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Il Giubileo come grande rivoluzione: L’esperienza ebraica
Ciclo di incontri economico-politico-sociale promosso dalla Compagnia delle Opere, in collaborazione con Unioncamere.
Hanno partecipato: Giuseppe Laras, Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Milano e Presidente dell’Assemblea Rabbinica d’Italia; Claudio Morpurgo, Responsabile U.G.E.I. (Unione Giovani Ebrei d’Italia)
Laras: Il Giubileo di cui si parla sui giornali e nell’opinione pubblica è qualcosa legato a momenti che hanno poco a che fare con i contenuti di spiritualità dell’istituto giubilare. Credo invece che sia importante conoscere l’istituto del Giubileo presentato nel testo della Torah, e prima ancora parlare di un istituto che precede e giustifica il Giubileo, l’istituto dell’anno sabbatico.
L’anno sabbatico o della remissione cade ogni settimo anno: ogni settimo anno la terra deve riposare, è una sorta di sabato per la terra come c’è il sabato per l’uomo. Anche la terra deve cessare di essere adoperata, lavorata, sfruttata, e quello che il terreno produce spontaneamente deve andare a beneficio delle categorie più esposte, dei deboli, come i forestieri, i poveri, le vedove e gli orfani. Nell’anno sabbatico oltre che il divieto di lavorare la terra c’è il dovere della remissione dei debiti in favore dei debitori. I prestiti erogati nel corso del settennio, con il sopraggiungere dell’anno sabbatico non sono più esigibili e si intendono estinti a vantaggio dei debitori.
Nel contenuto dell’anno sabbatico c’è dunque molto di rivoluzionario, di utopico ed anche di paradossale, se partiamo da un’ottica edonistica come la nostra, l’ottica del guadagno e degli utili. Il paradosso non equivale a qualcosa di impossibile: il paradosso è qualche cosa che al momento non è attuale, ma può diventarlo. Il Giubileo è collegato con l’anno sabbatico perché cade dopo sette anni sabbatici; dopo sette settine di anni, il cinquantesimo anno è l’anno giubilare.
Giubileo in ebraico vuole dire corno: infatti all’inizio dell’anno giubilare, nel corso del digiuno dell’espiazione, l’anno in corso veniva solennemente proclamato e consacrato come anno giubilare con il suono dello jôbel. Il digiuno dell’espiazione è il momento fondamentale della spiritualità ebraica, perché è il giorno in cui l’ebreo, dopo aver fatto penitenza – fatto rivoluzione e modificato se stesso – si presenta al cospetto di Dio per ottenere da Lui il perdono. Nel corso di questa giornata così impegnativa e così solenne viene consacrato e proclamato l’anno giubilare.
Veniamo ora agli eventi tipici del Giubileo. Nel Giubileo vige anzitutto il divieto di lavorare la terra. Il secondo evento esclusivo, specifico del Giubileo è la liberazione degli schiavi: a coloro che nel Giubileo si trovano privati della libertà – per ragioni esterne o interne –, tale libertà viene restituita. Come ultimo evento del Giubileo c’è la restituzione agli originali proprietari di terreni e case passate in proprietà altrui.
Da questa sintesi dei contenuti essenziali dell’anno sabbatico e del Giubileo, emerge chiaramente che siamo di fronte ad una normativa religiosa rivoluzionaria. Questi due istituti mirano soprattutto non a sradicare, perché è impossibile, ma a fortemente indebolire il bisogno di possedere la proprietà; se chi possiede un campo lo deve lasciare inoperoso una volta ogni sette anni; se la terra acquisita nel cinquantesimo anno deve essere lasciata al suo proprietario originale; se gli schiavi caduti nel proprio arbitrio devono essere liberati; se si deve rinunciare alle somme erogate a prestito ad un’altra persona, evidentemente, nonostante questa carica utopica e paradossale, vi è uno stimolo e un invito a riflettere sulla giustificazione della spinta al possesso che abbiamo dentro di noi.
Quello che esiste non ci appartiene: questo è il senso del Giubileo, e ci sembra ragionevole anche se difficile da assimilare. Nulla ci appartiene perché tutto appartiene a Dio: noi siamo dei depositari, degli utenti, degli affittuari. Questo è dunque il primo messaggio che arriva da questa normativa complessa e misteriosa dell’anno sabbatico e del Giubileo. Questo messaggio purtroppo non ha alcuna relazione con il Giubileo del 2000: è una occasione per ripensare in termini più corretti al Giubileo e per modulare di più il Giubileo attuale su queste radici.
La seconda ragione – dopo l’educazione a non ritenerci possessori assoluti e definitivi di quello che noi abbiamo e godiamo – che sta alla base delle prescrizioni religiose legate al Giubileo e all’anno sabbatico è quella di non alterare l’assetto territoriale della terra di Israele. Prima dell’ingresso nella terra di Israele, la terra di Israele stessa fu suddivisa per le tribù: ad ogni tribù e ad ogni famiglia che costitutiva le tribù veniva assegnato un pezzo di territorio. Quindi questo dovere che il terreno e la casa debba, durante l’anno giubilare, ritornare al proprietario originario, sta a significare che c’è anche l’esigenza di non alterare l’assetto e la distribuzione territoriale della terra di Israele, avvenuta originariamente attraverso le tribù e le famiglie.
Come già accennavo, un elemento da considerare con molta attenzione è quello dell’evidente e forte carica utopica che attraversa e pervade questi istituti. Pensiamo alla remissione dei debiti e cerchiamo di immaginare la sua più completa e rigorosa applicazione: subito emerge l’estrema difficoltà, in termini di probabilità, di una sua traduzione pratica e puntuale. Questo perché nessuno, umanamente ragionando, presta del denaro sapendo che poi non gli verrà restituito. Però utopia non equivale a cosa impossibile: la cosa impossibile sarebbe affermare che un triangolo può diventare un cerchio – i filosofi medioevali dicevano che queste cose neanche Dio può farle –, l’ utopia invece è una cosa difficile. Le utopie ci sono sempre state ed auguriamoci che ci siano sempre: esse infatti aiutano la costruzione di una società oggi improbabile o addirittura impossibile, ma domani possibile o addirittura probabile. Qui c’è un riflesso dell’ottimismo di tipo messianico dell’Ebraismo, che si ostina a vedere il domani migliore dell’oggi; messianismo significa proprio affermare e sentire che domani sarà migliore di oggi, nonostante molti segni dell’oggi sembrino indicare chiaramente il contrario. È la paradossalità del messianesimo. Ecco quindi come l’utopia, il paradosso, l’improbabilità del Giubileo e delle sue normative connesse si ricollegano a quella visione messianica capace di far convivere la drammaticità del presente con l’utopia e il paradosso.
L’anno sabbatico ed il Giubileo permangono laddove si verifichino le condizioni previste dalla Torah nella loro integrale validità, come meta ideale da perseguire pur in mezzo alle difficoltà spesso disperate del contingente, nella speranza di un domani diverso, capace magari di ospitare una umanità in grado anche di prestare senza porsi il problema della restituzione, o di restituire la libertà, esteriore ed interiore, a chiunque ne sia stato privato sentendosi con ciò non impoverita o spaventata ma al contrario arricchita e realizzata. C’è un modo di essere nel mondo a servizio per amore: il servizio per amore è contrapposto al servizio per timore, al fare quello che si fa nella speranza di ricevere un premio o nel timore di avere una punizione. Il servizio per timore è il servizio che è realizzato dal 99,99% delle persone.
Servire per amore, senza porsi l’obiettivo dell’utilità, è un pensiero utopico, paradossale, però molto alto, e interessa il contenuto del Giubileo e dell’anno sabbatico perché come nell’anno sabbatico e nel Giubileo questo fiume sotterraneo, questo obiettivo utopico, ci stimola a ispirare a questo le nostre azioni, le scelte nel vivere e nell’operare, a misurarci su livelli alti. Anche se questi livelli ci sembrano, e sono di fatto, irrealizzabili oggi, se noi ci misuriamo su livelli alti rimarremo comunque alti. Se noi ci misuriamo su livelli bassi – dicendo “questo è impossibile” –, rimarremo bassi ed andremo sempre più in basso.
Il Giubileo e l’anno sabbatico, per quello che hanno significato, per quello che volevano significare e per quello che vogliono e possono ancora oggi significare, sono degli istituti che vanno al di là del tempo, al di là della contingenza e che possono raggiungerci nel modo di impostare la nostra vita.
Morpurgo: Nella Bibbia troviamo scritto: “Siate santi perché santo sono io, il Signore vostro Dio” (Lv 11,44). Questo versetto è fondamentale perché indica la necessità della santificazione del quotidiano, di ogni momento della vita. Non parlerò quindi del Giubileo biblico, che come ha evidenziato Laras, rappresenta una rivoluzione sociale, rifletterò invece su quello che è l’aspetto più caratteristico e per certi aspetti realmente rivoluzionario dell’identità ebraica, un aspetto che forse può permettere di cogliere la problematica stessa del Giubileo. Questo aspetto è la concezione dell’uomo, in particolare la relazione che lega l’uomo a Dio o più precisamente la relazione che lega la quotidianità dell’uomo a Dio. È una relazione che passa principalmente attraverso il rapporto che lega l’ebreo alla legge, alla sacra scrittura: un rapporto infatti che vede l’ebreo sempre attivo, autonomo e creativo nei confronti della legge stessa. Il mio obiettivo è quello di farvi conoscere un modo di leggere le scritture, di rapportarsi alla legge e conseguentemente di vivere la propria vita che è assolutamente ed inequivocabilmente ebraico. Per questo, l’Ebraismo non è soltanto una religione, ma una visione del mondo, un modo di essere, una modalità di comportamento, e questo perché le prescrizioni illuminano e rallegrano, permettono di vedere meglio. Ogni cosa per l’ebreo dipende dal “qui ed ora” della vita quotidiana, e la categoria operativa non è la salvezza attraverso ciò che Israele fa, ma la santificazione di ciò che Israele è nel modo di fare.
Soffermiamoci brevemente su alcuni versi del Deuteronomio: “E ora Israele cosa è che ti chiede il Signore se non di temere l’eterno tuo Dio, di camminare nelle sue strade, di servirlo con tutto il tuo cuore e la tua anima, osservando i precetti e le leggi di Dio?”. Cosa sono questi precetti? I maestri in proposito ci dicono che la cosa più importante non è la speculazione, ma l’azione. I precetti come azione. Osservare la Torah e metterne in pratica i precetti costituisce un dovere così intimamente connaturato all’anima di Israele, da diventare praticamente tutta la sua vita; un dovere, ma in un contesto così formulato anche un piacere. Il riferimento al precetto è casuale: l’Ebraismo è infatti una dottrina dell’azione e questa azione è diretta a questo mondo e nel contempo è anticamera del mondo futuro. All’uomo è stato dato un compito, il compito di completare e perfezionare il mondo, lasciato volutamente incompiuto, per mezzo dell’osservanza dei precetti che riguardano le leggi di giustizia, di amore e di santità. Come assolvere questo compito se non agendo? Proprio agendo infatti l’uomo diviene il collaboratore di Dio, per costruire la città terrena secondo un modello ideale che Dio ha stabilito per ogni uomo.
I maestri commentando il versetto del Deuteronomio: “Tu osserverai la legge, i decreti, gli statuti che io ti ordino di mettere in atto” (Dt 8,1), ammettono che questo si riferisce all’agire, ma non all’ottenimento della ricompensa. Il che equivale a dire che ciò che conta maggiormente è il modo con cui l’agire e il fare vengono espressi. In questa maniera l’uomo viene trattato come un soggetto responsabile, in grado di capire il senso delle proprie azioni e quindi di autodeterminarsi.
È stato scritto che la Torah fu data agli uomini e non agli angeli, perché la Torah non potrebbe essere di nessuna utilità per quei puri spiriti: è questa la prova che non è possibile confinare l’Ebraismo in un ambito puramente religioso, l’Ebraismo va infinitamente più in là di quei limiti che generalmente definiscono una religione, perché il suo intento è quello di abbracciare tutti i momenti e i settori dell’attività umana, di regolare i doveri dell’uomo nei confronti di Dio, i rapporti interpersonali, ma anche il comportamento verso gli animali e la natura. Pertanto è lecito affermare che per l’Ebraismo non esistono atti non religiosi, perché in ogni momento della sua vita l’ebreo osservante dovrebbe chiedersi: “come devo comportarmi per conformare la mia azione alla volontà divina?”. Portando avanti il compito di perfezionare il mondo e in tal modo santificarlo, l’uomo santifica e perfeziona se stesso, realizzando il fine per il quale è stato creato. Non c’è discrasia fra fede e opere: fede e opere sono unite dallo stesso legame che unisce l’anima e il corpo, sono inseparabili, indissolubilmente collegati, si completano con una necessità assoluta. Le opere sono una fede che si fa azione, o viceversa. Dio propone agli uomini un modello di azione, un modello che si esprime nella creatività, e gli uomini cercano di applicare questo modello nella storia perfezionando i suoi imperativi.
Prendiamo come esempio la norma che vieta agli ebrei di mangiare certi cibi: la spiegazione razionale al fatto di non mangiare certi alimenti non c’è, di fatto accettare queste leggi è un puro atto di fede. È una risposta di tipo fideistico: è giusto accettarla senza discuterla? Questo è il punto centrale dell’idea di legge: dobbiamo credere ma nello stesso tempo dobbiamo cercare una spiegazione che ci convinca, che ci induca al rispetto della parola di Dio. Non dobbiamo subire la legge, ma una volta compresa dobbiamo cercare di viverla, di attualizzarla. Non a caso la parola ebraica che indica il testo normativo ebraico non significa “legge” ma “cammino”, un concetto correlato al movimento e non alla fissità. La Torah ci indica il quadro generale a cui dobbiamo riferirci, ma non ci offre una interpretazione divina, unica, stabile; ogni generazione, sulla scia di quello che hanno fatto i maestri, valorizzerà una sua interpretazione, che sia la più probabile, la più plausibile. Una legge che non considera una prospettiva evolutiva non è vera legge; se così fosse diventerebbe anacronistica e non sarebbe più rispettata e non raggiungerebbe il suo scopo. Se l’ebreo si interroga di continuo sulle norme alimentari e si impegna in modo così rigoroso per rispettarle, è perché l’atto di mangiare è per l’ebreo un atto estremamente importante. Dice il Deuteronomio: “L’uomo non vive di solo pane, ma vive anche della parola di Dio e di tutto ciò che viene dalla parola di Dio” (Dt 8,3). Questo significa che all’uomo non basta vivere, non basta mangiare per vivere da uomo: se il cibo non viene consumato entro una rete di significati che l’uomo può cogliere, non è cibo da uomini, secondo la visione ebraica. Così, il mangiare può essere visto come un momento fondamentale di crescita, non solo come un atto meccanico, come fonte di responsabilizzazione verso se stessi, ma anche come momento di apertura verso gli altri. Se l’atto di mangiare è così importante, se aiuta l’uomo a vivere, non può essere un atto privo di regole, e nel limitarsi a certi alimenti vi sono stimoli altamente formativi: l’atto di mangiare è stimolo alla riflessione. Pensiamo alla Pasqua: in questa occasione noi ebrei non mangiamo cibi lievitati ma pane azzimo, perché il cibo lievitato simboleggia tutto ciò che accelera il ritmo di crescita danneggiando la coesione interna. Avendo questo presente, si può capire perché l’ebreo quando si apprestava ad uscire dall’Egitto, lasciando lo stato di schiavitù e preparandosi a divenire parte di un popolo libero, dovette responsabilizzarsi nei confronti degli altri uomini. Nel momento in cui si diventa un popolo libero nasce la nozione di responsabilità, l’ebreo si appresta a diventare individuo responsabile all’interno di un popolo e gli è richiesto di prendere coscienza del fatto che la relazione con gli altri uomini suppone o presuppone un certo numero di obblighi. Per entrare in relazione con gli altri prima di tutto bisogna essere se stessi, e dunque, rimanendo nel nostro esempio, non mangiare tutto ciò che gonfia artificialmente ritmi di crescita e che quindi, simbolicamente, può compromettere l’elaborazione di una identità nella quale la coesione interna è un dato fondamentale.
La Pasqua ebraica, dunque, con il suo rituale, sembra simboleggiare l’importanza di rinunciare ai beni materiali, in funzione di quelli spirituali. Il valore temporale può essere compreso solo attraverso una libertà; ma la fonte di questo modo di vivere la propria quotidianità è la parola di Dio, la volontà di Dio come si è rivelata e come si rivela ogni giorno nelle sacre scritture.
Le fonti della nostra vita sono la Torah, la Bibbia, la tradizione scritta e tradizione orale, ovvero la Mishna e il Talmud, che simboleggiano l’attività esegetica dei nostri maestri, attività dotata di autorità piena e vincolante. Per l’Ebraismo è possibile configurare un sistema di leggi duplice: l’insegnamento identificabile con la Bibbia e quello appartenente alla Mishna e al Talmud. Questo perché l’Ebraismo confida nelle potenzialità dell’uomo, nella sua capacità di maturare la parola di Dio in termini anche di una propria autonomia e di una propria responsabilizzazione. Lo scritto, la parola scritta, non deve essere avvicinata come se il suo significato fosse univoco, altrimenti diventerebbe troppo rigida. In un testo sacro si corre il rischio della feticizzazione e dell’idolatria: da qui, l’imperativo di studiarlo e di porsi di continuo delle domande su di esso.
Per fare propria una norma, un precetto, bisogna coglierne il senso, o meglio tendere a coglierne il senso, bisogna comprendere prima di uniformarsi ad un principio direttivo. Bisogna pensare, sentirsi dentro prima di fare. Il rapporto ebraico con la legge è anche un rapporto e un esercizio di tipo intellettuale: è un momento di crescita, di espressione delle proprie risorse di pensiero e di fantasia.
Per confrontarsi con la realtà bisogna conoscere anche l’irrealtà; per accettare il limite bisogna avere anche la consapevolezza di ciò che comporta l’assenza del limite. La Torah è l’insegnamento d’amore che Dio propone all’uomo, fondato sull’equità, sulla giustizia, e che ha come obiettivo ultimo il tentativo di santificazione della propria vita. Se la vita è una vita santa, legata all’osservanza e all’interpretazione di precetti in base alla volontà di Dio, è ovvio che la rivelazione di Dio non cessa mai e la volontà di Dio è sempre presente. Dio parla oggi attraverso la Torah come sempre ha parlato nel passato e come sempre parlerà nel futuro. Perché l’approccio ad essa sia corretto, l’imperativo è di tendere ad un incontro permanente con il Dio vivente, quindi ad una vita in accordo con la parola di Dio.
Gli antichi maestri, riflettendo sul primo versetto della Genesi, “In principio il Signore creò”, ponevano in luce come la Torah sia una sorta di giardino percorso da quattro sentieri, che simboleggiano i diversi modi di vivere la parola del Signore. Il primo sentiero è percorso da chi studia letteralmente: chi lo ha attraversato è morto fulminato. Il secondo sentiero è percorso da chi vuole trovare nessi fra le parole uguali, situate in punti diversi del testo e che poi le collega per sottolineare l’unità dell’insieme: chi lo ha percorso ha preteso troppo da sé, è rimasto accecato. Il terzo sentiero è percorso da chi cerca una spiegazione allegorica. Chi lo ha percorso è impazzito, si è allontanato dalla propria identità ebraica. Rimane il quarto sentiero, è il percorso del segreto, il segreto della mistica, e chi lo ha percorso ne è uscito con una conoscenza superiore perché non ha preteso troppo, è rimasto dentro il giardino, lo ha rispettato, rispettando la realtà dell’uomo, della Bibbia, della storia.
Se quattro sono i sentieri ed i modi di percorrere il giardino, il giardino della Torah è però uno solo, come Dio è uno solo e unico è il suo insegnamento, anche se diversi sono i modi con cui noi possiamo vivere questo insegnamento. Libertà, nel rigore della legge: la legge va rispettata, va applicata, perché il libero arbitrio dato da Dio all’uomo si realizzi veramente.
Una libertà che è una disciplina, perché come l’Ebraismo è un modo libero di ragionare e di essere, con il solo dogma dell’unicità di Dio, la libertà dei suoi scritti ha una sola limitazione: il divieto di rinunciare a tentare ogni libera strada per cercare di tornare a leggere la Torah incisa nella pietra da Mosè, come Mosè riuscì a leggere le tavole in tutta la loro eterna e trasparente verità.