Chi siamo
Il futuro del lavoro
In collaborazione con Cdo.
Intervento introduttivo di Dario Odifreddi, Presidente Piazza dei Mestieri e Presidente Consorzio Scuole Lavoro e Daniele Sacco, Group Human Resources, Organization and Legal Counsel presso Gruppo Mondadori. Partecipano Marco Bentivogli, Coordinatore e co-fondatore di Base Italia; Cristina Scocchia, Amministratore Delegato Illycaffè e Consigliere di Amministrazione EssilorLuxottica; Giuseppe Tripoli, Segretario Generale Unioncamere. Introduce e modera Guido Bardelli, Presidente Compagnia delle Opere.
C’è un dibattito vivo relativo al fenomeno dell’abbandono del lavoro, della Great Resignation, per una scelta di vita più connessa alle proprie esigenze fondamentali, quali stare con la famiglia, coltivare i propri interessi, avere una qualità di vita migliore. La Yolo Economy, che ha come motto “si vive una volta sola”, dimostra che questo avviene anche nelle aziende piccole, dove c’è un rapporto più diretto fra imprenditore e collaboratori, dove gli orari non sono necessariamente stressanti. Il fatto che si chieda maggiore libertà, rispecchia la diminuzione del senso del valore del lavoro. C’è un ripensamento del valore del lavoro nella vita intera. Riscoprire il senso del lavoro è cruciale e l’imprenditore ha una responsabilità al riguardo verso il suo capitale umano. Sono inoltre cambiate le modalità di svolgimento del lavoro e lavorare in maniera ibrida ha delle potenzialità dal punto di vista imprenditoriale e manageriale perché si passa dalla valutazione sulla presenza/tempo a quella sul risultato. Occorre però che imprenditori e manager siano pronti a gestire questo cambiamento organizzativo e gestionale, così da vincere la sfida della produttività alla quale ogni impresa è richiamata.
Con il sostegno di Ferrovie dello Stato Italiane, Italian Exhibition Group, Consorzio Scuole Lavoro, Dintec, Punto Impresa Digitale, Unioncamere.
IL FUTURO DEL LAVORO
Guido Bardelli: Buongiorno, buongiorno a tutti, benvenuti al pubblico presente e al pubblico che ci segue in video come è ormai una tradizione del Meeting, quindi, siamo presenti in sala, ma siamo anche presenti numerosi che ci stanno seguendo in video. “Il futuro del lavoro” è il titolo di questo incontro. Vogliamo affrontare alla fine di questo interessante e affascinante Meeting un tema che ha percorso in moltissimi incontri di questi giorni il calendario del Meeting e lo vogliamo affrontare sotto un aspetto originale, particolare. Abbiamo visto lavorando con gli amici della Compagnia delle Opere, con alcune delle persone che oggi ci aiuteranno a riflettere su questo tema i grandi cambiamenti che sono intervenuti nel mondo del lavoro in questi ultimi anni. I fenomeni, quelli più rilevanti delle grandi dimissioni, della fatica, soprattutto dei giovani ad accogliere la fatica e l’impegno del lavoro, ma comunque anche la drammatica situazione della disoccupazione giovanile, specialmente, ma anche delle generazioni che perdono il lavoro e che faticano a rientrare nel mondo del lavoro che nel nostro Paese rimane un problema fondamentale. Il cosiddetto smart working, quindi le nuove modalità di lavoro a cui la pandemia ci ha abituato, ci ha insegnato questo nuovo termine. Una serie di modifiche, cambiamenti che vanno, secondo noi, ed è quello su cui ci vogliamo confrontare oggi, a incidere profondamente non tanto e non solo sulle politiche del lavoro, che pure ci vogliono, ma anche sulla ricerca e sul confronto sul senso del lavoro, quale senso ha il lavoro, come si riaccende il fascino per questa attività che, don Giussani in un suo intervento sul lavoro aveva definito “il bisogno del lavoro”, definendo con la parola “bisogno” le esigenze più vere per la costituzione dell’uomo e della donna di tutti i tempi, come l’amore, l’amicizia, l’arte, il lavoro fa parte di questi grandi bisogni fondamentali. Ecco cerchiamo di affrontare in questo modo, con questo taglio oggi il tema del cambiamento del mondo del lavoro e lo affrontiamo con una caratteristica, un metodo che in Compagnia delle Opere usiamo, cioè cerchiamo di partire da delle esperienze in atto che pongono domande ad autorevoli protagonisti e testimoni in questo caso del mondo del lavoro, l’anno scorso lo abbiamo fatto col mondo dell’impresa e col mondo della comunicazione e corro velocemente quindi perché il tempo come sapete è tiranno, a presentare i nostri ospiti. I due interventi introduttivi e che quindi appunto pongono la domanda e ci raccontano di esperienze, di novità del mondo del lavoro sono di Dario Odifreddi, presidente della Piazza dei Mestieri e Presidente del Consorzio Scuole Lavoro e di Daniele Sacco, una grande esperienza nelle grandi imprese internazionali come responsabile delle Risorse Umane e attualmente responsabile delle Risorse Umane e dell’Ufficio Legale presso il Gruppo Mondadori. Poi dialogheranno su questo e risponderanno a queste domande: Marco Bentivoglio, Coordinatore e co-fondatore di Base Italia; Cristina Scocchia, anche lei una grande esperienza di manager in grande imprese internazionali, attualmente Amministratore Delegato di Illycaffè e Consigliere di Amministrazione di EssilorLuxottica; e infine Giuseppe Tripoli, Segretario Generale di Unioncamere e anche lui una grande esperienza di conoscenza del mondo della piccola e media impresa che è quella che anch’essa risente di questi grandi cambiamenti che non riguardano solo le grandi imprese ma anche paradossalmente le piccole imprese dove il rapporto imprenditore e dipendente dovrebbe essere più stretto eppure anche lì sta succedendo qualcosa e oggi, ripeto, cercheremo di capire che cosa. Vado velocemente quindi a dare la parola al nostro primo ospite per il primo intervento introduttivo, Dario Odifreddi, a te la parola, grazie.
Dario Odifreddi: Grazie e buongiorno a tutti. Sul lavoro abbiamo qualche notizia positiva. L’Italia ha raggiunto dopo tanti anni per la prima volta un tasso di occupazione superiore al 60%, ma ciononostante continuiamo ad avere una situazione molto difficile, molto complessa. Da un lato come sappiamo c’è un tasso di occupazione femminile invece molto basso, troppo poche le donne che lavorano e qui poi potremmo anche sentire magari con Cristina quali sono le condizioni che possono invece favorire anche una conciliazione del lavoro e anche delle responsabilità familiari, abbiamo troppi pochi giovani che lavorano, abbiamo come voi sapete ormai tutti, se ne parla ovunque, un numero impressionante di giovani che non studiano e non lavorano. Quindi c’è oggettivamente nel nostro Paese un’emergenza lavoro. Ma sembra affacciarsi soprattutto in questo ultimo anno e dopo il periodo della pandemia, sembra affacciarsi un tema ancora più profondo che è legato proprio al significato del lavoro: il grande tema delle dimissioni volontarie, anche se qui poi magari Marco Bentivogli ci aiuterà a entrare un po’ di più alla lettura realistica dei dati, di quello che sta succedendo non solo in Italia e in America ma diciamo in tutti i Paesi occidentali. O anche il tema ancor più rilevante per certi versi che riguarda in modo significativo i giovani, di cercare un lavoro che tra virgolette rubi il meno tempo possibile alla vita. Cioè questi fenomeni sono fenomeni che ci dicono che oggi c’è una grande domanda su qual è il significato del lavoro, cioè il lavoro è ancora fattore di realizzazione di sé? È ancora fattore di costruzione del proprio futuro? Questo soprattutto sui giovani, noi alla Piazza dei Mestieri ne vediamo tanti (l’anno scorso cinquemila ragazzi tra Torino, Milano e Catania hanno incrociato la nostra strada in Piazza dei Mestieri) è una domanda molto aperta ed è una domanda in cui storicamente noi abbiamo saputo rispondere come Paese, la grande cultura cattolica, la cultura liberale e la cultura laborista hanno saputo creare le condizioni perché il lavoro e lo sviluppo andassero insieme, perché il lavoro e la realizzazione di sé fossero delle cose unite. Oggi questo sembra essere entrato decisamente in crisi e questo è entrato in crisi in modo particolare sui giovani. I giovani sono una risorsa indispensabile per il futuro del Paese evidentemente, sono una risorsa indispensabile anche per lo sviluppo del Paese perché noi rischiamo di avere un tasso di sostituzione insufficiente tra le persone che smetteranno di lavorare e le persone che le dovranno sostituire. Bene, questi giovani oggi hanno una difficoltà, tutti leggete del mismatch, cioè tutti leggete di tanti che cercano lavoro e non trovano persone disponibili ad andare a lavorare. Ecco questo mismatch ha un’origine fondamentale già nella scuola e qui pongo il primo tema, cioè un tema educativo enorme, cioè i ragazzi vanno a scuola e non sono interessati alla scuola, non sono interessati a quello che studiano, se lì nasce un disinteresse, questo disinteresse si proietterà poi inevitabilmente anche sul loro futuro, sull’idea di futuro. Noi li abbiamo torturati, io lo dico sempre e quindi mi permetto di dirlo anche oggi, noi adulti, con questa storia terrificante della precarietà: “Voi vivrete peggio dei vostri genitori”. A parte che tra le tragedie della storia potrebbe non essere la più grande, insomma abbiamo in qualche modo costruito una specie di distruzione della loro speranza, come non chiamandoli ad una responsabilità, come non chiamandoli a sollecitare la loro libertà e trovando soluzioni, non solo ovviamente questo per i giovani ma per tutti, che anche nelle politiche si vedono insufficienti. Noi come sappiamo in Italia abbiamo le politiche attive che non funzionano e abbiamo poi invece le varie politiche passive del Reddito di Cittadinanza e similari che molto spesso non ottengono il risultato che vogliamo conseguire. Il tempo scorre inesorabile e quindi vado alle domande. La prima cosa che vorrei chiedere è: ma al di là della politica, che fa quel che può e non troppo, delle agenzie educative, che devono cambiare molto, cosa vedete voi, cosa si può fare? Cristina, come un’impresa grande o piccola che sia può dare il suo contributo per il futuro delle nuove generazioni e per il lavoro che poi è anche la condizione imprescindibile per il benessere di tutto il Paese. Invece, Marco, volevo chiederti: ma un’organizzazione come Base Italia che tu hai voluto fortemente, che hai voluto fondare, perché? Oppure tu hai una lunga storia nel sindacato, un’antica istituzione del nostro Paese, come possono coinvolgere queste realtà i giovani? Come farli sentire protagonisti del loro futuro? (Ho sforato di 15 secondi, Presidente).
Guido Bardelli: Grazie e vado subito allora a dare la parola a Daniele Sacco per la seconda domanda e come scelta abbiamo chiesto di affrontarle entrambe ai nostri ospiti. Prego Daniele.
Daniele Sacco: Grazie, grazie mille Guido, grazie dell’invito, grazie al Meeting perché è sempre utile diciamo rimettere in fila un po’ le idee soprattutto dopo questi ultimi due anni in cui abbiamo vissuto una realtà molto diversa da quella che abbiamo vissuto precedentemente. Io faccio questo mestiere da tanto tempo, sono trentasei anni e l’ho fatto principalmente in giro per il mondo, per cui ho anche diciamo un osservatorio completo, ma devo dire che gli ultimi due anni secondo me hanno rivelato alcune dinamiche interessanti che mi piacerebbe mettere a fattor comune e che sono un po’ la premessa diciamo alla domanda che volevo fare ai nostri ospiti. Allora, a me pare che durante questo periodo nel mondo delle aziende, in quelle che ho vissuto io e anche nei dialoghi con i miei colleghi, si sia affermata sempre di più una supremazia della competenza verso la gerarchia e un’altra cosa interessante è che questa possiamo tenerla o lasciarla, possiamo tornare al passato o possiamo continuare su questa strada e anche una presa di responsabilità verso il ruolo, cioè chi si è trovato ad agire l’ha fatto anche indipendentemente da quello che era il proprio ruolo in azienda perché c’era una situazione diciamo di bene comune da preservare e questo secondo me è un altro dato interessante, molto interessante. Un altro dato interessante è l’affermazione del lavoro per obiettivi verso il controllo visivo, cioè, come dire, dare degli obiettivi al posto di illudersi, a mio parere, di controllare il lavoro delle persone perché sono presenti tutti i giorni sul luogo di lavoro e io ho la possibilità di controllare quello che facciano. Ovviamente si è affermato il lavoro ibrido verso quello in presenza con tutta una tematica anche di ridefinizione degli spazi aziendali, non solo più fisici ma anche virtuali. La necessità di fare dialogare, forse per la prima volta nella storia tre o quattro generazioni sotto lo stesso tetto, cioè i ragazzi di vent’anni e quelli di sessantacinque, meno ragazzi ma, presenti diciamo nel mondo aziendale. Sono emersi anche a mio parere una serie di bisogni della persona che forse esistevano già, anzi certamente esistevano già, ma erano per lo meno latenti, come il bisogno di flessibilità, soprattutto, ma non solo, per coloro che hanno anche in parallelo un lavoro di cura o dei propri genitori o dei figli e anche il bisogno di equità in particolare tra i generi, sia in termini di sviluppo che di retribuzione. Il bisogno del senso del lavoro che trascenda il mero profitto, e questo è un altro tema che parlando con, soprattutto, le nuove generazioni mi è ritornato tante volte. E qua voglio spezzare una lancia anche a favore delle nuove generazioni perché ne abbiamo sentite di tante anche da parte di ministri: bamboccioni, choosy e quant’altro. Io quello che ho visto è qualcosa di diverso, cioè ho visto delle esigenze nuove di un senso nuovo, diciamo, del lavoro che vada al di là, voglio dire della mera etica del lavoro e del sacrificio. Ora, questo secondo me rimette un po’ in discussione i rapporti all’interno del mondo aziendale e questa è un po’ la mia domanda perché a mio parere rimette in discussione anche una concezione di leadership, non più diciamo narcisistica e autocentrata, ma una leadership altruistica e, come dice un mio caro amico, una leadership gentile. Quindi un concetto diverso anche nel rapporto tra capo e collaboratore. Tutte le transizioni aziendali e sociali a cui noi stiamo vedendo oggi, che stanno accadendo e che ci stanno attendendo: la ESG, il tema del gender, la compresenza delle tre generazioni, l’integrazione dell’immigrazione, la tecnologia, l’intelligenza artificiale, a mio parere mettono prepotentemente al centro del mondo del lavoro la persona, cioè rimettono al centro la persona come soggetto e non come oggetto del cambiamento che sta accadendo. Questa secondo me è una grande sfida che noi che facciamo questo mestiere dobbiamo… su cui dobbiamo riflettere molto. E qui appunto è la mia domanda: dato tutto quello che ho detto, se è vero quello che ho detto, come deve cambiare se deve cambiare la cultura di azienda, le prassi, ma soprattutto le caratteristiche dei leader che la guidano? Grazie.
Guido Bardelli: Grazie, grazie Daniele Sacco, la sfida è interessante perché abbiamo… i nostri relatori hanno dieci minuti ciascuno per rispondere a delle domande che sono andate al cuore sia della condizione giovanile sia del rapporto in azienda, del rapporto imprenditore-dipendente, manager-dipendente. Quindi pensando a questo incontro e chiedendo ai nostri ospiti di essere presenti, abbiamo pensato che questo cambiamento coinvolge tutti, coinvolge la rappresentanza, il sindacato, coinvolge l’azienda, coinvolge la piccola e media impresa, e quindi chiediamo ai nostri ospiti di affrontare questo tema partendo dalla loro esperienza specifica e originale. Andiamo sempre… rimaniamo coerenti con l’ordine alfabetico, quindi: Marco Bentivogli. Grazie.
Marco Bentivogli: Grazie per l’invito, grazie al Meeting. Innanzitutto io credo sia fondamentale quando si parla di futuro del lavoro, chiarire subito che il lavoro avrà un futuro perché c’è una narrazione fortissima che spiega che siamo di fronte alla fine del lavoro, il lavoro si sposta, cambia, si modifica, è un po’ una pigrizia intellettuale che cerca di tirar fuori questo catastrofismo su tanti argomenti e anche sul lavoro che va assolutamente spazzata via. Il lavoro cambia però, il lavoro è il crocevia delle tre grandi transizioni: quella demografica, quella digitale, quella ambientale. Se non si parte di qui si rischia di continuare (e purtroppo lo si fa in tutto ciò che c’è attorno al lavoro) ad utilizzare degli schemi interpretativi che non spiegano più nulla. Il futuro del lavoro si scrive a partire da un foglio bianco perché le vecchie categorie non sono utili, sono spesso dannose a capire. Prima di tutto bisogna, come dicono i ragazzi oggi, bannare il paternalismo. Parlerò alla fine delle grandi dimissioni, il senso del lavoro non si eredita, il vecchio “ai miei tempi” è sempre meno efficace, è sempre meno forte, bisogna avere la capacità di mettersi in un rapporto più forte. Queste tre transizioni perché sono importantissime per le domande che venivano poste? Perché, pensate, dal punto di vista ambientale il lavoro cambia, i modelli organizzativi, produttivi, l’impronta carbonica, si dice, di ogni attività, di ogni tipo di lavoro va tenuta di nuovo sotto governo, e questo ovviamente cambia le cose. Avere un lavoro da remoto o un lavoro in presenza ha un’impronta carbonica diversa, su cui c’è un primo dato fondamentale che ogni ideologismo sul lavoro, come il paternalismo, va messo da parte. Non è vero che si può fare tutto smart working o tutto in presenza, sono posizioni tutte sbagliate, a parte che ci sono lavori che bisogna assolutamente che siano in prossimità e per cui in presenza. Io quello che propongo è che bisogna dentro ogni lavoro, dentro ogni luogo di lavoro, ragionare sulle attività. Ogni singola persona deve dire: “Queste attività che faccio sono di condivisione”, analisi strategica, analisi di ciò che non va, condivisione di strategie e obiettivi: quelle attività non si possono fare da remoto. Quelle attività, quando va bene e quando va male bisogna farle guardandosi negli occhi, lo smart working è nocivo. Poi però ci sono attività operative che bisogna e si può e spesso si possono fare meglio a distanza. Qual è l’impronta che dà la trasformazione digitale? Io la propongo così: il digitale scongela lo spazio e il tempo di lavoro, e per noi italiani è molto complicata questa cosa perché noi identifichiamo il lavoro più sul luogo che l’attività che si svolge, noi diciamo anche quando siamo in macchina a nostro figlio diciamo: “Quello è il lavoro di papà, quello è il lavoro di mamma” perché l’identificazione è molto spesso sposata con un luogo, con un palazzo, con una fabbrica, con un supermercato, con un ufficio, con una scuola. Ecco, quello che, dicevo, si scongela nello spazio, e per cui la necessità di ricostruire nuovi spazi nel territorio e nel lavoro significa che c’è un po’ di divorzio tra il luogo… adesso ci sono delle bellissime indagini sul mercato del lavoro americano, che è quello qualitativamente più interessante come dati, che raccontano queste cose degli uffici deskless e che vanno fortissimo, sempre di più, appunto, questa cosa che per noi era fondamentale, avere un’immagine, nostro figlio, nostra moglie, nostro marito ecc., qualcuno la squadra di calcio, ecco questa cosa molto più spesso viene messa negli armadietti, negli armadietti numerati un cui si ritorna. Per cui c’è la necessità di ripensare gli spazi. Quando facevo il sindacalista, a proposito dell’esperienza, noi contrattavamo un pochino i tempi, molto poco, gli spazi mai. In realtà lo spazio è generatore di cambiamento. Se uno spazio è oppressivo, io dico sempre: se le palazzine direzionali sono quelle ancora sulla cultura gerarchica, al piano terra quelli che contano di meno, uno spazio molto piccolo, scrivania piccola; si sale di piano, quelli che contano un po’ di più, la scrivania cresce, cresce il metro quadro; si sale ancora di più: crescono i metri quadri, i centimetri della scrivania e compare la pianta, la pianta già è un segno di quello status gerarchico verticale fantastico. Al piano di sopra hanno anche il frigobar, a quello di sopra hanno anche un piccolo salottino e, ancora più sopra, un tavolo per le riunioni. Questa concezione scrivanocentrica, non è vero che aiuta le relazioni, nel lavoro. Se guardate, “Ah, ma con lo smart working non ci sono più le relazioni”, è vero, ma nella palazzina, quella che vi ho descritto, scrivanocentrica, che io dico è la palazzina direzionale modello Fantozzi, se vi ricordate, con il Megadirettore Generale che necessariamente deve essere sopra tutti gli altri, ripropone quella gerarchia che non funziona più perché, c’è una bellissima serie televisiva che lo dice ancora più chiaramente di me, il controllo, il paradigma del controllo, non è difficile, è completamente inutile, è un’illusione, cioè l’idea che abbiamo ancora in molti luoghi di lavoro che se una persona è davanti a noi, e se muove le dita davanti a un computer, automaticamente è produttiva, ovunque si è dimostrato che conta molto di più la responsabilizzazione, conta più il fatto che c’è un progetto, che ci sono degli obiettivi e che si è misurati non… se voi ci pensate, quello che va smontato è il parametro tempo come parametro fondamentale della remunerazione della professionalità. Se guardate, io da sindacalista metalmeccanico mi battevo per crescere la paga oraria, in un lavoro per obiettivi, la paga oraria non è così centrale, sono molto più centrali la possibilità di fare quello che dice Dario e cioè di costruire un equilibrio diverso tra la vita e il lavoro e farlo soprattutto considerando non, altro pezzo del paternalismo, “i giovani non considerano il lavoro importante”, no, i giovani gli assegnano un ruolo diverso, assolutamente non meno importante. L’ultimo pezzo della cosa che fa il digitale su questo, che cosa fa la robotica avanzata e il digitale, cancella le mansioni, le operazioni, le attività routinarie, ripetitive ed esalta quelle a maggiore ingaggio cognitivo, esattamente quello che si diceva, il nostro valore più incontendibile con un robot, con una macchina e con un algoritmo è esattamente la nostra umanità, per questo bisogna riscoprire la passione per l’uomo, ma anche per l’umanità, perché nessun algoritmo, nessun robot riuscirà mai neanche a simulare l’umanità. Quello è un valore aggiunto in più che abbiamo dimenticato, io quando dico: “Proviamo a descrivere cos’è la nostra umanità”, eh, si fa una gran fatica perché abbiamo indebolito quella passione, l’abbiamo resa meno centrale. Allora provate a immaginare: si riducono i posti di lavoro ripetitivi, aumentano quelli a maggior ingaggio cognitivo. Quando dico questa cosa tutti dicono: “Ah, vuol dire che ci sono meno operai”, attenzione, non stiamo alla narrazione che raccontano oggi su quello che è il lavoro. In fabbrica l’ingaggio cognitivo, anche nelle mansioni, tra virgolette, più manuali è altissimo, si usa moltissimo la testa e meno… oggi le fabbriche più avanzate hanno l’obiettivo zero fatica, era un obiettivo sindacale. Si è capito che con le tecnologie, l’organizzazione del lavoro e le competenze la fatica non è necessaria e non è il valore su cui spingere l’impegno degli esseri umani nel lavoro. Pensate come arriviamo a obiettivi sindacali senza averli sostenuti sindacalmente in qualche modo. Questo è un aspetto e tutte queste cose, (arrivo alla fine scusate, solo trenta secondi) arriviamo alla questione delle grandi dimissioni e cioè queste esplosioni di dimissioni volontarie che è avvenuta in tutto il mondo, gli Stati Uniti, in Italia, in Europa e anche in Cina, addirittura. La pandemia, sono stra-d’accordo, ha messo in luce, ha fatto vedere delle cose che già erano partite prima, e cioè, le persone appunto dicono qual è l’identikit italiano delle grandi dimissioni: giovani e di medio-alta professionalità. Questi giovani di medio-alta professionalità spesso non lasciano un posto di lavoro con già quello che io chiamo il teorema di Tarzan, non lasciano un lavoro con già il nuovo posto di lavoro in tasca. Ci sono persone che pendono un pezzo diciamo di fermo per cercare di ricostruire questa cosa. Sta diventando un problema molto serio. Abbiamo fatto anche delle cose in giro per l’Italia con Cdo assolutamente interessanti su grandi e su piccolissime imprese perché spesso vanno via le persone chiave dell’azienda, non vanno via quelli che cercano così, vanno via spesso le persone chiave. Questo è un problema grandissimo e sta preoccupando, non tanto solo per il problema sociale, culturale, ma perché sta diventando anche un problema economico, sta diventando un problema serissimo. Se ne sono accorti i cinesi. I cinesi voi sapete si fermano… la Cina si ferma solo al Capodanno, il Capodanno è attorno a febbraio, a febbraio si rientra dieci-quindici giorni nell’entroterra, ci si riavvicina alla famiglia di origine, si riscopre come valore il territorio dove si è nati e la famiglia di origine. Di solito le aziende danno una sorta di busta rossa alla partenza, quando inizia il Capodanno. I ragazzi vanno, questa busta rossa è una sorta di gratifica natalizia cinese, diciamo così. Negli ultimi anni la danno solo al rientro. Sapete perché? Perché ragazzi e ragazze non tornano più, non tornano più a lavorare. Accettano di stare con poco, ma sentono un bisogno fortissimo di ricongiungersi alla terra, ai genitori, agli amici. E sono cose che noi rischiamo di non capire e stanno accadendo anche in Italia. C’è un pezzo… le persone, i ragazzi e le ragazze e non solo, che hanno una minima occasione di scegliere, scelgono che lavoro fare e dove farlo. E conta molto di meno la remunerazione. Continuiamo a dire che le persone vanno all’estero perché sono pagate di più. No, non solo. Si va all’estero spesso perché non c’è un’accoglienza, un’integrazione grazie al lavoro. Allora questo tema delle grandi dimissioni è un tema che non va preso solo negativamente perché è un tema che sottopone tutti alla necessità nei luoghi di lavoro di riconquistare le persone. Riconquistare significa farle essere protagoniste, farle essere importanti, praticare quello che, diciamo come Cisl, come Fim dicevamo da anni, la partecipazione, cioè pensare che accanto all’assemblea degli azionisti, cosa pensa chi è coinvolto giornalmente nel lavoro è assolutamente fondamentale. Era quello che Pastore diceva: costruire la democrazia sostanziale, che si costruisce appunto dando il proprio contributo. Ecco, proprio per questo il futuro del lavoro non sarà una catastrofe, ma sarà una grandissima occasione per costruirlo giorno dopo giorno, per questo io oggi dico che serve una figura nuova che sono gli architetti del lavoro, quelli che luogo per luogo, azienda per azienda, ufficio per ufficio, ricostruiscano queste architetture basate proprio sulla passione per l’uomo. Grazie.
Guido Bardelli: Grazie, grazie Marco Bentivogli, e allora lascio subito la parola alla Dottoressa Scocchia. Cosa vuol dire per Lei, per la Sua esperienza riconquistare le persone nell’ottica, con le modalità e nella situazione che ci è stata descritta da Dario Odifreddi e Daniele Sacco? Non le chiederò dove è il suo ufficio nella sua azienda, ma come si riconquistano le persone. Grazie.
Cristina Scocchia: Buongiorno a tutti e grazie per avermi invitato al Meeting di Rimini a parlare di un argomento così importante come il futuro del lavoro e il futuro della leadership perché ricollegandomi anche alle domande che sono state fatte prima ci stiamo proprio chiedendo qual è il futuro della leadership, di cosa abbiamo bisogno. E io credo che abbiamo bisogno di una leadership più etica e partecipativa, abbiamo bisogno di integrare il valore con i valori. Il valore economico con i valori etici, morali, sociali, ambientali. Certo ci sono alcune caratteristiche della leadership che sono sempre state importanti e lo sono anche oggi, ma non sono più sufficienti. Un leader deve, sì, saper pensare in maniera strategica; quindi, con un orizzonte di lungo termine; deve saper prendere delle decisioni anche difficili, anche impopolari, deve saperle prendere con tempestività, trattenendo su di sé la pressione; deve saper creare dei team forti, compatti, motivati, diversi, inclusivi. Queste tre caratteristiche (capacità di pensare in maniera strategica, capacità di prendere decisioni, capacità di dei team forti) sono importanti oggi come lo erano in passato, io credo che lo saranno anche in futuro, ma se in passato erano condizioni necessarie e sufficienti, oggi no. Oggi sono condizioni necessarie, ma non più sufficienti. Oggi abbiamo bisogno di leader che sappiano integrare l’intelligenza cognitiva con quella emotiva; abbiamo bisogno di leader empatici, umili, che si sappiano mettere in gioco, che abbiano la voglia di conquistare la fiducia e la stima della propria squadra. Io non ho l’ufficio all’ultimo piano, l’ho sempre avuto per scelta al primo piano, perché è un segno, non voglio pensare alle stellette, ma voglio pensare a conquistarmi sul campo ogni giorno la stima e la fiducia delle persone che lavorano con me. E quando penso che è importante saper trattenere sulle mie spalle magari le decisioni più difficili, però penso che sia anche importante capire quando passare la palla, quando far giocare gli altri, perché noi dobbiamo fidarci della nostra squadra, noi dobbiamo dare occasioni di visibilità, di crescita a tutti i nostri collaboratori, anche e soprattutto ai più giovani perché sono loro il nostro futuro, siamo nelle loro mani e solo nel momento in cui si passa la palla possono crescere. Quindi dobbiamo passare da una leadership più gerarchica, basata sulla direzione, sul controllo, come diceva chi mi ha preceduto basata sul numero di ore passate davanti a un computer o davanti a una scrivania, a una leadership che sia invece meritocratica, partecipativa, che sia basata su credibilità, fiducia, trasparenza e anche su uno stile di comunicazione diverso, più empatico, più coinvolgente, più diretto, senza filtri, senza mediazioni. In una parola mi piace pensare che dobbiamo interiorizzare che la leadership non è potere di fantozziana memoria. La leadership è responsabilità, essere un leader vuol dire essere responsabile delle persone che ti sono state affidate, delle persone che di te si fidano e che a te si affidano, perché tanto più il momento è difficile e tanto più le persone vogliono potersi fidare e affidare ai propri leader. Questo non solo nell’ambito aziendale, in tutti gli ambiti e per questo non bastano i titoli, le stellette, l’ufficio grande, per questo ci vuole un compasso morale forte, ci vuole un assetto valoriale forte. Ed è per quello che io credo che ci vorrebbe un giuramento di Ippocrate, una sorta di giuramento di Ippocrate anche per i manager e gli imprenditori, perché non solo i medici, ma anche nel loro piccolo i manager, gli imprenditori hanno un impatto sul benessere delle persone, delle collettività e questo impatto può essere positivo, ma ahimè può essere anche negativo. E allora se noi possiamo avere un impatto sulla vita delle persone allora abbiamo il dovere di legare il nostro agire quotidiano ad un codice etico più elevato, che sancisca in maniera definitiva il nostro dovere di agire per il bene di quelle persone e di quella collettività. Questa secondo me è la leadership di cui abbiamo bisogno. E con questo mi sposto poi alla domanda che faceva prima Dario. Perché tanta gente è insoddisfatta del proprio lavoro? L’insoddisfazione dei giovani la possiamo sentire tutti, la great resignation sicuramente è nata negli Stati Uniti ma oggi è arrivata anche nel nostro Paese, oggi le ricerche più recenti ci dicono che il 49% dei giovani è insoddisfatto del proprio lavoro. È un numero altissimo che tutti noi possiamo verificare quotidianamente parlando con i nostri ragazzi. E allora dobbiamo chiederci perché, perché anche in Italia dove è così difficile per tanti trovare lavoro, comunque noi abbiamo circa il 60% delle aziende che invece vedono crescere le dimissioni volontarie. E sono ragazzi tra i 26 e i 35 anni che spesso un altro lavoro non ce l’hanno ancora e che spesso decidono di lasciare il lavoro che hanno, soprattutto al Centro-Nord, soprattutto se hanno un percorso accademico importante alle spalle. Perché lo fanno? Lo fanno perché negli ultimi anni, soprattutto negli anni pandemici, si sono fatti delle domande profonde, hanno rivisto la propria scala di priorità e di valori e hanno deciso di mettere la vita privata al primo posto, quindi chiedono più flessibilità, chiedono una maggiore conciliazione tra vita lavorativa e vita professionale e soprattutto chiedono un senso. Perché lavoriamo, che soddisfazione possiamo trarre dal nostro lavoro se questo lavoro, se queste mansioni non sono allineate alle nostre passioni e alle nostre inclinazioni, alle nostre affinità. E poi chiedono un’azienda di cui vogliono condividere l’assetto valoriale, vogliono riconoscersi nei principi e nei valori di quell’azienda, vogliono che l’impegno sociale e ambientale non sia di facciata, ma sia concreto, vissuto nel quotidiano, giorno dopo giorno, e questa è di nuovo una sfida di leadership. Questo è un fenomeno che ci chiama in causa e ci chiede un esame di coscienza, noi dovremmo farci un esame di coscienza e dovremmo chiederci: ma noi facciamo veramente del nostro meglio per ascoltare tutti i nostri collaboratori giovani e meno? Noi abbiamo con loro un dialogo aperto, trasparente, paritetico dove permettiamo a loro di presentarsi, non solo come collaboratori ma anche come persone, e permettiamo loro di conoscerci non solo come manager ma, di nuovo, come persone perché anche noi abbiamo i nostri punti di forza, ma abbiamo altrettanti punti di debolezza. Stiamo veramente facendo del nostro meglio per capire il grado di flessibilità che possiamo dare ai nostri collaboratori? Stiamo creando delle organizzazioni che siano non solo inclusive, ma veramente pronte a valorizzare la diversità in tutte le sue forme? Stiamo veramente facendo del nostro meglio per avere un piano di responsabilità sociale, ambientale che sia concreto, che sia agito? Stiamo investendo tutto quello che è possibile nella formazione continua, nell’upskilling? Ora io credo che se noi potessimo rispondere non dico a tutte queste domande, ma almeno ad alcune di queste domande, allora noi non avremmo la great resignation, allora noi non avremmo tanti giovani e meno giovani insoddisfatti del proprio lavoro. Io ho avuto una grande fortuna, quella di guardarmi dentro, di capire quale fosse il mio obiettivo professionale, quale fosse la mia passione. Poi ho lavorato tanto, mi sono impegnata, ma oggi sono fortunata perché nel mio lavoro mi riesco a riconoscere, riconosco la mia passione, non lo faccio per obbligo, lo faccio perché mi aiuta a trovare anche un senso e il senso di responsabilità di cui parlavo prima, e mi piacerebbe che ai giovani venisse data questa opportunità e chiamo i giovani a fare proprio questo: guardatevi dentro, non vi lasciate demolire, non vi lasciate demoralizzare da tutto quelle che magari vi diciamo di catastrofista. Guardatevi dentro, capite qual è la vostra passione, cercate di fare in modo che il vostro lavoro possa coincidere con la vostra passione. Perché in ogni caso passerete tante ore lavorando ed è importante lavorare facendo qualcosa che vi dia soddisfazione, realizzazione, circondati da una squadra di colleghi che hanno i vostri stessi valori, il vostro stesso impegno sociale, valoriale, ambientale. Ecco, è questo che io mi sento di dire è importante per affrontare queste sfide. E poi ricordiamoci una cosa: noi siamo in un mondo che per definizione ha delle risorse limitate, siamo in un mondo che ha una popolazione crescente con un divario tra ricchi e poveri che è crescente, che non farà che aumentare a causa della tecnologia e dell’intelligenza artificiale. Di fronte a queste sfide, di fronte a questo contesto siamo tutti chiamati ad evolvere, a lasciare quei modelli di ricchezza ottocentesca e novecentesca sui quali siamo abituati a ragionare per abbracciare invece un modello rigenerativo della società, delle risorse, delle energie e della costruzione di questo nuovo modello. Tutti, noi come persone, i corpi intermedi, le aziende, tutti abbiamo un ruolo importante da giocare e questo è il momento in cui dobbiamo veramente unirci e cercare di costruirlo questo futuro di cui abbiamo bisogno.
Guido Bardelli: Grazie, grazie Dottoressa Scocchia, adesso chiedo a Giuseppe Tripoli: dal suo punto di osservazione, sono stati citati sia i corpi intermedi e poi il mondo della piccola e media impresa che tu conosci così bene, di aiutarci in questa ulteriore riflessione sui temi che abbiamo posto, grazie.
Giuseppe Tripoli: Grazie, buongiorno a tutti. Anch’io ringrazio di cuore il Meeting per avermi invitato a fare insieme questa riflessione, anche perché il tema del senso del lavoro è uno di quei temi che fa tremar le vene ai polsi, perché non si tratta solo di capire perché devo cominciare a lavorare ma, come veniva ricordato poc’anzi, il lavoro occupa una quota importante della mia vita, della mia vita negli anni migliori, negli anni in cui posso costruire, posso fare quello che ritengo di fare. Quindi trovare il senso del lavoro, riscoprire il senso del lavoro è una realtà, un obiettivo che non si pone una volta all’inizio della vita lavorativa, ma che deve essere, come dire, riscoperto, rivalorizzato, rivissuto tutti i giorni della vita normale. Qualche mese prima che scoppiasse la pandemia io lessi un libro che mi colpì moltissimo. Era un libro, è un libro, di un sociologo importante che è Luca Ricolfi che scrisse un libro che si chiamava: La società signorile di massa. Cosa diceva Luca Ricolfi (che molti di voi leggeranno, è un editorialista famoso, eccetera)? Prospettava una realtà o uno scenario diciamo, lui diceva già che era una realtà con riguardo all’Italia in cui diceva sostanzialmente: gli occupati in Italia ormai sono una quota minoritaria della popolazione italiana, poi c’è una quota maggioritaria che vive non più di lavoro, ma per i risparmi della famiglia, per le rendite finanziarie, per i redditi che arrivano con varie provvidenze pubbliche e, sottolineava pure, c’è una quota molto bassa di attività che chiamava para-schiavistiche, che sono quello svolte dagli immigrati. E questo perché accadeva? Perché, dice, chi lavora non ha più davanti chiaro perché deve lavorare. Se la mia… la possibilità di rimanere in vita, di sopravvivere, di vivere, di vivere anche agiatamente, perché poi anche questo discorso, vivere anche agiatamente, non è condizionato più dal lavoro ma posso procurarmelo in un altro modo, ma perché dovrei lavorare? Quindi una grande domanda sul senso del lavoro. Visto che non è necessario non lavoro, visto che in tanti mi hanno trasferito e mi trasferiscono le risorse, perché devo lavorare? Perché i miei genitori hanno già messo da parte gli appartamenti, le azioni… qualche mese dopo scoppia la pandemia, e tutti ricordiamo, tutti ricordiamo che da subito medici, infermieri, personale dello Stato, militari, nella prima fase e poi tanta gente, gli eroi del lavoro, gli eroi che vivemmo allora come una testimonianza vividissima del fatto che il senso del lavoro non era solo portare a casa lo stipendio perché faccio l’infermiere, ma dedicarmi fino in fondo, anche a rischio della mia vita, perché attraverso il mio lavoro altri insieme, la comunità, le persone con cui lavoro, con cui vivo, la città in cui vivo potessero superare quel momento tragico. E così i militari, e così il personale, anche civile dello Stato, pensate alle Prefetture che lavoro fecero, e così via. Allora fu un momento chiaro, il senso del lavoro non era solo portare a casa lo stipendio, lavorare voleva dire coinvolgersi in un obiettivo, in una realtà in un valore più grande che non è quello dello stipendio mensile, che non è quello del salario. Poi guardiamo la realtà, e la realtà è fatta da una serie di realtà, di componenti che invece dicono tutto il contrario: un mercato del lavoro che non funziona. Se noi andiamo a indagare come facciamo spesso con le… attraverso le domande che facciamo alle imprese in un programma che ormai gestiamo da tanti anni per capire dove va il mercato del lavoro in Italia, il modo più facile con cui le persone trovano lavoro è il passaparola, la conoscenza personale: “A me mi conoscono quindi mi prendono”. Ma poteva andar bene quando, in uno spazio così ristretto come questa sala, ci si conosceva tutti, ma quando io mi devo prospettare con le mie capacità, le mie possibilità, le mie aspettative e lo posso fare anche tramite la rete, tutto questo si impalla, non funziona più. E il mercato non funziona, lo ricordava bene Dario poc’anzi, abbiamo il tasso di occupazione penultimo in Europa, quello femminile penultimo in Europa, quello della disoccupazione giovanile siamo i terzi in Europa, i NEET siamo i primi in Europa, quelli che non lavorano, non si formano eccetera, non funziona. Allora uno che uno che vuol lavorare si trova un mercato del lavoro così. Secondo passaggio: un raccordo col mondo della formazione è veramente difficile da comprendere. È stato smontato, ve lo ricordate, molti anni fa, il fatto che tu vai a scuola e se hai la propensione ad andare avanti all’università, fai il liceo eccetera, ma se non hai quella propensione e vuoi cominciare a lavorare, prendi un percorso di istituto tecnico: negli anni è stato smontato. Ma è stato smontato con l’idea che il lavoro manuale avesse un che di meno del lavoro intellettuale, del lavoro professionale, eccetera, è stata smontata l’idea del lavoro. In Italia l’istruzione tecnica, l’istituzione professionale, non si è più ripresa, non si è letteralmente più ripresa da allora da quello smontaggio da quella licealizzazione, e adesso si sta ripuntando a ricreare una filiera importante con gli istituti tecnici superiori, ripuntando su… ma occorre prima, dietro ricreare la convinzione che ci sia un lavoro, un’attività da fare già nell’epoca in cui tu vai a scuola, perché il lavoro, il lavoro nell’impresa, il lavoro in azienda, il lavoro professionale, il lavoro tuo come autonomo, è una prospettiva reale prossima della tua vita. Creare impresa, terzo passaggio. Ma creare impresa in Italia è complicato. Allora, se tu vuoi metterti in proprio non c’è lo Stato che fa il tifo per te, non ci sono le Regioni che fanno il tifo per te, non c’è il Comune che fa il tifo per te, direi ancora tante altre cose che non fanno il tifo per te. Vuoi creare un’impresa, createla, avrai tutti… E ogni anno che passa è più complicato fare un’impresa perché qualche anno fa tu avevi… non c’erano tutti i controlli delle ASL, i controlli di sicurezza, le regole europee, eccetera eccetera… Tutte cose che, per carità, ci devono essere, io non sto dicendo che non devono esserci, ma era più semplice, tu aprivi e vendevi, aprivi la bottega di artigiano e facevi quello che dovevi fare eccetera. E adesso che è più complicato, è molto più complicato anche aprire l’impresa. Allora, noi diamo in questi giorni un dato che ovviamente va ben compreso. Nell’arco di dieci anni il numero delle imprese giovanili, cioè fatte da under 35 si è molto ridotto, di molto ridotto percentualmente. Per carità, è frutto della demografia? Sicuramente sì. È frutto del fatto che molti dei ragazzi, se non ricordo male nel 2019, prima della pandemia, 90 mila giovani sono usciti dall’Italia (giovani anche se giovani vengono intesi fino a 35-40 anni, quindi diciamo un’età abbastanza matura per un giovane, però…) sono andati all’estero per tutte le motivazioni… però, sicuramente questo. Però c’è anche il fatto che se tu vuoi metter su un’impresa con un business plan che tenga, con un sistema che ti faccia capire qual è il sostegno finanziario che puoi avere, qual è il sostegno digitale che puoi avere, perché è vero non puoi cominciare… e chi ti aiuta? Lo facciamo noi come Camera di Commercio, lo fanno le associazioni, ma non c’è un’attenzione collettiva a questo. Secondo me questo è già un deterrente abbastanza perché i segnali, perché questo tipo di cose danno dei segnali precisi, i segnali precisi sono, il lavoro è importante, ma non è una delle cose importanti su cui il sistema punta. Fare impresa è importante, ma non è così centrale nella vita dell’impresa, qualunque cosa può diventare un ostacolo se tu vuoi mettere un’impresa, se tu vuoi fare impresa. Chiudo (perché il tempo è breve e sta finendo) con un’ultima considerazione che è questa: paghiamo anche l’effetto, racconto brevemente, di una narrazione degli ultimi decenni veramente riduttiva di che cos’è l’economia, di che cos’è il lavoro e di che cos’è l’impresa, che è la narrazione che è nata negli anni ‘70-’80 in America soprattutto, ma non solo in America, ormai è pervasiva in tutto il mondo, di cui adesso stiamo vedendo tutti i limiti. La narrazione per cui tu fai impresa perché devi raggiungere il profitto del tuo azionista, solo ed esclusivamente per questo. Allora se tu lavori per questo nel fare impresa, se tu vai a lavorare e percepisci da chi vai a lavorare questo è l’unico obiettivo, è chiaro che le tue esigenze che sono di lavorare per costruire le cose che, dicevo all’inizio, gli eroi della pandemia han fatto: una socialità, una vita, una ricchezza, un benessere, una prospettiva per il futuro, si impatta contro questa mentalità e ti trovi in quella difficoltà che è la great resignation, cioè il fatto che tu rifiuti perfino di andare a lavorare, poi dimostra con una formula certamente su cui riflettere che è certamente grave ma che segnala anche questo disagio. Ecco su questo secondo me, chiudo, un altro elemento positivo che vorrei portare, è che nel mondo delle piccole imprese che vive uguale questi problemi, non è che è un mondo diverso è il mondo delle grandi, le grandi sono più strutturate, le piccole lo vivono addirittura certe volte con più difficoltà, però noi da tempo studiamo un fenomeno che è quello delle imprese (un fenomeno, una realtà che in Italia è molto affermata, molto presente, tipicamente del modello italiano), di imprese che investono non solo per far profitto, ma che investono, che lavorano e investendo sul territorio, nel rapporto con le istituzioni locali, col terzo settore, col mondo della cultura, le chiamiamo imprese coesive, cioè imprese che investono anche sulla realtà in cui… che puntano al lungo termine. Ecco, son quelle che attraggono i migliori talenti, son quelle che hanno più laureati, sono quelle che fanno migliore performance. Quindi anche il modello che viene presentato, la leadership che viene esercitata può essere esercitata non solo dal singolo imprenditore, ma anche da realtà come aziende, piccole o medie che vanno in questa direzione. Grazie.
Guido Bardelli: Io ringrazio i tre nostri ospiti e tutti i nostri ospiti perché sono stati nel tempo previsto e questo ci consente di fare un breve piccolissimo secondo giro a cui tenevo particolarmente. Abbiamo visto, e la cosa che mi ha molto impressionato nell’incontro di oggi che per affrontare la crisi o il dramma del… o la novità del lavoro non servono nuove regole di ingaggio, sia sulla rappresentanza, sia su come gestire la leadership, sia nell’aprire un’impresa o nel riprendere le motivazioni per fare impresa. Non servono regole di ingaggio ma serve interrogarsi a nostra volta su che cos’è per noi il lavoro, su che cos’è per noi la leadership, riprendere la passione di fare l’imprenditore. Quindi quest’aspetto mi sembra interessante, cioè è come se per motivare, per riaffascinare ci dobbiamo interrogare su cos’è che affascina noi adesso nel fare impresa, nel fare il nostro lavoro, nell’impegnarsi in Compagnia delle Opere o nell’associazione o nel sindacato. E questo mi sembra un tema che lascio lì, naturalmente ci lavoreremo almeno come Compagnia delle Opere, ma penso che sia una riflessione per tutti. Ma a questo punto io vi chiedo un breve giro, ultimo giro di reazioni sullo scenario che ci aspetta. Ieri il Presidente Draghi ci ha invitato ad essere ottimisti, ci ha invitato con una ragionevolezza, non solo con un sentimento, nel senso di dire: guardate quello che abbiamo fatto in questi due anni, che cosa è successo. Anche allora c’erano stati grandi profeti di sventura sull’impresa italiana. Recentemente (parola non chiara 58:59) abbiamo superato. Quindi andare a recuperare lo spirito, qualcuno di voi ne ha parlato, Giuseppe mi sembra tu, lo spirito con cui abbiamo affrontato le gravi crisi, però adesso apparentemente sembra che la crisi sia ancora più grave, ci troviamo di fronte un altro passaggio, l’aumento dei prezzi, la crisi energetica, la guerra, quindi la situazione geo-politica. Allora, un breve cenno, cinque minuti a testa ai nostri tre ospiti per capire come vedete le relazioni nel lavoro, come ne avete parlato nel mese di settembre, che urgenze che emergenze vedete, ognuno dal proprio punto di vista, quindi dell’imprenditore, del manager, di chi ha un’esperienza di rappresentanza o di responsabilità in un corpo intermedio, di chi fa cultura di impresa. Rimaniamo sempre sull’ordine alfabetico.
Marco Bentivogli: Mah, dopo l’ottimismo di Draghi c’è il rischio di dire cose diverse, perché ovviamente serve sempre chi cerca di dare più spazio alla speranza, però dobbiamo fare anche i conti con la realtà. La nostra realtà appunto ha un mercato del lavoro tra i più annodati e diseguali che ci sono in Europa, la situazione del contesto in cui siamo in Italia rischia di aggravare questa situazione. E bisogna dirselo, bisogna non auto-raccontarsi degli scenari, su questo non mi riferisco a Draghi ovviamente, ma spesso si vede anche dalla politica questo auto-racconto, auto-narrazione, ricerca di responsabilità: allora dopo il tuo Governo c’è stata più povertà, più disoccupazione, meno… poi arriva l’Istat e spiega: guardate che è dal 2005 che si è triplicata la povertà assoluta in Italia. Per cui ce n’è un po’ per tutti. Con Dario che condividiamo insieme quest’impegno in Base Italia, questa startup civica indipendente che cerca proprio di lavorare sulla partecipazione e a monte c’è la consapevolezza perché l’informazione di qualità sono cose che stanno sfumando e cerchiamo sempre di ragionare su questo aspetto e cioè ritornare a fare i conti con i numeri, dire: le politiche si costruiscono sulla base dei numeri non solo su cose di breve periodo che non funzionano. Se voi immaginate lo scenario dell’autunno, già ci fa sentire quanto delle tre trasformazioni che raccontavo, quella demografica inizia a essere decisiva. Noi avremo nei prossimi 30 anni, e per cui bisogna occuparsene anche in autunno, avremo nei prossimi 30 anni 8 milioni di italiani in meno in età da lavoro perché la denatalità è fortissima, stiamo diventando un Paese di anziani che non dà equilibrio nuovo al Welfare State a un Welfare umano proprio per occuparsi della non autosufficienza degli anziani eccetera. E lo stesso, però, non ci si occupa dei giovani e la cosa più assurda che quando l’economia va abbastanza bene, ma rischia di andare abbastanza male. Vedete, ho la notizia di questa mattina sul Financial Times che dice: gli hedge fund stanno facendo la cintura di sicurezza, cioè l’investimento sulla sfiducia verso l’Italia più grande mai fatto dal 2008. Guardate che non son cose positive uno poi può dire “la colpa è lontana da noi”, no, sapete cosa serve trovare sempre nemici astratti, serve a non spiegare le cose alle persone. Però la situazione rischia di essere pericolosa, rischia di essere ulteriormente problematica. Prima si parlava di quanto crescerà la popolazione. Voi pensate alla Regione che è a sud di questa qui, è circa un milione e 400 mila abitanti, nel 2050 arriverà attorno al milione. Allora noi stiamo ragionando per
costruire politiche di più grande respiro che incidano sulla realtà? La cosa paradossale che non si capisce è che le politiche che possono avere un impatto reale immediato sono quelle con orizzonte lungo. Queste politiche sul ricatto di breve termine stanno assolutamente affievolendo tutte quelle che sono le nostre possibilità. Noi dobbiamo, e subito, possiamo farlo in autunno.
Non sono tanto d’accordo sul fallimento dell’Istruzione professionale, cioè la dico diversamente: noi abbiamo le esperienze di istruzione professionale tra le più belle al mondo, solo che… e qui dentro ne abbiamo qualcuna di rappresentativa penso alla Piazza dei Mestieri, non perché c’è qui l’amico Dario, ma penso agli ITS. Però, ricordatevi questo, ha dovuto segnalarcelo l’OCSE, che i nostri ITS hanno un’occupabilità dell’80% e noi rischiamo di avere una situazione in cui le disuguaglianze tanto evocate quanto poco combattute nella realtà rischiano di essere ampliate. Allora proprio per questo bisogna rimettere insieme dei percorsi veri per ragazzi e ragazze, e metterli insieme perché è proprio questo indietreggiamento che abbiamo avuto nella mobilità sociale delle persone che ha consegnato troppi italiani al rancore. Ecco noi invece dobbiamo farli tornare protagonisti e soprattutto quando si hanno 12-13-14 anni, iniziare a pensare a quelle che sono le aspirazioni e avere qualcuno che in qualche modo ti aiuta nell’orientamento, non guarda solo la narrazione televisiva sui mestieri di successo. Ecco questo credo che sia fondamentale, perché l’autunno sarà un autunno molto complicato, molto difficile e non possiamo più permetterci di affrontarlo promettendo una panchina alle nuove generazioni, noi dobbiamo proporre il lavoro, dobbiamo costruire percorsi, come si diceva una volta, di emancipazione. In luoghi come questi tantissimi anni fa si parlava del lavoro anche come difesa dal potere, di lavoro come contributo alla propria comunità nazionale. Sembrano due cose in contrapposizione, in realtà è il cemento della democrazia. Ecco, noi dobbiamo ricostruire un Paese fatto di queste cose e soprattutto trasferire per quanto possibile alle nuove generazioni non con tante pacche sulle spalle, ma anche come disponibilità di fare le cose insieme. Io dico sempre, ho scritto un paginone gigantesco, lo slogan dovrebbe essere “lavorare meglio, insieme, tutti”. Questo è il percorso che dà una dimensione di cittadinanza e di un Paese che accoglie, integra e promuove. Ecco, credo che siano gli elementi più importanti. Grazie.
Guido Bardelli: Grazie. Dalla regia mi dicono che stanno stiamo sforando, quindi io rinuncio volentieri alla mia sintesi, chiedo due minuti alla dottoressa Scocchia e due minuti a Giuseppe Tripoli sull’autunno, che cosa ci aspetta dal vostro osservatorio, grazie.
Cristina Scocchia: Sicuramente l’autunno sarà un autunno complicato e se vogliamo essere onesti saranno complicati i prossimi sei, dodici, diciotto mesi. Gli ultimi dati del Cerved ci dicono che in Italia noi abbiamo centomila aziende che rischiano di fallire nei prossimi mesi. Sono aziende di piccole dimensioni, soprattutto nei servizi, nelle costruzioni, soprattutto nel Sud Italia, che nel loro complesso danno lavoro a 830 mila persone, sono numeri spaventosi. Sono aziende che sono indebitate per 107 miliardi, quindi un loro default darebbe delle problematiche anche all’intero sistema creditizio nazionale. Quindi sicuramente i dati non sono positivi così come non sono positivi i dati dell’OCSE sugli stipendi e sui salari in Italia, lo abbiamo letto tutti, non solo abbiamo gli stipendi più bassi d’Europa, ma sono decresciuti negli ultimi 30 anni, circa il 2.9%, a fronte invece di altri Paesi come la Spagna, che li ha visti crescere del 6%, la Francia e la Germania che li hanno visti crescere del 30%. Certo, quei Paesi hanno avuto una crescita del PIL e della produttività molto più solida. Noi non abbiamo avuto una crescita robusta del PIL, la nostra produttività è rimasta stagnante anche nel ‘19, addirittura è andata in negativo, però fatto sta che le famiglie adesso non riescono a reggere il prezzo dell’inflazione, non riescono più ad avere una vita dignitosa con i prezzi alle stelle e questi salari. Quindi sicuramente abbiamo delle sfide grandi nell’autunno che ci aspettano, io però voglio rimanere ottimista, perché credo che in tutto questo l’unica cosa che non ci può servire è la sfiducia. A me hanno insegnato che di fronte alle salite si accelera, perché se davanti a una salita tu non acceleri non c’è modo di scollinare. Quindi io credo che ognuno debba fare la propria parte, qualunque sarà il prossimo Governo dovrà occuparsi di risolvere il problema della questione salariale, di come restituire potere d’acquisto alle famiglie. Noi come aziende nel nostro piccolo dobbiamo chiederci come costruire dei piani
industriali basati su innovazione, su digitalizzazione, su un compasso morale forte che ci permettano di continuare a operare e a creare lavoro perché del lavoro ne abbiamo bisogno in questi mesi così complicati che ci aspettano.
Guido Bardelli: Giuseppe a te una battuta finale sull’autunno.
Giuseppe Tripoli: Una precisazione: il fallimento di cui parlavo della formazione professionale tecnica non fa riferimento all’esperienza anche qualitativamente interessante, ma semplicemente ai numeri. Noi siamo molte, molte, molte decine di volte più piccoli come numero di studenti che vanno all’istruzione tecnica e professionale, non solo rispetto alla Germania tante volte citata, ma anche rispetto alla Francia. Cioè abbiamo una quota molto piccola di persone che frequentano, che vanno alle superiori perché, per quella motivazione all’origine che vi dicevo. Io penso che in autunno la situazione sarà complicata, molto complicata, lo diceva il premier Draghi, lo confermo dato i dati che noi abbiamo. Ci troviamo di fronte a una situazione inedita, un po’ come la pandemia. Una situazione inedita dovuta a un aumento dei prezzi delle materie prime, soprattutto dell’energia, qui non siamo, non eravamo preparati, qui ci stiamo preparando e che si riflette sui conti difficilissimi delle aziende che erodono i loro margini e addirittura potrebbero trascinarne molte di esse in basso. Ad alcune di queste questioni che sono collegate a situazioni geopolitiche, la guerra anzitutto, non possiamo dare risposta noi, deve dare risposta un organismo forte come l’Europa, se l’Europa si impunta su alcune cose, alcuni di questi problemi riesce a risolverli. Il prezzo al gas, può metterlo l’Europa e questo è sicuramente un aiuto. C’è un aspetto però che secondo me l’Italia può fare, deve decidere, in questa fase, se dare tutto il sostegno possibile alle aziende perché restino in vita superando questa fase, come veniva ricordato, soprattutto le aziende piccole e medie, tutte, le energivore eccetera, ma sono tutte in difficoltà. Allora puntare sul lavoro, puntare sulle imprese in questa fase vuol dire rafforzare la possibilità anche in modo strutturale, per esempio abbattendo il costo del lavoro nelle aziende, il costo del lavoro delle aziende, i contributi, (parola incomprensibile a 1:10:44) la fiscalità delle aziende sul lavoro è veramente pazzesca in Italia. Qualcosa si è fatto ma non è sufficiente, ecco puntare su quello. Aggiungo una cosa però, che la globalizzazione che viene ridefinita da questo quadro geopolitico che stiamo vivendo è una globalizzazione che sarà per aree, che non considera più il lavoro come una commodity, nessuno si sposta in Cina perché trova i lavoratori che costano uguale fanno la stessa cosa che fanno in Italia perché non è vero ed è stato dimostrato, ma soprattutto offre possibilità al sistema produttivo italiano, aziende piccole, aziende micro, aziende medie, (quattro milioni e trecentomila sono aziende micro in Italia, quattro milioni e trecentomila quelle micro), il digitale, la transizione digitale del PNRR offre loro possibilità di espansione e di presenza che nessuna altra forza, nessun’altra capacità, nessun’altra strumentazione potrebbe loro offrire. E allora, autunno, il PNRR: va attuato, ma realmente, implementato, portato a contatto delle imprese, a contatto dei cittadini aiutando le imprese a fare i passaggi che il PNRR con le sue risorse consente di fare.
Guido Bardelli: Grazie, grazie a tutti. Oggi penso l’unico piccolo slogan che dico è che per trasmettere passione, per responsabilizzare bisogna a nostra volta recuperare la passione per il nostro lavoro. Come si fa? Oggi ne abbiamo avuto un metodo ascoltando dei testimoni appassionati, io penso che questo è il lavoro che in autunno dobbiamo fare anche come Compagnia delle Opere, come realtà di amici, testimoniarci passione, aiutarci nelle difficoltà a non rimanere isolati, questo penso che sia il compito che abbiamo. Vi ricordo che il Meeting che sta finendo può continuare se tutti ci coinvolgiamo anche nel sostegno al Meeting; quindi, negli angoli Dona Ora potete… è un’occasione, un’opportunità per dare una mano a questa grande esperienza. Il Meeting è diventata anche associazione del Terzo Settore quindi le donazioni possono avere anche un trattamento fiscale positivo. Buon fine Meeting a tutti e buon rientro, grazie.