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IL FUTURO DELLE PMI ITALIANE: RETI, FINANZA E TERRITORIO
Il futuro delle PMI italiane: reti, finanza e territorio
22/08/2011 - ore 15.00 In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Miro Fiordi, Amministratore Delegato del Credito Valtellinese; Giorgio Giacomello, Delegato per i rapporti esterni e istituzionali dei Vivai Cooperativi Rauscedo; Giuseppe Tripoli, Capo del Dipartimento per l'Impresa e l'Internazionalizzazione e Responsabile per l'Italia per le piccole e medie imprese del Ministero dello Sviluppo Economico; Alberto Zerbinato, Presidente di Energy4life. Introduce Massimo Ferlini, Vicepresidente della Compagnia delle Opere.
In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Miro Fiordi, Amministratore Delegato del Credito Valtellinese; Giorgio Giacomello, Delegato per i rapporti esterni e istituzionali dei Vivai Cooperativi Rauscedo; Giuseppe Tripoli, Capo del Dipartimento per l’Impresa e l’Internazionalizzazione e Responsabile per l’Italia per le piccole e medie imprese del Ministero dello Sviluppo Economico; Alberto Zerbinato, Presidente di Energy4life. Introduce Massimo Ferlini, Vicepresidente della Compagnia delle Opere.
MASSIMO FERLINI:
Ringrazio intanto tutti i partecipanti e gli invitati che hanno accettato di partecipare a questo dibattito: Miro Fiordi, Amministratore Delegato del Credito Valtellinese, Giorgio Giacomello, Delegato ai rapporti esterni e istituzionali dei Vivai Cooperativi Rauscedo, Giuseppe Tripoli, Capo del Dipartimento per l’impresa e l’internazionalizzazione e Responsabile, mister PMI per il Ministero dello Sviluppo Economico, il dottor Alberto Zerbinato, Presidente di Energy4life. Do vita a questo dibattito sul futuro delle PMI italiane, reti e finanze e territorio, e credo sia uno dei temi principali per chi, come la Compagnia delle Opere e anche Unioncamere che ha contribuito alla realizzazione di questo cicli di dibattiti, ha in mente progetti sulla ripresa della economia italiana. Lo dico perché sicuramente dentro al tema del come avere certezze per il futuro, che sta al centro di questo nostro Meeting, la difficoltà che le piccole e medie imprese oggi vivono nel cercare di prevedere che cosa succederà, di come programmare, di come prevedere le proprie scelte imprenditoriali e aziendali nei prossimi mesi, è una delle più grandi difficoltà che mette in discussione grandi certezze. Noi partiamo da una, che sia possibile fare impresa, che sia indispensabile scommettere nel prendere le decisioni che devono essere prese per raddrizzare la barca economica, l’indirizzo economico del nostro Paese, che si debba e si possa scommettere sulla capacità di fare impresa che ha caratterizzato per un lungo periodo il nostro Paese. E’ questa una delle basi su cui, così come ieri è stato ricordato, nei momenti di difficoltà, si può costruire, infatti partendo dal basso e non mediante decisioni dall’alto, questo Paese è riuscito ad affrontare e a ribaltare momenti di crisi in periodi di grande sviluppo. Il richiamo che ancora ieri, come in altre occasioni, ha fatto Giorgio Vittadini, ricordando l’esempio del periodo della ricostruzione post-bellica, quando si partiva da un 25% di capacità produttiva e nel giro di pochi, neanche due decenni, si è riusciti ad essere una delle 7 potenze economiche mondiali. Questo la dice lunga su quella che è la forza, la possibilità, la tradizione, le caratteristiche educative e culturali che dentro al nostro Paese vi sono e su cui è possibile fare leva o è possibile scommettere con una propria certezza, perché questo è lo sforzo che ciascuno di noi è in grado di fare. Come farlo però? Come è possibile sostenere questo sforzo? Così come ogni sforzo, con tutte le possibilità e potenzialità che vi sono, richiede da parte di chi vuole scommetterci sopra, non solo di riconoscerlo ma anche di individuare in quali forme è possibile farlo. Nel richiamare nel titolo il concetto di reti, di finanze, di territorio, diciamo già alcune delle questioni su cui, come Compagnia delle Opere, abbiamo insistito in questo periodo. Aggregarsi, fare rete, l’appello che abbiamo sempre fatto alle imprese nostre associate, mettersi assieme per affrontare le sfide, fare rete è una delle forme più moderne che richiede sostegni ad hoc, ha richiesto una legislazione appropriata nel nostro Paese, che richiederà una manutenzione di questa legislazione in questo periodo, il sostegno della finanza necessario per fare impresa e di una finanza di territorio, perché partiamo da un dato, che è quello che è: il 99,5% delle imprese italiane sono piccole imprese. Stanno dentro a questi numeri la realtà del nostro Paese, non ad altri. Il 50% dell’occupazione del nostro Paese sta nelle piccole/medie imprese, questo è il dato da cui partire. Quindi un rapporto con il territorio molto più forte e molto più caratterizzante anche nel fare impresa, nelle relazioni d’impresa, nel rapporto con una finanza che sul territorio ha avuto grandi caratteristiche e vuole mantenerle, nella relazione con alcune tipologie di banche che hanno fatto grande anche il sostegno alla nascita di questo sistema imprenditoriale diffuso che c’è nel nostro Paese. Questa è una delle caratteristiche delle fasi di sviluppo che ci sono state. Allora, abbiamo qui quattro esponenti, Giuseppe Tripoli che, quando è chiamato mister PMI, spesso se la prende ma che in qualche modo ha l’onere di riassumere dentro a questo suo ruolo le capacità di vedere che cosa servirà all’impresa; un rappresentante del sistema bancario come Miro Fiordi, che dirige uno degli istituti storici del sistema delle Popolari italiane e, per le cariche che rappresenta anche a livello internazionale, non solo italiane. Miro Fiordi è dentro al sistema bancario, uno di quei sistemi – quello delle Popolari – che ha una caratteristica, è nato dentro a un sistema cooperativo ed ha rappresentato una delle migliori tradizioni di banca del territorio, legata proprio alla crescita, allo sviluppo del sistema di piccole, medie imprese nel corso di questi decenni. Due rappresentanti aziendali: Giorgio Giacomello che, seguendo i Vivai Cooperativi Rauscedo e avendo incarichi all’interno delle Confcooperative nel settore agricolo, rappresenta uno degli importanti settori tradizionali del nostro Paese. Ci racconterà le sfide con cui hanno sostenuto le proprie imprese nel corso di questa fase e infine, Alberto Zerbinato, Presidente di Energy4life, che è qui in quanto costitutore di una delle esperienze di rete di impresa che è nata nel nostro Paese e di cui ci parlerà. Io darei la parola per il primo intervento al dottor Miro Fiordi, Amministratore Delegato del Credito Valtellinese, per un primo giro di discussione, di introduzione al dibattito, poi vediamo di contenere i tempi, in modo da dare a tutti i relatori la possibilità di fare un secondo giro. Prego.
MIRO FIORDI:
Grazie a Massimo Ferlini, grazie al Meeting per l’invito. Il tema è evidentemente molto importante rispetto, diciamo, ai tempi che stiamo attraversando, che sono sicuramente incerti e difficili, però permettetemi di iniziare questo primo intervento, ricordando che io quest’anno al Meeting festeggio un compleanno piuttosto importante, è il 30° Meeting a cui partecipo. Per la verità prima non ero Amministratore Delegato, ma ci venivo da semplice impiegato, quando ho incominciato a lavorare. Dal 1982, il primo Meeting, quello in cui Giovanni Paolo II venne a Rimini, non ho mai mancato di partecipare a questo che considero il momento più interessante e più importante della vita culturale, sociale e politica del nostro Paese, soprattutto per la grande opportunità di confronto e di dibattito che in questa settimana si sviluppa. Ho cercato di sintetizzare in poche slide, quindi non voglio annoiarvi e non voglio neanche dare, diciamo, un’impressione di eccessiva didattica, però credo importante avere l’opportunità, se l’opportunità ci sarà, di mostrarvi queste slide. Ecco, dicevo, io ho cercato di sintetizzare, cercherò di stare in 10/12 minuti, un po’ un quadro delle tematiche che riguardano le PMI oggi in Italia, poi naturalmente cercherò di offrirvi un’opportunità di riflessione rispetto al rapporto che le PMI italiane hanno col sistema bancario, poi in particolare col sistema delle Popolari. Ora, quando si parla di PMI, bisogna cominciare a decidere da che parte del mondo stare, se stare dalla parte del mondo che ha uno sguardo positivo sulla realtà, oppure dalla parte del mondo che vede il bicchiere, come dire, mezzo vuoto. Allora dalla parte del mondo che guarda positivamente la realtà, dobbiamo avere presente qualche numero: noi abbiamo come sistema Italia, siamo il 5° sistema manifatturiero mondiale, 2° se lo calcoliamo su base pro-capite; abbiamo un tessuto imprenditoriale fortemente orientato alle spore, questo rimane vivo e reale nonostante la crisi degli ultimi quattro anni e teniamo ben presente che abbiamo, una recente ricerca lo ha certificato, oltre mille nicchie di eccellenza. Cioè: mille aree manifatturiere produttive in cui aziende italiane sono o al primo o al secondo o al terzo posto nel mondo. E questo, direi, è un elemento che dobbiamo tenere ben presente, perché altrimenti rischiamo di cadere in questa sorta di ricatto del negativo assoluto. Dall’altra parte sentiamo e leggiamo spesso da parte degli addetti ai lavori che le PMI italiane hanno molti problemi: hanno dimensioni ridotte, perché tre milioni e mezzo di imprese hanno meno di cinque addetti, hanno una redditività che, in base ai criteri e ai livelli europei, viene considerata medio bassa, e certamente hanno un livello di indebitamento più elevato delle concorrenti estere, perché le nostre piccole medie aziende italiane sono spesso, sostanzialmente, sottocapitalizzate. Allora io credo che sia importante il tema della capitalizzazione delle imprese. Sicuramente un punto che possiamo segnare subito è il fatto che troppe PMI italiane, nonostante la crisi cominciata con la fine del 2007, non si sono poste il tema di un rafforzamento del proprio patrimonio. Questo è sicuramente un punto che dovrà essere affrontato dai nostri piccoli e medi imprenditori. Però io credo anche di dovervi dire qui che non sono d’accordo su chi ritiene che le PMI debbano crescere dimensionalmente in modo un po’ forzoso. Questa è una visione che io giudico, come dire, un po’ ideologica. I nostri piccoli e medi imprenditori non si convinceranno mai a fondersi per crescere dimensionalmente, non fa parte del DNA di quella che è la loro storia e la loro tradizione imprenditoriale. Credo che invece il tema del mettersi insieme in filiera, e quindi poi in rete di impresa, come penso poi avremo occasione di sentire con alcune testimonianze concrete da parte degli amici imprenditori che sono qui sul tavolo oggi, sia la soluzione assolutamente migliore. Quando leggo sofisticate ricerche universitarie che dicono che i nostri imprenditori dovrebbero mettere insieme le aziende e fondersi perché questa è l’unica soluzione possibile per affrontare la crisi, mi pare di essere veramente davanti ad una lettura della realtà molto teorica. Credo che questo sia un punto che vada sostenuto. Io credo che bisogna partire da quel che c’è, non da quel che manca. Se le aziende sono aziende che hanno buoni livelli di produzione, che lavorane in nicchie interessanti, che hanno la voglia imprenditoriale di continuare a competere, è abbastanza illusorio pensare di poter convincere questi imprenditori a perdere il controllo della loro impresa e a fondersi, molto meglio indicare una strada che appunto è quella della rete di imprese. Ora è chiaro che la crisi c’è e forte, è stata forte, vediamo però, per la verità,- questi sono dati abbastanza recenti di Unioncamere – che ormai abbiamo una maggioranza di imprese che sono in una situazione o di fatturato che ha ripreso ad aumentare o quanto meno che si è stabilizzato. Non così era nel 2008 e soprattutto nel terribile 2009. Quindi dobbiamo considerare che stiamo attraversando un mare tempestoso, per quanto riguarda le PMI, ma dobbiamo anche qui considerare le opportunità che molte aziende stanno cercando di cogliere sul mercato, molte anche su mercati esteri. Quindi io direi no al catastrofismo a tutti i costi, certamente non è il caso – ieri lo richiamava anche il Presidente Napolitano nel suo intervento – di addolcire la pillola. Bisogna dire la verità, come ieri ha richiamato il Presidente della Repubblica, sempre. Quindi è vero che i problemi ci sono, è vero che molte aziende stanno ancora faticando per trovare un nuovo posizionamento sull’asse della competizione globale, ma è altrettanto vero che ci sono decine, centinaia di migliaia di piccoli imprenditori che la battaglia la stanno combattendo tutti i giorni e spesso la stanno anche vincendo. Questo va detto. Perché la stanno vincendo? Beh, la stanno vincendo sostanzialmente perché siamo usciti da una fase di problematiche inerenti al credito. Questi sono sempre dati recenti, la fonte è sempre Unioncamere con una ricerca dell’istituto Tagliacarte, dove si vede che il tema della non disponibilità di credito è un problema che sostanzialmente oggi non si pone, si è posto all’inizio della crisi, perché una parte delle banche, dobbiamo dirlo con chiarezza, hanno un po’ ridotto il credito al mondo delle imprese – non tutte, certamente non le popolari, non le banche di credito cooperative. Questa fase è passata ma, come vedremo fra qualche minuto, questo problema della disponibilità di credito potrebbe tornare. Questo è il vero tema, sostanzialmente, su cui credo vadano fatte alcune riflessioni. Permettetemi di spezzare una lancia a favore delle tanto bistrattate banche italiane. Questa è una slide che vi dice quanti miliardi di euro le banche italiane fino a qui ci hanno rimesso con la crisi: siamo a circa trenta miliardi di euro di perdite su crediti alla fine del 2010, se ci aggiungiamo quello che le banche perderanno sui crediti deteriorati del 2011, supereremo largamente i quaranta miliardi di euro. Questo significa una manovra finanziaria del livello di quella di cui stiamo discutendo. Le banche italiane, con la loro redditività e la loro capacità di essere imprese, hanno sostanzialmente pagato quanto una manovra finanziaria complessiva, senza chiedere soldi allo Stato e senza sostanzialmente chiedere un euro ai contribuenti (questo credo vada sottolineato perché è un peso importate che le banche sono riuscite a sostenere). Dicevo, il credito c’è, è disponibile. Qui vedete il crollo della disponibilità di credito, guardate in particolare la riga rossa delle imprese medio grandi, vedete che la riga tracciata in colore blu, che riguarda le imprese più piccole, ha avuto sicuramente, negli anni forti della crisi, una contrazione più ridotta e sta riprendendo su livelli delle imprese più grandi. Quindi oggi il problema del credito per le piccole e medie imprese è sicuramente un problema non così presente.
Mi avvio a chiudere questo primo intervento, sottolineando però uno scenario futuro con il quale dovremo misurarci come sistema bancario, che potrebbe creare nuovamente qualche difficoltà. Questa è una slide che sembra abbastanza complicata ma che in effetti è piuttosto semplice: questi numerini vi dicono quanto, fatto 100 l’attivo delle banche di ogni singolo Paese dell’Europa, va al finanziamento dell’economia reale e quanto va in attività finanziarie di tipo speculativo. Vedete che Italia e Spagna, le banche italiane e spagnole dedicano circa 61 euro ogni 100 del loro attivo a finanziare l’economia reale. Sono banche molto legate all’economia manifatturiera del loro Paese. Poi l’Italia, come sappiamo, è molto più grande della Spagna, quindi, in numeri assoluti, questi dati sarebbero anche più grandi. Non così in altri Paesi europei, dove i sistemi bancari evidentemente si sono molto finanziarizzati, dove si fa molta finanza per la finanza – vedete addirittura in Germania dove solo 24 euro ogni 100 dell’attivo delle banche va a finanziare l’economia reale. Perché l’Italia ha questa posizione? E qui entra in gioco il territorio. Ferlini richiamava prima il rapporto importante che le piccole e medie imprese italiane hanno col territorio dove sono insediate, la stessa cosa vale per le banche. Ora il business model territorio-banca-piccola media impresa, che è un po’ una caratteristica italiana, è un business model delicato, perché, vedete, è un equilibrio. Come gira questo modello, questa idea che ha fatto grande il mondo delle PMI italiane? Gira attraverso un concetto molto elementare, che le famiglie risparmiano, portano la loro disponibilità del risparmio in banca e le banche riutilizzano gran parte di questo risparmio per finanziare l’economia reale e quindi in particolare le PMI.
Questo è uno schema molto virtuoso e qui vorrei segnare un secondo punto. Questo è uno schema che dovremmo cercare, tutti quanti insieme, mondo delle imprese, mondo bancario, di difendere e preservare il più possibile, perché se questo modello di riferimento comincia ad andare in crisi, e cioè la disponibilità del risparmio comincia a non essere più allocata sulle banche che poi finanziano l’economia reale, rischiamo di andare incontro a una serie di problemi piuttosto forti. Stamattina ho sentito a un incontro un grande richiamo alla necessità di uomini cristiani che lavorano all’interno della società per cercare di preservare e di testimoniare, come dire, la libertà, la libertà di impresa così come la libertà religiosa o la libertà proprio di posizione umana. Per una banca come quella che io dirigo, questo non è un discorso eccessivamente teorico, perché significa puntare sempre, proprio per il rapporto con il territorio, a produrre sia beni economici che beni sociali. Il concetto è molto elementare: perché noi finanziamo le associazioni sportive, le associazioni culturali, il mondo dei giovani, e contemporaneamente facciamo i finanziamenti alla piccola e media impresa? Perché tutto si gioca sul territorio. Il territorio che cresce, si sviluppa, che è stabilizzato nel suo reddito, che si occupa della crescita e formazione dei giovani, è un territorio che può svilupparsi in equilibrio. Il nostro modello di banca cooperativa gira intorno a questo concetto. Ed ecco allora spiegato il tema del rapporto e perché è così importante che banche del territorio e piccole media impresa comincino a concepirsi dalla stessa parte del tavolo. Siamo sulla stessa barca, perché dobbiamo assolutamente preservare, come dicevo prima, questo modello: risparmio verso capitalizzazione di banca del territorio e disponibilità finanziaria per fare gli impieghi.
Chiudo con un rischio che lascio aperto e poi magari riprenderemo più avanti: avrete sentito parlare tutti di Basilea 3, la grande riforma delle regole del sistema finanziario. E’ un complesso, diciamo, tecnicamente molto complicato di nuove norme per le banche che riguardano capitale e liquidità (non è la sede per entrare troppo in dettaglio), entrerà in vigore completamente nel 2019, ma dal 2015 comincerà ad essere applicato dalle autorità di vigilanza. Ora, il rischio quale è? Che grazie ai capitali in più che saranno necessari per continuare a fare il mestiere di banca, capitali che sono forti come richiesta da parte delle nuove regole, corriamo il rischio, per un verso, di avere una minore disponibilità di credito da poter erogare. Questo è un tema importante, che voglio sottolineare, e mi fa molto piacere oggi essere qui al tavolo insieme a Giuseppe Tripoli, perché proprio grazie allo stimolo di ‘Rete impresa Italia’ del Ministero dello sviluppo economico e dell’Associazione bancaria, si è presentata in sede europea una proposta di correzione di queste norme, che possano rendere meno forte l’impatto di queste regole per le banche che finanziano le piccole e medie imprese. Questo lavoro è stato un lavoro, credo uno dei primi lavori, in cui si è lavorato veramente insieme fra sistema delle imprese, banche e istituzioni; per ora abbiamo ottenuto una forte raccomandazione, però deliberata dalla Commissione europea, nei confronti delle autorità di vigilanza, perché il credito dato alla piccola e media impresa possa essere pesato, nei requisiti di capitale delle banche, meno di quanto queste nuove regole richiederebbero. Questo è un tema estremamente importante per il futuro del credito alla piccola e media impresa italiana. Io mi auguro che ci sia, diciamo, questa opportunità di arrivare appunto alla correzione di questa norma.
Chiudo, con due citazioni, questo primo giro. Questo signore è diventato molto famoso perché e l’unico economista che aveva previsto la crisi in anni piuttosto lontani, si chiama Roubini, e lui sostiene che la crisi debba essere vissuta come una opportunità. Ci sono, evidentemente, rischi, minacce, ma questi rischi e minacce non devono sovrastare la nostra consapevolezza che possiamo esistere e sopravvive economicamente.
E poi, se mi permettere, vorrei proprio chiudere questo giro ricordandovi che Benedetto XVI in più occasioni, in tantissime occasioni negli ultimi due anni, non ha mancato di richiamare gli uomini della finanza, gli uomini dell’impresa, gli uomini dell’economia al fatto che l’economia non vale per se stessa, non può girare solo intorno a utilità e pragmatismo immediato, perché altrimenti si possono generare gravissime perdite. Occorre sostanzialmente che l’economia sia per l’uomo. Perché questo accada, credo che questa ipotesi molto concreta e fattiva di lavoro comune fra sistema delle PMI e banche in Italia sia una opportunità interessante per il futuro. E mi fermo qui.
MASSIMO FERLINI:
Grazie dottor Fiordi. Do la parola adesso ad Alberto Zerbinato, presidente di Energy4Life.
ALBERTO ZERBINATO:
Preferisco stare in piedi perché ho scoperto stamattina che se uno sta in piedi ha un futuro di governo. E sono bei tempi per far parte del Governo questi qui e giocare una parte. Dunque, lasciando stare le mie velleità politiche che non ci sono, ve lo garantisco, vi parlo oggi di un’esperienza che stiamo portando avanti, si chiama energy4life ed è una rete di impresa. Avrei voluto essere invitato l’anno prossimo perché questa esperienza è ancora giovane, abbiamo pochi risultati, è una grande intuizione, spero che seguiranno risultati concreti. Quindi oggi vi racconto soprattutto del perché ci siamo messi assieme e magari qualcosina di quelle che sono le ipotesi sulle quali stiamo lavorando. Che cos’è una rete di impresa? Questa è una definizione che ho preso dalla letteratura: è un contratto, abbastanza snello, attraverso il quale le imprese possono collaborare tecnologicamente piuttosto che commercialmente tra di loro. Più che per avere agevolazioni fiscali, che piace meno a Tripoli e vi assicuro che non è lo scopo della nostra impresa, della nostra rete, è per avere una maggiore forza contrattuale nei confronti dei terzi. I terzi sono il mercato, il mercato è qualcosa che riguarda i confini che vanno oltre l’Italia, quindi è per esser più competitivi nel mondo. Sono aggregazioni snelle, che permettono di mantenere la propria individualità, nel senso che non è questione di fusione tra imprese, ma è qualcosa che permette e garantisce che i soggetti mantengano la loro originalità e in questo modo possano essere più competitivi appunto nel mercato. Energy4life, con il 4 in mezzo, è la rete di impresa che abbiamo fondato circa un anno fa, ed ha completato il suo ciclo di, no, completato, è in itinere, il suo ciclo di associazione di nuovi soggetti con l’ultimo ingresso addirittura di una banca, e poi vi farò vedere di chi si tratta. E vi devo lasciare un po’ di suspense, è un segreto che verrà nella prossima slide dipanato. Questi sono i tre soci tecnologici che oggi fanno parte della rete. Il primo è ForGreen che, come vedete, si occupa di tecnologie che riguardano la produzione di energia da fotovoltaico e non solo, perché anche ForGreen, da quando l’abbiamo incontrata, si è evoluta, sta guardando ad altre tecnologie in ambito della sostenibilità. FreeTree, che sarebbe una storia abbastanza bella da raccontarvi, nel senso che l’abbiamo cercata in giro per il mondo noi veronesi di provenienza Ici caldaie e poi l’abbiamo trovata a San Bonifacio, a venti chilometri da noi, scoprendo che una tecnologia, che noi pensavamo sarebbe stata da cercare in America o chissà dove, in realtà era molto più vicina a quello che noi pensavamo fosse, è una tecnologia che ha sviluppato una pala, una turbina che fa energia dal vento, una turbina eolica, che ha la caratteristica di essere molto piccola ma produce circa un kilowatt elettrico. Quindi fate conto, una cosa, diciamo così, domestica. Va montata dove c’è il vento, quindi da noi in pianura padana non trova la sua applicazione migliore, però stiamo vedendo dove e come collocarla. Poi, per ultima, l’azienda per la quale sto anche lavorando io, che si chiama Ici caldaie e che come dice il nome produce caldaie, produce sistemi di climatizzazione, vedremo poi che cosa significa. Queste tre cose ancora non spiegano il fatto della rete, lo spiega meglio l’ingresso della banca e della Esco, che sono due società che non sono di partner tecnologici, ma di fornitori di servizi, dei quali noi ci stiamo rendendo conto che c’è estremo bisogno. Ora, è vero c’è la crisi e stanno cambiando tante cose, ma a noi sembra di cogliere un momento in cui è necessario, per chi è produttore tecnologico, fare un cambiamento, fare un passo che consenta al prodotto di evolvere. Vi dicevo, eccolo qua svelato, ma voi l’avevate capito perché siete molto arguti, l’ultimo socio è CRVeneto, Cassa di Risparmio del Veneto, che come vedete dai simboli che avrete riconosciuto è Banca Intesa del Veneto, Banca Intesa San Paolo si chiama, che è entrata in società, cioè ha condiviso il progetto di rete. Questa è una cosa che a noi ha sorpreso, perché insomma, da buoni imprenditori, anche noi siamo qui a lamentarci del mondo politico, del mondo bancario, insomma di tutto quello che non siamo noi, perché ci viene da dire che la responsabilità di quello che succede è esterna. In realtà, siamo rimasti molto sorpresi, perché stiamo verificando invece che tutto il mondo di quello che noi non siamo, è interessato a quello che facciamo. E questo interesse arriva a tal punto da voler scommettere con noi dentro ad una rete, quindi partecipando direttamente con l’attività diretta, di socio. Il che è molto strano, perché noi arriviamo alle sette di sera quando gli sportelli sono chiusi, e questi ci aprono le loro porte, entriamo nei loro uffici e facciamo dei consigli di amministrazione dove non si parla di spread, dell’eurobond e di queste cose, ma si parla della turbina eolica, di quante ne possiamo montare, di che ritorno ha l’investimento dell’installazione della caldaia a condensazione e tutte cose che immagino normalmente non siano discusse e condivise da una banca. Cosa lega assieme tutte queste cose nella nostra rete? C’è una cosa, c’è una società che è molto particolare e si chiama Esco. Cos’è una Esco? È acronimo, sta per energy service company, nome inglese che sta a significare una società che fa della gestione dell’energia il proprio business. Poi vi racconto che cosa significa. Questa società è quella che lega assieme le tecnologie perché, in realtà, si presenta dai nostri clienti e anziché vendere un prodotto, propone un contratto negli anni, nei quali garantisce una certa performance. Che cosa vuol dire in termini più semplici? Vediamo quanto paghi per il riscaldamento di casa tua, verifichiamo che tecnologia stai utilizzando, se quello che stai utilizzando è più vecchio, è più obsoleto o male impiegato rispetto a quello che si può fare oggi, io ti posso stipulare un contratto nel quale ti garantisco che, per i prossimi dieci anni, invece di consumare 100, consumerai 90, 80, cambiando questa tecnologia. Addirittura all’interno di questo 80 paghiamo anche il valore di capitale della tecnologia. Quindi in realtà il consumo è 60 e con il 20 che è libero pago la tecnologia. Qua vediamo un piccolo grafico che esemplifica e fa vedere di cosa si tratta. Questa è la cosa nuova che si aggiunge alla produzione industriale delle realtà industriali che sono associate in rete per essere più competitive nel mercato. Come lo fa? Qui si vede un condominio stilizzato, e vedete là sopra la possibilità in una centrale tecnica più o meno avveniristica (ma ce ne sono già, noi le abbiamo fatte di centrali di questo tipo), l’integrazione di tutti questi sistemi. Che cosa fa la rete? Garantisce che tutte queste cose che sono rappresentate qui a destra in questo schema a blocchi, garantisce che ogni cosa funzioni al meglio negli anni, senza che questo venga pagato come servizio dall’utente ma, anzi, sia all’interno della bolletta stessa. Questo è in soldoni quello che succede, che fa Esco. Arrivando a ottenere, questo è un caso reale, vantaggi di questo tipo: analizzo cos’è il valore standard del consumo dell’abitazione, del condominio – io per semplicità parlo adesso delle vostre abitazioni, però considerate che tutto quello che riguarda le abitazioni riguarda anche l’industria, il centro commerciale, la piscina, il centro sportivo, laddove c’è necessità di climatizzazione -, viene fatta una diagnosi energetica per capire che qual è il valore standard, che in questo caso è 100, e si va a valutare se si può intervenire sulle tre funzioni riportate in alto: se è possibile installare fonti rinnovabili, quindi risparmiando nella produzione; se è possibile regolare, perché sapete che molte volte siamo proprietari di impianti tecnologici così sofisticati che non siamo in grado di regolare, anche una banalissima caldaia murale installata a casa nostra, perché oramai ha un concentrato di tecnologia che rende difficile per l’utente ottenere il massimo del risparmio energetico possibile; poi se è possibile migliorare il rendimento di produzione. E questo tante volte è possibile cambiando la tecnologia, mettendo, ad esempio (vi nominavo prima) la caldaia a condensazione. Considerate che il prodotto di questi rendimenti permette molto spesso, negli edifici esistenti, di liberare il 50% circa di risorse per fare l’impianto nuovo e quindi consumare di meno. Questo è un po’ il motivo per cui, a prescindere da tutto quello che sarà l’evoluzione del contratto di rete e della normativa, e tutto quello che riguarderà la semplificazione di chi lavorerà in questo modo, questo è il motivo fondamentale per cui noi abbiamo deciso di lavorare insieme. Quindi ringraziamo qui la Esco, che si chiama Esco Europe nel caso della Esco che partecipa alla nostra rete, che ci ha permesso di mettere a fuoco questa idea di cucire assieme questi servizi e questi prodotti. Tipicamente nelle attività che noi facciamo, partiamo da una diagnosi energetica, troviamo una soluzione impiantistica, stipuliamo un contratto di performance e questo non è banale, perché oggi molti vengono a consigliarci che cosa fare, tanti a vari livelli ci sanno dire che cosa è indispensabile fare, pochi però si prendono la responsabilità di fare una firma e di assicurarcelo per un certo periodo di tempo, quindi garantirlo negli anni. Vuol dire che oggi cambiare la lavatrice (per dire una sciocchezza) ci può far risparmiare qualche kilowatt all’anno, lo troviamo scritto nella pubblicità, però quando ce la vendono non dicono: aspetta, fammi vedere quanto hai speso l’anno scorso…, 200 euro, adesso ti firmo che ne spenderai 150, questo non succede. Questo in realtà è quello che stiamo tentando di sviluppare e di promuovere nel mercato. Viene fatto un contratto, e qui entra in campo la banca che, voi direte, ci dà i soldi; no, la banca non ci dà i soldi, ci aiuta a stipulare un contratto, affinché poi ci sia un finanziamento al nostro cliente che rientrando nel circuito della rete ne ha un beneficio negli anni. Questa è, molto semplificata, l’attività che noi facciamo con Energy for Life nella proposta ai nostri clienti. Fin qui era un po’ per darvi un’idea e parlarvi nello specifico di che cosa si tratta. Adesso faccio magari un po’ di filosofia, entriamo più nelle domande, nel perché è necessario lavorare in rete. Nel preparare queste slide (ne ho quattro, quindi sarò abbastanza breve), mi chiedevo: perché lavorare in rete? E ho fatto mia una frase che ho preso da un libro di Enzo Rullani, che lavora alla Venice International University e dice che oggi è necessario, se si vuole catturare questa onda di cambiamento che può essere un’opportunità, è necessario smaterializzare, cioè organizzare delle fasi immateriali della filiera in cui si creano significati… Insomma in qualche modo non si può più vendere un prodotto al mercato, ma bisogna andare oltre questo concetto. Pensate nel nostro settore tecnologico quanto la grande distribuzione ha fatto esattamente il contrario; cioè ha preso noi produttori in ostaggio di grandi numeri, grandi produzioni, contratti di fornitura, togliendoci, allontanandoci da tutto quello che è invece la necessità di arrivare a cogliere quella che è l’esigenza dell’utente finale. Quindi in questi anni siamo andati in crisi anche perché siamo stati fagocitati da un modello che ci ha invogliati a produrre grandi numeri senza farci tante domande e questo ahimè oggi è arrivato alla fine. Smaterializzare il valore, liberandolo dall’idea del prodotto, permette all’azienda di proporre un prodotto per una pluralità di usi. Adesso vi ho fatto l’esempio della Esco: a me stupisce ogni volta che vedo una proposta di Esco Europe verso un cliente, vedere, a partire da un prodotto che noi tipicamente immaginiamo applicato solo a una centrale termica, quante applicazioni, quante fantasie, quante nuove modalità contrattualistiche loro trovino per offrire al cliente un maggiore vantaggio. Questo viene fuori da loro perché parlano con il cliente finale; questa è una cosa che è oramai necessaria se si vuole essere vincenti nel mercato. Prodotto – io sono un ingegnere quindi andando a cercare l’etimologia ho fatto un po’ di confusione – da dove deriva? La parola prodotto non ha a che fare con la produzione iniziale, la parola prodotto deriva dalla matematica. Allora mi dicevo: che strano! Il prodotto, se io lo applicassi come sono abituato da ingegnere, nasce da una distinta base, cioè da tutta una serie di componenti che, combinati tra di loro, danno una somma; invece si chiama prodotto! Come mai si chiama prodotto e non si chiama somma (qualche cosa che è fatto da tanti pezzetti che si aggiungono l’uno all’altro)? Perché evidentemente il valore che avviene alla fine non è solo la somma dei componenti della distinta base – ma adesso sto dicendo una banalità – ma è qualcosa che riesce a moltiplicarla. La smaterializzazione del prodotto oggi ha bisogno di passare attraverso questo processo, perché deve integrare servizi, deve dare qualche cosa di più verso un cliente che si aspetta queste cose. Vi garantisco che in questo senso il mercato c’è ed è grande. Quindi, se vogliamo passare da questo, e quindi dal mondo dei bisogni in cui do solamente qualcosa che è fisico, a quello dei desideri, bisogna aggiungere valore. Probabilmente questo significa passare da un’epoca in cui si era molto concentrati sulla fase tecnica, quindi strumenti di produzione, efficienza, concetti industriali, a qualche cosa che va più verso l’utilizzatore, aderendo probabilmente a quello che è il modo di pensare dell’utente finale. Penso che nel tempo le nostre esperienze di rete debbano andare verso l’utente finale, nel senso addirittura di aggregarlo. Noi stiamo immaginando non solo di fare delle proposte all’utente finale che viene a chiederci qualche cosa, ma pensiamo di associarlo mano a mano che questo ha dei progetti interessanti da condividere nel mondo. Qui l’idea di cliente finale e di utilizzatore si sta un po’ mescolando. È necessario quindi mettere insieme queste competenze, perché il modello di industria italiano non è come quello tedesco, dove le dimensioni suppliscono a tutta una serie di carenze che ha tipicamente l’industria. Faccio degli esempi: la Bosh, in Europa, ha al suo interno la banca che è socia, ha probabilmente tutta una serie di servizi che permettono già al suo interno di dare un certo tipo di risposta al mercato. Il tessuto industriale italiano non è così, a meno di qualche raro caso di grande industria – ma noi non abbiamo quella vocazione lì, almeno a oggi – non ha queste competenze, quindi l’unica possibilità per poter essere in grado di dare queste risposte, che hanno bisogno di una pluralità di soggetti, è necessario mettere insieme tutte queste competenze attraverso qualche cosa che, siccome non può essere la grande azienda che non possiamo creare dall’oggi al domani, per forza di cose deve passare attraverso a delle aggregazioni di questo tipo. Quindi, e vado a concludere, perché lavorare in rete? Perché è una risposta all’esigenza di arricchire il prodotto, quindi per dare maggior valore. Perché solo aumentando il valore è possibile essere più competitivi nel mondo e perché attraverso la condivisione – e in questo adesso metteteci pure alla prova, vedremo se riusciremo a ottenerli questi risultati – attraverso la condivisione di contratti commerciali le imprese possono tra di loro essere più competitive nel mondo. La mia ultima slide era questa: Rete? Esco, banche, produttori industriali, servizi web, costruttori edili, società di manutenzione, progettisti, università: sono tutti interlocutori oggi necessari per essere vincenti. Quale altro poteva essere il modello per poter lavorare assieme? Grazie.
MASSIMO FERLINI:
Grazie al dott. Zerbinato. Diamo adesso la parola a Giorgio Giacomello, delegato ai rapporti esterni istituzionali Vivai Cooperativi Rauscedo.
GIORGIO GIACOMELLO:
Buongiorno a tutti, grazie dell’invito che mi è stato fatto al Meeting. Molto interessante, una passerella. Io sono qui soprattutto per raccontarvi una storia: sembra una favola, però parla di economia, parla di sussistenza, parla di mutualità, di sussidiarietà, che parte da questa storia di Vivai Cooperativi Rauscedo. Questa è la guerra del ’15-’18, popolo martoriato in Friuli, ma anche in Veneto, che è costretto a grande migrazione, e, vedete, le condizioni in cui si viveva. C’erano poche alternative, perché siamo stati un po’ zona di conquista per tutti. Questi qui sono i segni dei turchi, che sono arrivati anche loro a cercare qualcosa di più interessante di quello che avevano in Turchia. Di conseguenza, i nostri vecchi, stanchi di abbandonare le famiglie, il territorio, l’ambiente, il passaggio, durante questa guerra a causa della filossera (che è una malattia, un batterio che attacca la radice della vite) hanno pensato questo sistema di innesto, di innestare la vite europea sul porta-innesti americano. Quindi si ovviava alla filossera e si producevano piante sane, piante che si potevano poi piantare in tutte le zone e in tutti i posti. Questa qui è la fotografia di come sono stati i primi produttori, e poi concludo: vi rubo un po’ di tempo perché dura un quarto d’ora circa. Questi qui sono i primi che andavano in giro con carri e cavalli a vendere nel Veneto, nel Friuli, nel Trentino, ovunque dove si poteva arrivare con questi mezzi di trasporto. C’era l’evoluzione. Questa qui è la prima sede costruita, che esiste ancora: vedete che è scritto “Vivai – Cooperative” nella piazza del paese, paese, siamo 1200 abitanti, quindi un paese piccolo. E questa qui è la nostra sede durante il periodo di lavorazione, in cui si fa la cernita delle piante. E’ la manualità visiva dove si stabilisce, con caratteristiche dell’apparato radicale ma anche con l’apparato vegetativo, che sia di primissima qualità. Il socio non può mai esprimere un parere sulle proprie piante, quindi sono sempre gli altri a decidere per lui. E questo qui ha fatto in modo che fossee garantita e certificata la costanza della qualità nel tempo. Questo è un nostro centro sperimentale, noi abbiamo tre centri sperimentali, questo è a Casa 40 (si chiama Casa 40 per una storia che non sto a raccontarvi, se no perdiamo tempo), 30 ettari vicino proprio alla periferia di Rauscedo. Poi abbiamo a Coriano altri 30 ettari in Emilia Romagna e abbiamo 50 ettari a Fossalon di Grado, tutte zone abbastanza distanti, per evitare contagi di malattie o di virosi con vigneti già esistenti. Queste qui sono le nostre squadre di tecnici, che seguono costantemente la produzione, dal momento vegetativo fino alla conclusione. Tutte le piante che danno qualche sintomatologia di malattie o di virosi vengono estirpate immediatamente, così c’è una selezione che continua e si modifica e c’è una ricerca di innovazione costante. Non sembra, ma la vite e il vino richiedono una ricerca costante, innovazione e ricerca costante. Noi abbiamo selezionato, con un contributo preso solo dalle tasche dei soci, ben 530 selezioni clonali nuove, a fronte delle 400 francesi finanziate tutte con i soldi dello stato. Questo può solo inorgoglirci: le ultime novità sono varietà che non richiedono più la mescola dei vini ma la pianta (preciso, non c’è nessuna modifica genetica: nessuna pianta è stata geneticamente modificata, ma è un incrocio fatto con grandi studi) produce già dei vini con caratteristiche di due varietà. Ad esempio c’è il Revò, c’è il Merlot, con le caratteristiche dell’uno e dell’altro, che sono poi le novità che cerca oggi il mercato. In pieno inverno raccogliamo materiale da riproduzione: quello di prima era il portinnesti, questa qui è la vite europea che è selezionata, poi vengono tagliate le marze, vedete, le marze vengono etichettate per evitare mescolamenti. Queste qui sono le celle frigo, possono ospitare 70 milioni di piante all’interno. La produzione media annuale è di circa 80 milioni di piante, esportiamo in 32 stati al mondo, attualmente. È un lavoro di grande manualità, di grande impresa. E qui vorrei soffermarmi in merito alle nostre donne. Alle donne perché? Perché è vero che noi facciamo impresa, ma all’interno del nostro circuito lavorano tantissime donne, per due ragioni. La prima perché ci hanno sposato, devono sopportarci, e questo è un lavoro. La seconda perché per mantenere il rapporto e crescere i figli, trovano in questo lavoro grandi opportunità, perché il grande lavoro nostro inizia a fine novembre, a fine ottobre, e finisce a fine giugno. E quindi c’è l’opportunità, per tutte quelle donne che non lasciano i bambini a scuola, all’asilo nido, oppure hanno altri problemi, di accudire i figli e poter permettersi un lavoro. C’è una grossissima flessibilità: se qualcuno un giorno non viene a lavorare, non c’è problema. Sono tutti assicurati, tutti garantiti, si portano a casa 1200/1300 euro più tutti i contributi, che poi con l’integrazione dei contributi quindi della disoccupazione vanno a prendere un… Queste qui sono le nostre selezioni clonali, questa è la nostra cantina di sperimentazione, questo qui sta per VCR, per “Vivai Cooperativi Rauscedo”. Questo qui è il centro di ricerca che dicevo prima, dove si controlla che le piante siano tutte morfologicamente ben sane, ben distribuite, che non abbiamo problemi di nessun genere. Questa è una riproduzione in vitro dentro alle serre e questi qui sono i test che facciamo su tutte le piante che mandiamo al mondo, quindi l’Elisa-test o la PCR. Il nostro prodotto, dicevo prima, è certificato, garantito, per uscire nel mondo devi dare garanzie, molte di più di quanto poi hai nella retribuzione, nell’incassare il denaro. Questo è il centro sperimentale: come vedete, ogni filare di questi qui è una varietà. Vengono protetti dalle reti anti-grandine per aver la garanzia del materiale da riproduzione. Come potere vedere, tutti i grappoli d’uva, tutte le piante sono ben conservate, ben controllate. Poi qui facciamo delle microvinificazioni, questo è stato il nostro fiore all’occhiello perché il cliente che arriva da tutto il mondo già oggi con le nostre 530 microvinificazioni può assaggiare le caratteristiche organolettiche del vino che andrà a produrre fra tre anni. Quindi qualsiasi cliente che viene assaggia, degusta, e poi stabilisce qual è la varietà che andrà a piantare nei terreni sterili della steppa russa, per non dire in Argentina o in Brasile o in Uruguay o nel nord dell’Africa, dove i terreni hanno bisogno di apparati radicali molto lunghi. Queste qui sono le microvinificazioni nel contenitore, c’è la varietà. E tutti gli anni si rifà, si riproduce. Tutte le università del mondo collaborano con noi per la ricerca e l’innovazione. Quindi partiamo da Milano per non dire Boston, per non dire Beirut. Abbiamo lavorato all’università di Beirut, con la Chalmers Nurseries, che è giù in Australia. Visto che negli Stati Uniti non si può esportare, perché loro dicono che abbiamo delle fitopatologie che loro non hanno, siamo andati a produrre là, aprendo la Novavine, a Santa Rosa in California. Quindi per il mercato Stati Uniti e Canada abbiamo i vivai là, nel loro stato e per il mercato produciamo lì. Abbiamo costituito alcune società, la prima è stata Agromillora Catalana, in Spagna, che cura il mercato della penisola iberica, quindi Spagna Portogallo. Abbiamo la Vitro Hellas sia in Grecia sia in tutto il nord Africa. Vedete, questa qui è la prima fase. Questo qui, il ciclo, ha fatto la callogenesi, il punto di innesto col caldo e la grande umidità fa la callogenesi, in cui si forma questo callo che poi andrà ad unificarsi e dei due monconi delle piante ne fa uno solo. Perché abbiamo parlato oggi di cooperazione? Perché anche la più grande azienda delle nostre sarebbe stata fuori mercato: troppo piccola, troppo frazionata. Noi abbiamo 200 soci, anche il più piccola ha una grossa dignità, e ha potuto tramite la cooperazione affrontare questo mercato globale. E qui c’è un lavoro di squadra, qui tutti i soci producono per conto loro, vedete come si sviluppano poi le piante nel vivaio, vengono controllate costantemente, è la cooperativa che regolamenta tutto. Il nostro statuto del ’29 non è mai stato uguale come adesso. Questa è una macchina cimatrice, che provvede a non far crescere troppo la vegetazione, qui c’è il controllo: le piante che si ha il sospetto che non siano a posto vengono tagliate già qui, quindi viene eliminato il dubbio, se mai ci dovesse essere. Ormai la tecnologia va avanti, vedete viene tutto registrato su computer, vengono fatte le misurazioni, i controlli, le irrigazioni. Le piante, diciamo, fanno parte proprio della nostra vita, noi viviamo in simbiosi col nostro lavoro. Qui siamo già nella fase invernale di raccolta. Qui si ritorna a proporre un lavoro di squadra; queste qui sono le macchine messe a disposizione della cooperativa, qui c’è lo sterro: sono tutti attrezzi meccanici fatti da noi, chi un pezzo, chi l’altro, e poi alla fine vedete come l’attrezzo toglie la pianta, le toglie la terra, la lega e la butta fuori prima che venga poi portata via. Vedete, lavoro di squadra: vengono caricate sui carri. Qui torniamo all’interno della cooperativa dove viene fatta la selezione. In questo periodo qui, occupiamo 1200 persone, quindi l’ azienda dà profitti, ma dà anche economia sul territorio. Noi siamo stati sempre molto legati al territorio. I soci hanno 1700 ettari di vigneto e 1200 ettari di portinnesti. E, come dicevo prima, non abbiamo mai avuto nessun problema di condivisione del lavoro, anche di convivenza, benché l’anno scorso mi sia accorto che abbiamo persone di 16 stati al mondo, che lavorano gomito a gomito, fra i titolari delle aziende, i famigliari e chi lavora nella zona – questa è una ragazza russa, come si può vedere – e gli extracomunitari. Ma soprattutto, prima occupiamo tutta la gente del territorio, poi purtroppo dobbiamo ricorrere anche all’estero, ma come potete vedere lavoriamo tutti gomito a gomito, senza fare distinzione, ognuno dà il suo contributo e in questo modo funziona l’impresa. Questa qui è una riunione che abbiamo fatto con i nostri capi area e i nostri venditori: noi abbiamo 5 capi area con 120 rivenditori in Italia. E poi esportiamo in tutto il mondo: abbiamo chi segue i mercati dell’ Est Europa, chi della Cina, chi del Nordafrica, chi dell’America Latina, e così via. Questo qui è il nostro capo area del Piemonte, che segue le aziende anche dopo la produzione del vino. Quindi le aziende non è che vengano abbandonate, la filiera viene seguita dai nostri tecnici fino alla fine. E c’è la soddisfazione del produttore della pianta che è messa a dimora. Questi sono i vigneti che abbiamo messo noi, sempre in Piemonte. Quando andate in giro, dovete sapere che il 70% dei vigneti che vedete sono piante nostre, in Italia. Questa è la raccolta dell’uva. Questa è la nostra sede. Vedete quel monumento lì, rappresenta l’alveare: tutti per lo stesso obbiettivo, tutti lavorano per lo stesso obbiettivo. Qui è Sonoma Valley, dove abbiamo costituito quell’impresa che vi raccontavo prima, negli Stati Uniti. Qui ancora si vedono dei controlli varietali. E questa qui è la spedizione: vedete il marchio VCR, Vivai Cooperativi Rauscedo, con la varietà, che partono in ogni dove per il mondo. Dovete calcolare che in piena consegna, quindi da novembre a maggio, escono anche 10-15 autotreni al giorno di prodotto che parte per il mondo. Questa qui è la pianta finita, come si può vedere, paraffinata per avere la garanzia di non asciugarsi, con un apparato radicale buono. Questi qui sono sempre vigneti in giro per l’Italia, coltivati con le nostre piante; questo è sempre Piemonte o la Toscana, credo.
Volevo aggiungere alcuni particolari. Volevo dire che tutto questo è stato possibile in condizioni molto difficili. Anche noi abbiamo passato, stiamo passando anche attualmente delle crisi non di poco conto e quando c’è la crisi economica, c’è per tutti: non c’è per qualcuno sì, qualcuno no, però siamo convinti che se ne possa uscire. La cooperativa serve anche a chi è stato meno fortunato, garantendo la dignità e un lavoro alle persone meno fortunate. Nel ’59 e poi nel ’70 c’è stata una crisi terribile, tutti i soci avevano vincolato le loro proprietà con delle firme alla banca e praticamente erano a rischio, se il sistema saltava perdevano tutto tutti, ma la fiducia, che è stata riposta all’interno di questo sistema, poi alla fine ha pagato. Questo per dire quanto si è legati alla condivisione del lavoro, al fare sistema, allo stare assieme, anche a scannarsi se serve, perché poi non pensiate che sia tutto rose e fiori, quando c’è da litigare si litiga anche, ma poi si esce tutti allineati e coperti. Sull’onda lunga del sistema dei vivai cooperativi e della banca delle BCC della nostra zona, il 4 agosto del ’51 è stato fatto l’atto costituzionale della Cantina, perché si diceva: “perché i vivai sì, la Cantina no”? “Facciamo anche una Cantina, smettiamo di vinificare ognuno per conto nostro e farci concorrenza, e facciamo una cooperativa anche per la cantina”. Il 4 agosto, l’atto costituzionale, 15 settembre, si è vinificato in Cantina. E’ stato costruito tutto dai soci, con i carri e cavalli, e vi hanno lavorato donne, bambini, uomini, tutti quanti. Ed è stata costruita anche bene, perché quest’anno abbiamo fatto il 65°, l’anno scorso sono state fatte delle modifiche, ma le capriate portanti della Cantina sono state sabbiate, sono state rimesse su, per dire quanto il materiale sia ancora in condizioni ottimali. E sull’onda ancora più lunga è nata la stalla sociale fra i vivaisti, che ancora regge (voi sapete benissimo qual è stato il problema della zootecnia in Italia). Noi siamo lì, facciamo 60 quintali di latte al giorno, i soci sono soddisfatti della loro remunerazione. E’ stata fatta la Friul Kiwi, 80.000 quintali di kiwi, il 98% vengono esportati in Inghilterra, Stati Uniti, Canada e Brasile, con la soddisfazione dei produttori. Abbiamo un supermercato che è ancora gestito da un Consiglio di Amministrazione nostro e così via. E questo qui all’interno di un paese di 1200 abitanti. L’esistenza che diventa un’immensa certezza è proprio la valorizzazione dell’uomo. Noi abbiamo sempre fatto in modo di dare la meritocrazia a chi la meritava. Chi è andato ad amministrare è sempre stato condiviso dai soci, è anche stato criticato ovviamente, perché siamo abbastanza spietati, ma è giusto essere così. Proprio ieri il presidente Napolitano è stato nudo e crudo, qualcuno ha detto, nel suo intervento. Va beh, era ora che qualcuno lo facesse. Perché se voi mi chiedete: “è tutto bello così?”, posso dirvi di no, abbiamo anche noi i nostri problemi. Il problema poi non è tanto diventare l’azienda leader a livello mondiale, non è tanto quello di diventarlo ma quella di mantenersi. Noi abbiamo grossissime difficoltà, ho avuto modo di parlarne prima col dottor Tripoli, ma anche con il Ministro Franco Frattini. Problema grave è quando esportiamo all’estero. Noi quest’anno saremo costretti a vendere solo a chi ha denaro contante, altrimenti non si fa niente perché non c’è più certezza, è diventata una moda non pagare, non pagare è diventata una moda. Noi siamo arrivati a questo punto qui che, per le dimensioni che abbiamo, dobbiamo esportare oltre il 50% all’estero; abbiamo le richieste di mercato e tutto ma non abbiamo le garanzie dei pagamenti e non possiamo fare i missionari, i missionari sono un’altra cosa, quindi saremo costretti ad agire in maniera diversa. Ci si auspica però due cose, e questo mi preme dirlo. Belle le dichiarazioni ieri di Letta e di Lupi, però bisogna mantenere la concretezza, che è quello che dicevo prima a pranzo al dottor Tripoli. Le imprese, nonostante la buona volontà, la valorizzazione e via andare, hanno questa grossa difficoltà: la troppa burocrazia. Noi siamo soggetti ormai a costi irreversibili, immotivati. Da un anno e mezzo io faccio parte del Consiglio di Presidenza Nazionale. La Fedagri ha individuato 60 balzelli burocratici che non servono, messi lì per alimentare un sistema demenziale, per garantire risorse immotivate. Non so, faccio un esempio che ci rende ridicoli in tutta Europa: il certificato antimafia, rende allo Stato 6 milioni di euro all’anno. In Europa ci dicono: “Ma, siete lo stato più mafioso che abbiamo in Europa per tradizione e siete gli unici che chiedete il certificato antimafia”. Io vorrei vedere se in vent’anni c’è qualcuno che ha detto: “Appartengo alla cosca mafiosa dei Casalesi”. Ma questo qui costa alle tasche dei cittadini un sacco di denaro e non trovo corretto che si faccia. Io mi auspico che la politica, che chi ci rappresenta, che chi viene eletto da noi abbia coraggio di rinunciare a qualcosa che non serve, abbia il coraggio di rapportarsi di nuovo coi cittadini. La società civile, i cittadini tutti, a qualsiasi categoria appartengano, hanno bisogno di sentire che la politica si interessa della società civile, che gestisca con giustizia. Abbiamo fatto una ricerca al Vinitaly sull’eccesso di burocrazia nel vino. Allora io sostengo che se sono socio della cooperativa, la cooperativa ha la mia superficie vitata, le varietà, la produzione e la trasformazione in vino. Beh, dopo la registrazione penso sia sufficiente che la cooperativa lo trasmetta alla Camera di commercio. Invece no, bisogna che lo faccia anche il produttore, bisogna che lo faccia anche l’ADOC, bisogna che lo faccia l’ADOC sull’ADOC. Bene, i costi, al nord, al centro, al sud incidono di sette euro per ogni quintale di uva prodotta. Il Friuli, che è piccolino, fa il 2% della produzione nazionale, 1.200.000 quintali, sono così 8 milioni di euro prelevati dalle tasche dei cittadini produttori. E questo qui quello che impedisce che l’impresa possa crescere, questa è la mancanza di sviluppo, dottor Tripoli, questo è quanto chiedono le imprese. A chi fa reddito da lavoro, deve essere concesso di lavorare. Il Presidente diceva bene ieri. Non si può fare reddito da reddito, economia da economia, ma il reddito deve venire dal lavoro. Benissimo. Noi ci stiamo a questo, però abbiamo bisogno di lavorare, abbiamo bisogno di continuare su questa traccia, su questa aggregazione di piccole imprese, altrimenti sarebbero piccole, frammentate, insignificanti. Inoltre queste imprese non pensano soltanto a fare reddito, non pensano soltanto a fare lavoro ma pensano a tutelare il territorio, l’ambiente, la storia, il legame alla religione, che è quella che ci ha fatto crescere per quello che siamo. Grazie.
MASSIMO FERLINI:
Grazie a Giorgio Giacomello. La parola adesso a Giuseppe Tripoli.
GIUSEPPE TRIPOLI:
Grazie. Allora io comincio dicendo che condivido tutto quello che è stato detto, compreso l’ultima parte dell’intervento di Giacomello sul peso della burocrazia e sull’insensatezza di tutti i pesi che gravano sul Paese. Però vorrei fare un piccolo ragionamento che nasce solo dai contatti, dai colloqui, dagli incontri che ho fatto in questi mesi in cui mi sono occupato delle piccole medie imprese. In pochi mesi ho fatto molti incontri con molte imprese eccetera e mi sono formato delle idee che vorrei un attimo comunicarvi e lo farò nel modo più breve e più semplice possibile, più sintetico, quindi dando per scontati anche tanti passaggi. Voglio cominciare proprio da quello che ha detto il dottor Miro Fiordi all’inizio, che bisogna partire da quel che c’è e quel che c’è in Italia è quello che lui ha detto benissimo, quindi non lo ripeto, questa realtà che altri Paesi non hanno, di micro, piccole e medie imprese, che fanno l’ossatura del nostro sistema produttivo, che sono per la gran parte imprese che sono state capaci di superare una serie di crisi trasformandosi, con una quota di manifatturiera importante ecc… C’è un altro punto che metterei in premessa: oltre a partire da ciò che c’è, partire da ciò che le circostanze oggi ci chiedono. E oggi ci chiedono, le circostanze che viviamo, un cambiamento quale, molti dicono, il sistema economico non viveva da molti decenni, dal ’29 circa in poi. Allora solo alcuni riferimenti perché tanto i giornali di questa settimana e di agosto hanno solo parlato di questo, quindi non c’è bisogno… Quando un sistema finanziario diventa un peso globale mondiale – l’equivalente di 8-9 volte circa il Pil mondiale, cioè la finanza che gira vale 8-9 volte il Pil del mondo, che è 50.000 miliardi di euro circa – quando grandi scombussolamenti come quelli che sono accaduti, che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, per l’ingresso di Paesi che hanno sommato due miliardi e mezzo di persone, che entrano nel mercato con la loro capacità, voglia di esserci, in un sistema di regole che li equipara agli altri Paesi, quindi per la capacità di produrre, faccio riferimento a Cina e India in questo caso, quando accadono fatti come quelli che stiamo vivendo in questi giorni, per cui il Nord Africa cambia da una direzione ad un’altra, in modo repentino e improvviso, quando capita tutto questo, quando per di più capita che in 5 anni l’Italia deve fare una manovra da 130 miliardi, sommando gli anni da qui al 2014, allora bisogna dire che qualcosa è cambiato. E questo è quello che ha portato alla necessità di confrontarsi con un mondo totalmente diverso da quello che avevamo tutti vissuto fino alla crisi del 2006-2007. E allora, io vado sinteticamente, secondo me questo ci chiede una capacità, una voglia, una necessità di cambiamento a tutti. Comincerei dalle imprese. Io ho incontrato moltissime imprese che stanno vivendo questo crinale, il crinale del rifugiarsi in quello che sempre hanno saputo fare, perché tutto sommato è quello che hanno sempre saputo fare. Non so se avete letto il libro di Nesi, che ha vinto il premio Strega, Storia della mia gente. Ecco, Nesi è un signore di terza generazione, azienda di terza generazione che faceva panni, tessuti. A Prato fanno un tessuto tra i migliori del mondo, se non il migliore del mondo, bene lui è stato costretto a vendere l’azienda ai cinesi, è stato costretto a vendere l’azienda ai cinesi perché, dice in un certo passaggio del libro, “noi ci siamo sbagliati perché eravamo convinti di poter continuare a fare quello che i nostri nonni e i nostri padri hanno fatto con successo, di potere continuare a fare la stessa cosa oggi”. Ecco: non è possibile. Allora, credo che anche le esperienze che abbiamo sentito al tavolo lo dimostrino, questo non è più possibile. Allora su quali risorse si può contare, quali sono i passaggi? Innanzitutto la voglia di farcela. Secondo, questo tema della collaborazione: guardate che le imprese piccole, micro e piccole dell’Italia, sono percentualmente molto più numerose, lo si ricordava poc’anzi, rispetto a quelle che ci sono in Germania o in Francia. Però è il nostro modello. Cambiare modello, voler trasformare le piccole imprese in medie imprese o grandi imprese è un’operazione artificiosa ed impossibile, lo diceva benissimo Miro Fiordi prima. E allora la collaborazione è la forma con cui le piccole imprese possono affrontare sfide che da sole non riuscirebbero ad affrontare. Di reti ne sono sorte una ottantina circa, coinvolgendo circa 400 imprese, quindi una rete cinque imprese circa. Allora sono tutte reti che sono sorte sulla base di un principio: mi metto in rete con altri non per accappiare i soldi pubblici, che tanto non ci sono, 130 miliardi ce li toglieranno sicuramente in qualche modo dalle tasche. Gli incentivi alle imprese, che per altro arrivavano in ritardo quando arrivavano, ma comunque su cui si poteva contare, sarà difficile averli per il prossimo futuro. Allora le reti che sono nate, sono nate tutte sull’idea che mi metto insieme con un altro, vincendo la diffidenza naturale che ho sempre di far sapere al mio interlocutore, collega, partner segreti aziendali miei – come mi tratta la banca, quali sono i miei fornitori, quali sono le condizioni che faccio ecc. -, perché so, perché capisco che se vado da solo questa sfida non ce la faccio più a vincerla, se vado insieme invece ce la posso fare. E qual è la prima sfida che devo vincere? Questa è l’altra cosa che, secondo me, è chiarissima, che oggi per stare sul mercato devi stare sul mercato internazionale. Pensare di poter stare sul mercato internazionale chiudendoti nella tua nicchia, è assurdo. Non puoi pensare di stare nella stessa nicchia di mercato in cui sei sempre stato, perché te la tolgono. Allora chi capisce questo, capisce che deve fare un passo e spesso il passo è sfidare il mercato internazionale, e tra l’altro sfidare il mercato internazionale, per esempio andando in Cina o in Russia, è diverso che sfidare il mercato internazionale andando in Germania o in Francia, dove il sistema di regole tutto sommato è di un certo tipo, il sistema di rapporti sono di un certo tipo, perfino la lingua, per quanto diversa, è più facile che non il russo o il cinese. Allora se non ce la fai a farlo da solo, ti metti insieme con altri. Molte reti sono sorte proprio per affrontare questi temi, per allargare il fatturato, per completare la filiera, per fare scambi tecnologici, per dotarsi di managerialità, cioè di persone qualificate che ti aiutino ad affrontare i mercati internazionali. Terza sfida che ho visto molte imprese fare e che è una risorsa, è l’uso della tecnologia. Una delle cose che mi ha colpito e mi colpisce, è che in Italia le micro imprese e le piccole imprese sono tra quelle che in Europa utilizzano meno, percentualmente meno, tutto il sistema di internet, di e-commerce. Percentualmente solo una impresa su quattro è effettivamente on line attiva in Italia, una piccola media impresa su quattro. Le percentuali in Europa sono diverse. Bene, da studi che hanno fatto, precisamente una azienda di consulenza, una delle grandi aziende di consulenza mondiale, risulta che chi ha usato in questi anni l’e-commerce, ha avuto un incremento di fatturato. Appunto le on line attive, cioè quelle che non fanno il sito e poi stanno ferme, ma quelle che fanno il sito e poi lo attivano, lo alimentano, cioè completano tutto il circuito fino all’ordine, al pagamento etc., in questi anni di crisi sono cresciute di fatturato dell’ 1,2%. Un analogo campione di imprese off line è decresciuto del 4,5%. E soprattutto per quelle che si affacciano all’internazionalizzazione, stesso periodo di tempo, stesso campione, è cresciuto del 14,5% sui mercati internazionali. Allora è chiaro che usare internet in questo modo, cioè non farsi fare il sito e stare lì e basta, ma farsi fare il sito e alimentarlo, per esempio quando interrogano Google essere tra i primi ad essere intercettati, è utile. Voi sapete che non è una cosa automatica, non basta fare il sito, normalmente Google dà le prime tre posizioni alle aziende che pagano, dalla quarta in poi ci sono una serie di strumenti che ti consentono di far sì che quando interroghi “azienda di vivai” appari il quarto, il quinto, il sesto – perché fino al decima posizione sei appetibile, dopo diventi meno appetibile. Per far questo c’è bisogno di saperlo fare, allora io sfido molti degli imprenditori che sanno fare la loro cosa a saper fare questo, ma se non sai fare questo oggi, anche se tu fai la miglior penna del mondo, poi fai fatica a venderla, perché fanno fatica gli altri a sapere che tu la produci. Allora tante imprese, tante persone, tanti professionisti sanno fare questo, molte imprese, molti imprenditori, micro imprese se non fanno questo passaggio rischiano di chiudere. Il passaggio è quello di fornirsi, di dotarsi di queste professionalità che altrimenti non avrebbero. Quarto, adesso non ricordo l’elenco se è corretto, quarto tema è quello della finanza. Allora è già stato ricordato, il tema della finanza vuol dire ovviamente una fortuna che abbiamo avuto in questi anni, cioè che le nostre banche non abbiano abbandonato le piccole imprese in questi anni di crisi, però oggi non basta più contare sul credito delle banche quando ci sono progetti di investimento un po’ più ampi. Bisogna anche andare, credo che Miro lo condivida, su strumenti più sofisticati che non sia l’utilizzo del credito a breve, che sono strumenti di equità, strumenti tipo il mezzanino, strumenti più sofisticati, dove le imprese italiane, gli imprenditori italiani fanno più fatica. Allora, scusate, tutto questo ragionamento per dire che cosa? Per dire che la crisi è una sfida anzitutto per le imprese, per gli imprenditori, una sfida a fare un passo avanti. E il primo modo per affrontare, per superare la crisi, diciamo per affrontare in modo vincente questa sfida, è quello di sapere che collaborando, e ritorno sull’idea della rete che è stata detta e ridetta bene da Zerbinato poc’anzi, collaborando, una serie di difficoltà si superano più facilmente. Vi dico, 30 secondi d’orologio perché se c’è un secondo giro ci ritorno, sull’altra parte che Giacomello diceva essere disastrosa, che è quella della pubblica amministrazione: è disastrosa. Allora per rimettere in sesto una situazione disastrosa non basta un editto, neanche una norma costituzionale, ci vuole molto tempo e molto lavoro. Tempo e lavoro sulla semplificazione, potrei fare degli esempi e li farò se c’è un secondo giro, tempo e lavoro per utilizzare le scarse risorse pubbliche come leva per le risorse private, perché non puoi più dare gli incentivi al 100%, puoi usare le scarse risorse pubbliche per garantire risorse private che intervengano sugli investimenti delle imprese, per affrontare il tema, e chiudo con questo, drammatico di quella moda di non pagare, che lo stato italiano ha diffuso in modo veramente esemplare nel contesto del mondo degli operatori italiani e non solo. Questi sono temi che però non si risolvono in tre mesi, non si risolvono in un anno e non si risolvono neanche in tre anni, per risolverli occorre un duro lavoro. Le direttrici sono queste, però ci vogliono anni. Allora, in questi mesi e anni di lavoro le imprese devono darsi da fare. Il mio invito a tutte le imprese che incontro è datevi da fare, fate conto che mentre i cantieri vanno avanti e cercano di mettere a posto queste robe, voi dovete fare a meno di tutti gli strumenti pubblici di cui siete stati o che speravate di poter avere, sapendo che avrete e continuerete ad avere per un po’ di tempo, speriamo il più breve tempo possibile, fastidi dalla pubblica amministrazione, sappiate che però i cantieri sono in piedi. Ma su questo se c’è un secondo giro ritorno.
MASSIMO FERLINI:
Io vorrei sfruttare l’occasione di fare un secondo giro perché non ho l’anzianità di Meeting di Miro Fiordi, però sono circa dieci anni che coordino dibattiti ed è raro trovarmi con quattro relatori che facendo lavori diversi, avendo responsabilità diverse, si sono messi a nudo e hanno illustrato così bene il tema che gli era stato assegnato, entrando nel merito e facendo emergere la passione personale con cui lo fanno. Avevo colto questa caratteristica già prima a tavola, ma durante la discussione che qui è avvenuta, credo che tutti abbiamo potuto percepire il fatto che il lato umano di ognuno è uscito nelle cose che venivano dette, non ci si è fermati ad una asettica discussione. Questo lo dico perché abbiamo qui, banche e finanza, imprese e un autorevole rappresentante non tanto del Governo, questo è transeunte, ma della pubblica amministrazione nel senso alto del termine, anche conoscendo Tripoli da tempo per le esperienze fatte precedentemente. Mi sento di girare la questione del secondo giro non lasciandovi liberi di fare una riflessione in cui dire ad altri che cosa vi aspettate che facciano, ma chiedendovi che cosa siete disposti a fare voi. Giro così la questione, perché ieri nell’altissima discussione del Presidente della Repubblica è stato ripreso il discorso di Roosevelt sulla crisi del ’29, in cui è stato richiamato il fatto che l’unica cosa di cui avere paura davanti alla crisi è la paura stesa. Ecco qui io, invece, vorrei passare a Kennedy e dire: non aspettiamoci dal Paese che faccia qualcosa per noi, ma diciamo che cosa siamo disposti a fare noi per il nostro Paese. Lo dico perché credo che abbiate messo a fuoco che stiamo giocando tutti la stessa partita, e la stiamo giocando tutti nella stessa squadra, ognuno con un ruolo diverso ma non stiamo giocando gli uni contro gli altri. Allora questo è vero anche per affrontare i temi di Basilea 3 che citava Fiordi all’inizio e nel mettere assieme imprese, banche con il sostegno, ovvio, dell’amministrazione nazionale, per affrontare la sfida e cambiarne le regole. Nel fare rete o nel fare cooperazione ed esportazione attraverso la cooperativa abbiamo bisogno di meno burocrazia ma anche di un sostegno in altre cose. E nello stesso tempo la stessa pubblica amministrazione ha bisogno di un Paese diverso, per accelerare una trasformazione che è stata avviata, ma che si aspetta, da parte di chi è disposto a fare di più, una spinta, un’accelerazione ancora di più per cambiare e per diventare non tanto moderna, che è un termine che non dice il contenuto, quanto più al servizio di quello che serve di quanto riesca a fare attualmente. Io vi girerei la domanda in questo modo: su questo, che cosa siete disposti a fare voi?.
MIRO FIORDI:
Allora credo che la risposta debba essere ragionevolmente telegrafica, data l’ora e lo sviluppo di questo interessante dibattito. Io credo che le banche, in particolare le banche del territorio, debbano migliorare la capacità di interlocuzione con il mondo delle imprese. Dobbiamo uscire un po’ da uno schema per il quale siamo sì capaci di guardarci negli occhi con gli imprenditori, ma sostanzialmente dando soluzioni forse ancora troppo standardizzate. Ecco, io credo che il cambiamento che dobbiamo essere disposti a fare, quando si gestisce poi una rete di servizi com’è una banca, significa affrontare un cambiamento di tutti gli uomini che fanno l’azienda, perché poi la nostra azienda è fatta da centinaia di filiali con centinaia di responsabili che parlano con migliaia e migliaia di imprese. Ecco, penso che il cambiamento debba girare proprio intorno ad un miglioramento notevole della capacità di stare insieme all’imprenditore ad affrontare quelli che sono i suoi bisogni, le sue necessità. Questo significa, come diceva Tripoli, che gli strumenti che una volta erano pensati solo per la grande impresa, debbano essere sminuzzati e portati alla pratica attuazione anche nella dimensione più piccola, più micro, ma significa anche migliorare la capacità di seguire i progetti sull’internazionalizzazione delle imprese. In questo credo che il modello della rete, anche per una banca, possa diventare il modello del futuro. Non è detto che tutte le specializzazioni che ci servono come banche per fare questo lavoro di assistenza migliore, dobbiamo averle all’interno della banca medesima. Alcuni esempi in questo senso abbiamo cominciato a farli e dobbiamo avvalerci di professionalità e capacità terze da mixare con l’offerta finanziaria e offrire una miglior consulenza al mondo delle imprese. Aggiungo un’ultima cosa, credo che uno sforzo in più lo dobbiamo fare, noi abbiamo cercato di farlo per esempio utilizzando i finanziamenti della Banca Europea degli Investimenti, ma molte possono essere le soluzioni, bisogna assolutamente aumentare il finanziamento alla formazione dei giovani dentro le imprese e dentro le piccole imprese. Questo è un elemento centrale, io credo, per il futuro della piccola impresa Italiana. I giovani devono avere un’opportunità in più, ma la formazione bisogna finanziargliela quando sono già dentro l’azienda. Se poi, come ho visto in questi giorni, ieri qui al Meeting, nascono addirittura progetti di alcune associazioni di imprese, come Federlegno Arredo, che sta cominciando ad immaginare la costruzione di strumenti di formazione e di scuola per preparare ancora prima i giovani per poi portarli dentro le aziende, credo che queste siano frontiere nelle quali le banche debbano cominciare ad entrare con un’ottica di finanziamento, come dire, nuovo. Perché finanziare la formazione e finanziare il futuro dei giovani dentro l’azienda, credo che sia oggi un po’ la nuova frontiera, come dire, del finanziare il futuro.
ALBERTO ZERBINATO:
È una domanda impegnativa, che cosa siamo disposti a fare, ma secondo me è arrivato il momento per gli imprenditori di cedere quella che è sempre stata un’area molto privata, e cioè allargare la compagine sociale. Secondo me questo è indispensabile, e quindi noi dobbiamo cominciare a pensare che siamo disponibili a fare entrare altri soci, io non so se è lo Stato, non credo, però magari la banca sì, e altre istituzioni. Per il momento lo lasciamo per ultimo come socio, lo Stato. Però per noi è necessario fare questo passaggio, evitando che l’azienda rimanga un ambito familiare. Secondo me questo momento di maturità c’è già. Farei quasi un’altra domanda: c’è qualcun altro che vuole lavorare con noi per sempre? Perché noi ci teniamo a fare grande la nostra impresa, indipendentemente quasi dal fatto che rimanga nostra. Però abbiamo bisogno di soci stabili nel tempo. Penso che questo dibattito sia attuale un po’ per tutti.
GIORGIO GIACOMELLO:
Io dico che una cosa che non ho mai sentito in questi giorni, della però siamo costretti a prenderne atto, è che il modello di sviluppo del capitalismo sfrenato è finito. Dobbiamo prenderne atto, è inutile insistere su una cosa che non potrà più essere. E perciò bisogna cominciare a pensare ad un modello diverso, che è il modello cooperativistico. Chi l’ha costituito è stato lungimirante, perché aggrega già le imprese, fa aggregazione con il sistema bancario, con le cooperative di vario genere, con quelle di lavoro, con le cooperative sociali, con tutto quello che riguarda l’aggregazione. Quello che siamo disposti a dare, è rinunciare tutti a un po’ di quello che abbiamo, tutti intendo tutti, quello che abbiamo per solidarietà, allora qui diventa solida la certezza per cui continuiamo ad operare. L’agricoltura ha avuto un grande merito che spesso non gli viene riconosciuto, nel dopo guerra è stato un settore che ha condotto questo Stato ad essere al quinto posto nel mondo. Bisogna dire che ancora una volta forse saremo costretti a dare il nostro impegno per risollevare questo Stato e per offrire quello che noi produciamo e la nostra immagine di esportazione, di persone se non altro intellettualmente libere, di persone che rinunciano a quello che potrebbe essere di loro interesse per dedicarlo agli altri, per tornare ad esportare questo modello di serietà, di onestà intellettuale, per tornare a fare grande questo Paese.
GIUSEPPE TRIPOLI:
Dunque io vivo in una realtà che è quella della pubblica amministrazione, che è una realtà molto frammentata, frammentata come livelli di competenza. Voi sapete che dai municipi allo stato sono sei livelli di competenza istituzionale posti uno sull’altro. Quali sono state le regole con cui si è costruita la pubblica amministrazione in Italia? Sono due, una, la sovrabbondanza di soldi. I soldi sono stati tanti, sono stati anche destinati bene a volte, poi per carità ci sono cose che non sono state fatte bene, ma sicuramente si è vissuto nel grasso. E seconda, la sovrabbondanza di regole, e per quale motivo? Qui usiamo dire perché c’è l’idea del sospetto verso chi fa impresa. Direi che certamente c’è l’idea del sospetto verso chi fa impresa, ma anche il fatto che un’autorizzazione è pur sempre un passaggio, un passaggio è pur sempre un piccolo potere, per cui il piccolo potere conviene sia a chi esercita il potere, sia a chi si fa aiutare quando ha bisogno di essere facilitato nell’ottenere quell’autorizzazione che ad altri, invece, potrebbe costare di più. Allora io credo che l’impegno che possiamo prendere, che posso prendere, per smontare queste due cose, è solo quello di dare una mano a voi, cioè all’associazione delle piccole imprese, per fare step by step, e non si può che fare così secondo me, un lavoro di smontaggio e rimontaggio del sistema della pubblica amministrazione. Le proposte che Fedagri ha portato in Parlamento, che per esempio abbiamo raccolto in un tavolo della semplificazione, più rapidamente possibile diverranno emendamenti, diverranno articoli. Si eliminerà per esempio la duplicità del registro della relazione sociale, che le associazioni di promozione sociale fanno e che non ha senso che esista. Però non ci sarà mai una regola che dicendo tre parole capovolga la pubblica amministrazione, questo ve lo devo dire onestamente, se volete posso anche dirvi il contrario e dire che questo basterà, ma non sarà così. Allora bisogna fare un lavoro certosino di smontaggio e rimontaggio su due linee. Una, quello che vi dicevo, è che i soldi non ce ne sono più e le regole dovranno essere inferiori; seconda, l’uso della telematica. L’uso della telematica è il massimo possibile per semplificare i rapporti. Io faccio un solo esempio che forse può essere utile e chiudo su questo. Stiamo provando ad introdurre una regola, una norma che dice che se tu ti fai la certificazione volontaria ambientale, cioè ti fai volontariamente la certificazione ambientale e la metti sul registro delle imprese, nessun ente e soggetto, sono 29 le autorità che in Italia sono abilitate a fare controlli sulle imprese, ecco nessuna delle autorità che si occupano dell’ambiente verrà a romperti le scatole per fare i controlli. Se ti sei fatto certificare da un ente terzo, accreditato dall’organismo di accreditamento ecc., nessuno verrà romperti le scatole. Ecco, questo è un pezzettino, ti risolve i problemi, no, però da tanti pezzettini così si risolvono poi anche i problemi più complessi. Se tu hai citato Kennedy, io cito un altro grande della storia che disse: “una lunga marcia comincia con un singolo passo”.
MASSIMO FERLINI:
Grazie, calorosamente ringrazio veramente tutti i relatori per il contributo che hanno dato. Grazie a tutti voi che ci avete ascoltato.
(Trascrizione non rivista dai relatori)