanno interesse a limitare la libertà mascherano il loro desiderio recondito con l’apparente desiderio di difenderla. In nome della libertà si giustificano il terrorismo, la cattura di ostaggi, le rivolte giovanili, e molti altri fenomeni della vita occidentale. È difficile trovare un altro aspetto della vita sociale sul quale si sia tanto speculato, come la libertà. In questo mio intervento non pretendo di risolvere in modo chiaro e incontrovertibile il problema della libertà e della schiavitù. Vorrei soltanto dare un’idea, sia pure parziale, della sua reale complessità. Bisogna distinguere tra i discorsi sulla libertà e la non libertà e la loro realtà effettiva. Non è sempre detto che quanto appare buono a parole sia buono anche nei fatti. Spesso succede che il male sia una condizione assolutamente indispensabile della normale vita della società. Quanto ho detto si applica perfettamente anche al problema della libertà e non libertà. Bisogna poi tenere conto che diversi gruppi sociali hanno un diverso atteggiamento verso la libertà e la non libertà in forza della loro diversa posizione nella società stessa. La libertà e la mancanza di libertà assumono diverse forme e diversi significati in società differenti. In particolare questo problema ha un significato radicalmente diverso nei paesi comunisti e in Occidente. Affrontare questo problema dal punto di vista generale significa restare nella sfera delle vuote chiacchiere. D’ora in avanti mi riferirò a questo problema solo in relazione alla società comunista. È ormai un luogo comune parlare della mancanza di libertà e della schiavitù dell’individuo nella società comunista, ma così facendo si dimentica completamente il fatto che i cittadini comunisti sono liberi sotto altri punti di vista, e non si cerca mai di scoprire perché i cittadini comunisti non sono liberi nel senso occidentale del termine. Ci si limita a constatare l’assenza di determinate libertà. Sì asserisce che questa assenza è un male assoluto perché c’è un potere cattivo che fa violenza a un popolo buono. Infine si attribuisce ai cittadini la volontà di liberarsi di questo male. Ma certo, anche i mali più gravi sono relativi e hanno una causa precisa. Se un popolo di molti milioni di uomini permette che qualcuno gli faccia violenza per anni e anni, se non ha un gran desiderio di combattere per la cosiddetta libertà inalienabile dell’uomo, se ignora gli appelli di quanti bramano liberarlo, si finisce inevitabilmente per domandarsi da dove nasca questo fenomeno spaventoso. Significa che questo popolo è effettivamente schiavo? E se è schiavo, lo è solo a causa dell’inganno e della violenza? Vediamo alcuni esempi coerenti per chiarire le idee. E’ noto ad esempio che in URSS ogni cittadino attivo ha l’obbligo di lavorare, il lavoro quindi è coercitivo. All’atto pratico ciò significa che ogni cittadino attivo è vincolato ad un collettivo operativo dove svolge un certo lavoro. Chi sfugge a questo obbligo viene considerato un trasgressore della legge e quindi, in un modo o nell’altro, viene perseguitato. Chiunque entri in conflitto con la società sovietica e viene licenziato (fra cui i dissidenti che non sono un’eccezione) viene considerato un parassita. Naturalmente il potere si serve di questa possibilità per combattere i dissidenti, ma questa situazione non è stata inventata con questo scopo preciso, tanto è vero che si è creata ben prima che nascesse il dissenso. E non si presenta certo come manifestazione della natura malvagia del potere. In questo caso particolare infatti il potere si preoccupa semplicemente di fare osservare delle norme sociali dettate da un’oggettiva necessità. Non fa che eseguire il volere della società. Nella società comunista il lavoro coercitivo o il legame con il proprio posto di lavoro esprimono semplicemente il fatto fondamentale che la popolazione attiva ha un unico modo per procurarsi i mezzi di sostentamento e soddisfare le proprie esigenze fondamentali: quello di svolgere un certo lavoro in un collettivo operativo. L’uomo si inserisce nella società attraverso questo collettivo. Non sono semplicemente le autorità a vincolare la persona al collettivo, ma sono le stesse condizioni della vita sociale a farlo. Anzi, è la gente stessa che vi aspira. Esistono naturalmente numerose deroghe alla regola generale, tuttavia non sono queste a determinare la situazione del paese. Le persone che non sono vincolate a un collettivo di lavoro ufficialmente riconosciuto vengono condannate come parassite dalla massa della popolazione; nella maggioranza dei casi sono effettivamente tali. Prendiamo un altro esempio: le difficoltà di cambiare residenza. È il sistema di registrazione della residenza che tanto colpisce i borghesi occidentali. Questi fenomeni sono provocati soprattutto dal fatto che la casa non è proprietà privata. Anche qui ci sono delle eccezioni che però non hanno un gran ruolo nel paese in generale e dipendono comunque dal sistema sovietico. La casa è patrimonio della società nel suo insieme. Lasciando da parte per semplicità il processo storico che ne ha visto la distribuzione, diremo che principalmente sono le organizzazioni sociali e le varie imprese che hanno a disposizione il patrimonio abitativo. Questo poi viene diviso tra i cittadini. Siamo di fronte ad un aspetto complesso e drammatico della vita sociale, come del resto ogni divisione dei beni. Va detto che i cittadini non ricevono una certa porzione abitativa in proprietà privata, ma in uso e secondo certe regole precise. Ad esempio non si può vendere a chiunque la proprietà che si è ricavata. Esistono delle cooperative dove i cittadini possono comperare gli appartamenti, però è soltanto una parte di privilegio. Si può certo scambiare la propria casa, unificarne due in una, o dividerne una in due o passarla ai figli. Ripeto che tutto ciò si trova sotto il controllo della società e in questa situazione l’elemento che regola e controlla tutto è la registrazione della residenza. Questo sistema di distribuzione e di registrazioni è una potente arma in mano al potere e alla società per controllare la condotta dei cittadini e per manipolare tutti gli aspetti della vita. La gente è disposta a tutto ciò che le si può chiedere pur di ricevere come premio in anticipo un buon appartamento. Questo sistema è anche un mezzo potente per mantenere l’ordine sociale e per combattere contro farabutti e banditi. In URSS tutti sanno perfettamente che si tratta di una limitazione della libertà e di un mezzo per manipolare la gente, ma nessuno si ribella. Si cercano scappatoie all’interno del sistema, ma senza distruggerlo. Se qualcuno tenta dì annullare il sistema, la stragrande maggioranza della popolazione insorge contro questa liberazione. Tale sistema serve innanzitutto come un intelligente sistema di difesa della popolazione col solo risultato di limitarne la libertà. Tale limitazione è il prezzo che si paga per la difesa personale, per certe garanzie, per la tranquillità e così via. Il cittadino che abbia, se non altro, un’abitazione e una registrazione di residenza, possiede nella società comunista qualcosa di più di un posto per dormire, ha una radice sociale. Solo così egli può sistemarsi e lottare per ottenere migliori condizioni di vita. Questo dimostra perfettamente che l’asservimento dell’uomo nella società dipende in uguale misura dal suo libero consenso di rendersi schiavo e dalla violenza esercitata su di lui. E’ nota a tutti l’esistenza della censura sovietica e quante sciocchezze si scrivono a riguardo. A sentire loro la situazione sarebbe questa. Gli scrittori sovietici bravi cercano di scrivere la verità nella forma artistica più elevata, mentre il potere costringe quelli cattivi a mentire e scrivere libri di poco conto. Questo quadro non ha niente in comune con la realtà. Nell’URSS ci sono decine di migliaia di scrittori e ancor maggiore è il numero di coloro che in un modo o nell’altro sono coinvolti nelle industrie letterarie. Decine di migliaia non possono essere tutti dei geni e neppure avere del talento. In base alle leggi che regolano i fenomeni di massa possono essere solo mediocri, anzi, gli scrittori sono scelti fra gente di un certo tipo. Ricevono una determinata formazione ed educazione e agiscono secondo le comuni condizioni di vita, cioè secondo le leggi dei grandi agglomerati umani. Essi stessi formano la struttura sociale sovietica, con le gerarchie delle posizioni sociali e la distribuzione dei beni in base al rango, ecc. Proprio loro costituiscono la base e nello stesso tempo la massima autorità nel loro campo. Fanno parte dell’apparato ideologico del partito, decidono cosa e come scrivere, cosa far stampare, cosa censurare. Nel loro ambiente ci sono singoli scrittori di talento, e la cosa è naturalmente logica ma sono i loro colleghi per primi a far fuori questi scrittori. Gli organi del potere addetti entrano in gioco solo quando gli scrittori con le loro sole forze non riescono a soffocare o perlomeno a far ragionare chi è caparbio. Ma per le migliaia di scrittori sovietici mediocri e ignoranti la censura e tutto il sistema di revisione e redazione è un bene, è la stessa massa degli scrittori che s’incarica di questo compito. Ho sfiorato solo alcuni aspetti del funzionamento della società sovietica, ma nella realtà ce ne sono centinaia e si presentano molto più complessi. Sono infatti interdipendenti i problemi. Presi singolarmente sono facili da risolvere, di fatto in Occidente ci si meraviglia che in URSS non riescono a farlo, ma se invece prendiamo questi problemi nell’interrelazione si rivelano praticamente insolubili. Sia le varie libertà che la loro mancanza non sono assoluti nella società comunista, hanno infatti dei limiti piuttosto elastici. La gente può cambiare lavoro, c’è chi si fa furbo e vive senza lavorare, c’è chi cambia casa, chi esprime ì suoi pensieri nascosti, chi critica il potere e addirittura il regime, chi va all’estero, chi pubblica libri e così via, ma per far questo bisogna impiegare molti sforzi, addirittura la vita intera. La cosa comporta danni e rischi personali e questa è la vita normale della società. La libertà e le limitazioni di libertà non nascono da sole; nascono a prezzo di una lotta quotidiana in ogni angolo dei paese, in tutti gli strati sociali, in tutte le istituzioni. Tuttavia questa lotta non assume le forme di un combattimento astratto per conquistare fantomatici diritti di libertà dell’uomo che nella natura non esistono, ma assume la forma accessibile al singolo cittadino, e che dà dei risultati convenuti. Ci vorrebbe una scienza speciale per descrivere queste forme e poi si potrebbe farlo solo restando nel quadro generale della società, perché staccandole da questo quadro diverrebbero incomprensibili. Quando si innalzano gli slogans sulla libertà bisogna tener presente gli interessi di determinati gruppi di persone, della loro posizione nella società, altrimenti questi slogans non avranno alcun successo. Per fare questo occorre conoscere la struttura reale dì una popolazione. Nel problema della libertà e non libertà c’è un aspetto che di solito viene sottolineato e cioè perché milioni di uomini accettano la loro forma di schiavitù. E’ possibile costringere con l’inganno e la forza un piccolo numero di persone per un tempo limitato ad accettare come forma la schiavitù, ma quando si parla di milioni di uomini e della loro vita quotidiana per generazioni e generazioni, inganno e violenza non bastano a spiegare niente. In questo caso il problema del perché gli uomini sono schiavi si riduce in sostanza ad un altro problema: perché gli uomini preferiscono essere schiavi. Questa verità si manifesta appieno nella società comunista. Milioni di uomini preferiscono la schiavitù comunista perché questa è fondamentalmente e fin dal suo nascere una tentazione seducente. Da principio il comunismo porta con sé una semplificazione della vita e una liberazione da molte limitazioni che erano nel passato, soltanto in seguito è su questa base che si introduce un’esistenza dura e la schiavitù. Tuttavia il comunismo comporta un certo tipo di liberazione e un certo tipo di schiavitù; liberazione per certa gente e schiavitù per altri. Inoltre s’introduce in modo che la gente veda subito la liberazione che le sembrerà assoluta e solo poi percepisca la schiavitù, che finirà per sembrare naturale, logica, e inevitabile. Il comunismo, come l’esperienza ci ha insegnato, non porta con sé il benessere generale e non elimina tutte le piaghe della vita sociale, eppure in qualche misura soddisfa la grande tentazione storica degli uomini di vivere come un gruppo senza lavoro pesante, senza continue restrizioni, senza rischi e senza responsabilità individuali per le proprie azioni, in modo semplice con un minimo garantito di beni indispensabili. Il comunismo soddisfa questa tentazione in misura molto modesta; eppure anche così succede che la gente accetta una nuova forma di schiavitù. La schiavitù comunista nasce dal compromesso fra milioni di uomini della strada e la necessità storica. Rispetto alla società passata, la schiavitù comunista allarga enormemente la sfera dei cittadini aventi un potere ufficiale sul prossimo, offrendo praticamente ad ogni semplice individuo una briciola di potere reale sul vicino. Questa società aumenta in maniera smisurata e mai vista finora la sfera dei potere ripartendolo fra milioni di uomini e lo fa secondo le stesse leggi che presiedono alla distribuzione di qualsiasi altro bene in questo tipo di società cioè in base alla posizione sociale. Comunque lo ripartisce. Ci troviamo di fronte a un tipo di schiavitù per cui l’asservimento è compensato dal fatto che chiunque può vedere nel prossimo degli esseri a lui sottomessi. Invece della libertà viene offerta la possibilità di toglierla agli altri, cioè di collaborare alla schiavizzazione altrui. Non il desiderio di essere liberi, ma la tendenza a togliere agli altri questo desiderio è il fantoccio di libertà che si offre ai cittadini. Questo è molto più comodo che lottare contro la schiavitù. Essere schiavi è più semplice, più facile che assurdo. Sono gli stessi membri della società comunista a farsi violenza l’un l’altro, a rendere schiavi i loro confratelli e quindi a diventare a loro volta schiavi degli altri. Hanno a disposizione una enorme libertà di far violenza a se stessi e questa è una forma di schiavitù interiore e non esterna. La gente preferisce un genere di vita che pure ha come prezzo inevitabile la schiavitù. La storia non fa niente gratuitamente. In tal modo si può dire che nel caso della società sovietica il problema della libertà e non libertà non riguarda il regime politico né la lotta politica dell’uomo contro la crudeltà dei suddetto sistema; è piuttosto un problema che riguarda l’essenza stessa della struttura sociale dei paese, l’essenza stessa del comunismo come società reale. Un problema del genere non si risolve con un festival, conferenze, dimostrazioni, ecc., ma con il corso della storia umana e per questo merita anche che quando se ne parla, se ne parli seriamente. In URSS circolava una storiella. Nelle caverne di alcuni uomini preistorici c’è uno slogan: “Viva la società schiavista, radioso futuro dell’umanità intera”. Oggi l’umanità si trova di fronte a una nuova forma di schiavitù, quella comunista; da un certo punto di vista è anche il regno della libertà, ma di una libertà servile. Questa è la tragedia della storia che ci sta davanti. Quello che ho detto l’ho detto da scienziato. Ora formulerò in breve la mia posizione personale. Più si è in condizioni disperate, più bisogna combattere duramente. La libertà merita che per lei si combatta e si muoia.
R. Formigoni:
Indubbiamente il tema della libertà, la passione per la libertà va dì pari passo con una serietà nel lavoro di conoscenza della realtà. Alexandr Zinov’ev ci ha dato stasera un esempio grande di come mettere assieme questi due aspetti dell’attività umana e anche di questo gli siamo particolarmente grati. Il terzo intervento di questa sera sarà svolto da Rocco Buttiglione che è troppo conosciuto dalla maggioranza di voi che siete qui, perché si debba dire di lui qualche cosa di più offre al fatto che egli è docente di Filosofia della Politica presso l’Università di Urbino.
R. Buttiglione:
Certamente il nostro tempo è scosso da un grande desiderio di liberazione che fa sentire istintivamente come intollerabili tutte le situazioni nelle quali l’uomo è offeso, umiliato, considerato come un oggetto o una cosa, un semplice strumento per la produzione delle merci o per assicurare il regolare funzionamento della macchina sociale. Tutte le grandi dottrine filosofiche, economiche e sociali dell’epoca moderna si sono presentate come strade per la compiuta liberazione dell’uomo ed ancora oggi la capacità di liberare è il test, il banco di prova sul quale si misura l’efficacia e la pratica verità di una teoria, il suo diritto a reclamare per se il futuro dell’uomo. Questo desiderio di liberazione, che distingue il nostro tempo, è certo legato strettamente con la grande rivoluzione scientifica e tecnologica che, con una accelerazione crescente dal secolo XVI fino ai giorni nostri, ha cambiato i modi di vivere ed anche di percepire la realtà e di pensare, prima degli uomini dell’Europa e poi di quelli di tutto il mondo. Per molte migliaia di anni la vita dell’uomo si è svolta in un precario equilibrio con la natura esterna. L’uomo poteva sopravvivere sulla terra al prezzo di un lavoro stressante, di una fatica che lo esauriva fisicamente e psichicamente. La maggior parte dei bambini morivano prima di raggiungere l’età adulta, la vita era continuamente esposta al rischio di mali incurabili, spesso la carestia e la pestilenza spazzavano via dalla faccia della terra intere popolazioni. Con la rivoluzione scientifica e tecnologica il potere dell’uomo sulla natura e la sua capacità di controllare le sue condizioni di esistenza si accrescono in modo vertiginoso, in una misura che va perfino al di là dei desideri e delle speranze contenute nelle utopie delle generazioni precedenti. La grande esperienza dell’epoca moderna è quella della liberazione dalla pestilenza e dalla carestia, dalla morte per fame e dal lavoro sfiancante che esaurisce il corpo e la mente. E’ l’esperienza dei potere che deriva dal sapere organizzato ciò che stimola nell’uomo moderno il desiderio della liberazione. Esso è chiamato a rispondere alla domanda: “per quali fini, verso quali direzioni, bisogna applicare la nuova forza, la nuova capacità di dominio della natura che la scienza ha conferito all’uomo moderno?”. Questa domanda ci introduce ad una seconda dimensione dei desiderio di liberazione che è proprio dell’uomo di oggi. Se diciamo che la prima formulazione dei desiderio di liberazione è una formulazione economica, diremo che la seconda è la sua formulazione etica. Le ideologie del secolo XIX erano convinte che i progressi della scienza e della tecnica fossero sufficienti ad assicurare la felicità dell’uomo. Questa convinzione è stata però smentita dalla storia dei secolo XX. In questo nostro secolo l’Europa non ha conosciuto ne pestilenze ne carestie, ma ha conosciuto il ciclo più intenso e terribile di guerra che si ricordi nella storia dell’umanità e si trova oggi sulla soglia della distruzione globale. Inoltre il dominio delle pestilenze e della fame se si è ridotto o è scomparso nell’Europa occidentale, e nel Nord America, permane intatto o si è perfino aggravato nel resto dei mondo. Infine gli stessi uomini dell’Occidente, che dispongono in una misura senza precedenti nella storia dell’umanità dell’abbondanza dei beni materiali, sono assai lungi dall’essere felici. Esistono anzi’ una serie di inedite patologie che colpiscono i paesi più sviluppati: l’alienazione, l’incapacità di comunicare fra gli individui o le generazioni, il suicidio, il terrorismo, la droga… Ieri la minaccia veniva soprattutto dalla natura, oggi noi abbiamo timore degli altri uomini e di noi stessi. Ieri doveva essere risanato il rapporto dell’uomo con la natura, oggi ha bisogno di essere curato il rapporto dell’uomo con l’altro uomo e con se stesso. L’uomo ha padroneggiato la terra attraverso il suo lavoro. E’ la fatica dei suo corpo, dei suoi muscoli, dei suoi nervi, illuminata dall’intelligenza e dal sapere, ciò che gli ha permesso di svincolarsi dalla signoria della natura. Adesso è però il lavoro stesso che attende di essere liberato. Il lavoro è una esperienza complessa, in essa noi ci rivolgiamo al tempo stesso verso le cose, verso gli altri, verso noi stessi. Il falegname si rivolge verso il legno, che è la materia prima dei suo lavoro, e lo trasforma in un oggetto capace di soddisfare un bisogno umano. Egualmente il falegname si rivolge verso l’altro uomo che collabora con lui nel suo lavoro.Esiste una cooperazione nel lavoro che ha le sue regole precise e ciascun lavoratore ha bisogno di poter fare conto sul fatto che l’altro faccia bene il proprio dovere. Ed esiste anche una relazione che i lavoratori tutti insieme hanno verso colui che userà dei frutto dei loro lavoro. Questi deve poter aver fiducia nell’oggetto che gli viene venduto e deve pagare per esso il giusto prezzo.Infine nel lavoro l’uomo entra in relazione con se stesso. Il gesto lavorativo modifica la realtà esterna e al tempo stesso, modifica colui che lo compie facendo di lui un uomo migliore o peggiore. Ciò dipende dal modo in cui il lavoro viene compiuto, dal modo in cui il lavoratore impegna in esso la sua intelligenza e la sua libertà e dal modo in cui questa intelligenza e questa libertà sono riconosciute, rispettate e valorizzate dagli altri uomini che collaborano nel processo lavorativo. Vi sono lavori che non faremmo per nessun compenso al mondo e vi sono lavori che facciamo volentieri anche gratis, volontariamente, perché in essi per la verità dei modo in cui sono fatti e per la compagnia umana che li permea, sentiamo crescere la nostra umanità. Nel corso degli ultimi secoli l’uomo europeo si è concentrato esclusivamente sul primo risvolto dei lavoro. La fatica degli uomini è stata organizzata esclusivamente o almeno prevalentemente a partire dalla domanda: qual e l’organizzazione dei lavoro più efficace al fine di dominare la natura? E’ stata invece scartata e censurata la domanda: quale è il modo di organizzare il lavoro che più rende l’uomo veramente uomo? Il lavoro è stato così separato dalla cultura e l’uomo, che non ha potuto realizzarsi come uomo nel suo lavoro, ha imparato a guardarlo come una maledizione a cui sacrificare una parte il più possibile ridotta dei proprio tempo per poter vivere veramente fuori dal lavoro. Ma la vita fuori dei lavoro e una vita oziosa e l’uomo in essa non realizza il compito serio e creativo della vita. Il compito dei nostro tempo è dunque quello di liberare il lavoro, facendo che esso sia o torni ad essere un momento di incontro dell’uomo con se stesso e con l’altro uomo. Per questo compito poco possono aiutarci le ideologie dei secolo XIX, compreso il marxismo che è l’ultima e la più compiuta di esse.Le ideologie partono dalle cose e dal compito di padroneggiarle per arrivare poi all’uomo e io considerano come il risultato dei condizionamenti che le cose fanno valere su di lui. L’uomo del secolo XIX, l’uomo dei marxismo e dei positivismo, è un uomo con gli occhi aperti verso l’esterno, ma che non è capace di rivolgere lo sguardo verso l’interno di sé. Per usare una formula sintetica possiamo dire che si tratta di un uomo che non sa vivere l’esperienza dell’incontro. E’ infatti solo rispecchiandosi nel volto di un altro uomo che la persona veramente si rende conto di se stessa, apre gli occhi sulla propria interiorità che la costituisce appunto come persona. All’incontro con l’altro è legata anche l’esperienza della dignità: della mia e della sua. Quello che avviene fra noi, nell’incontro, dà alla vita una qualità, una concentrazione, una intensità, in breve una bellezza e una verità che impongono il rispetto. Colui che nella sua. vita non ha mai vissuto un incontro vero, in cui la interiorità dell’altro si apre fiduciosamente per accoglierti e tu ti rendi conto di avere un’interiorità nel momento stesso in cui accetti che l’altro viva dentro di te, non conosce l’esperienza della dignità dell’uomo e non può comprenderla. Per questo l’ideologia non rispetta l’uomo ed insegna che esso va risparmiato solo fino a quando ciò è compatibile con il funzionamento dei grandi sistemi economici e sociali che costituiscono per essa il fine della storia. All’uomo che cerca la sua liberazione ha invece assai più cose da dire il cristianesimo. Il cristianesimo non è, infatti, nella sua essenza, un sistema ideologico, che pretende dì imprigionare nella rete dei suoi concetti la natura e la storia. Certo, soprattutto nei corso degli ultimi secoli ed in modo tutto particolare nel corso del secolo XIX, il cristianesimo ha sentito il fascino dell’ideologia e si è sforzato di opporre all’ideologia marxista e a quella positivista una ideologia cattolica altrettanto monolitica, chiusa e bene organizzata. Tuttavia nel suo nocciolo più intimo il cristianesimo è semplicemente la memoria vivente dell’incontro ultimo e definitivo di Dio con gli uomini. Si tratta di quell’incontro che rivela compiutamente Dio all’uomo e l’uomo a se stesso. Ogni incontro vero ci apre gli occhi sulla nostra interiorità, ci fa penetrare dentro noi stessi. E tuttavia è connaturata ad ogni incontro anche l’esperienza del limite. Il nostro tradimento e quello dell’altro immiseriscono la verità intuita, che subito ci sfugge. La profondità del nostro cuore, che per un attimo ci si era aperta, subito si richiude ed alla certezza sul significato della esistenza e sulla verità dell’amore sperimentato subentrano lo scetticismo ed il dubbio. Un frammento dell’umano ci viene svelato e subito nuovamente cade nell’oblio. Il cristianesimo è la speranza, la fiducia ed anche l’esperienza misteriosa di un incontro che si sottrae a questo limite e che quindi ci consente di possedere il fondo di noi stessi. Un simile incontro, se esiste, riscatta anche tutti gli altri incontri e tutti gli altri amori che costituiscono l’esistenza dell’uomo, li sottrae alla dimenticanza e ricompone nell’unità i diversi frammenti della verità dell’uomo nei quali ci imbattiamo nel corso della nostra storia personale e di quella di tutta l’umanità. Questa è la scommessa cristiana, questo è il rischio della fede. Nessuno può essere obbligato ad accettare tale rischio: esso è infatti anche un dono che sta nelle mani della libertà di Dio. Tuttavia l’uomo che ha conosciuto nella sua vita l’amore e la speranza, cioè l’uomo che è veramente vissuto e vive, non può non sentire il fascino profondo e la profonda razionalità umana di quella proposta; mentre l’uomo che mai, nemmeno per un momento, è vissuto nel clima di un incontro e mai ha veramente amato, fatica persino a comprendere i termini della proposta e volge altrove lo sguardo. Una terza categoria di persone è poi rappresentata da quelli che hanno amato e sperato, ma che sono stati resi gelidi dalla delusione e dal tradimento. Costoro si rivolgono con rabbia contro ogni proposta di vita e la perseguitano con invidia di chi non vuole che altri riescano in quella ricerca della verità in cui essi sono falliti. Poiché la loro speranza è stata smentita dalla vita non deve più esservi nessuna speranza ed essi considerano come un’offesa per sé il fatto che altri, per l’aiuto dello Spirito, possano con seguire il traguardo da essi fallito. Così oggi spesso coloro che avevano creduto nella speranza dei socialismo diventano i nemici più accaniti della speranza cristiana. E tuttavia proprio costoro, fin quando rimane nel cuore una qualche memoria di una originaria posizione umana vera, sono anche quelli che più sono inquietati e provocati e che più possono essere toccati da una testimonianza. Anche Saulo di Tarso, il persecutore dei primi cristiani, perseguitava ciò che in fondo al cuore sentiva che avrebbe potuto e dovuto amare. La lotta per la liberazione dell’uomo è oggi inseparabile dalla ricerca della verità. L’uomo nel nostro tempo e condizionato da ogni lato da apparati economici, politici e culturali di straordinaria potenza. Inoltre si è inoculata in lui una sottile e quasi invincibile sfiducia nella verità, proprio nel momento in cui solo una certezza incrollabile può portarlo a sfidare le menzogne imposte dal potere. Per l’uomo, il quale ha incontrato la verità ed è stato ridestato da questo incontro al sentimento della propria dignità e del proprio dovere, nessun condizionamento è insuperabile ed anche il martirio è una strada verso l’ultima vittoria. Forse è per questo che nel suo discorso di Oswiecin – Brzezinske Giovanni Paolo II ha indicato nel Beato Massimiliano Maria Kolbe il patrono dei nostro difficile secolo. Elevandosi al di sopra dei condizionamento più totalitario, raffinato e brutale che mai sia esistito nella storia dell’uomo con la forza della sua coscienza morale, Kolbe ha mostrato che un uomo è un uomo e non una cosa ed in questo modo ha reso l’ultima e la più bella imitazione della testimonianza di Cristo. Solo il legame alla verità rende l’uomo veramente libero e per questo possiamo dire che servire Dio è regnare. Cosa diremo dell’uomo che può scegliere tra due menzogne? Diremo forse che è libero? E cosa diremo all’uomo che può scegliere fra due odi o fra due modalità egualmente grigie di condurre la vita? E’ solo l’apparizione dalla verità e dell’amore ciò che provoca la libertà e le offre il suo oggetto adeguato al quale vale la pena dì aderire. La minaccia più grande per la libertà non risiede oggi nel fatto che l’uomo può essere costretto con la forza a rinnegare ciò che sa essere vero. La minaccia è quella di un mondo nel quale l’occhio interiore dell’uomo si chiuda ed in cui non gli sia possibile fare incontri umani veri che lo destino al sentimento della propria dignità. In un simile mondo alla rovescia si realizzerebbe il sogno dei tiranni e gli uomini vivrebbero contenti della propria schiavitù. Questo sogno, tuttavia, o meglio questo incubo, non può mai realizzarsi completamente. Lo Spirito di Dio soffia infatti dove vuole e suscita figli di Abramo, cioè uomini liberi, anche dalle pietre. E’ così radicata, del resto, nello spirito dell’uomo, la destinazione alla libertà Che, anche per distruggerla, bisogna far leva su di essa. Così nella nostra epoca si cerca di volgere la libertà dell’uomo contro la verità, inducendolo in tal modo a distruggere se stesso. La libertà, ridotta ad arbitrio, si fa complice dell’oppressione. Ognuno per fare il comodo proprio è disposto a sacrificare la libertà dell’altro e quella comune ed è in questo modo che si suicidano le democrazie. Basta tuttavia che Dio susciti un profeta, che una voce abbia il coraggio di ridire onestamente la verità a tutti conosciuta e pure universalmente vilipesa e disprezzata, perché il potere tremi. Esso infatti sa di riposare, al fondo, sull’inganno che vincola la libertà dell’uomo alla menzogna piuttosto che alla verità. Ci illumina, in questa riflessione, l’esempio della storia recente della Polonia. Il cardinale Wyszinsky, nel momento più duro dello scontro con il regime negli anni della prigionia, concepì il disegno di consacrare la Polonia in servitù volontaria a Maria, Madre di Dio. Quando fu liberato, egli, insieme con l’episcopato polacco, realizzò questo disegno. Maria è l’esempio della compiuta realizzazione della propria libertà in una totale obbedienza alla verità. Una generazione educata ad obbedire a Dio ed a non avere paura degli uomini è quello che ha iniziato in Polonia il rinnovamento dell’Europa. Per continuarlo, e per portarlo a termine, abbiamo bisogno di essere anche noi uomini che non hanno paura di dipendere dalla verità che hanno incontrato, che consacrano ad essa interamente la propria vita e che sanno costruire nell’obbedienza a Dio la propria libertà.